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nuvolarossa
18-03-02, 01:41
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La teoria repubblicana sulla libertà e sul governo
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di Philip Pettit
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Si pensi come ci si sente quando il proprio “stato del benessere” dipende dalle decisioni di altri e non è possibile reagire contro tali decisioni. Si è in una posizione nella quale si può “affondare” o “galleggiare”, sulla base di una decisione che spetta ad altri. E non si ha nessun diritto di ricorso, psicologico o legale, nessuna possibilità di salvezza, anche se ci si trova in un consesso di amici che si aiutano, non si può sovvertire nulla. In queste occasioni si è nelle mani degli altri; si è alla loro mercéL’esperienza di dominazione (o supremazia) su di un altro assume diverse forme. Si pensi al bambino di un genitore emotivo e volubile; alla moglie di un marito occasionalmente violento; allo scolaro con un insegnante che, arbitrariamente, apprezza o disapprezza. Si pensi all’impiegato, la cui sicurezza dipende dal mantenere buoni rapporti con il proprio padrone o manager; al debitore, la cui sorte dipende dal capriccio del prestatore di denaro o dal manager di banca; o al piccolo imprenditore, la cui sopravvivenza dipende dal modo di comportarsi di un grande concorrente o da chi gestisce un’associazione. Si pensi al destinatario di interventi di sostegno sociale la cui sorte può mutare in base all’umore dell’impiegato-ragioniere che concede i contributi; all’immigrato o all’indigeno la cui condizione è vulnerabile, dipendendo dall’andamento erratico delle decisioni politiche e dei dibattiti radiofonici; o all’impiegato pubblico, la cui carriera dipende non dalle sue capacità ma dai collaboratori politici di cui un ambizioso ministro si circonda, perché li ritiene utili elettoralmente. Si pensi alla persona anziana che deve sottomettersi, sul piano culturale e istituzionale, alle volontà sfrenate di una gang di giovani della sua area. O si pensi proprio al giovane delinquente la cui punizione dipende da come i politici e i giornali scelgono di stimolare in un dato momento la cultura della vendettaIn tutti questi casi qualcuno vive alla mercé di altri. La persona è dominata da altre, nel senso che anche se queste non interferiscono direttamente nella sua vita, hanno la possibilità di poterlo fare: vi sono alcune restrizioni o dei “pesi” che frenano il suo comportamento. Se la persona “dominata” riesce ad evitare il trattamento malevolo, questo accade per la concessione o il favore del “dominante”. La persona vive comunque sottomessa al suo potere o sotto il controllo di altri: questi ultimi occupano la posizione di un dominus – il termine latino per indicare il capo – nella loro vitaSe si comprende l’esperienza dell’essere esposti e soggetti alla vulnerabilità di un altro – la situazione di dominazione – e se si può osservare che cosa incute timore, allora si è sulla giusta strada per comprendere il repubblicanesimo. Il tema centrale che ha coinvolto il repubblicanesimo nel corso dei secoli –l’argomento che spiega tutte le altre tipologie di impegno – è stato il desiderio di predisporre le diverse situazioni in maniera tale che i cittadini non fossero sottoposti a dominazioni di nessun genere, non dovessero vivere, come usavano dire i Romani, in potestate domini, sotto al potere di un padroneQuesto interesse repubblicano è sempre stato espresso come un impegno per la libertà, sin da quando la libertà, secondo i canoni repubblicani, richiede espressamente l’assenza di dominazione. Per rispondere ai requisiti sottesi dalla libertà repubblicana una persona deve essere un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi non abbiano un padrone o dominus che li tenga sotto il suo potere, in relazione ad alcun aspetto della loro vitaIl concetto di libertà repubblicana è più rigido, quindi, del concetto di libertà inteso nel senso contemporaneo di “non interferenza”. Si potrebbe essere abbastanza fortunati o sufficientemente accorti da evitare interferenze di qualcuno, ma se poi si vive sotto lo spettro del potere di un terzo, che potrebbe essere un datore di lavoro, uno sposo o uno sfruttatore locale, seguendo l’idea repubblicana non si è liberi in tali situazioni, anche prima che vi siano eventuali interferenze. La libertà richiede una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di poter fissare chiunque altro negli occhi. Nessuno è libero se deve mantenere un occhio sempre vigile per i capricci di chi ha più potere, e, all’occorrenza, adottare attitudini servili verso costoro, come farebbe una marionetta Un vecchio temaI temi ai quali abbiamo fatto prima riferimento hanno una lunga storia, come ci hanno dimostrato studiosi quali Pocock, Skinner e Viroli che se ne sono occupati. La “fiamma” del repubblicanesimo cominciò a divampare nella Roma classica, dove Cicerone e altri pensatori si vantavano della indipendenza e della mancanza di sottomissione del cittadino romano. Si riaccese durante il Rinascimento, quando i cittadini di città italiane come Venezia e Firenze erano fieri del modo in cui potevano tenere alte le loro teste, senza dover elemosinare favore da alcuno. Essi si sentivano cittadini “uguali” di una repubblica, ed erano di una specie politica differente dai soggetti “intimiditi” della Roma papale o della corte franceseLa fiamma repubblicana passò al popolo di lingua inglese nel diciassettesimo secolo quando la tradizione del commonwealth, che venne plasmata durante il periodo della guerra civile inglese, fissò e istituzionalizzò l’opinione secondo la quale il re ed il popolo dovevano vivere seguendo una disciplina contenuta nella medesima legge. Secondo questa prima versione del repubblicanesimo la monarchia non andava abbandonata, ma doveva essere parte di un ordine costituzionale, e non poteva esserle concesso di diventare centro di un potere assoluto. Entusiasti all’idea di un commonwealth – termine inglese che significa “repubblica” – sostenevano che essendo protetti da una legge chiara, nessun inglese sarebbe dipeso dalla volontà arbitraria di un altro, nemmeno dalla volontà arbitraria del re; a differenza dei Francesi e degli Spagnoli, gli Inglesi erano una razza di vigorosi e indipendenti – anche aspri e schietti – uomini liberiQuesto dibattito ebbe naturalmente delle ripercussioni sulla storia successiva degli Inglesi. Durante il diciottesimo secolo i coloni americani si persuasero che a loro stessi erano negate quelle libertà che invece erano dovute: ci si riferiva in particolare alla dipendenza dalla volontà arbitraria di un parlamento straniero. Forse dovevano pagare solamente un penny di tasse al governo londinese, come fece osservare uno scrittore contemporaneo, ma il governo che disponeva su di un penny aveva il potere di disporre anche su quello che rappresentava l’ultimo penny. Forse il padrone britannico era gentile e ben disposto, si adattava alle mutevoli esigenze, ma coloro che erano sottoposti al padrone gentile erano comunque dei sottoposti; non avevano l’immunità dal potere arbitrario che richiede la vera libertà. I coloni americani pensarono di sfuggire alla dominazione britannica spezzando il loro legame con il paese da cui provenivano e diedero vita alla prima grande repubblica del mondo costruita senza aiuto di alcunoIl precedente americano, e certamente il modello inglese di monarchia costituzionale, aiutarono nel favorire la creazione nel 1790 della repubblica francese. Questa seconda importante rivoluzione condusse, è noto, ad un regno di terrore ma nacque dallo stesso desiderio della cittadinanza di sentirsi libera dal giogo a cui era sottoposta. La libertà intesa come non dominazione, quale risultava nella tradizione francese, richiedeva eguaglianza e fraternità, e uno scenario nel quale ciascuno potesse camminare a testa alta, sicuro che nessuno fosse in grado di tiranneggiare su di lui. Ognuno poteva guardare i propri consimili negli occhi, osservare gli altri cittadini, e nessuno possedeva speciali privilegi. Nessuno doveva adulare o essere servile, nessuno doveva dipendere dalla grazia o dal favore di un altroHo osservato in precedenza che si è in grado di comprendere il repubblicanesimo se si ha la cognizione di che cosa significa la dominazione e le ragioni per cui va considerata detestabile. Nella Roma classica, nel Rinascimento italiano, durante il diciassettesimo secolo in Inghilterra o nel diciottesimo in America e in Francia, tutti i repubblicani videro la dominazione come il più grande pericolo da evitare organizzando una comunità e la vita sociale. Essi pensarono alla libertà come al supremo valore politico ed equipararono la libertà con il non essere sottoposto a nessun altro, anche se persona benevola o despota “protettivo”La libertà repubblicana assume questi significati: essere in grado di tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli occhi, e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza Dalla libertà repubblicana alle istituzioni repubblicaneIl repubblicanesimo, secondo il significato romano o neo-romano che è andato ad assumere, si è distinto non solamente per l’importanza accordata alla libertà intesa come non-dipendenza, ma anche attraverso il genere delle istituzioni sociali e politiche che ha generalmente preferito. Vi sono due argomenti che meritano di essere richiamati: innanzitutto, la fiducia nella efficacia di dichiarare in maniera esplicita i fini che si intendono perseguire; in secondo luogo, l’opinione intorno alla necessità di porre dei limiti in modo chiaro al perseguimento di quegli stessi finiIl repubblicanesimo ha sempre affermato che lo stato è richiesto per promuovere la libertà intesa come non-dipendenza dei suoi cittadini, benché nell’antichità i cittadini fossero limitati nelle loro azioni, così come in ogni altra forma di espressione del pensiero, per mantenere le proprietà ai soli uomini. Di conseguenza essi hanno sempre considerato che lo stato è necessario per proteggere le persone da nemici esterni ed interni, e per assicurare contro l’abuso di ricchezze private o di autorità: per esempio, assicurando una corretta distribuzione di terra o attraverso una legislazione contro certe forme di eccessiva ricchezzaMa se i repubblicani hanno sempre difeso il ruolo dello stato in relazione al perseguimento di tali fini – fini derivanti, in definitiva, dall’obiettivo di promuovere la libertà delle persone – essi hanno ugualmente insistito sull’essere lo stato una specie di spada affilata a due lame. A meno che non venga ridimensionato istituzionalmente in vari modi, lo stato può causare un pericolo peggiore per la libertà dei cittadini intesa come “non-dipendenza” piuttosto che adottando determinate decisioni contro un fine particolare. Se lo stato offre potere senza impedimenti a una singola persona, per esempio, come accade sotto a una monarchia assoluta o a una dittatura, allora quella persona sarà in grado di interferire con la sua volontà sulle vite dei cittadini e dominerà ciascuno e ognuno di essi. O se lo stato permette ad una particolare fazione o classe di controllare cosa è fatto in nome suo, allora lo stato avrà lo stesso potere di dominare anche coloro che non appartengono a quella classeLa tesi repubblicana su questo fronte ha sempre chiaramente indicato che lo stato deve essere strutturato e obbligato in modo tale che possa agire promuovendo solo ciò che conviene al pubblico interesse. Non deve essere libero di servire gli interessi di una particolare persona o famiglia o fazione a detrimento dell’interesse di altri. Se così fosse, allora rappresenterebbe un potere dominante nelle vite di altre persone. Lontano dal promuovere innanzitutto le loro libertà – benché debba fare qualcosa in questo senso – il suo effetto concreto sarebbe quello di ridurre la libertà: di trasformare i cittadini in una classe sottomessa, sistematicamente vulnerabileChe genere di limitazioni ha generalmente favorito il repubblicanesimo? La limitazione più importante nell’antica Roma, e nel periodo delle rivoluzioni americana e francese, è stata l’opposizione contro la monarchia: un rifiuto di tollerare l’idea di un diritto dinastico al supremo potere. L’importanza di questo rifiuto, sicuramente, spiega la ragione per la quale per molti il repubblicanesimo significhi poco o nulla di più di una posizione antimonarchica. Ma è necessario ricordare che c’era sempre più che una visione repubblicana delle istituzioni, una ostilità verso la monarchia e, di sicuro, che questa ostilità scompare nella tradizione del commonwealth che prende forma nel tardo Millesettecento in Gran Bretagna. Là l’idea repubblicana emerse, e venne generalmente accettata sotto altri forme, vale a dire che un monarca doveva essere costituzionalmente limitato, quindi la monarchia non era di per sé riprovevoleLe limitazioni che sono state più diffusamente associate con la teoria repubblicana dello stato sono ora, grazie anche all’influenza della tradizione, idee sicuramente più chiare. Sette punti, in particolare, vanno messi in evidenza: 1. l’importanza di avere una costituzione, scritta o non scritta, all’interno della quale ciascun governo deve operare; 2. il desiderio di un governo di essere selezionato – generalmene eletto – in modo che le differenti parti della popolazione abbiano i loro diversi interessi rappresentati; 3. l’ideale di limitare la durata del mandato di coloro che prestano servizio nell’ufficio esecutivo, con la richiesta della loro selezione attraverso un rinnovamento regolare e la sottoposizione a periodiche elezioni; 4. le necessità per il governo di governare attraverso la legge, non caso per caso, e di assicurare che le leggi siano applicate nei confronti di ciascuno, legislatori inclusi, e siano generali, chiare, ben comprese e così via; 5. la indispensabilità di separare i poteri, in modo che ciascuna autorità sia soggetta a controlli e valutazioni, e in particolare la indispensabilità di separare il potere giudiziario dal potere esecutivo e legislativo; 6. la necessità che quando le decisioni sono prese dal governo siano ricondotte a ragioni che derivano chiaramente da interessi generali, in modo che la rilevanza e la solidità di quelle ragioni possa essere posta in discussione nell’ambito della legislatura, dei tribunali o in altri forum; 7. la inevitabile fiducia dell’intero sistema sull’esistenza di un’attiva, partecipe cittadinanza che vigila sull’esercizio del potere di governo, mettendo in discussione i suoi abusi e facendolo condannare quando è necessario
Conclusioni
Per riassumere, quindi, il repubblicanesimo è in primo luogo una teoria di libertà e, secondariamente, una teoria di governo. Equipara la libertà con il godimento della non-dominazione, che possiamo esprimere in questo modo: vivere senza padrone la propria vita. E deriva dal valore di tale libertà sia ciò che lo stato dovrebbe fare, sia come lo stato dovrebbe esserci costretto. Fornisce una base sulla quale elaborare sia una teoria sostanziale che una teoria costituzionale dello stato. *************************************
Traduzione dall’inglese a cura di Paola Morigi. tratto dal PENSIERO MAZZINIANO
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nuvolarossa
21-03-02, 23:22
IL LIBRO DEL GIORNO
Cattaneo: una repubblica federale

Quasi a simbolica conclusione dell'anno bicentenario della nascita, ecco questo libro-sintesi di Franco Della Peruta su Carlo Cattaneo politico , così rigoroso nell'analisi e, insieme, così didascalico come lettura, che il presidente Ciampi di recente ne ha fatto esplicito dono anche al leader leghista. E la ragione è evidente: Della Peruta, da storico che come pochi conosce i protagonisti e le vicende dell'Ottocento, offre in queste pagine uno straordinario ritratto dello sfortunato esponente delle Cinque Giornate (1848) ma anche dell'antesignano di quel federalismo, oggi spesse volte malinterpretato (o addirittura equivocato).
Qui, invece, diventa chiarissimo come e perché la polemica di Cattaneo contro lo Stato centralista e la «soluzione monarchica» del Risorgimento non sfocia mai nella pretesa di separatismi e secessionismi; al contrario, forte di una visione civile illuministico-positiva, riformatrice e progressista, Cattaneo (1801-1869) sostiene il principio dell'identità italiana fra patria nazionale e «piccole patrie», arrivando a esaltare persino il ruolo simbolico del tricolore («palladio perpetuo di fraternità militante e pensante» dirà già nel 1850).
Non solo: mentre fino a pochi anni fa, almeno da parte di certa storiografia, si pretendeva di vedere in Cattaneo il solito ideologo della borghesia, pronto a privilegiare gli interessi delle classi padronali, Della Peruta - rileggendone attentamente gli scritti - sottolinea quanto Cattaneo sia stato «largo di suggerimenti e consigli agli uomini della Sinistra», tanto da individuare negli operai e negli artigiani (le «classi povere» delle città) un vero e proprio «quarto Stato», ormai giunto a una «chiara coscienza di sé e del suo diritto». E in questa prospettiva sosteneva che il suffragio universale dovesse diventare uno degli obiettivi primari, per riuscire a fare dell'Italia una vera democrazia repubblicana.

FRANCO DELLA PERUTA
Carlo Cattaneo politico
Editore Franco Angeli
Pagine 202, euro 18,00

nuvolarossa
22-03-02, 20:24
“Del repubblicanesimo”
note per un dibattito europeo

Maurizio Viroli nel suo ultimo libro, Repubblicanesimo, edizioni Laterza, ha mirabilmente sintetizzato i lineamenti di una tradizione, coniugandoli con istanze concrete, vicine, europee, nazionali e internazionali, spesso da noi sollecitate su queste stesse pagine. Si tratta di un percorso di lunga gittata, sviluppatosi in ambiti culturali diversissimi in tempi e luoghi lontani, non riconducibile (per fortuna, ammonisce egli stesso) a "un corpo dottrinario sistematico", né a un unico interprete messianico, seppure i nomi di Machiavelli, di Tocqueville, Mazzini, Cattaneo ricorrano spesso, uniti a quelli dei principali interpreti e studiosi contemporanei del neorepubblicanesimo. L’obiettivo dichiarato è chiaro e ineludibile: costituire "la base di una nuova utopia politica capace di risvegliare quelle passioni da cittadini liberi che gli ideali politici che dominano la scena di questo fine secolo (...) non sono in grado di mantenere vive e tanto meno di far nascere." Il riferimento va, innanzitutto, sia al liberalismo che al liberismo, spesso inopinatamente confusi non solo nell’immaginario collettivo, ma anche presso gli addetti ai lavori, non si sa fino a che punto artatamente. Ma il discorso è rivolto pure alle varie forme di socialismo: democratico, liberale, ecc. e alle diverse versioni del comunitarismo.
Il repubblicanesimo si differenzia sostanzialmente in vari punti da tali visioni della politica che pure stanno dominando questo scorcio del millennio. La sua storia, lunga molti secoli, costituisce un viatico e un’opportunità a condizione che le tensioni ideali che da essa emanano siano rielaborate e rivissute nell’atto della ri-costruzione della società. Si tratta dunque di un grande progetto culturale, politico, sociale che è stato abbozzato e che rivendica grande attenzione in Italia, in Europa, nell’Occidente intero e nel resto del mondo.
Il repubblicanesimo si coniuga, inoltre, esemplarmente con le teoriche della virtù repubblicana, della responsabilità civile, come premessa per l’esercizio della libertà, del patriottismo, nettamente distinto dal nazionalismo, dell’europeismo che tende all’Europa dei cittadini, dell’ethos civile che dovrà segnare la società democratica multiculturale, pena rischi gravissimi per la stessa identità delle nostre comunità, con le unioni sovranazionali che interessano solo i potentati, anziché proporsi come mezzo per connotare i popoli e consentire una convivenza pacifica nella salvaguardia delle rispettive identità.
Ora un punto interrogativo s’impone: riteniamo che questo repubblicanesimo, declinato da Viroli e, sotto molti punti vista, "praticato" anche dalla nostra rivista in questi anni sia conciliabile col mazzinianesimo? Fino a che punto? Con quali conseguenze?
Carte in tavola. È ovvio che chi scrive queste righe ritenga il messaggio storico mazziniano non solo conciliabile col neorepubblicanesimo, ma addirittura, sotto molti aspetti, sovrapponibile ad esso, sia a livello di prassi, sia a livello di elaborazione teorica. Una convinzione che si è rafforzata, mese dopo mese, nelle lunghe ore trascorse con Viroli a riflettere sui punti cruciali che legano il mazzinianesimo con la storia lunga del repubblicanesimo, con la prassi della democrazia, della libertà, del socialismo mazziniano o associazionismo, fino, appunto, alle moderne teoriche del neorepubblicanesimo. Rinfrancati dai sempre proficui e stimolanti incontri con Giulio Cavazza, dalle discussioni e dal confronto, sulle pagine di questa rivista e altrove, con gli amici e gli studiosi, anche giovani, in questi ultimi anni abbiamo ribadito e chiarito che le culture locali e nazionali, spesso, esprimono dei bisogni, a volte si presentano come nuove forme di aggregazione, promuovono istanze, dopo l’epoca del comunismo, che tendeva ad avocare a sé diversi rivendicazionismi. Ancora: si sono poste come luoghi della partecipazione (era, ed è questo il senso del nostro federalismo possibile, che non ha nulla a che vedere con il separatismo), in risposta a una globalizzazione che tende a porre in discussione gli stessi mezzi della democrazia, fino a svuotarli dei loro contenuti di fatto. Pensiamo a uno stato sovrano che decida di far sorgere una centrale nucleare a poche decine di chilometri dai confini di un paese che abbia scelto di non rischiare col nucleare; oppure guardiamo alle grandi imprese economiche, che scavalcano sistematicamente e disinvoltamente i confini (e le leggi) dei singoli stati e dei continenti, mentre il popolo viene chiamato a decidere ancora in ambiti comunali, regionali e statali. L’europeismo e l’euroatlantismo, visti sotto queste prospettive, non costituiscono solo un obiettivo da cogliere, ma ormai una necessità se si vuole salvare il metodo democratico, rinnovandolo su scala mondiale. Ma l’Europa non può essere costruita solo dalle banche o comunque imponendo vaghi universalismi alle culture nazionali; deve nascere dalla libera unione di popoli, che, prima di tutto, hanno coscienza della loro identità, amano e rispettano le loro tradizioni civiche e, attraverso questa pratica, rispettano, comprendono e cominciano ad amare le culture degli altri popoli. Non è pensabile una vera unione sovranazionale senza una contemporanea valorizzazione del tessuto connettivo micro-sociale, costituito da imprese medio-piccole, cooperative, comuni, associazioni e quant’altro serva a riportare la dimensione "globale" a una misura umana.
Naturalmente, perché ciò sia possibile, almeno come tendenza, occorre battere una concezione che vede la politica come tornaconto individuale o al servizio di interessi particolari e di gruppi. Non è praticabile nessun "passaggio etico" se non viene stabilito un chiaro rapporto tra libertà individuale e libertà comune, attraverso il rafforzamento dei meccanismi che garantiscano l’universalità delle leggi (e non le leggine, espressione di piccole consorterie), l’indipendenza dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), e così via.
I meccanismi di selezione della classe dirigente, consentono poi la scelta dei migliori? O non sta prevalendo, piuttosto, una concezione meramente neocontrattualistica, per cui il politico finisce per legarsi indissolubilmente ai gruppi che lo eleggono, impegnandosi ad ostacolare ogni iniziativa che non sia in sincronia con gli interessi dei suoi grandi elettori? In tal modo più che la democrazia si esercita la sua pantomima; il livello di frammentazione tende all’infinito, perché ogni gruppo economico, sociale, culturale tenderà a farsi "tutelare" dal "suo" rappresentante, vincolandolo in nome di bisogni immediati, di interessi specifici e allontanando praticamente dalla politica tutti gli esclusi. Ampi strati popolari che non hanno avuto la forza o l’opportunità di incidere rischiano la vessazione, la solitudine, l’abbandono, la riduzione a uno stato di perpetuo servilismo in attesa della benevola munificenza del "neosignorotto" di turno. Non c’è sistema elettorale proporzionale o maggioritario che sappia correggere queste incongruenze se, a monte, non si ri-stabilisce un’etica, la pratica di una virtù (repubblicana). Corruzione, vuoti di rappresentanza scaturiscono anche da queste situazioni, da cui può derivare che qualche cittadino "potente" possa ergersi sopra le leggi, magari da lui stesso votate, o possa infrangerle impunemente. Ma nessun problema di ordine pubblico potrebbe essere risolto in uno scenario che presentasse queste premesse, perché le leggi o valgono per tutti o non valgono per nessuno. Il mondo repubblicano e mazziniano ha le idee chiare in proposito. Può dirsi altrettanto per la gran parte della classe politica italiana? E di quella europea?
Il neorepubblicanesimo, quindi, in questi anni, ha teso ad analizzare i problemi di fondo della nostra società, operando, contemporaneamente, a livello propositivo e a livello storico, cosciente della interazione continua tra spazi, tempi e tra passato e futuro.
Si è assistito, inoltre, a un curioso rimescolamento delle carte. Si sta sovente invocando un’ampia libertà per coloro che già ne godono e ne hanno sempre goduto: libertà di impresa, fino al quasi monopolio, libertà dai lacci statali, libera concorrenza fra i lavoratori (meritocrazia), libertà di istituzione di scuole private, ecc. Se poi spingiamo l’analisi più nel dettaglio è agevole notare che spesso, dietro alla libertà di impresa, si è nascosta l’assistenza sistematizzata dello stato alle imprese, dietro alla libertà delle scuole si cela la richiesta di un finanziamento pubblico alle scuole private, dietro alla flessibilità e alla mobilità del lavoro si nasconde, sovente, una minor tutela del lavoratore. Il tutto in formato sovranazionale, mentre il singolo cittadino è ancora confinato entro la ragnatela di una burocrazia spesso asfissiante, certamente anacronistica e grottesca nell’epoca del computer. Si è rinnegato, giustamente, il comunismo, si è parlato, con sprezzo, di società socialistoide, invocando più libertà. Ma siamo sicuri che alle centinaia di migliaia di disoccupati, alle centinaia di milioni di poveri che premono alle nostre frontiere interessi questo concetto di libertà? Una libertà legata all’avere più che all’essere, finisce per non tenere in alcun conto la giustizia sociale, così come si cura solo formalmente della rappresentanza, privilegia la "non interferenza" e qui si ferma, senza alcuna cura per le questioni sociali lasciate sovente in balìa del volontarismo elevato a sistema, dell’assistenzialismo generatore di dipendenze gravissime, se consente un controllo dall’alto su vasti strati della popolazione, indirizzata dal bisogno. In effetti oggi sono davvero oppressive certe caratteristiche della burocrazia evocanti i "fasti" del socialismo reale, ma che in Italia hanno origini che risalgono almeno allo stato papalino. Una situazione però, a ben pensare, di comodo proprio per potenti, i gestori del potere; umiliante per i cittadini trasformati in sudditi. Nel contempo, la macchina burocratica si inceppa, paradossalmente, verso l’alto: la nebbia costituita dalla miriade di leggi che ci affligge avvolgendoci in un manto da cui sembra davvero arduo, anche per i meno sprovveduti, districarsi, pare improvvisamente alzarsi di fronte alla "libertà" di qualche grande industria, di qualche intoccabile. E allora notiamo che la "libertà" di guardarsi una partita di calcio o un film porno (che ogni dittatore peraltro può tranquillamente garantire perché aiuta a "mantenere l’ordine") non può essere barattata con l’arbitrio di qualcuno. Il grande bluff del gioco della democrazia, ormai svuotata dei suoi contenuti essenziali, si perfeziona dunque con un motto, "libertà per tutti" che, anziché diffondere libertà e creare condizioni di libertà, favorisce pochi privilegiati, finisce per opprimere ulteriormente i deboli e, aggiungiamo, si esalta nella retorica comunitaria, allorquando diventa esaltazione di una razza specifica.
Noi che non siamo, e mai siamo stati, comunisti, abbiamo il dovere di indicare agli intellettuali, alle forze politiche, ai cittadini la via del repubblicanesimo, che è insieme un percorso culturale e una prassi. In questo momento, in Italia e in Europa , questa teorica non ha uno specifico ed esaustivo riferimento partitico, ma anche alla luce delle considerazioni che abbiamo svolto, si differenzia e si pone oltre i limiti del liberalismo, del socialismo e del comunitarismo. Per questo non condividiamo affatto la manichea e strumentale alternativa proposta da Marcello Veneziani in Comunitari o liberal? (Edizioni Laterza). Abbiamo criticato negativamente il finto liberismo di una vasta fascia della destra che non può fare a meno dell’assistenzialismo, statale e non, ma neppure comprendiamo la ginnastica dei post-comunisti che vogliono trasformarsi in pochi mesi in liberal, rendendo omaggio a un improvviso contagio da epicureismo benthamiano e finendo quasi per tradire una latente sindrome da orwelliana Fattoria degli animali. E poi siamo davvero sicuri che, con la scomparsa del comunismo, siano superate le contraddizioni sociali e le crisi di valori che il socialismo, pur con forme che sovente non condividevamo, ha denunciato nel corso di un intero secolo? Il repubblicanesimo mazziniano aveva sovente segnalato gli stessi problemi, con analisi altrettanto serrate rimaste sovente lettera morta per eventi della storia che in questa sede non è possibile ripercorrere e anche per negligenze organizzative, per mancanze dei repubblicani stessi. Ma ora, perché non attingere da quel patrimonio? Perché precipitarsi tra un liberalismo che non basta, un liberismo che favorirebbe solo i già ricchi, un comunitarismo che potrebbe far riaffiorare nuovi totalitarismi? Ci spieghino il senso sociale di questo continuo ondeggiare tra una "libertà televisiva", una comunicazione che avviene per spot, una soluzione dei problemi economici che avviene con le rapine o con le elemosine. Sono questi gli interrogativi che ci sentiamo di porre agli altri.
Per noi la stessa consapevolezza di qualche anno fa: la coscienza che questi temi di fondo, possono essere affrontati unitamente dal repubblicanesimo, oltre la diaspora provocata da carenze ideali, da pochezza dirigenziale, da ambizioni e carrierismi ma non da mancanza di potenzialità, proprie del repubblicanesimo, che sta vivendo una nuova, straordinaria fortuna sul piano degli studi e dell’attenzione dei maggiori intellettuali del mondo.

di Sauro MATTARELLi………(tratto da “Il Pensiero Mazziniano”)

nuvolarossa
07-05-02, 16:21
DALLA FRANCIA UNA LEZIONE PER LA POLITICA ITALIANA
REPUBBLICA SENZA CULTURA

PERCHÉ noi italiani non abbiamo «la Repubblica» come i francesi? In queste settimane ci siamo un po' identificati con i francesi, magari ironizzando sui toni saccenti spesso usati nei nostri riguardi. Ma poi alla fine li abbiamo invidiati. Non già per la scontata vittoria di Chirac, ma per il loro modo di evocare i valori della République. Un modo forse un po' retorico, ma schietto. Per essi «la Repubblica» è davvero la parola-simbolo, la sintesi dei «valori comuni» e delle regole del funzionamento istituzionale. Che tristezza se guardiamo a casa nostra! Proprio all'indomani del pellegrinaggio di Ciampi - da Marzabotto alla Trieste della Risiera e delle Foibe - per un lezione di repubblicanesimo, che ancora manca nel nostro paese. Lo stupore di Ciampi per i malumori e i fraintendimenti del suo discorso sul 25 aprile; i toni irritati o finto-deferenti di molti commenti giornalistici stanno lì a dimostrarlo. Dopo decenni di democrazia ci sono ancora politici e studiosi che torcono il naso di fronte all'evidenza storica che la Repubblica abbia come atto fondante la Resistenza. E che quindi la sua cultura politica debba cominciare da qui. Ritengono invece che l'antifascismo sia una cultura dell'avversario politico anziché una componente della comune cultura repubblicana. Perché? Perché c'erano i comunisti - ripetono ossessivamente. Naturalmente i comunisti c'erano anche nella resistenza francese, ma lì c'era De Gaulle che li teneva a bada - dicono. Questa era, tra l'altro, una fissazione di Sogno che pure si diceva ammiratore di De Gasperi, di Einaudi e di Pizzoni (un nome ormai dimenticato). Ma questi antifascisti, pur avversari del comunismo, mai si sarebbero sognati di negare o relativizzare il valore della Resistenza per la presenza dei comunisti. Il problema era piuttosto la loro riconversione alla democrazia che avevano contribuito a istaurare. Questo processo sarebbe durato a lungo; ma adesso che si è compiuto, l'anticomunismo di risentimento che domina la destra italiana, si ribalta sull'evento fondante della Repubblica. Diventa sospetto sulla sua legittimità. In tutto questo c'entra poco una ricostruzione storiografica più matura e corretta: ciò che molti vogliono è una rivincita politica. Questo è «l'improponibile revisionismo», respinto da Ciampi, che riduce la Resistenza a scontro di bande armate. O rovesciando di segno il patriottisno costituzionale che è soltanto repubblicano, rilancia la tesi che soltanto da una parte (non certo quella resistenziale) stava storicamente il «patriottismo». E oggi finalmente ancora «la patria vince» - come diceva lo slogan del recente Congresso di An. Neppure all'abile Fini sarebbe venuto in mente di scrivere «la repubblica vince». Le responsabilità per questo stato di cose sta anche nell'incapacità del centro-sinistra di rispondere all'infinità di stimoli, suggerimenti e provocazioni, che gli sono venuti negli anni Novanta, per passare da una cultura tradizionalmente antifascista ad una più ampia, ricca e solida cultura repubblicana. Un'occasione storica sprecata.

Gian Enrico Rusconi

nuvolarossa
28-05-02, 22:24
Attualità del repubblicanesimo di Victor Hugo
A duecento anni dalla nascita del grande poeta e scrittore francese

Ricorre, quest’anno, il duecentesimo anniversario della nascita di Victor Hugo e la Francia e l’Europa si avviano a celebrarlo superando il giudizio di quanti videro nel grande poeta “le premier prix de rhétorique”del XIX secolo. Sarà un’opera di giustizia verso un grande spirito che, non solo senti e interpretò le illusioni e le passioni del proprio tempo, ma, con chiaroveggente intuito, anche quella del nostro.
Ancora adolescente, conobbe ed amò i colori dell’Italia e della Spagna che esercitarono su di lui un evidente fascino. Giovanissimo, si assise tra i poeti e gli scrittori del suo Paese suscitando stupore e ammirazione tra i contemporanei. Chateaubriand, non a torto, lo definì “enfant sublime”.
Nel 1818 i fratelli Hugo fondarono “Le Conservateur”, giornale moderato, cattolico e monarchico al quale il futuro poeta collaborò con entusiasmo e, di lì a poco, pubblicò Les odes et poésies diverses iniziando quella vasta produzione poetica che lo accompagnò per tutta la vita. Come Mazzini, egli affidò all’arte una missione altamente educativa, evocando subito le aspre critiche di quelli che vedevano in essa una dea libera da ogni vincolo. Fu così che egli restò “un solitario”, mentre avanzavano le nuove concezioni materialistiche. Hugo non fu comunque insensibile al mutare dei tempi e la sua maturazione artistica e psichica fu continua e sofferta. Di essa troviamo tracce nella sua vasta opera.
Il suo primo cambiamento lo si trova già nelle Odes et ballades, edite nel 1828 e, ancor più, nella prefazione al dramma Cromwel, ma la metamorfosi delle sue convinzioni e della sua esuberante personalità diventò decisiva con la pubblicazione ed il trionfo del dramma Hemani che lo portò a capo del movimento romantico, mentre tramontavano gli ultimi bagliori del classicismo. Con le opere successive crollano i suoi principi monarchici e moderati.
Nel 1845 ammise d’essere ancora liberale, ma nel 1849 era già repubblicano, cosa naturale in un uomo, figlio di quella gloriosa generazione che aveva visto i propri padri battersi: prima, per la grande Rivoluzione del 1789 e, poi, in quelle armate napoleoniche che, sulla punta delle loro baionette, avevano diffuso i principi dell’eguaglianza e della libertà.
In quel tempo il poeta, cristiano deluso, aveva superato la fede in tutte le confessioni, ma sentiva in sé, viva ed operante, la presenza di Dio. Nel suo testamento spirituale scrisse: “Je refuse l’oraison de toutes les églises. Je demande une prière a toutes les âmes. Je crois en Dieu”. Il suo era un Dio personalizzato, come in Mazzini, sempre presente nelle sue opere, meta ultima di una umanità redenta. Per il poeta francese l’umanità era in perenne viaggio verso l’Ente Supremo, per il pensatore italiano, invece, la divinità si manifestava nel miglioramento e nel progresso del genere umano.
Già nella Camera dei Pari aveva provocato lo stupore dei colleghi per i suoi interventi di taglio progressista sulla solidarietà sociale e sul diritto dei popoli ad ottenere i benefici della libertà. Elogiò perfino l’atteggiamento di Pio IX, in quel tempo liberaleggiante, ma nel 1849 attaccò con forza e tenacia la politica di quel Papa divenuto oppressore del popolo romano e complice dei tiranni stranieri e domestici che tenevano in catene la nazione italiana. Dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, nel 1851, andò in esilio volontario per meglio combattere la tirannide.
Fu prima nel Belgio da dove scagliò, contro l’usurpatore, i due feroci ed implacabili libri, Napoleon le petit e Histoire d’un crime, che si diffusero clandestinamente anche in Francia. Si trasferì poi nell’isola di Jérsey e in seguito in quella di Guèmesey. Fu un momento particolarmente felice per la sua produzione artistica. Diede alle stampe il singolare poema Les chàtiments e poi iniziò La légende des siècles, la sua più ambiziosa opera poetica ciclica, che traccia l’avventura umana attraverso la foschia di lontani secoli e, come lui disse, voleva “dipingere l’umanità in tutti i suoi aspetti: storia, favola, filosofia, religione e scienza”. La prima parte di questo poema di vasto respiro, dedicato alla Francia, apparve nel 1859. Quando la complessa opera giunse alla fine fu chiara la visione ottimistica del destino umano, tanto cara al poeta. Sembrò che l’avesse composta sotto lo stimolo di una perenne allucinazione. Eppure, quella esaltante ricerca per intendere il destino umano, ha qualcosa che ancora turba la coscienza dell’uomo, perché l’enigma della lotta tra il bene ed il male, tra la luce e le tenebre, è tuttora valida e attuale.
Hugo capì l’importanza dei miti nella coscienza dell’essere umano e introdusse i contemporanei nella magia delle grandi età del passato, nel tentativo di penetrare e leggere nell’invisibile. Lo stressante impegno, necessario alla elaborazione del grande poema dell’umanità, non gli impedì di dar vita ai grandi romanzi storici che commossero intere generazioni di europei e di americani. Il primo di questi fu I Miserabili. Si tratta di un capolavoro che mette a fuoco la crudeltà di una società ancora pregna dei pregiudizi di passate epoche. Rivive in esso un periodo di storia francese fondamentale nel divenire dell’umanità. Potremmo anche dire che La légende des siècles e Les Miserables siano la parte più viva e geniale di una prodigiosa attività artistica e di pensiero che durò quasi un secolo. Nei due romanzi che compose in seguito: Les travailleurs de la mer e L’homme qui rit, troviamo la chiara dimostrazione di quanto fosse viva nell’Autore il senso etico e doloroso del destino umano. Nei protagonisti delle sue opere, in prosa o in poesia, vibra la tensione di uno spirito che cerca di svelare il mistero della vita e insegue la presenza di quel Dio invisibile, amato e temuto, che i pensatori e i politici della seconda metà del XIX secolo non ritennero necessario per spiegare l’esistenza dell’universo. Sta qui il motivo dell’incomprensione e delle critiche che circondarono Victor Hugo in Francia e Mazzini nel nostro Paese.
Le critiche malevoli colpirono il mito di Hugo soprattutto dopo la sua scomparsa. Jean Cocteau arrivò perfino a definire il grande poeta “un pazzo che credeva d’essere Victor Hugo” e sbagliò. Avrebbe dovuto dire invece che “Hugo fu un genio che volle essere il vate della Francia, dell’Europa e di un mondo migliore.”
Oggi, nei drammatici eventi che terrorizzano l’umanità, la saggia voce dì quel grande protagonista della cultura francese ci giunge provvida e gradita. Incitò con la sua arte gli uomini ad unirsi in una fratellanza creatrice di libertà, di pace e di progresso. Per questo fu favorevole al Risorgimento Italiano. Il suo repubblicanesimo ebbe molti punti di affinità con quello mazziniano della “Giovine Italia” e della “Giovine Europa”. Strenuo difensore della Repubblica Romana, attaccò più volte la politica liberticida di Pio IX, reo di tradimento verso il cristianesimo e complice dei carnefici del popolo italiano. Condannò, questo papa perfino in una visione della Legende des siècles. Immaginò di sentire la voce dell’Altissimo che invitava Dante a mettere quel papa nell’inferno della sua Divina Commedia, come egli lo aveva messo nel proprio (Vision de Dante).
Nel 1856, sollecitato da Mazzini, pubblicò sui giornali inglesi e belgi un messaggio diretto al popolo italiano. “Nous sommes – scrisse – le même peuple, nous sommes la même humanitè. Vous la république romaine, nous la république française, nous sommes pénetrés du même soufle de vie.[...] Vous portez en vous la révolution qui dévorera le passé et la régénération qui fondera l’avenir. [...] Defiez-vous des rois ; fiez-vous à Dieu".
Queste nobili parole dimostrano che il poeta non solo era favorevole al nostro Risorgimento, ma lo credeva necessario alla grande riforma sociale e politica dell’Europa dei popoli. In altre parole, l’Italia unificata avrebbe dovuto essere l’artefice di un mondo nuovo, più giusto e rispondente al fine ultimo della democrazia: la repubblica universale. Nel settembre 1860 tenne un famoso discorso in favore dell’impresa dei Mille. Nel 1867, in occasione della tragedia di Mentana, compose la famosa ode in cui espresse il suo furioso sdegno contro Luigi Bonaparte, paragonando Garibaldi a Leonida e a Guglielmo Tell; ma nel 1870, alla fine dell’impero di Napoleone III, restò perplesso e gelido, in sintonia con il pensiero di Mazzini, che con tristezza, in quel momento, si chiedeva, innanzi a “quel cadavere”, dove fosse l’Italia dei suoi sogni. Ma l’amore per l’Italia restò fermo nel cuore di Victor Hugo. Il 22 novembre, infatti, in una lettera inviata al municipio di Roma che celebrava l’anniversario della tragedia di Mentana, scrisse: “Pour nous français l’Italie est une patrie aussi bien que la France et Paris, où vit l’esprit moderne, tend la main à Rome,où vit l’âme antique. Peuples, aimons-nous.”
Vibra in queste parole il vivo sentimento per la latinità che Hugo confermerà in una lettera inviata il 29 ottobre ai democratici milanesi che ricordavano con una manifestazione il sacrificio eroico dei caduti di Mentana.
“Mes chers et vaillants amis, - scrisse - nous sommes tous, France, Italie, Espagne, la même famille. Les enfants de ces nobles pays son frères; ils ont la même mère: l’antique Republique romaine.”
Il 20 maggio 1872, nel rispondere a un messaggio di solidarietà indirizzato alla Francia dal popolo romano, ricordò all’Italia, madre della Francia, che il mondo latino si inchinava innanzi agli Stati Uniti dell’Europa del futuro e l’illustre Repubblica dell’antichità salutava l’augusta Repubblica dell’avvenire: “L’humanité tout entière consolée et rassurée , tressaille quand la grande voix de Rome parle à la grande âme de Paris”.
Un’altra dimostrazione di stima e di amore verso l’Italia, il vecchio Orfeo la diede allorché deputato repubblicano, sostenne il diritto di Garibaldi a far parte del nuovo parlamento, dopo essere stato eletto dal popolo francese. Ricordò agli immemori che l’eroe era stato il solo straniero accorso in difesa della Francia e l’unico generale a non essere stato vinto dai prussiani; ma la maggioranza dell’assemblea, dominata dai clericali, respinse la sua richiesta ed egli, con fierezza e dignità, si dimise dalla carica di parlamentare e continuò la battaglia per la democrazia nel Paese e nella sua infaticabile opera di poeta e di scrittore.
Egli non fu soltanto il vate della Francia, ma anche il profeta di quella unità europea che oggi è realtà viva ed operante, perché ci impegna a raggiungere nuovi traguardi di giustizia, di solidarietà, di progresso e di eguaglianza tra le genti del nostro tormentato pianeta. Victor Hugo, è oggi più che mai attuale, c’invia il suo messaggio di amore che per i francesi e gli italiani ha un’importanza particolare perché ad essi, non solo spetta la difesa dei valori della civiltà latina, ma anche quella dei loro idiomi nazionali, insidiati da una ingiustificata invasione di espressioni e vocaboli anglo-americani. Compete, inoltre, a questi due popoli riproporre alla comunità internazionale l’uso del francese come lingua diplomatica e universale, rispettando un’antica e gloriosa tradizione europea.
A duecento anni di distanza dalla sua nascita, Victor Hugo ricorda a questa nostra umanità, insidiata e minacciata da passioni pericolose e dal consumismo capitalistico, che la vita è missione e che il fine ultimo della democrazia è ancora lontano. È un monito che, nei feroci tempi che corrono, dona conforto e vigore a quanti soffrono e lottano per un avvenire migliore. Giustamente Paul Claudel ebbe a dire tempo fa: “Victor Hugo est ancore bon à donner, aux âmes opprimées et déprimées d’aujourd’hui, une leçon d’enthousiasme”.

Mario Bevilacqua

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Pensiero Mazziniano

nuvolarossa
30-05-02, 18:55
Intervista ad Aldo G. Ricci

La Repubblica. L’aspirazione a governarsi da sé

Pubblichiamo il testo del dialogo tra Aldo G. Ricci e Alessio Sfienti. Ricci lavora presso l'Archivio Centrale dello Stato. Ha curato l'edizione critica dei "Verbali del consiglio dei Ministri. 1943-1948". Tra i suoi libri recenti Aspettando la Repubblica. I governi della transizione. 1943-1946 (Roma, Donzelli, 1996), Il compromesso costituente. 2 giugno 1946-18 aprile 1948 (Bastogi Editrice Italiana, 1999) e, da ultimo, La Repubblica, volume uscito nella collana “Identità italiana” diretta da E. Galli della Loggia per la casa editrice Il Mulino.

Prof. Ricci il repubblicanesimo è stato accusato di essere anacronistico, di guardare ad una realtà sociale (le libere repubbliche) che non è per nulla attuale. Che significato ha oggi in Italia la parola Repubblica?

Io credo che l’anacronismo della parola Repubblica e delle tematiche repubblicane sia legato a come è nata la Repubblica, soprattutto al contesto in cui è nata la Repubblica nel nostro paese, perché questo è forse uno dei paradossi più interessanti e più contrastanti della nostra vicenda repubblicana. Perché la Repubblica, come ho provato anche a ricostruire nel libro che ho scritto e che ha per l’appunto questo titolo, ha delle radici molto lontane e profonde nella storia del nostro paese e senza risalire a Roma o addirittura, come fanno gli storici settecenteschi, a prima di Roma, ma basta partire dai Comuni per capire come essa sia uno degli elementi identificativi della storia d’Italia e poi via attraverso i grandi nomi che hanno riflettuto su queste tematiche da Machiavelli, dagli utopisti come Campanella, le esperienze delle repubbliche giacobine e così via. Ma se vogliamo partire dell’epoca moderna, quindi dall’indomani dalla fine di Napoleone, uno storico fondamentale per queste tematiche che è Sismondi, mette al centro di una delle sue più grandi opere la storia delle repubbliche italiane e quindi fondamentalmente la storia delle repubbliche comunali [1]. Egli vede in queste vicende due cose fondamentali: da una parte uno dei tratti caratteristici della storia italiana, vista per la prima volta nell’opera di Sismondi come una storia unitaria, una storia nazionale. Infatti questo suo lavoro ebbe poi una grossa influenza su tutti i patrioti del Risorgimento. L’altro elemento importante che Sismondi individua nelle repubbliche comunali è un insegnamento di libertà che l’Italia ha consegnato all’intera Europa. In altre parole, da questo punto di vista vede addirittura nell’Italia un battistrada di una libertà più vasta, di una libertà europea. Poi il Risorgimento, naturalmente, e quindi quello che il repubblicanesimo ha significato nel Risorgimento, come mobilitazione di massa, come individuazione dell’obiettivo dell’indipendenza e dell’unità. Quelli che mettono per la prima volta a fuoco nell’Ottocento l’obiettivo unitario e dell’indipendenza sono i repubblicani. Dopodiché sappiamo che l’esito delle vicende è stato un altro per una serie di ragioni internazionali, oltre che nazionali. Tuttavia rimane forte questa presenza repubblicana.

Che ne fu del concetto di repubblica dopo il consolidamento dello Stato unitario monarchico e la presa del potere da parte di Mussolini?

Con il consolidamento del fascismo la parola ‘Repubblica’ dal 1928 con la concentrazione antifascista a Parigi diventa una pregiudiziale. In pratica la lotta al fascismo coincide alla lotta con la monarchia: quando cadrà il fascismo dovrà cadere anche la monarchia. Su questa linea i partiti del CLN si presentano all’appuntamento del 25 luglio, cioè alla nascita del governo Badoglio, e la pregiudiziale antimonarchica rimane fino alla svolta di Salerno. Poi, com’è noto, ci fu la tregua istituzionale e poi le elezioni della Costituente e il grande scontro referendario monarchia-repubblica. E qui scatta il paradosso perché lo scontro referendario monarchia-repubblica è uno scontro molto forte, infatti i dibattiti di carattere costituzionale, su quello che sarà l’assetto futuro del paese andarono abbastanza in secondo piano. Quello che invece restò in primo piano fu la battaglia sulla forma istituzionale, monarchia o repubblica. Quindi uno si aspetterebbe da questo punto di vista un forte tratto di repubblicanesimo in questa vicenda.

E invece?

In realtà appena vinto il referendum, l’elemento monarchico che pure si era rivelato così forte scompare, e quelli che sono i contenuti di un possibile repubblicanesimo, vengono in qualche modo occultati, coperti da quello che è lo scontro decisivo, la divisione del mondo in due blocchi e quindi da quelli che sono i due partiti di massa che tendono a diventare in qualche modo dei partiti “pigliatutto”, che occupano tutti gli spazi. Dei veri partiti-chiesa come vengono anche chiamati. Da una parte il Partito comunista, dall’altra la Democrazia Cristiana, che in qualche modo non nasce come partito così totalizzante ma è portata a diventarlo per contrapposizione, per difesa rispetto al Partito comunista. Quindi i contenuti tipicamente repubblicani vanno in secondo piano, il patriottismo, l’appartenenza forte è l’appartenenza di partito. Di conseguenza viene meno quello che avrebbe potuto essere un discorso di appartenenza alla Repubblica intesa come casa comune. Naturalmente questo significa che fino a che c’è stata questa presenza così forte gli spazi per questo repubblicanesimo possibile erano pochi. Tanto è vero che le vicende del Partito Repubblicano sono emblematiche. Questi spazi si riaprono dopo l’89 con il crollo del muro, la fine dei blocchi e quindi l’apertura di una riflessione sull’identità nazionale, sulla patria, su un possibile patriottismo della Repubblica e così via.
Mazzini mostra come "la forma di governo non è elemento sufficiente per creare una repubblica, se questa manca di quei principi d'identificazione collettiva, di educazione, di miglioramento morale, in definitiva di etica civile" [2] in assenza dei quali non si disporrà dei mezzi per avere una vera repubblica. Il mazzinianesimo può essere considerato come la prima forma di religione civile [3].

Quale contributo può dare nello specifico l’apporto di Mazzini per una ricostruzione di una religione civile della Repubblica in Italia?

Io credo che Mazzini da questo punto di vista abbia svolto un ruolo fondamentale e ancora lo possa svolgere nonostante i tanti travisamenti di cui è stato oggetto il suo pensiero. Sicuramente Mazzini aveva un’idea di Repubblica forte, nel senso che presupponeva l’esistenza di una educazione del cittadino, di un senso del dovere, del sacrificio. Tutta una serie di elementi etici che erano determinanti. Di questo è rimasto largamente nel popolo repubblicano, anche dopo la vittoria della soluzione monarchica, ed è rimasto come tradizione, come tessuto connettivo, come discorso comune. Naturalmente bisogna distinguere quello che è il pensiero di Mazzini da quelle che sono state poi un po’ le caricature di questo pensiero di cui è stato anche in parte oggetto da parte di alcuni settori del movimento operaio quando la battaglia fra repubblicani e socialisti e poi comunisti ha visto prevalere tendenzialmente le organizzazione del movimento operaio. In pratica si è anche un po’ enfatizzato questo aspetto etico-moralistico del mazzinianesimo. Credo però che sia necessario “distinguere il grano dal loglio”, cioè l’attuale dall’inattuale. Io sono convinto che ci siano - ma è un compito della storia, della politica, del dibattito pubblico mettere a fuoco quello che è utilizzabile da quello che non lo è più – delle istanze di fondo permanenti nel pensiero di Mazzini assai feconde per la democrazia. Ad esempio, quando sottolinea l’indispensabilità affinché ci sia una Repubblica, di una identificazione civile, educativa, partecipativa, associazionistica, egli mette in luce quelle che sono condizioni indispensabili alla realizzazione di uno Stato democratico. Naturalmente questo è un obiettivo tendenziale, poi sicuramente ci sono nel suo pensiero, se si va ad esaminarlo filologicamente, anche degli elementi che sono stati chiamati “virtuistici”, in cui sono presenti preoccupazioni che possono sembrare forse anche moralistiche e in parte anacronistiche. Tra l’altro c’è un elemento di diffidenza di Mazzini nei confronti di tutto ciò che è divisione, contrapposizione. Per esempio Mazzini non ha grande simpatia per il contrasto tra vari partiti che per noi oggi invece, è una forma di pluralismo indispensabile. Quindi ci sono degli elementi potenzialmente organicistici nella sua concezione. Tuttavia c’è questo richiamo, che io giudico attualissimo e permanente, alla necessità del rapporto tra Repubblica e appartenenza e senso di cittadinanza, senza il quale la Repubblica diventa una mera formula o forma di governo ma priva di quella sostanza che le dà vera vita.

Esistono in Cattaneo rispetto a Mazzini delle differenti concezioni della parola virtù, nel suo significato civico?

Sappiamo che Cattaneo e Mazzini, un po’ come in tutte le nostre tradizioni nazionali che si rispettano, sono i due potenziali capitani di una squadra che attraverso vie diverse puntano a un unico risultato: la Repubblica. In Mazzini la Repubblica ha i caratteri etici di cui parlavano, in cui l’elemento unitario è fondamentale. È talmente fondamentale che Mazzini tende a stabilire – questo lo ha fatto in più occasioni ma in particolare proprio in una lettera a Sismondi – un rapporto tra libertà e unità che è un rapporto dialettico e contraddittorio allo stesso modo, perché afferma “io amo la libertà più dell’unità, ma l’unità della patria l’amo prima”, nel senso che è un elemento naturale diciamo quasi istintivo, mentre la libertà è già un elemento culturale. Questo spiega anche il suo percorso di fronte alle vicende storiche dell’unità italiana, cioè spiega perché ad un certo punto lasci il passo alla battaglia unitaria rinunciando alla pregiudiziale repubblicana.
Cattaneo da questo punto di vista rovescia i termini del problema e addirittura ritiene una soluzione unitaria più pericolosa per la libertà perché ne rimanda in un certo senso l’affermazione. Cattaneo da questo punto di vista, al di là dell’istanza federalista, dell’importanza che lui attribuisce alle realtà locali, alla conservazione, valorizzazione di tutte quello che sono espressioni di tradizioni e ricchezze nel senso lato del termine locali, rovescia questo discorso e ritiene che il percorso debba passare attraverso l’affermazione sempre e comunque delle battaglie della libertà, e l’unità italiana federale sia al termine di questo discorso. Mi pare che da questo punto di vista l’alternativa sia abbastanza netta.

- I fondamenti della laicità dello stato italiano sono da ricercarsi nel principio delle guarentigie introdotto nella Repubblica Romana del '49. Attualmente la Chiesa in Italia sembra però svolgere nientemeno che una supplenza di religione civile [4] offrendo elementi di integrazione civica altrimenti indisponibili.

La laicità dello stato è ancora di fondamentale importanza in società multiculturali e multietniche così come vanno trasformandosi quelle attuali? Inoltre è possibile, attraverso una riscoperta delle radici repubblicane, ridare vigore ad una religione civile della Repubblica?

Il discorso della laicità secondo me va un po’ ripensato, nel senso che è un discorso sempre valido, quello dell’autonomia, la separazione delle sfere. Lei ha ricordato la Repubblica Romana come primo esempio in cui vengono introdotte le guarentigie che poi saranno riprese pari pari dallo Stato italiano. Nella costituzione della Repubblica Romana ci sono le guarentigie ma non c’è l’affermazione della religione cattolica come religione dello Stato che poi invece sarà stabilita nello stato monarchico. Su questa possibilità di stabilire o meno questa formula ci fu un dibattito, ma alla fine prevalse proprio nella Roma ex-papalina, sia pure per pochi mesi, la scelta di non mettere questo aggancio. Oggi, certo le forme del vecchio laicismo sono sicuramente superate, nello stesso tempo di fronte a una debolezza della coscienza civica che in questo momento è incerta e smarrita dopo che è venuta meno l’importanza dei grandi partiti storici nazionali. In questa situazione c’è una tendenza viva, forte della Chiesa a rioccupare spazi che vengono lasciati vuoti da altre forme associative. Da questo punto di vista la Chiesa fa il suo dovere perché è del tutto evidente che appartengono ai suoi compiti il proselitismo e anche l’occupare spazi. Pensiamo per esempio a quelle che sono le difficili questioni dell’immigrazione, della droga, dei disadattati e degli emarginati, ecc. Esiste tutta una realtà che se non viene affrontata dalla società civile, dalla società politica, è normale che venga affrontata dalla società religiosa. Ora io non ritengo che la Chiesa debba essere esclusa da questo tipo d’intervento, naturalmente ci deve essere un libero confronto delle varie opzioni. In questo momento la debolezza dell’opzione pubblica, civica, statuale, è tale che forse si rischia di avere spazi anche troppo ampi che poi in prospettiva possono anche in qualche modo snaturare il ruolo stesso della Chiesa che secondo me fa parte delle nostre tradizioni e verso la quale ho tutto il rispetto.
Nel suo libro afferma: “Le dimensioni sorprendenti dell’adesione alla monarchia che il 2 giugno portò alla superficie avevano certamente anch’esse le loro premesse in un rifiuto, speculare e rovesciato rispetto al voto repubblicano, di ciò che la repubblica per molti rappresentava (salto nel buio, rivoluzione sociale, ecc.), ma esprimevano anche il radicamento profondo di un’istituzione che, pur con le colpe accumulate dal 1922 in poi, e soprattutto negli ultimi anni, da metà degli italiani veniva ancora identificata con quello che restava della Nazione” [5]. Quel restava sembra quasi dare un credito alle teorie della “morte della patria” [6], eppure il repubblicanesimo italiano ha sempre espresso una certa idea dell'Italia alternativa a quella che poi si è realizzata attraverso la monarchia e successivamente col fascismo.
Qui tocchiamo dei punti abbastanza importanti e delicati e, negli ultimi anni, oggetto di un acceso dibattito che ha visto confrontarsi e scontrarsi differenti opinioni. L’8 settembre è un trauma nazionale dall’una e dall’altra parte. La storia dell’8 settembre è un trauma per tutti, per cui come tutti i traumi cerca una risposta. Ovviamente tutte le risposte non sono uguali: c’è chi l’ha trovata nella Resistenza, c’è chi l’ha trovata nel sostegno al governo regio e quindi nell’esercito che si va ricostituendo al Sud, c’è chi l’ha trovata nella Repubblica Sociale, in un certo tipo d’idea di mantenimento della parola data, ecc. Ripeto non sono tutte scelte uguali. Dietro la Repubblica sociale c’erano i tedeschi con tutto quello che questo significa, mentre la forza dell’elettorato monarchico è una forza legata in parte a tradizioni locali, sia in Piemonte che nel Sud, in varie città particolari, ecc.. Però è anche il rifiuto di un certo monopolio creato dai partiti del CLN della rappresentanza politica. I partiti del CLN – ma d’altra parte questo è anche spiegabile nella situazione d’emergenza in cui si svolgeva la battaglia politica – tendono in qualche modo a presentarsi come la rappresentanza di tutto il Paese, escludendo qualsiasi altra forza. Questo lascia spazi per identificarsi nella monarchia per tutte quelle forze che non si riconoscono immediatamente nei partiti ciellini, pur non avendo niente a che vedere né col fascismo né con la Germania o quant’altro. Non s’identificano direttamente con questi partiti che per larga parte dell’opinione pubblica erano in molte zone del Paese come delle meteore piovute dal cielo, eccetto forse un po’ la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista e il Partito Comunista soprattutto in certe zone. Il voto monarchico è una forma di protesta di fronte a questa realtà che viene sentita largamente come estranea.

Quali strumenti concettuali può offrire la tradizione repubblicana per la ricostruzione di un patriottismo democratico in Italia e in Europa?

Dopo l’89 il quadro mondiale è cambiato radicalmente. Non è un caso se dopo quella data, non solo gli addetti ai lavori ma anche giornalisti, storici, politici si interrogano sui problemi dell’identità nazionale, della “morte della patria”, su come ricostruire una forma di etica civile e di partecipazione. Questo perché i vecchi canali della partecipazione, cioè i vecchi partiti sono in grave crisi. D’altra parte non si può demandare interamente all’esterno, come un po’ è stato fatto in passato, in altre parole una costruzione più ampia di quelli che sono i nostri compiti, i nostri bisogni. Cioè non possiamo pensare che basti stare in Europa per essere qualche cosa. Bisogna prima essere qualche cosa e poi stare in Europa, altrimenti ci si sta fisicamente ma la nostra è una presenza soltanto numerica, non qualitativa, non essenziale. Leo Valiani che da questo punto di vista era una persona lungimirante l’aveva già indicato molti anni fa, ancora quando sembrava che le contrapposizioni interne partitiche potessero essere superate in una visione nazionale in tempi più brevi di quello che poi in realtà non è avvenuto. Bisogna che l’Italia riacquisti una sua identità, una sua fisionomia, un suo denominatore comune – politico, istituzionale, morale – al suo interno, affinché possa poi svolgere un ruolo nel più vasto contesto europeo. Già è difficile tutto questo a livello europeo perché vediamo come dal punto di vista dell’Europa politica le difficoltà sono infinite. È vero che abbiamo la moneta unica e fra un po’ disporremmo di un esercito di difesa comune, però sono primi passi, il salto qualitativo non è ancora avvenuto. Per partecipare a questo salto qualitativo bisogna che prima ci sia una forma d’identità e partecipazione interna pari a quella che c’è negli altri paesi dell’Unione. Da questo punto di vista il patriottismo della repubblica è sicuramente il punto di partenza, ma non è il punto d’arrivo perché poi non sappiamo come riusciremo a riempirlo di contenuti. Il patriottismo della Repubblica è quello che è mancato in Italia per il prevalere dell’identità di partito, ed è quello a cui dobbiamo guardare come obiettivo se vogliamo essere in Europa con un nostro ruolo specifico.

a cura di Alessio Sfienti
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tratto da il
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Pensiero Mazziniano

nuvolarossa
06-06-02, 19:02
tra Shaftesbury
e l'illuminismo

Il corso di laurea in filosofia dell'Università organizza nelle giornate di oggi e domani a Palazzo Bonacossi, via Cisterna del Follo 5, un seminario internazionale dedicato alla figura di Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, e al deismo in Gran Bretagna nel Settecento.
Il seminario vedrà la partecipazione di studiosi italiani e stranieri. Tra questi Paolo Casini (università di Roma), Giuseppe Cambiano (Torino), Franco Crespini (università della Calabria), Lawrence Klein (Cambridge), Isabel Rivers (Oxford), Laurent Jaffro (Parigi). Shaftesbury è un personaggio chiave della cultura inglese fra '600 e '700, principale ispiratore dell'estetica moderna, filosofo e politico allo stesso tempo, seguace della filosofia platonica e stoica, fu sostenitore della virtù e del repubblicanesimo classici, e studioso delle arti figurative.

nuvolarossa
07-06-02, 22:32
di giovanni corrao

I repubblicani sono parte della storia italiana. Esistono, come forza politica, da oltre cento anni; hanno sempre lottato tenacemente con la forza delle proprie idee nell’interesse del proprio paese, per il suo rilancio sociale, economico e morale.

Riassumono nella loro proposta politica tutto l’ardore delle formazioni risorgimentali di estrazione mazziniana (Giovine Italia e Partito d’azione), e sono gli eredi delle lotte delle fratellanze operaie degli anni ’70 ed ’80 di fine ’800.

Non è solo e semplicemente il desiderio di rivivere la scelta della repubblica, sancita col referendum popolare del 2 giugno 1946, ma soprattutto l’esigenza di vigilare giorno per giorno per il suo corretto funzionamento.

Il modello di libertà sempre voluto dai repubblicani si basa essenzialmente sui principi di autonomismo (comunale e regionale), per estendersi alle prerogative irrinunciabili dell’individuo e della sua dignità: diritti economici, morali, istituzionali, sotto il mantello della tolleranza civile e sociale.

Spiegare oggi cosa vuol dire essere repubblicani è veramente difficile. Fa parte di quegli stati di grazia che tutti conoscono o hanno provato, ma che nessuno sa spiegare con poche, chiare, semplici parole.

È un qualcosa che viene da lontano, che nasce da idee e convinzioni profondamente radicate nell’essere umano, da scelte spesso difficili da fare, da posizioni sempre combattute in esigua minoranza, da proposte comprese, ma non universalmente accettate. Morale, etica e politica, come diceva il maestro Mazzini, si devono fondere, nel raggiungimento dell’alto ideale del governo del popolo.

Il repubblicano fa parte della nobile area della sinistra democratica, laica, non socialista, ed è tradizionalmente propenso al dialogo con tutte le forze politiche di ispirazione democratica, con una particolare predilezione per le forze di centro-sinistra.

É cultore della ragione che considera l’unica vera strada maestra per l’adozione di provvedimenti chiari, presi nell’interesse generale, mai di parte. La riflessione, l’onestà mentale, la tolleranza, fanno parte degli esercizi mentali che giornalmente esegue nella palestra ideale di attività repubblicana.

Per lui lo Stato deve creare i presupposti per il libero operare, non essere oppressore o rappresentare l’ostacolo contro cui ogni giorno svolgere la propria battaglia burocratica. Uno Stato che riesca ad equilibrare le disuguaglianze e veda il libero mercato quale massimo propulsore per la creazione del benessere. Oggi il sistema capitalistico, mirabilmente analizzato dal grande Ugo La Malfa, fa parte dell’ovvio, non è neanche ipotizzabile utilizzare ipotesi alternative. Ma fino a qualche anno fa si faceva fatica a convincere gli “altri” che quello, e nessun altro, poteva e doveva essere lo strumento migliore per il rilancio e la valorizzazione del genere umano.

Al bando dunque dottrine qualunquistiche in grado di risolvere con la demagogia i problemi reali della civile convivenza. Diffidenza verso i meccanismi statali che portano a faraoniche ed improduttive opere. Si però al riequilibrio sociale, morale, culturale ed economico; si alle pari opportunità ed alla parità di sacrifici. No al razzismo, sotto qualsiasi veste mascherato o proposto.

Evviva all’integrazione europea: finalmente! Ci consente a forza di diventare un paese sincero con gli altri, ma soprattutto con sé stesso. I conti dello Stato devono essere finalmente chiari ed improntati a serie politiche di bilancio. Basta con le spese clientelari o elettorali. Confrontiamoci senza paura con la concorrenza dei nostri concittadini europei per il miglioramento e l’ottimizzazione delle risorse: bisogna avere il coraggio di tagliare i rami secchi per far crescere sana la pianta.

I repubblicani, lo si scopre col tempo, sono realisti, e credono nei partiti e nella politica come veicoli di democrazia. Tali raccordi tra la popolazione e le camere del potere sono indispensabili e calmieratrici.

Credono nell’aggregazione politica, ma mal sopportano le prepotenze. Essere repubblicani vuol dire credere nelle idee, nelle buone idee, indipendentemente da quanti siano a sostenerle. E soprattutto amano guardare lontano, al di là del proprio umile interesse. Amano pensare in grande, dare un futuro all’umanità, dare un forte, intenso contributo per la crescita civile e sociale. Il vero motore per loro è la passione, la soddisfazione di aver fatto gratuitamente qualcosa di impagabile.

Cento anni di duro onesto lavoro politico hanno il loro peso. Un’eredità che non può essere trascurata dalle giovani generazioni, un patrimonio di cultura e tradizioni che dà i suoi frutti. Una sorta di religiosità laica, basata sull’essere umano, che prende in esame tutti gli aspetti fondamentali della convivenza pacifica e democratica, per trarne proposte, programmi, decisioni ponderate e ragionate.

Uno degli aspetti più singolari dei repubblicani è la impermeabilità, non alla pioggia, ma alle altre ideologie. Tra di loro o associati con altre forze politiche non viene mai meno il loro originale modo di pensare. È capitato che qualcuno si sia a volte preoccupato, non a ragione, del possibile annacquamento dei fondamenti ideologici se costretti, in comunione con altre forze, a portare avanti proposte di mediazione. È il caso che si sta presentando negli ultimi tempi con gli obblighi imposti dal bipolarismo. Ricerca dei consensi di gruppo, ma mantenimento delle proprie posizioni.

I repubblicani forse sono in via di estinzione, ma non potrà mai scomparire quel tale modo di essere disinteressati e contemporaneamente impegnati. Li chiameranno in un altro modo, saranno assorbiti da altre correnti di pensiero, non si può sapere, ma continueranno ad esistere.

Un problema, importante, si pone: come tramandare in futuro la tradizione repubblicana? Scrivendo e non dimenticando. Potremo un giorno continuare a ripetere: “Noi l’avevamo detto”.

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tratto dal sito web
http://web.tiscali.it/sxrep/
la Sinistra Repubblicana Sarda

nuvolarossa
26-06-02, 22:08
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L'ORDINAMENTO REGIONALE
NEL PROGRAMMA DI MAZZINI
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di Giulio Bergmann

“Mazzini e Cattaneo, i perni delle due scuole repubblicane
in Italia, erano genti molto diversi: l'uno era temperato all'ar-
te, l'altro alla scienza positiva. A Mazzini l'ispirazione, l'entu-
siasmo ingeneravano impazienza e bisogno quindi di accen-
tramento di forze umane e divine, di rapidità d'azione, di a-
cuire le armi materiali mediante l'entusiasmo, lo spirito di sa-
crificio dei martiri anche con idee soprannaturali. Mentre alla
sapienza severa e profonda di Cattaneo ripugnava tutto che
non armonizzasse con l' ordinamento storico dei popoli, con le
leggi della filosofia civile. Cattaneo pure accettò ed usò splen-
didamente l'azione rapida e concentrica, quale mezzo transi-
torio, come i Romani usarono la dittatura, ma non l'ammette-
va nell'assetto stabile”.
Con queste parole Gabriele Rosa scolpiva le caratteristiche
dei due grandi repubblicani, passati nel semplicismo delle de-
finizioni popolari come l'unitario e il federalista.
Questa bella sintesi delle due diverse genialità spiega co-
me essi intendessero l'immane compito della unificazione i-
taliana con differenze di metodo ma non di meta. E come
l'addebitare all'apostolo dell'unità una avversione alle auto-
nomie locali sia una arbitraria e scorretta alterazione del suo
pensiero.
Infatti già dal 1831, nelle Istruzioni per gli affratellati della
“Giovine Italia”, il Mazzini scriveva: “Tutte le obbiezioni fatte
al sistema unitario si riducono ad obbiezioni contro un siste-
ma di concentrazione e di dispotismo amministrativo che nulla ha
di comune con l'unità. La Giovine Italia non intende che l'unità
nazionale implichi dispotismo, ma concordia e associazione
di tutti. La vita inerente alle località deve essere libera e sacra.
L'organizzazione amministrativa deve essere fatta su larghe
basi e rispettare religiosamente la libertà di Comune”.
Questo pensiero originario, posto quasi come una prima
pietra dell'edificio ideale dei decenni posteriori, trova perfet-
ta rispondenza negli scritti immediatamente successivi alla
unificazione italiana. Ne1861, dettando le note per l' edizio-
ne completa dei suoi Scritti, il Mazzini aggiungeva ad un
suo articolo del 1833 una lunga postilla, nella quale si legge:
“Il compimento della missione del dovere nazionale, spetta
non a schiavi bensì a uomini liberi. E' necessario che a ciascu-
no s'agevoli il diritto di iniziativa nelle idee che possono mi-
gliorare l'incivilimento della Nazione. Da questa necessità e-
sce la condanna del concentramento amministrativo che tor-
rebbe, costringendo, coscienza, merito e demerito dei loro at-
ti ai cittadini”.
Egli attribuiva allo Stato “quanto spetta alla potestà centra-
le»: Educazione nazionale, Nazione armata, giustizia, Riparto
del Tributo nazionale, Sicurezza pubblica, Lavori pubblici
d'interesse nazionale. E, affermate le autonome attribuzioni
del Comune per tutti i bisogni di carattere locale, egli auspica-
va che delle molte circoscrizioni esistenti “non rimanessero
che sole tre unità politico-amministrative; il Comune, unità pri-
mordiale; la Nazione, fine e missione di quante generazioni
vissero, vivono e vivranno fra i confini assegnati visibilmente
da Dio a un popolo, e la Regione, zona intermedia indispensabile
tra la Nazione e il Comune, additata dai caratteri territoriali se-
condari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole,
industriali o marittime”.
Il pensiero del Maestro si svolge armonico e compiuto. Si
riferisce ad esempi di libero governo locale tratti dalle mag-
giori democrazie; omette, è vero, nei decenni dell'azione, ac-
cenni che potessero con l' equivoco sulla parola regione sem-
brare adesione al federalismo insidioso dei sovradetti locali (si
ricordi che anche al Svizzera prima della Costituzione demo-
cratica del 1848 era solo una alleanza di piccoli Stati taluni de-
mocratici e taluni oligarchici), ma giunge dopo il 1860 alle e-
splicite conclusioni. Ne’ si arresta ad affermare la necessità del-
la Regione: afferma in modo aperto che la sua amministrazio-
ne deve essere elettiva:
“Le autorità regionali e quelle del Comune accentrati alla
Regione non ne avrebbero bisogno, i loro magistrati supremi
rappresenterebbero a un tempo la missione locale e quella
della Nazione. Ordinamento siffatto spegnerebbe, parmi, il lo-
calismo gretto, darebbe all'unità forze secondarie sufficienti
per tradurre in atto ogni progresso possibile nella loro sfera, e
sarebbe più semplice e spedito d'assai l'andamento oggi intrica-
tissimo e lento, della cosa pubblica”.
“L’intricatissimo e lento». Pensate: quasi un secolo fa. Quan-
do lo Stato aveva poche funzioni. E pochissimi dipendenti.
Quali nuovi aggettivi dovremmo trovare oggi? Per quello
che la burocrazia costa? Per quello che male spende? Per
quello che impedisce di produrre?
Il pensiero di Mazzini viene così ad avvicinarsi a quello di
Carlo Cattaneo: “Finche il Parlamento vorrà tenersi in brac-
cio le domestiche faccende dei singoli popoli, gli sarà più fa-
cile impedire che fare”. “Bisogna che le Regioni si sveglino
alla vita pubblica, che pongano mano forte ai loro interessi,
che alleggeriscano il governo centrale». Egli propugnava
l'autonomia dei consigli locali sugli interessi locali e anche
sulle relative imposte: “Ciò che importa è aver gente che vi
pensi davvero e che abbia costante interesse a pensarvi». “La
libertà non deve piovere dai santi del cielo, ma scaturire dalle
viscere dei popoli».
A queste fondamentali norme di saggezza, collaudate dal-
la libertà e dalla prosperità dei paesi anglosassoni e degli altri
retti con autonomie locali, norme collaudate, invece, a rove-
scio dalle dittature piombate sui popoli centralisti, si sono in-
spirati gli uomini della scuola repubblicana e si sono inspirati
o avvicinati anche i maggiori della parte liberale.
Basti ricordare dei repubblicani Alberto Mario.
“Nessuna camera di deputati italiani quand'anche surta
dal suffragio universale, auspice la repubblica democratica, e
tutti Soloni, detterà da Roma leggi perla Sardegna altrettante
buone di quelle che una camera di Sardi detterebbe da Ca-
gliari; e se così buone, o anche migliori, cangerebbersi in me-
no buone e disadatte perla Toscana, ecc.”. Di Arcangelo Ghi-
sIeri: l'efficace studio su “La questione meridionale» del 1906,
con la chiara motivazione delle soluzioni attraverso le autono-
mie. Di Napoleone Colajanni: “Nel Regno della Mafia», “Set-
tentrionali e meridionali» e gli innumerevoli documentati
scritti nella sua «Rivista popolare».
Dei liberali, è dovere non sottacere (monito alle tenaci
resistenze centraliste) che l'illuminato e non attuato pro-
gramma regionale di Cavour, di Farini e di Minghetti veni-
va più tardi, ma sempre invano, ripreso da studiosi politici
acuti e prudenti quali il Sonnino che, recatosi a studiare col
Franchetti le condizioni dei contadini siciliani, nella conclu-
sione del suo libro “La Sicilia nel 1876» scriveva: “La Sicilia
lasciata a se troverebbe il rimedio». E Maggiorino Ferraris
che nel suo lavoro sulla questione meridionale invocava
“un'amministrazione e una giustizia affatto indipendenti
dalla politica e dalla influenza governativa”.
L' aspirazione alla regione veniva illustrata a fondo e con
cretata in programmi legislativi dal Jacini e dal Saredo, procla-
mata dai presidenti del Consiglio De Pretis e Di Rudini e infi-
ne dal Giolitti che nel 1921 affermava alla Camera doversi
creare le Regioni con rappresentanze elettive e attribuzioni da to-
gliersi allo Stato.
Infine è d'ieri la energia difesa del nuovo ordinamento re-
gionale svolta da Luigi Einaudi nella Costituente, dove l'at-
tuale Capo dello Stato sostenne doversi dare ai Consigli co-
munali, provinciali e regionali poteri «finiti in se stessi» cioè
non dipendenti da autorizzazioni burocratiche e lontane; e in-
vocato il sorgere di una vigorosa vita locale la definì come
“impedimento al ritorno della tirannia”.
Siamo, con questo, non più nella storia, ma nella vita. La
storia si fa vita nella Costituzione. Il pensiero diventa azione.
Il consiglio di Mazzini e di tanti altri resi saggi dallo studio
e dall'esperienza è diventato precetto costituzionale. Esso co-
stituisce la più profonda delle riforme accolte dalla Costituzio-
ne. Esso potrà dar luogo alle nuove feconde libertà locali, le
sole atte a formare i cittadini e a farne il vero presidio della
Repubblicà Italiana.
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nuvolarossa
30-06-02, 10:10
Cerimonia lapide di Manara

Messaggio del Segretario del P.R.I. on. Francesco Nucara

La lapide che Anzio dedica oggi a Luciano Manara e agli uomini della Legione lombarda accorsi in difesa della Repubblica romana è un altro tassello del grande mosaico dell'identità italiana temprata nella fornace del Risorgimento.

Il Partito repubblicano, che del Risorgimento fu l'animatore in una ininterrotta testimonianza di fede e di martirio, non può non partecipare ad una manifestazione volta a sottolineare la continuità di un programma che coniugava con la rivoluzione nazionale la rivoluzione sociale, in una nuova Europa, vista da Giuseppe Mazzini, come la proiezione delle libere nazionalità fondate sul diritto dei popoli.

Fu il senso dell'allargamento della Giovine Italia nella Giovine Europa, che ebbe per simbolo l'Edera, in cui appunto si identifica il Partito repubblicano.

E' in virtù di questa continuità ideale che i repubblicani onorano, con i bersaglieri di Manara, quell'ottavo reggimento che fu anche di Randolfo Pacciardi, decorato alla Livenza di una medaglia d'argento e della Militar Cross britannica.

Un unico filo che unisce passato e presente nello sviluppo di una storia che, alle prese con i nuovi dati di una mondializzazione che non è solo dei mercati, non più smarrire, nelle cadute delle micro identità etniche, le grandi identità nazionali che fanno l'Unione europea nelle diversità delle lingue e delle culture.

Anzio 30 giugno 2002
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http://www.pri.it
tratto dal sito web del
http://www.prilombardia.it/imgs/pri.gif

nuvolarossa
01-07-02, 22:32
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UNA REPUBBLICA
CHE SUPERI I PARTITI
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di Alcide de Gasperi

E' noto che il Mazzini alla vigilia del rivolgimento politi-
co, di cui celebriamo il centenario, tendeva anche ad una
riforma religiosa e nella sua ricostruzione ideale associava
l'opera della Costituente a quella di un Concilio che abbattes-
se il Papato Romano: mirava cioè ad una riforma totale che
unificasse nella sua Repubblica i due poteri, quello temporale
e quello spirituale.
La storia in verità prese diverso cammino e la Repubblica I-
taliana, proclamata cento anni dopo, si fonda sulla libertà e di-
stinzione dei due poteri. Ma bisogna anche rilevare che il Maz-
zini stesso, entrato in Roma dopo che l' Assemblea Costituente
aveva già fissato nello Statuto fondamentale la formula del Fi-
lopanti: "il Pontefice Romano avrà tutte le guarantigie necessa-
rie perla indipendenza nell'esercizio della sua podestà spiri-
tualel” , nulla fece per opporsi a tale formula o per svuotarla.
Anzi nel suo discorso all' Assemblea del 9 marzo, evitò tutto
ciò che poteva dividere e cercò appassionatamente tutto ciò
che potesse unire, dando alla Repubblica un senso che supe-
rasse i partiti passati e presenti e quanto era formale nel regi-
me. “Per Repubblica -egli disse -noi intendiamo un principio,
intendiamo un grado di educazione conquistato dal Popolo,
un programma di educazione da svolgersi, un'istituzione atta
a produrre un miglioramento morale... il sistema che deve svi-
luppare la libertà, l'uglianza,l'associazione”.
Ed ecco la conclusione di quel discorso: I”Tollerantissimi di
quanto ha preceduto l'impianto della nostra Repubblica, di
tutto ciò che può avere appartenuto a un ordine meno inoltra-
to di idee, uniamoci tutti nell'avvenire, proviamo, al mondo e
all'Italia che noi possiamo farci in brevissimo tempo migliori".
Mi pare questo un appello che, lungo la curva di un secolo,
arriva anche alle nostre menti e ci spinge al lavoro concorde
per lo sviluppo politico, morale e sociale della nostra democra-
zia, costituita a Repubblica.
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nuvolarossa
07-07-02, 11:11
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Machiavelli nel pensiero politico olandese del XVII secolo
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La ricezione del pensiero politico di Machiavelli ha seguito, nelle diverse epoche storiche e nei diversi contesti geografici, percorsi diversi; si può così parlare di un filone di lettura francese e di uno inglese, il primo mirante a rintracciare in Machiavelli il grande teorico della ragion di Stato, e quindi di una concezione laica, se non irreligiosa, della politica; il secondo, invece, pronto a raccoglierne il fervente repubblicanesimo e a trasportarlo nella riflessione politica che dà l'avvio alla tradizione repubblicana anglosassone. Meno studiata è invece la presenza di Machiavelli nella tradizione teorico-politica olandese tardo-cinquecentesca e seicentesca; presenza il cui studio potrebbe consentire di gettare una nuova luce sull'anomalia istituzionale che la Repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi rappresenta nell'Europa del XVII secolo; e, magari, di trovare nuovi punti di raccordo tra il repubblicanesimo rinascimentale e la concezione moderna dello Stato.
Il percorso ricostruttivo deve iniziare da Justus Lipsius, il primo autore in terra olandese a riconoscere apertamente il valore dell'analisi politica machiavelliana, proseguendo attraverso i numerosi pamphlet che esaltano il principio repubblicano dell'autogoverno, cui si contrappongono gli scritti antimachiavellici del calvinismo accademico; per giungere infine, nella seconda metà del '600, a quel piccolo nucleo di scrittori repubblicani (primo tra tutti Spinoza) nei quali il riferimento anche esplicito all'opera del segretario fiorentino gioca un ruolo di forte accentuazione della declinazione della libertà del cittadino come esigenza di partecipazione al processo decisionale; un'esigenza che però non si colloca all'interno di un quadro concettuale premoderno, secondo il quale l'individuo troverebbe la sua dimensione politica nell'appartenenza ad organizzazioni che mediano il suo rapporto con il potere centrale, bensì è compiutamente dentro l'orizzonte di una sovranità assoluta ed illlimitata, e tuttavia mai pienamente e definitivamente incorporata in una costituzione formale.
Una simile indagine potrebbe così offrire la possibilità di rinnovare l'attenzione per un tema quale la permanenza della tradizione repubblicana rinascimentale ancora dentro i confini della genesi della Stato moderno, ma in un orizzonte non assimilabile a quello del ben noto 'momento atlantico' machiavelliano.
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nuvolarossa
25-07-02, 20:50
Traduzione italiana della quarta delle Quaestiones, pubblicate a Parigi nel 1637. In questo trattatello Campanella difende la comunità dei beni e delle donne.
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QUESTIONI SULL'OTTIMA REPUBBLICA

ARTICOLO PRIMO

Se a ragione e utilmente si sia aggiunta alla dottrina politica il dialogo della Città del Sole.

Più difficoltà militano contro la ragionevolezza e l'utilità di una tal repubblica.

1. Di ciò che non esistette mai, né esisterà né si spera che esista, è inutile e vano l'occuparsene; ma un simile modo di vivere in comune affatto esente di delitti è impossibile, né mai si è veduto, né si vedrà, dunque inutilmente ci siamo di esso occupati. Argomento che Luciano usava contro la repubblica di Platone.

2. Questa repubblica non può sussistere che in una sola città, non in un regno, poiché non si possono trovare luoghi affatto simili, adunque o sarà corrotta dai popoli soggetti, dal commercio, o dalle sedizioni che nasceranno contro una maniera di vivere sì austera.

3. Questa repubblica vien immaginata ottima e che duri per sempre; ella prima non potrà durare per sempre perché necessariamente essa dovrà corrompersi alla fine, o essere invasa dalla peste pel lungo domicilio non essendo purificata dal vento, dalla guerra, dalla fame, dalle bestie feroci, se mai potrà sfuggire alla tirannia interna, o infine dal troppo numero dei cittadini, come diceva Platone della sua repubblica. Secondo, non potrà essere ottima poiché necessariamente vi saranno dei delitti come dice l'apostolo: si discessimus quia peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, e parimenti Aristotile prova che la comunanza dei beni utili e delle mogli fa viziosa una repubblica contro Platone, e quando ci sembra aver sfuggito un male ne incontriamo una moltitudine.

4. Quel modo di vivere è più secondo natura che è provato dall'uso di tutte le nazioni; ma il nostro è rigettato da tutte, dunque inutilmente e leggermente ne abbiam tenuto discorso.

5. Nessuno vorrebbe vivere sotto leggi ed osservanze così severe e sotto tutela dei pedagoghi e questa repubblica sarebbe rovesciata dagli stessi cittadini, come addivenne a molti ordini religiosi viventi in comunità.

6. È naturale agli uomini lo studiare le opere di Dio, il viaggiare pel mondo, cercare dovunque le scienze, far esperienza di tutto; ma gli abitanti di una tal repubblica sarebbero come i monaci che non studiano che sui libri, e quando intendono qualche cosa che in essi non si trova si scandalizzano e si conturbano; come ora appena credono alle osservazioni di Galileo, e anteriormente che Colombo avesse trovato un nuovo emisfero, perché S. Agostino lo nega.
Ma, rispondendo prima in generale, in nostro favore sta l'esempio di Tommaso Moro, martire recente, che scrisse la sua repubblica Utopia imaginaria, sul cui esempio noi abbiamo trovate le istituzioni della nostra; e Platone parimente presentò un'idea della repubblica, che sebbene, come dicono i teologi, nella natura corrotta non può essere in tutte le parti posta in pratica, pure nello stato d'innocenza avrebbe ottimamente potuto sussistere, e Cristo appunto ci richiama allo stato d'innocenza. Aristotile istituì nello stesso modo la sua repubblica e molti altri filosofi. I principi parimente promulgano leggi che credono esser ottime; non perché s'imaginino che nessuno le trasgredirà, ma perché pensano che faranno felice chi le osserva. E S. Tommaso insegna che i religiosi non sono tenuti sotto pena di peccato ad osservare quanto vien prescritto nella regola, ma solo le cose più essenziali, quantunque sarebbero più felici osservandole tutte: devono vivere secondo la regola cioè adattare per quanto possono comodamente la loro vita alla regola. Mosè promulgò leggi date da Dio e istituì un'ottima repubblica, e finché gli Ebrei vissero a norma della medesima fiorirono; quando poi non ne osservarono le leggi decaddero. Così i retori stabiliscono le ottime regole di un buon discorso privo di ogni difetto. Così i filosofi imaginano un poema senza pecca, e tuttavia alcun poeta non sfugge ogni pecca. Così i teologi descrivono la vita dei santi, e nessuno o pochi di loro la imita. Qual nazione poi o qual individuo poté imitare la vita di Cristo senza peccato? Furono per questo scritti inutilmente gli Evangeli? non mai: ma perché facciamo ogni sforzo per accostarci il più che possiamo ai medesimi. Cristo stabilì una repubblica eccellentissima, priva d'ogni peccato che gli apostoli appena osservarono intieramente, poi dal popolo passò al clero, e finalmente ai soli monaci; e in questi ora persevera in alcuni, negli altri poi vedi ben pochi istituti conservarsi in armonia colla medesima. Noi poi presentiamo la nostra repubblica non come data da Dio ma come un trovato filosofico e della ragione umana per dimostrare che la verità del Vangelo è conforme alla natura. Che se in alcune cose ci scostiamo dal Vangelo, o sembriamo scostarci, ciò non si deve ascrivere ad empietà, ma alla debolezza umana che priva di rivelazione pensa molte cose essere giuste, che al lume della medesima non sono tali, come diremo della comunità dei matrimoni; e per questo abbiamo supposta la nostra repubblica nel gentilesimo che aspetta la rivelazione di una vita migliore, e vivendo secondo i dettami della ragione merita di averla. Quindi sono come catecumeni della vita cristiana; perciò dice Cirillo contro Giuliano: che ai gentili fu data la filosofia come catechismo per la fede cristiana. Noi poi ammaestriamo i gentili perché vivano rettamente se non vogliono essere abbandonati da Dio, e persuadiamo i cristiani che la vita di Cristo è conforme alla natura prendendo da questa repubblica l'esempio, come S. Clemente romano dalla repubblica socratica, e come fecero e il Grisostomo e S. Ambrogio.
Egli è poi chiaro come con questa maniera di vivere vengano tolti tutti i vizi, poiché né i magistrati hanno ragioni di ambire i posti, e tutti gli ab si che nascono, sia dalla successione, sia dall'elezione, sia dalla sorte, stabilendo noi una specie di repubblica come quella delle grue e delle api celebrate da S. Ambrogio; così pure vengono tolte le sedizioni dei sudditi, che nascono sia dall'insolenza dei magistrati, sia dalla licenza di questi, o dalla povertà, o dalla troppa abbiezione ed oppressione.
Così tutti i mali che nascono dai due opposti, dalle ricchezze e dalla povertà, e che Platone e Salomone considerano come l'origine dei mali della repubblica: cioè l'avarizia, l'adulazione, la frode, i furti, la sordidezza dalla povertà: la rapina, l'arroganza, la superbia, l'ostentazione, l'oziosità, ecc., dalle ricchezze.
Così si distruggono i vizi che nascono dall'abuso dell'amore, come gli adulteri, la fornicazione, la sodomia, gli aborti, la gelosia, le discordie domestiche, ecc.
Così i mali che procedono dal troppo amore dei figli o delle consorti; e la proprietà che tronca, come dice Sant'Agostino, le forze della carità, e l'amor proprio cagione di tutti i mali, come dice Santa Caterina in un dialogo; da qui l'avarizia, l'usura, l'illiberalità, l'odio del prossimo, l'invidia verso i ricchi e i grandi: noi accresciamo l'amore della comunità e togliamo gli odj che nascono dall'avarizia, radice di ogni male, così le liti, le frodi, le false testimonianze, ecc.
Così tutti i mali del corpo e dell'anima che nascono o dal troppo lavoro nel povero, o dall'ozio nei ricchi, mentre da noi si scompartono le fatiche ugualmente.
Così i mali che vengono dall'ozio nelle donne, e che corrompono la generazione e la salute del corpo e dello spirito, mentre noi le occupiamo di esercizi e delle virtù ad esse confacenti.
Così i mali che nascono dall'ignoranza e dalla stoltezza, mentre nella nostra repubblica si vede tanta esperienza di dottrina in ogni cosa, e nella stessa fabbrica della città, ove con imagini e pitture a chi solo vi riguardi si insegnano tutte le scienze quasi in un modo storico.
Così vien provveduto meravigliosamente contro la corruzione delle leggi.
Finalmente siccome abbiamo sfuggito in ogni cosa gli estremi e ridotto tutte le cose a giusto mezzo, in cui sta la virtù, non può imaginarsi una repubblica più felice e più facile. E finalmente tutti i difetti che si sono notati nelle repubbliche di Minosse, di Licur , di Solone, di Caronda, di Romolo, di Platone, di Aristotile e di altri autori, nella nostra repubblica, a chi ben vi guarda, non vi si trovano, e felicemente si è provveduto a tutto, poiché essa è dedotta dalla dottrina delle primalità metafisiche, colle quali nulla vien negletto od ommesso.

Ora alla prima difficoltà si è risposto che se non si può raggiungere esattamente l'idea di una tal repubblica, non per questo si è scritto inutilmente, mentre si propone un esemplare da imitarsi per quanto si può. Ma che essa sia pur possibile lo mostra e la vita dei primi cristiani in cui la comunanza fu stabilita sotto gli apostoli secondo testifica S. Luca e S. Clemente. E in Alessandria si è osservato l'istesso modo di vivere sotto S. Marco, come testifican Filone e S. Girolamo. Tale fu la vita del clero fino ad Urbano 1 ed anche sotto S. Agostino; e tale ora è la vita dei monaci che S. Grisostomo desidera, come possibile, introdotta in tutta la città di Costantinopoli, e che io spero doversi in futuro realizzare doo la ruina dell'Anticristo, come ne' miei profetali. Chi poi aristotelizzando la nega, è però costretto ad ammetterla possibile nello stato di innoc enza, sebbene non di presente. Ma i padri la suppongono praticabile anche ora, poiché Cristo ci ha ridotti a quel primo stato. E mentre Luciano, gentile e ateista, deride Platone per aver imaginato una repubblica impossibile, S. Clemente,. Ambroo e Grisostomo lo lodano, e esti per dottrina e per santità sono bene da anteporsi a mille Luciani.

Alla seconda obbiezione. Noi abbiamo per questo attribuito un tal modo di vivere solo alla capitale. 1 villaggi poi imiteranno un tal modo o in parte, o nel tutto, quando più di essi si uniranno a formare una provincia. Luoghi adatti poi si troveranno facilmente, e dove manchino varieremo la forma, in modo che nel più alto del monte sia il capo della città, nelle appendici semicircolari poi le abitazioni, e al piano il nostro modello sarà pur buono, se non vi si oppone il fango, che si può schivare selciando le vie e scavando acquedotti. Perché poi gli abitanti non siano corrotti dal commercio si è provveduto nel testo coi magistrati a ciò deputati, ed a fuggire le sedizioni esterne valgono le rocche ben munite della metropoli e le milizie che percorrono di continuo per la difesa dell'impero, e più la probità della città dominante, il servire alla quale è una felicità come per gli ignoranti è bene servire al sapiente e al probo e più coll'opinione di probità che colla forza Roma accrebbe l'impero, e sotto Pompilio stimarono nefando usare dei mezzi contrari alla virtù contra i nemici.

Alla terza obbiezione. Essa durerà fino ad uno dei periodi generali delle cose umane che dan origine ad un nuovo secolo. Poiché quanto alla peste, alle fiere, alla fame, alla guerra, abbiamo provveduto ottimamente per quanto si può colla virtù o almeno assai meglio di quel che si soglia fare altrove, poiché i venti per le quattro vie maggiori purgano la città, e dove sono impediti dalle case suppliscono le finestre, poste in modo da chiudersi alle cattive esalazioni e da aprirsi alle salubri. Quanto al numero degli abitanti vedi la metafisica. Dico questa essere una via ottima e di cui si deve più aver cura che della durata. Certo vi saranno dei peccati, ma non gravi, come negli altri Stati o almeno non tali che ruinino la repubblica come risulta dagli ordini stabiliti. Ciò poi che Aristotile obbietta ad una tale repubblica verrà sciolto nei susseguenti articoli.

Alla quarta obbiezione. Dico che tal repubblica, come il secolo d'oro, vien da tutti desiderata e chiesta da Dio quando si domanda che la sua volontà sia fatta così in cielo come in terra. Non vien però praticata per la malizia dei principi, che a sé non all'impero della somma ragione sottomettono i popoli. Dall'uso poi e dall'esperienza è provato essere possibile quanto abbiam detto; come è più secondo natura il vivere conforme alla ragione che all'affetto sensuale, e virtuosamente di quel che viziosamente, secondo Grisostomo. E i monaci sono di ciò una prova, e ora gli anabatisti, che vivono in comune, che se ritenessero i veri dogmi della fede, più profitterebbero in questo modo di vita; e volesse il cielo che non fossero eretici, e praticassero la giustizia come noi professiamo: che sarebbero un esempio della sua verità; ma non so per qual stoltezza rifiutano il migliore.

Alla quinta obbiezione. Ella è anzi una somma felicità il vivere virtuosamente, come dice Grisostomo, e dove commettendo errore sei tosto corretto, avanti che sopporti gli effetti dell'errore. La licenza è causa dei mali, ed è felice quella necessità che ci sforza al bene. Ma, a noi avvezzi al male, sembra duro questo genere di vita, come ai giuocatori e ai discoli la vita dei buoni cittadini: e a questi la vita dei monaci. Ma provate, e vedrete i religiosi non mai per la severità della disciplina si rivoltano, ma se avviene è pel commercio dei laici, per l'ambizione degli onori e l'amore della proprietà o per libidine, ma nella nostra repubblica si è provveduto e sfuggito tutte queste cagioni. Dunque non prova l'esempio di quelli.

Alla sesta obbiezione. Noi anzi cerchiamo di far tesoro per la nostra repubblica delle osservazioni dell'esperienza, della scienza di tutta la terra, e a questo fine abbiamo stabilito peregrinazioni, comunicazioni di commercio e ambasciate. Né i monaci si privano di questi beni mutando spesso città e provincia, né l'ignoranza dell'esperienza si dà a vedere nei migliori monaci, ma solo nei volgari. Le loro querele poi giovano perché meglio si discutono le cose, e si rischiarano, e alla fine si acquietano pure tutti i virtuosi. E tu non troverai che in alcun luogo più si sia fatto per la dottrina e la conservazione delle scienze che negli ordini dei monaci e dei frati. E i monaci antropomorfiti, insorti contra Origene ad istigazione del maligno Teofilo patriarca, non ottennero nulla dopo un esatto esame. Ma è chiaro che tali sedizioni non avverranno nella città del Sole. Il monachismo è stato ritrovato per l'aumento della santità e della scienza, non per rendere pesante la sudditanza, come pretendono gli ipocriti.

nuvolarossa
25-07-02, 20:52
ARTICOLO SECONDO

Se sia più conforme alla natura, e più utile alla conservazione e all'aumento della repubblica e dei particolari, la comunanza dei beni esterni come sostengono Socrate e Platone, oppure la divisione difesa da Aristotile.

Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Aristotile nel 2° libro della Politica argomenta in questo modo: o in questa comunanza, dice, i campi sarebbero propri e i frutti comuni o viceversa, o sì gli uni che gli altri comuni. Nel primo caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare per coltivarlo, e avere egual parte di frutti con quelli che non lavorano, e da qui nascerebbero discordia e ruina. Nel secondo caso nessuno sarebbe stimolato al lavoro, e i campi sarebbero mal coltivati, poiché ognuno pensa più a sé che alle cose comuni, e dove v'è una moltitudine di servi il servizio è peggiore, mentre ognuno rimette sull ' 'altro il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe lo stesso e inoltre un nuovo male, poiché ognuno vorrebbe avere la migliore e la più gran parte nei frutti, e la minore nelle fatiche, e quindi invece dell'amicizia, non vi sarebbe che discordia e frode.

Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili si obbietta essere necessarie più classi di persone pel buon governo della repubblica, come soldati, artefici e governatori, secondo Socrate: che se tutte le cose fossero comuni, ognuno rifiuterebbe le fatiche dell'agricoltore, e vorrebbe esser soldato e in tempo di guerra vorrebbe essere agricoltore, e non combatterebbe senza stipendio; o meglio ancora tutti vorrebbero essere rettori, giudici o sacerdoti. Così onorando alcuni, si aggraverebbero gli altri, aggravando i primi di minor lavoro, e quindi vi sarebbe ancora dell'ingiustizia, come per lo innanzi; è dunque meglio dividere i beni.

Terza obbiezione. La comunanza distrugge la liberalità e la facoltà di esercitare l'ospitalità, di soccorrere i poveri, poiché chi nulla possiede del suo non può fare alcuna di queste cose.

Quarta obbiezione. L un'eresia il negare la giustizia della divisione dei beni, come sostiene S. Agostino contro quelli che aveano in comune le donne e i beni e dicevano di vivere in tal modo alla maniera degli apostoli. E Soto nel lib. de Just. et Jure, dice che il concilio di Costanza condanna Giovanni Uss che nega potersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo disse: reddite quae Caesaris Caesari.

In contrario rispondiamo prima in generale colle parole di S. Clemente papa nell'epist. 4, e che sono riferite da Graziano nel can. 2, quest. I. - Carissimi, l'uso di tutte le cose che sono in questo mondo dovea essere comune, ma per iniquità, l'uno disse essere sua questa cosa, l'altro quell'altra, ecc., e dice che gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto fosse in comune, anche le donne. E così insegnano tutti i Padri commentando il principio della Genesi, poiché Dio non distribuì nulla e lasciò tutto in comune agli uomini perché crescessero, moltiplicassero e riempissero la terra. Così insegna Isidoro nel capo del jus naturale; e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti i cristiani primitivi si vede da S. Luca, S. Clemente, Tertulliano, Grisostomo, Agostino, Ambrogio, Filone, Origene ed altri; questa vita fu poi ristretta ai soli chierici che viveano in comune come testificano gli stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e altri. Ma sotto il papa Simplicio, circa l'anno 470, fu fatta dal medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo che una parte toccasse al vescovo, l'altra alla fabbrica, l'altra al clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa poco dopo e S. Agostino non volevano ordinar chierici se non ponevano tutto in comune. Ma in seguito per non fare degli ipocriti che celavano il proprio' lo si permise, ma non volentieri. Perciò è un'eresia il condannare la vita comune, o il dirla contro natura. Anzi S. Agostino pensa che il togliere la proprietà è cagione di maggior splendore. Quindi sì per la presente che per la futura vita è migliore la comunanza dei beni. E S. Grisostomo insegna che questo genere di vita passò nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la predica a tutti, e insegna nell'omelia al popolo di Antiochia che nessuno è padrone de' suoi beni ma solamente è dispensatore, come il vescovo di quelli della Chiesa, e quindi ogni laico il quale abusa de' suoi beni e non ne comunica agli altri, esser colpevole. S. Tommaso dice che siamo padroni della proprietà, non dell'uso, poi nell'estremo bisogno tutte le cose sono comuni. Perciò, se bene rifletti, una tale proprietà è piuttosto un peso per l'obbligazione di render conto della mala distribuzione, e ciò vien affermato da S. Basilio nel sermone ai ricchi, e da S. Ambrogio nel sermone 81, e S. Grisostomo lo inculca in quasi tutte le sue omelie e particolarmente sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano queste parole: nemo dicat proprio a Deo percipimus omnia: mendacii verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate nella Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Agostino nel trattato 8° sopra Giovanni e il poeta Cristiano:

Si duo de notris tollas pronomina rebus,
Praelia cessarent, pax sine lite foret.
E Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol d'oro. E Ambrogio sopra il salmo 118 alla lettera L, dice: Dominus noster terram hanc possessionem omnium hominum voluit esse communem: sed avaritia possessionum jura distribuit: e nel libro de Virg. dice che la violenza, la strage e la guerra distribuirono le cose agli ebrei carnali, non però ai leviti, che figuravano il cristianesimo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò fu per l'iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel lib. I degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e coll'autorità degli storici tutte le cose essere comuni, ma per usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam. V, insegna coll'esempio della repubblica civile delle api la vita in comune, tanto dei beni che della generazione, e coll'esempio delle grue sviluppa la vita comune in una repubblica militare. E Gesù Cristo coll'esempio degli uccelli che non hanno nulla di proprio, che non seminano né mietono, né dividono la pastura; eppure, come dice il giurisperito: jus naturale est id quod natura omnia animalia docuit. Per cui egli è certissimo essere per diritto naturale tutte le cose comuni.
Scoto nel 4 delle sentenze 15, risponde che la comunanza è di diritto naturale nello stato di natura, ma Adamo avendo peccato fu derogato a tal diritto. Ma vana è questa risposta poiché, come dice S. Tommaso, il peccato non distrugge i beni di natura, ma solo quelli di grazia. Esso offese la natura e la ragione, ma non introdusse un nuovo diritto; quindi se la comunanza fu di diritto, la sola ingiustizia poté introdurre la divisione. Perciò anche la glossa sul testo di S. Clemente dice che essa fu introdotta: per iniquitatem, idest per jus gentium contrarium juri naturali.

Ma come vi può essere diritto se è contrario alla natura, che è l'arte divina? Così il diritto sarebbe un peccato. Scoto risponde che ciò avviene per l'iniquità, cioè pel peccato originale, ma questo commento è vano, poiché come spiegherà le parole di S. Ambrogio, che dice la divisione introdotta dall'avarizia e dalla violenza? Di più S. Clemente dice che gli Apostoli ci hanno rimessi nello stato dijus naturale; adunque questa che fu iniquità lo è pur ora. Gaetano insegna che fu una comunanza naturale « negativa », cioè che la natura non insegnò la divisione: ma non « affermativa », come se avesse detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi aderisce come al solito, ma aggiunge, come mai allora la divisione verrebbe dall'iniquità e dall'avarizia, come insegnano i santi, se la comunanza nello stato di natura non fu che negativa? Quindi con più ragione S. Tommaso insegna l'uso comune essere di diritto naturale, la distribuzione poi e l'acquisto della proprietà essere di diritto positivo. E questa divisione non può essere contraria alla natura, poiché questa proprietà è nel caso di necessità, e in tutto ciò che succede, il necessario divien comunità, come insegna parlando dell'elemosine; poiché tutto ciò che eccede i bisogni della persona e della natura, si deve donare, altrimenti non sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che non sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina di S. Tommaso sembri giustificare in qualche parte la divisione, non le accorda però che il diritto di distribuire e di sollevare, e resta, giusta la dottrina di S. Grisostomo, Basilio, Ambrogio e Leone papa (ser. V, de Collectis), che i ricchi sono dispensatori non padroni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono che di distribuire e di donare, come i vescovi della parte della Chiesa; la parte poi di cui sono padroni si limita al puro vitto e vestito. E questa parte la hanno pure i monaci, come loro la attribuisce e prova Giovanni papa XXII nelle Extrav. Poiché di diritto e non ingiustamente mangia il monaco e l'apostolo, quindi ha l'uso di diritto, non di solo fatto, giacché questo ultimo diritto lo ha il ladro quando mangia le cose altrui. Scoto pensa che questo papa errasse, ed abbia deciso ciò per odio contro i Francescani, poiché Clemente V e Nicola III, pontefici, accordano ai Francescani soltanto l'uso di fatto, non di diritto, come un invitato a cena mangia solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s'inganna, e ingiustamente condanna un papa, poiché quei pontefici da lui citati non distruggono il diritto di gius naturale, ma solo il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa che nelle cose che si distruggono coll'uso non si può distinguere l'uso dal dominio, come si vede nel trattato dell'usufrutto delle cose che si consumano coll'uso (lib. 2). Perciò questi pontefici non si contraddicono tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma è bensì eretico chi nega l'uso di diritto agli Apostoli e a Cristo; poiché allora non avrebbero mangiato di diritto, ma ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il diritto di fatto ma nella necessità ha anche il diritto naturale. Da tutto questo risulta la solidità della dottrina dei Santi, contro gli sciocchi che mettono la bocca in cielo. L'invitato mangia di diritto, e il suo titolo è la donazione, non minore del titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, e a chi? ai poveri o alla repubblica? direi alla repubblica e ai poveri, ma perché non vi è luogo a disputa poiché questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a Dio, a cui dovranno render ragione nel giorno finale, come insegnano S. Basilio, Ambrogio e Leone.
Adunque colla nostra repubblica vengono tranquillizzate le coscienze, tolta l'avarizia, radice di ogni male, e le frodi commesse nei contratti, e i furti e le rapine e la mollezza e l'oppressione dei poveri, e l'ignoranza che invade anche gli ingegni meglio disposti, perché rifuggono dalla fatica mentre pretendono filosofare, e le inutili cure, e le fatiche, e il danaro che mantiene i mercadanti, e la illiberalità, e la superbia, e gli altri mali prodotti dalla divisione' e l'amor proprio, e le inimicizie, e le invidie, e le insidie, come si è mostrato. Distribuendosi gli onori secondo le attitudini naturali si tolgono i mali che nascono dalla successione, dall'elezione e dall'ambizione, come insegna S. Ambrogio parlando della repubblica delle api, e così seguiamo la natura che è l'ottima maestra, come nelle api. E l'elezione di cui noi facciamo uso non è licenziosa, ma naturale, eleggendo quelli che si distinguono per le virtù naturali e morali.

Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, diciamo che Aristotile commette errore spontaneamente e di mala fede, poiché anche per Platone e i fondi e i frutti e le «fatiche» sono comuni; e nella nostra repubblica vengono distribuite dai magistrati dell'arti le fatiche secondo la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle arti con tutta la moltitudine, come si vide nel testo; né da alcuno può usurparsi nulla, nutrendosi tutti a tavola comune e ricevendo le vesti dal magistrato del vestiario, secondo la qualità e le stagioni, e conformi alla salute; e ciò pure si vede fare dai monaci e dagli apostoli. Quindi Aristotile ciarla inutilmente. Non hai che da esaminare nel testo il modo della distribuzione dei vestiti secondo le stagioni, le fatiche e le arti e la esecuzione, ecc., né alcuno può far difficoltà, poiché tutte le cose sono fatte con ragione, anzi ognuno ama di fare ciò che è conforme alla sua disposizione naturale, ciò che appunto praticasi nella nostra repubblica.

Alla seconda obbiezione si risponde, che ciascuno vien applicato dai Magistrati fin dall'infanzia, secondo le disposizioni naturali, alle varie arti, e chiunque per esperienza e per dottrina riesce ottimo, si prepone all'arte per cui è idoneo. Sommi magistrati poi non possono divenire se non gli eccellenti, secondo l'ordine notato nel testo. Quindi né il soldato vorrebbe divenir capitano, né l'agricoltore sacerdote, dandosi gli incarichi secondo l'esperienza e la dottrina, non per favore e per parentele: ma adeguati alle cognizioni. E ciascuno riceve l'ufficio nel ramo in cui si distingue. Né i primi magistrati possono onorare gli uni e reprimere gli altri, non governando arbitrariamente, ma seguendo la natura, applicano ciascuno all'ufficio conveniente. E non possedendo nulla in proprio per cui possano violare il diritto altrui per ingrandire i figliuoli, conviene loro agir bene per essere onorati, e considerando tutti come fratelli e figli e parenti si mantiene un egual amore per tutti senza alcuna distinzione. Nessuno combatte per paga, ma per sé, pei figli e pei fratelli, né alcuno ha bisogno di stipendio, avendo ognuno da vivere bene, ma dell'onore che le azioni valorose ottengono dai fratelli. 1 Romani fino alla guerra di Terracina combatterono senza stipendio e gareggiavano a morir per la patria; ma quando invase l'amore della proprietà, mancò a poco a poco la virtù. E Sallustio e S. Agostino insegnano che essi giunsero a tanto impero per l'amore della comunità, e Catone in Sallustio dice: pubblicae opes et privata paupertas, foris justum imperium, intus indicendo animus liber, neque formidini neque cupiditati obnoxius, rem Romanam auxere. Nella nostra repubblica poi queste cose assai migliori si conservano per la comunanza dei beni utili e onesti sotto la guida della natura.

Alla terza obbiezione. Inconsideratamente parla Aristotile, e anche Scoto, per non dire ampiamente. Forse che i monaci e gli apostoli non sono liberali perché non posseggono in proprio? La liberalità non consiste nel dare quello che hai usurpato, ma nel porre tutto in comune, come afferma S. Tommaso. Nel testo poi vedrai come dalla repubblica si onorino gli ospiti, e come si sovvenga ai miseri per natura, poiché presso di noi non vi ha alcun misero per fortuna, essendo tutte le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i mutui uffici con cui si mostra la liberalità: e se ne insti dirò: che essi hanno mutata la liberalità in beneficenza che è alla prima superiore.

Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica fede, come al solito, poiché lo stesso Agostino al cap. 4 de haeres; e S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna essere eretici quelli che dicono non potersi salvare coloro che possedono in proprio qualche cosa, e parimente quelli che sostengono doversi usare il vago concubito delle donne, ma non perché predicano la comunità, ché anzi è maggior eresia il negar la comunità, che gli apostoli e i monaci osservano, di quel che la divisione. Concediamo poi che la Chiesa poté accordare la divisione piuttosto tollerantemente che positivamente e direttamente. Ma, come dice S. Agostino, che pur vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti, cioè piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza con cui son trattate le cose comuni, e la cupidigia del proprio interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la divisione non può esser buona cosa, ma solo permessa, non voluta dalla natura. Ora come ardisce poi egli chiamar eretici quelli che seguitano la natura, e lodare quelli che predicano con Aristotile la permissione introdotta dalla corruttela? Diciamo che la Chiesa può accordare la divisione e permetterla, come tolleransi le meretrici per minor male, come i zoppi piuttosto che i morti, al dire di Agostino. Il modo poi con cui vien dalla Chiesa accordata la proprietà si è spiegato che non è se non una procura, non l'uso del superfluo, e Alessandro, Alonzo e Tommaso Valden e Ricardo e il Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chierici essere veri padroni dei beni della Chiesa, e non accordano ai medesimi che l'uso. S. Tommaso non dà loro il dominio che della piccola porzione che consumano poiché non sono che usufruttuari dei fondi, né possono lasciargli ai figli o agli amici. Cosa poi sia dei laici si è detto superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chiamar eretico quello che non possono convincere colle ragioni. La parola di Cristo: Reddite quae sunt Casaris Casari, non rende padrone il medesimo se non di dispensare, o di nulla, poiché nulla appartiene a Cesare. Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose adunque sono di Dio e a Cesare solo come amministratore. Vedi nella Monarchia del Messia ove si è scritto di ciò. Lo stesso Cristo dice: reges gentium dominantur eorum, vos autem non sic, sed qui maior est fiat minister. Perciò giustamente predica S. Tommaso la proprietà di amministrazione e procura la comunità dell'uso. E il papa è il servo dei servi di Dio, e l'imperatore il servo della Chiesa.

nuvolarossa
25-07-02, 20:54
ARTICOLO TERZO

Se la comunanza delle donne sia più conforme alla natura e più utile alla generazione e quindi a tutta la repubblica, oppure la proprietà delle mogli e dei figli.


Ad Aristotile sembra più conveniente la proprietà e nociva la comunanza a cui oppone:

Prima obbiezione. Socrate pensa che l'amore si accrescerebbe tra i cittadini da ciò che ognuno considererebbe i vecchi come suoi genitori, e questi i giovani come figli, e gli eguali come fratelli, ma ciò distruggerebbe anzi ogni amore. Poiché o si prende quel « tutti » collettivamente ed è vero che tutti i vecchi sono padri di tutti i giovani, ma allora l'amore di ciascun vecchio in particolare sarebbe ben piccolo verso quelli, come una goccia di miele in molta acqua, e tosto si estinguerebbe, perché nessuno conoscerebbe i propri figli, né questi il loro padre. in vero se si riunisce il diviso in modo che ciascuno si consideri padre di ciascuno, ciò accrescerebbe l'amore, ma è impossibile che alcuno abbia più di una madre e un padre; di più ognuno conoscerebbe i propri figli dalla fisonomia e quindi avrebbe più affetto per questi.

Seconda obbiezione. Nascerebbero discordie tra le donne e spesso tra i padri e i figli incerti.

Terza obbiezione. Nel vago concubito non si conosce la prole ed è pur naturale all'uomo il voler conoscere la propria discendenza in cui si perpetua.

Quarta obbiezione. Nascerebbero adulterii, fornicazione ed incesti, colle sorelle, le madri e le figlie, e le gelosie per le donne, e le contese per quelle che vorrebbero abbracciare.

Quinta obbiezione. Scoto obbietta le parole: erunt duo in carne una; adunque non si possono avere più mogli senza una dispensa divina.

Sesta obbiezione. Fu l'eresia dei Nicolaiti il mettere le mogli in comune.

Rispondiamo prima in generale coll'autorità di S. Clemente nel citato canone: conjuges secundum Apostolorum doctrinam comunes esse debere. Ma siccome questo sarebbe contro l'onestà cristiana si deve ammettere la glossa a questo passo apposta: comunes quo ad obsequium non quo ad thorum. E a dir vero, come testifica Tertulliano, così vissero i primi cristiani, che tutto aveano in comune tranne le donne pel talamo, poiché è palese che le donne servivano tutti. Ma i Nicolaiti introdussero la comunità nel talamo, ed io pure condanno questa eresia, ma sostengo la comunanza nelle funzioni, non però nel governo politico; poiché la donna non può essere magistrato né insegnare agli uomini, ma solo tra le donne e nel ministero della generazione. Alle stesse poi son commesse le arti che si eseguiscono con poca fatica o anche la guerra nella difesa delle mura. E noi leggiamo che le donne spartane difesero la patria nell'assenza dei mariti, e le femmine tra gli animali si battono come i maschi, e le amazzoni un tempo nell'Asia ed ora nell'Africa fanno la guerra. Ma Gaetano nel libro de Pulchro, dice che ciò non è conforme alla natura, e perciò esse doveano tagliare la destra mammella per poter maneggiare la lancia. Ma io dirò forse con maggior fondamento con Galeno, che lo facevano perché la forza che serviva a nutrire la destra mammella passasse a rinforzare il braccio destro. Né la destra mammella impedisce punto di maneggiare la lancia, ma solo di appoggiarla al petto. Inoltre vi sono più maniere di combattere che convengono alle donne come si vede negli Africani. Aristotile poi non poté rifiutare questo argomento delle amazzoni. E noi pure non le mischiamo a tutte le faccende di guerra ma solo alla difesa delle mura, ai pronti soccorsi, e non vogliamo di esse formare una repubblica di Amazzoni, e solo le rinforziamo perché servano alla difesa e alla prole. Aristotile rigetta l'argomento delle femmine che combattono tra le fiere, perché queste non hanno cura delle cose famigliari come le nostre che sole vi sono destinate dalla natura, ma s'inganna, poiché le fiere hanno cura dei loro piccoli, e procurano ad essi cibo e difesa, e viceversa molti uomini si occupano delle cose famigliari, come particolarmente i monaci; adunque non è contro natura come egli insegna.
Diremo di più che la comunanza delle donne pel concubito non è contro il naturale diritto particolarmente come fu stabilita da noi, che anzi vi è grandemente conforme: quindi non è eresia l'insegnarla in uno stato diretto dai puri lumi naturali, ma bensì dopo conosciuto il jus divino ed ecclesiastico positivo: come non è eresia il mangiare carni tutti i giorni e l'insegnare nello stato naturale che ciò è utile, ma dopo la promulgazione della legge ecclesiastica sulla proibizione dei cibi in certi giorni per l'astinenza cristiana, è un'eresia il farne uso e l'insegnare ciò esser lecito. Si prova inoltre; ogni peccato contro natura o distrugge l'individuo, o la specie, o è diretto a questa distruzione, come insegna S. Tommaso; quindi le uccisioni, il furto, la rapina, la fornicazione, l'adulterio, la sodomia, ecc., sono contro natura, perché offendono il prossimo o impediscono la generazione o tendono a queste cose; ma la società comune delle donne non distrugge né le persone, né impedisce la generazione, dunque non è contro l'ordine, ma al contrario giova grandemente all'individuo, alla generazione e alla repubblica, come appare dal testo.

Si deve poi notare che vi ha tre specie di vago concubito; l'uno, per cui ciascuno può mischiarsi ad ognuno che desidera e come vuole, e questo è contro la natura razionale dell'uomo, quantunque sia proprio di alcune bestie, come dei cavalli, degli asini, delle capre, ecc., e quindi la natura provvide che queste bestie solo in certi tempi sentano gli stimoli alla generazione; gli uomini poi, essendo sempre ad essa disposti, se potessero mischiarsi con ciascuna, si indebolirebbero di continuo, e tutti andrebbero sempre dalle più belle, e queste per la confusione dei semi e per l'azione contraria, non concepirebbero, come avviene alle meretrici. Le donne brutte, poi eccitate da gelosia e da dolore, macchinerebbero ogni male contro le belle. Perciò questo vago concubito è un'eresia e un'empietà contro natura, e fu appunto quella dei Gnostici e dei Nicolaiti, e di alcuni moderni eretici e alcuni religiosi della setta di Maometto nell'Africa, che tengon lecito l'unirsi a ciascuna, e anche in publico.

L'altro genere di concubito vago, è quello dopo le nozze legali, ragunandosi in certi tempi, e a cui nelle tenebre è lecito unirsi a quello che la sorte gli offre: come si è scoperto di recente nella Gallia e in Germania in certe contrade: onde avvenne che cert'uni, ricevuto il segno, riconobbero di essersi uniti alle madri, e questo modo è pure un'eresia contro natura, e certo contro la legge divina positiva, poiché non ha per iscopo la generazione, ma la sola libidine: e l'unione vaga delle bestie è ancora migliore, poiché esse generano, né è contro natura poiché vien prodotta la prole, ma in queste unioni di eretici è solo per accidente se viene la generazione, non avendo per iscopo che la lussuria, poiché per la generazione bastano bene i mariti a casa.

Il terzo modo di concubito finalmente è quello da noi descritto in una società quasi di natura, nella quale cioè non generino se non i più robusti e i migliori, e seguendo la direzione dei medici e dei magistrati, nei tempi atti alla generazione, secondo l'astrologia, con timore e ossequio alla divinità, e solo dopo gli anni 25 sino ai 53; alle donne pure abbiamo prescritto un tempo, quello cioè in cui sono a ciò atte, e abbiamo distrutte le unioni inconvenienti, quelle cioè che si fanno per solo riguardo delle ricchezze, per cui o la repubblica non ha prole dalle medesime, o ne ha una vile, deforme e imbecille, come si vede dall'esperienza, e fu notato da Pitagora sommo filosofo. Abbiamo impedita ugualmente la debolezza prodotta dal troppo coito o le malattie da sterilità; poiché se l'una non concepisce con questo, può concepire con quello, e la natura ci insegna appunto in questo caso a mutare. Ciò poi che le nostre leggi hanno stabilito: che ciascuno non usi che colla propria moglie ancorché sterile, non può essere facilmente coi soli lumi naturali approvato dal filosofo; perciò io non sostengo se non che gli istitutori di una repubblica colla comunanza delle donne non peccano nello stato dei puri lumi naturali, avanti che la rivelazione insegni non doversi così praticare. Onde Durando ed altri sostengono che nemmeno la fornicazione non è contro la legge naturale, e molti teologi confessano non essere essa proibita che per legge positiva; e la ragione di S. Tommaso che essa è contraria alla generazione e all'educazione, non vale quando si sappia che la donna è sterile. E tuttavia io sono d'accordo in ciò con S. Tommaso che con lunghe deduzioni si può ciò provare colla pura ragione, ma non però conoscere da tutti. Così Socrate non peccò bevendo il veleno, costretto dalla legge, quantunque i teologi provino essere peccato, poiché nessuno può essere obbligato dalla legge ad agire contro se stesso. Ma queste sottili deduzioni nate dalla luce evangelica non potevano essere conosciute dagli antichi filosofi che anzi provarono essere lecito l'uccidersi da sé, ed essere noi padroni della propria vita, come stimarono Catone, Seneca e Cleomene. In conseguenza io sostengo che la comunità delle donne nel modo da noi posta non è contro il diritto naturale, o se lo è non può esser conosciuto dal filosofo coi soli lumi naturali, poiché ciò non si deduce direttamente dal diritto naturale, come conclusione immediata, ma solo come lontana deduzione, e piuttosto fondata sul diritto positivo, che può variare. Le ragioni poi di Aristotele non nascono dalla natura della cosa, ma da sola invidia contro Platone; ed egli stesso ricorda molte nazioni che vissero in questo modo. Viene pure a nostro sostegno S. Tommaso che nella 2, 2 quest. 154, art. 9 confessa che nessuna congiunzione è contro natura, tranne quella del figlio colla madre, e del padre colla figlia; poiché gli stessi cavalli, secondo Aristotile, hanno ciò in orrore. Ed io stesso vidi a Montedoro un cavallo che non voleva unirsi colla madre. E non perché non ne venga la generazione, ma per reverenza naturale. E tuttavia, secondo la testimonianza di Tolomeo, fu comune usanza tra i Persiani l'unirsi alle madri. E tra gli animali, i gallinacci e molti altri praticano lo stesso. lo tuttavia nella repubblica ho schivato che le madri si unissero ai figli, o i padri alle figlie, quantunque quest'ultimo caso sia meno contro natura. Gaetano pure prova, appoggiato allo spirito di S. Tommaso e alla ragione naturale, che l'unione colla sorella o cogli affini e consanguinei, non è contro il diritto naturale, ma solo contro il legale; ed essere un precetto giudiziale, non morale, la proibizione degli altri gradi; poiché i figli di Adamo si unirono colle sorelle, e Abramo e Giacobbe patriarchi, al primo dei quali Sara era sorella. E S. Tommaso adduce due ragioni di queste proibizioni, cioè pel rispetto ai parenti, perché potessero vivere insieme senza scrupolo, e perché si moltiplicassero le amicizie per mezzo dei matrimoni, e la libidine non riescisse più dolce col proprio sangue. Ragioni che secondo Gaetano decisero pure la legge cristiana. Ma nella repubblica solare non avrebbero luogo, poiché le donne abitano separatamente e non avviene l'unione se non secondo la legge, i tempi e i luoghi prefissi. Ciò poi che si accorda nella repubblica solare, per fuggire la sodomia e un mal maggiore, si accorda pure nella religione cristiana; poiché il marito può usare senza peccato della moglie ancorché gravida, per estinguere la libidine, e non per la generazione. lo poi provvidi affinché questo seme non vada perduto, e diedi tutti i miei precetti per la conservazione della repubblica; gli altri poi non sono riprovati dagli stessi filosofi secondo il diritto naturale, e Aristotile in grazia della salute raccomanda il coito ai non generanti, come pure Ippocrate ed altri per ischivare mali maggiori.

Ora in particolare rispondo alla prima obbiezione. Che quel tutti si può prendere nei due sensi: poiché tutti fino ad una certa età, determinata nel testo, sono padri di tutti collettivamente e separatamente: il primo è vero, secondo l'atto naturale, l'altro poi secondo la carità naturale. Né da ciò vien diminuita la carità, ma solo la cupidità e l'avarizia; poiché l'uomo, regnando la divisione, è disposto ad amare i proprj figli più che non conviene, e a disprezzare gli altrui oltre misura. L'uomo saggio poi ama più i migliori ancorché d'altri, ed ha maggior cura dei cattivi per migliorarli: poiché riesce spiacevole il vedere tante deformità nel genere umano, e quindi abbiamo orrore dei zoppi, dei ciechi, dei miserabili perché sono del nostro genere e rappresentano a ciascuno la propria infelicità. Per la comunanza poi dei figli, dei fratelli, dei padri, delle madri, si provvede in modo da diminuire il troppo amor proprio che è la cupidità, e da aumentare l'amor comune cioè la carità. Quindi S. Agostino disse amputatio proprietatis est augmentum caritatis e si deve piuttosto credere a S. Agostino che ad Aristotele, e col primo sta pure S. Paolo che dice: caritas non querit quae sua sunt, cioè antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Nell'unione dei monaci si vede lo stesso, poiché il monaco non possedendo nulla in proprio, ama la comunità come il piede tutto il corpo; se poi possiede in proprio è come un membro reciso, o un piede tagliato, non avendo cura che di ciò che è suo. Lo stesso avvenne nella repubblica romana; quando i cittadini erano poveri e la repubblica ricca, tutti volevano morire per la patria; quando poi i cittadini furono ricchi, ciascuno avrebbe ammazzato la patria pel proprio vantaggio. L'Apostolo adduce l'esempio delle membra e del corpo, e lo stesso insegnano Ambrogio e Grisostomo. L'amore dunque nella comunità non sarebbe come una goccia di miele in molt'acqua, ma come un piccol fuoco in molta stoppa. Poiché l'amore è una delle primalità, e di sua natura diffusivo, come il fuoco, ed esso è felice nella società di molti per la fama, la diffusione del nome, la memoria e gli ajuti più numerosi che vi riceve. Separatamente, quantunque ciascuno non sia figlio che di un solo, può esser amato da tutti quando formano un solo nella carità. Onde lo zio ama i nipoti quantunque da lui non generati, perché si considera di una stessa famiglia. E il papa e i cardinali chi non vede quanto amino i nipoti, e i consanguinei, che pure non hanno generati? E noi amiamo gli amici e i figli degli amici, e i vecchi nei monasteri amano i novizi, soprattutto i virtuosi; taccia adunque il nemico della carità. - La fisionomia inganna poiché i figli non rassomigliano sempre al padre, ma sovente agli estranei; e di poco ostacolo sarebbe quella piccola propensione nella nostra repubblica ove tutto è ordinato secondo la legge di natura e del merito. Giacobbe pure amò più Giuseppe, ed altri altri; ciò non pregiudicherebbe alla comunità né alla carità; i figli qui non congiureranno tra di loro, vivendo tutti sotto la stessa disciplina; le sante donne dei patriarchi, come Rachele e Lia, tenevano come loro propri anche i figli delle ancelle, ma Aristotile non conobbe una tal carità.

Alla seconda obbiezione. Si nega la conseguenza quando il tutto è governato secondo le regole e la scienza dei medici, delle matrone e dell'astrologia. Dalla posizione del cielo nascono e si conoscono le inclinazioni morali, secondo S. Tommaso (Polit. 5, lect. 13). E i nostri Solari crederebbero illecito l'unirsi per puro piacere e per sanità, nei quai casi si è provveduto altrimenti; quanto alle risse vedi il testo.

Alla terza obbiezione. Essendo tutti i membri di uno stesso corpo, considerano tutti i giovani minori per figli, e sanno di perpetuarsi meglio in quella comunità, che nei figli proprj. Inoltre, come tutti insegnano, la vita della fama procurataci dalle opere buone è da preferirsi a quella che abbiamo nei figli. Così i filosofi si procurano figli col seme della loro dottrina, non col seme carnale. Né i pidocchi quantunque nascano da noi son nostri figli. Né i veri figli di Abramo ora sono i giudei, ma i cristiani. L'eternità poi la cerchiamo in Dio, e per la repubblica una vita beata, come insegna Ambrogio. Né gli animali conoscono i loro figli una volta cresciuti; né questo viene direttamente, ma solo indirettamente da natura.

Alla quarta obbiezione. Diciamo con Gaetano e S. Tommaso, non essere incesto contro natura che quello commesso colla madre, e noi lo schiviamo nella repubblica; colle sorelle poi e con altre non è che legale, e dove non siavi questa legge non vi ha inc 1 esto, né alcun adulterio. Poiché l'adulterio è o naturale o legale: il naturale avviene tra animali di diversa specie, come insegna Sant'Ambrogio nel 5 Hex. cap. 3, come tra l'asino e la cavalla: il legale è poi quando alcuno pratica la donna altrui, proibito dalla legge: ma nella nostra repubblica non esiste questa legge; ma vi sono generatori pubblici più utili a questa funzione: non vi ha dunque adulterio, come non vi ha prole adulterina, né unione illegale. Così tra i monaci non è un furto ove tutte le cose sono comuni, se alcuno mangia del pane. Poiché l'adulterio non consiste nella libidine, altrimenti il marito che usa della moglie per piacere sarebbe adultero, ma da ciò che si usa di donna non sua; ma la legge ora la fa sua, e non farebbe torto alla repubblica se non usandone contro la regola: come il monaco ruba dei beni del monastero, quando usurpa le cose comuni senza permesso. Ma, si dirà, S. Tommaso insegna pure che tutti i precetti del Decalogo sono precetti naturali. Si risponde, posta la divisione: poiché il furto non esiste se non stabilita la divisione dei beni. Altri dottori poi sostengono non tutti quei precetti essere di diritto naturale. Nella nostra repubblica poi non vi ha divisione di proprietà, ma solo d'uso, e a tempo per mantener l'ingegno e la forza dei cittadini. Non si conosce poi che la fornicazione sia peccato dalla sola natura delle cose, né nella repubblica del Sole vi ha fornicazione, essendovi comunanza. Le altre turpitudini, la gelosia e le contese, qui non possono aver luogo ove si regolano le cose secondo una legge e una disciplina a tutti gradevole: né ciò che è proprio delle bestie e di certi eretici qui non avviene; vedi il testo.

Alla quinta obbiezione. Se fosse di diritto naturale l'avere una sol donna. Dio stesso non potrebbe dispensarci, secondo S. Tommaso. Ma Giacobbe prese due sorelle, e Davide cinque mogli, e Salomone 700, e quasi tutti i patriarchi ebbero più mogli, né si vede in ciò alcuna dispensa, quantunque comunemente si creda; egli è chiaro che la pluralità delle donne non è contro natura. E tutti gli animali, tranne forse la tortora e il colombo, che si unisce alla sola sorella, si congiungono con più femmine. E in questa repubblica, che si governa colle leggi naturali, non colle rivelate, ciò non poteva essere conosciuto. Anzi la natura insegna a chi non genera con una, di unirsi ad un'altra: e ciò anche Sara chiese ad Abramo, come cosa naturale, se non vi sia rivelazione contraria, e Lia e Rachele diedero al marito le proprie ancelle. E come questi Solari potrebbero sapere essere ciò contro natura quando né gli uomini né gli animali possono ciò discoprire? Inoltre i nostri cittadini non ne hanno né una né molte, ma nel tempo prescritto alla generazione ciascuno si avvicina a quella che la legge gli destina pel bene della repubblica, né generano per loro ma per la repubblica, anzi nemmen noi poiché il padre tra di noi non ha tanto potere sul figlio quanto la repubblica; poiché la parte è pel tutto e non il tutto per la parte. Se dunque il tutto ha cura della totalità nella repubblica solare, né la rimette ai privati, esso opera convenientemente. Il marito unendosi per libidine alla moglie, quando gli pare, produce una prole imbecille e degenere. Noi abbiamo cura di avere un'ottima generazione nei nostri cavalli, non per la nostra specie. Anche per Aristotile è un miscuglio contro natura se chi è d'animo servile cerca di congiungersi a donne generose e come gli pare ad esse si unisce. E S. Grisostomo, nel libro del sacerdozio, figuratamente riprova il vescovo ignorante che si unisce alla Chiesa generosa - Il Signore disse: erunt duo in carne una; ciò è vero, e così avviene pure nella nostra repubblica, poiché Iddio non insegnò con ciò che nessuno non debba unirsi se non ad una; altrimenti né Giacobbe avrebbe preso simultaneamente due mogli, né morta una sarebbe lecito prenderne un'altra. Dei due si fa dunque una carne, perché dal miscuglio dei due semi ne nasca una prole: e Sant'Ambrogio dice con S. Paolo: non avrei conosciuto questo peccato se la legge non lo ordinasse.

Alla sesta obbiezione. L'eresia dei Nicolaiti stava in ciò che ammettevano esser lecito ad ognuno di unirsi come gli piacesse ad ognuna, e questo è contrario al diritto naturale e impedisce la generazione, come si è già detto; ma nella repubblica solare l'unione avviene sotto le regole della filosofia e dell'astrologia, e sì ordinatamente che la generazione riesca migliore e più numerosa; essa è dunque conforme alla natura, e quindi non è eresia se non dopo condannata dalla Chiesa. Ortensio ossia Catone, uomo sapientissimo e dottissimo, concedette in prestito la propria moglie a Bruto per avere prole da lei, come se quel rigido stoico volesse con ciò insegnare che ciò si faceva secondo l'ordine naturale. Come dunque gli abitanti solari guidati dai puri lumi naturali possono sapere che, tranne la nostra forma di matrimonio, tutte le altre siano peccato, mentre gli stessi Ebrei e i Romani ammisero il divorzio, e i filosofi accordarono la permuta; e Socrate e Platone ciò insegnarono? Aristotile non rimprovera loro di mancare al diritto naturale, ma perché non gli pare ciò utile; anzi narra che alcune nazioni vissero in tal modo. lo poi concedo questa essere ora un'eresia nella Chiesa cristiana, ma che colla sola guida della natura non si può conoscere che sia male quando non si faccia in modo bestiale o a quello dei Nicolaiti. S. Tommaso afferma essere il matrimonio contro natura quando non favorisca la prole e la società, ma nella nostra repubblica l'unione è anzi sommamente favorevole a tutti due.
Gli argomenti addotti da Aristotile contro la comunanza: che essa è superflua, come se alcuno volesse far versi di un sol piede, e tirar l'armonia da una sol corda; sono puerili e contrari alla carità e alla repubblica dei monaci e degli apostoli, che allora converrebbe condannare, perché avevano un sol cuore e una sol anima e non dicevano alcuna cosa esser propria ma tutte le cose aveano tra loro comuni.
Poiché questa unità non distrugge la pluralità, ma la fortifica per l'unione, non già di un sol uomo, ma di tutti gli stati e condizioni; ciò che non ottiene Aristotile nella sua repubblica, e non già da una sol corda ma da più tiriamo l'armonia. Aristotile non stabilisce che la discordia, componendo la sua repubblica di due contrari; noi da più abbiamo l'unione e come un carme, poiché tutte le cose concordano insieme: Aristotile non compone il suo carme che di due piedi contrari, e discordi, come si è mostrato nell'esame della sua repubblica. La nostra poi è del tutto apostolica, se stabilisce la comunanza non pel piacere, ma per l'ossequio come si vede nel nostro dialogo.

FINE DELLE QUESTIONI
SULLA CITTA DEL SOLE

nuvolarossa
07-08-02, 22:06
CARRARA

Lo studio sulla politica e sulla scienza

sarà il tema dominante degli incontri culturali 2002 curati da Giammarco Puntelli e organizzati dall'Accademia della Torre (ad ingresso libero). A questi si aggiungerà, in stretta collaborazione con il Cenacolo Artistico Culturale Buttini,

una giornata di studio sull'arte e sulla narrativa

I primi due appuntamenti vedono protagonista il pensiero politico con autori della casa editrice Laterza. Si svolgerà venerdì alle 21, nel giardino della biblioteca di Marina, l'incontro

'Repubblicanesimo: idee e riflessioni'

con lo studioso di politica Maurizio Viroli. Docente di Teoria Politica a Princeton, lavora fra gli Stati Uniti e l'Italia. E' autore di numerose pubblicazioni fra le quali 'Per amore della patria', 'Repubblicanesimo' e il dialogo sulla Repubblica con Norberto Bobbio.
Nell'incontro spiegherà non solo il suo pensiero, ma anche un ambizioso progetto: da consulente per i programmi culturali del Quirinale, parteciperà ad un'iniziativa che prevede la creazione di un museo permanente a Roma di ampio respiro, per il 2011, in occasione dei 150 anni dall'unità d'Italia. Il 'suo' museo ideale si ispira a quello dell'Olocausto a Washington, ricco di testimonianze.

Il secondo incontro, in programma domenica 25 agosto alle 21 nel giardino della biblioteca, sarà con l'editorialista de 'Il Giornale' e collaboratore Rai Marcello Veneziani. Parteciperà all'incontro Lanmarco Laquidara e sarà l'occasione per parlare della recente pubblicazione di Veneziani 'La cultura della Destra'. Al termine degli incontri sarà offerto un buffet.

Il programma 2002 prevede la giornata di studio con Stefano Zecchi, docente di Estetica, opinionista di quotidiani e riviste e autore di saggi e opere di narrativa pubblicate da Mondadori. Questo appuntamento, in collaborazione con il Cenacolo Artistico Culturale Buttini, si svolgerà nell'aula magna dell'Accademia di Belle Arti, il 6 settembre alle 18. Stefano Zecchi parlerà di arte e di narrativa. Al termine dell'incontro riceverà la medaglia in argento 'Terra Apuana' del Cenacolo Buttini. Riceverà anche la tessera del Cenacolo.

L'attività 2002 dell'Accademia della Torre terminerà il 14 settembre alle 18 in Accademia di Belle Arti con la conferenza di Antonino Zichichi, presidente della World Federation of Scientists, sul tema 'Galileo Galilei'. Al termine, sarà consegnata la Torre d'Argento- Premio Nazionale Culturale Torre di Castruccio allo scienziato per i suoi studi. «Con questi incontri completiamo una stagione culturale organizzata dall'Accademia della Torre a Carrara, iniziata –ha detto il presidente Giuseppe Puntelli- con un Premio Culturale che ha portato in città personalità come Zavoli, De Crescenzo, Allegri, Sgarbi, Cofrancesco... ».

nuvolarossa
10-08-02, 10:08
Patriottismo cercasi
Perché manca «uno schietto affetto per le istituzioni repubblicane»? Il tema è storico, ma risponde il politologo.

Le parole della storia spesso acquisiscono significati diversi in funzione delle intenzioni politiche di chi le usa. Patria e nazione portano su di sé, da quando l’Italia è qualcosa di più che un’espressione geografica, tutto il peso di questa sindrome del senso. Perché la ragione fondamentale del discorso storico sta tutta nella possibilità di raccontare le cose così come sono avvenute, non come si vorrebbe che fossero state. Dal Risorgimento alla Resistenza, da Caporetto al ’48, dalla «morte della patria» alla «nascita della repubblica», l’Italia di oggi si trova a fare i conti con un passato a due facce. Non esiste un’unica storia su cui formulare giudizi politici, opzioni etiche, convinzioni culturali. Gian Enrico Rusconi (foto) pensa di ritrovare il bandolo di un discorso perduto intorno ai concetti di patria e nazione, guardando indietro da Mazzini a Machiavelli, riscoprendo una categoria nobile del nostro passato: il repubblicanesimo.
«Abbiamo una repubblica ma non abbiamo una cultura repubblicana che sappia ispirare uno schietto affetto per le istituzioni democratiche» è l’incipit a tesi, la trama essenziale su cui Rusconi tesse il suo ragionamento: «La riproposta del repubblicanesimo» spiega «non si muove semplicemente sul piano dell’etica politica ma presuppone una vera e propria teoria della politica». Lo scopo è quello di mettere in relazione due entità storicamente separate, come nazione e democrazia, intrecciate invece nel «vissuto collettivo» di oggi. Perché ciò accada, tuttavia, serve qualcosa in cui l’intera comunità dei cittadini si identifichi anche attraverso le differenze politiche e le contraddizioni culturali: «Riconoscersi in una storia comune è il presupposto per sentirsi una nazione civile».
Già, la storia. Rusconi la prende di petto quando si trova a dipanare la matassa della «morte della patria», a indagare il groviglio della guerra civile ’43-45, a ricostruire quel processo di legittimazione democratica che portò alla nascita della Costituzione antifascista, con una puntigliosa disamina degli autori che l’hanno preceduto, da Renzo De Felice a Ernesto Galli della Loggia. Va detto però che Rusconi più che da storico ragiona come politologo, preoccupato più del dover essere che di ciò che è stato.
Si può perciò avanzare la modesta proposta di leggere insieme a Rusconi un altro libro appena uscito, La grande Italia di Emilio Gentile (Mondadori), che ripercorre il farsi e il disfarsi del mito patriottico lungo i primi cent’anni di unità nazionale, senza essere né contro né a favore.

Patria e repubblica di Gian Enrico Rusconi, il Mulino, 94 pagine, 10 mila lire. **
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tratto da
http://www.lucianodecrescenzo.it/panorama/numeri/pan797/magn/libri_797_0_nf.html

nuvolarossa
10-08-02, 10:18
Il concetto di libertà nella tradizione repubblicana:

una rassegna concettuale

Giovanni Giorgini
giorgini@spbo.unibo.it
Università di Bologna, Dip. Politica, Istituzioni, Storia
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"Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta": con queste parole Virgilio, nel I canto del Purgatorio di Dante, cerca di toccare la corda più sensibile del cuore di Catone l'Uticense, così da rendergli gradita la visita di un uomo in carne e ossa proveniente dall'abisso infernale. Sensibile era certamente Catone a quel valore che reputò più alto della vita stessa, allorché ritenne di non dover sopravvivere alla fine delle libertà repubblicane e pose termine ai suoi giorni. L'icastica formulazione dantesca ci consente di cogliere il punto teoreticamente più importante nella definizione del concetto di libertà repubblicana: si tratta di una libertà di partecipare alle decisioni della comunità politica, di essere partecipi al processo di discussione e deliberazione nel quale vengono prese decisioni che riguardano tutto l'insieme dei cittadini; non si tratta mai soltanto di una libertà dalla politica, intesa come fuga dalla dimensione pubblica e rifugio nel privato, esenti da occupazioni e preoccupazioni. Allorché a Catone fu negata la libertà come partecipazione all'autogoverno di una comunità politica autonoma, egli ripiegò sull'unica libertà rimasta al saggio stoico: l'uscita volontaria da questa vita. Questa devozione alla libertà politica consente a un pagano, per di più morto suicida, di avere accesso alla vita eterna: solamente il ricorso alla poesia permette di cogliere la straordinaria importanza che il termine "libertà" ha avuto nella storia e nel pensiero politico dell'Occidente, e naturalmente nel pensiero repubblicano.

"Libertà" è, infatti, un vocabolo antico quanto "politica". Occorre notare, però, che i due termini non sono coestensivi, perché se è possibile una libertà dalla politica, non può esservi politica senza libertà. Non a caso l'aggettivo "libero" è assai più antico del sostantivo "libertà": il primo, infatti, è attestato già in Omero per individuare una condizione contrapposta a quella servile (Ettore preconizza ad Andromaca che gli Achei la priveranno del "libero giorno": Iliade VI,455; cfr. XX,193) e rimanda dunque a una condizione sociale e giuridica; il secondo è invece un termine interamente politico. Originariamente "libertà" è, infatti, un "termine di battaglia", che si sostanzia di contenuto allorché i Greci "inventano" la politica (ossia creano uno spazio comune, nel quale si attua la mediazione attraverso il dialogo e senza ricorso alla violenza e dove vengono prese le decisioni concernenti la comunità politica), dopo aver combattuto il nemico interno – il tiranno – e quello esterno – l'impero persiano –. Da questa duplice vittoria, conseguente al consapevole rifiuto di sottomettersi a un'autorità superiore, emerge il valore politico della libertà: liberati dai tiranni, i Greci sono diventati più potenti, così da poter trionfare su di un esercito assai superiore ma composto di schiavi (cfr. Erodoto V, 66; 78; 91). La vittoria degli Elleni sul Medo è la vittoria della libertà sulla schiavitù; la libertà, intesa come uguaglianza di potere politico, è un fattore di potenza: è questa l'interpretazione di Erodoto, che veicola una brillante operazione culturale della propaganda ateniese, che trasformò in lotta per la libertà un normale, mancato evento di sopraffazione. In quest'ottica la libertà è l'opposto della servitù (questa opposizione è peraltro comune a tutti i popoli indo-europei, ma si sostanzia di contenuto in ogni singola entità politica), ma in un contesto politico, non personale, sociale; la servitù che si vuole fuggire è una servitù nella dimensione pubblica, così come la libertà che si vuole conquistare, o difendere, è la libertà della comunità politica, non del singolo. Osservata dall'interno, la libertà (eleutheria) esiste dove vi sono cittadini uguali che detengono il potere, che discutono delle cose pubbliche, comuni, su di un piano di parità; vista dall'esterno, una comunità politica è libera allorché ha leggi proprie (autonomia) e sceglie da sé i propri amici e nemici, stringendo alleanze o muovendo guerra: questa è l'"ideologia della città" elaborata ad Atene nel V secolo e riflessa nelle opere di storici, filosofi, tragediografi, oltre che vissuta nell'esperienza quotidiana dei cittadini, naturalmente. Il tiranno e il Gran Re, d'altro canto, sono gli unici liberi nelle loro entità politiche, perché governano come il padrone della casa (despotes) su di una massa di schiavi. La libertà diviene così il valore che riassume l'essere politico degli Ateniesi, se non proprio di tutti gli Elleni, una bandiera in nome della quale si può morire e si può chiedere ad altri uomini di sacrificare la propria vita. In tal senso viene celebrata nella tragedia, questa meravigliosa creazione poetica della grecità politica del V secolo; così come nelle opere dei filosofi Platone e Aristotele la condanna della schiavitù della tirannide e la contrapposizione con la condizione servile dei Persiani costituiscono il presupposto per l'edificazione della città perfetta. La libertà può quindi diventare uno slogan: nella guerra del Peloponneso Atene sostiene di difendere la libertà dei Greci contro i Persiani con il suo impero marittimo; Sparta, d'altro canto, dopo aver bollato come tirannide tale impero, fa di "liberare i Greci" il proprio motto per sfruttare il malcontento e acquisire alleanze contro la potenza rivale (cfr. Tucidide I,139; II,8; IV,108 e passim). Anzi, la provocatoria e propagandistica richiesta di liberare i Greci – "la pace ci sarebbe se voi lasciaste liberi i Greci", Tucidide I, 139 – è contenuta nell'ultimatum che gli Spartani danno agli Ateniesi alla vigilia della guerra e costituisce la precondizione per una pace duratura tra le due città. La libertà della città, in sintesi, presenta due aspetti: da un lato si esemplifica nella capacita di autodeterminarsi dandosi leggi proprie e conducendo una propria politica estera – autonomia; osservata dall'interno, essa si identifica con l'isonomia, l'uguale possibilita di partecipazione al processo decisionale tramite l'intervento ai lavori dell'Assemblea, il sedere come giudice nei tribunali e la possibilita di essere sorteggiato per ricoprire una carica.

La liberta è, quindi, una dynamis, una potenza e una possibilità, ed è tutta inserita nella dimensione politica. Quanto detto è esemplificato in due celebri discorsi che Tucidide fa pronunciare a Pericle, nei quali si afferma che gli Ateniesi, unici, considerano "non ozioso ma inutile" chi, non partecipando attivamente agli affari pubblici, è libero dalla politica (apragmon) (II,40), e si sostine la tesi secondo cui la potenza che deriva alla città dall'impero costituisce la difesa della libertà dei cittadini (II,63): essere liberi, in politica estera, significa poter fare ciò che si vuole, e quindi dominare i più deboli, mentre in politica interna significa partecipare alla "cosa pubblica", ossia agli affari della città. La libertà viene così a coincidere con una forma di governo, la democrazia, nella quale vige una legge fissa e più ampio è l'accesso all'Assemblea e alle cariche politiche, dove è da notare l'appropriazione da parte del demos dell'ideologia aristocratica, secondo la quale è l'eguaglianza nel detenere il potere politico che caratterizza, che sostanzia di significato, la libertà.

È noto che la libertà non ha un ruolo fondamentale nella visione politica di Platone, per il quale tale valore è troppo compromesso con gli eccessi della democrazia di fine V secolo: l'eccessiva libertà , divenuta licenza, si tramuta nel suo opposto, la tirannide (Repubblica 562d). La comunità politica ha invece come fine creare uomini virtuosi che, nelle loro diversità, vivano in armonia la propria vicenda terrena, in una società ordinata e dunque giusta, certi di ottenere un premio alla propria virtù nell'aldilà. Non bisogna tuttavia pensare che Platone fosse completamente sordo alle esigenze di libertà; al contrario, egli attribuisce, per esempio, la decadenza dell'impero persiano al fatto che i re "tolsero troppo la libertà al popolo e instaurarono un dispotismo troppo duro e così distrussero lo spirito di amicizia e di unità nella comunità politica" (Leggi 697c-d): la libertà deve bilanciare il potere in un equilibrio armonico, una conclusione che sarà ripresa da Cicerone. Aristotele riflette notoriamente il pregiudizio conseguente alle guerre persiane per cui la libertà contraddistingue il popolo ellenico e i popoli orientali sarebbero schiavi per natura, adatti dunque a vivere sotto un regime dispotico. Nella sua visione lo schiavo è "un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo un uomo" (Politica I 4, 1254a15), adatto quindi solo alla fatica fisica. Non gli sfugge però che molti sono divenuti schiavi in seguito a guerre e sono quindi tali solamente "per legge"; la loro condizione, tuttavia, non differisce molto da quella degli schiavi per natura perché, non potendo condurre la vita del cittadino libero, è loro preclusa una vita propriamente umana. Aristotele ci ricorda così come l'essere liberi sia anche una condizione giuridica, propria di chi gode pienamente dei diritti civili, presupposto per condurre una vita politica, l'unica adatta all'uomo. Nella sua visione la libertà costituisce il primo requisito della comunità politica, l'unica forma di società nella quale l'uomo può realizzare le sue potenzialità tipicamente umane. Egli afferma innanzitutto che l'essere "liberi e uguali" è il presupposto per costituire una comunità politica (Etica Nicomachea V 10, 1134a27; cfr. Pol. III 8, 1280a5; 24; 1281a6; IV 9, 1294a20; IV 12, 1296b18). Nella sua classificazione delle forme di governo, la libertà rappresenta poi il principio costitutivo e il fine della democrazia (E.N. V 6, 1131a28; Pol. Iv 4, 1291b34; IV 8, 1294a11; V 9, 1310a30; VI 2, 1317a40ss; 1318a10), così come la virtù lo è dell'aristocrazia e la ricchezza dell'oligarchia. Polibio, che vive nella Roma repubblicana del II secolo a.C., vede nella libertà il presupposto di ogni potenza politica e colloca l'inizio dell'ascesa dei Romani nel momento in cui riconquistarono insperatamente la propria libertà e indipendenza dopo l'invasione dei Galli (I,6). La sua opera storica, che egli definisce "storia pragmatica" (I,2; cfr. I,35 e IX,1-2) in quanto narrazione di eventi dotata di uno scopo pratico, atta ad ammaestrare gli uomini accorti e in particolare gli uomini politici, si pone deliberatamente come fine spiegare lo sviluppo della potenza romana, giunta a dominare quasi tutto l'universo abitato. Egli ritiene che la bontà della costituzione romana, una forma di governo mista in quanto "miscela" le caratteristiche positive della monarchia nella figura dei due consoli, dell'aristocrazia nel Senato, e della democrazia nell'autorità del popolo (VI,11), sia la ragione ultima della potenza dello Stato romano: questi tre poteri si controbilanciano, a volte danneggiandosi a volte collaborando fra loro, e garantiscono così la libertà dei cittadini e la potenza dello Stato. Questa analisi delle ragioni della grandezza di Roma sarà poi ripresa da Machiavelli, il quale vedrà nel contrasto tra aristocrazia e plebe il fondamento della libertà e della potenza romana. Riprendendo la classica suddivisione platonico-aristotelica delle forme di governo, a cui aggiunge l'idea di una rotazione secondo la quale esse si trasformano, decadono e ritornano al tipo originario, Polibio individua sei regimi politici "semplici" e considera la libertà il principio costitutivo che individua la democrazia. Egli ritiene che la democrazia sia un buon regime che si instaura quando il popolo, stanco delle prepotenze e dell'avidità di pochi governanti, rovescia l'oligarchia e assume su di sé la cura degli affari pubblici. Questa forma di governo stima più di ogni altra cosa "l'uguaglianza di diritti e la libertà di parola" (VI,9): Polibio riprende qui un tema tipicamente ateniese, risalente a Erodoto, per cui l'uguaglianza di parola (isegoria, parrhesia) è sinonimo di uguaglianza di diritti (isonomia) e di potere (isokratia) e dunque di libertà. È appena il caso di ricordare l'enorme influsso che le Vite parallele di Plutarco hanno esercitato sui grandi personaggi di tutte le epoche. Mosso da un intento più educativo che storico-biografico, egli ha saputo infondere vita ai propri personaggi miscelando con perizia elemento storico ed elemento etico e ha saputo dotarli di un "armamentario" di virtù e valori politici che hanno conferito loro una grandezza ineguagliabile, rendendoli paradigmatici, in ogni epoca, degli ideali repubblicani. Vissuto nel I secolo d.C., Plutarco identifica la libertà con il regime politico della democrazia, nella quale tutti godono di eguali diritti. Nella sua visione, il primo creatore della democrazia fu Teseo, il quale abolì la monarchia e creò la città di Atene (Teseo 24-25). Più in generale, egli ritiene che, dopo le guerre combattute contro il Medo in difesa di quei valori, libertà e uguaglianza siano i perni della cultura ellenica (Temistocle 27).

[CONTINUA]

nuvolarossa
10-08-02, 10:20
Questa insistenza sulla riflessione politica greca è stata necessaria perché i Greci, ma sarebbe meglio dire gli Ateniesi, ci hanno trasmesso un modello, idealizzato e ideologico ad un tempo, che ha esercitato un influsso potentissimo, meglio ha plasmato la visione della libertà nell'Occidente. Anche nella cultura romana il significato del termine libertas si definì, per contrarium, a partire dalle lotte contro la monarchia e il dominio del singolo rimase sempre l'antitesi negativa nella concettualizzazione della libertà: non dimentichiamo che l'uccisione di Cesare fu perpetrata in difesa della libertà, così come quella precedente di Tiberio Gracco. Caratteristica della libertà romana è quella di risentire dell'influsso di concezioni filosofiche greche, ma di essere concettualizzata senza essere disgiunta dalle situazioni storiche da cui aveva avuto origine. In questa unione di teoria e prassi si possono distinguere diverse sfere di libertà: la libertà è innanzitutto l'insieme dei diritti e dei privilegi, civili e politici, del cittadino romano; vi è quindi una libertà giuridica, che contraddistingue il liber dal servus, il quale è equiparato a una cosa; sempre connessa alla sfera del diritto è la nozione di libertà come protezione dei diritti dell'individuo contro la coercizione dei magistrati; vi è infine la visione "popolare" della libertà come difesa dai soprusi della nobiltà, che ha come contraltare la visione "ottimate" che vede il principale problema della repubblica nel grado di libertà che occorre concedere al popolo. Si noterà che in tutti questi casi la libertà trova attuazione mediante le istituzioni giuridiche e politiche, e dunque mediante la legge, sua vera garante: la libertà si identifica con la respublica, le sue leggi e le sue istituzioni, e ciò che da esse discende: i costumi e gli uomini che da essi sono plasmati. Questo emerge con tutta chiarezza, più che da tante professioni pubbliche, da una lettera privata di Cicerone (Ad Quintum fratrem III,5,4), dove si afferma che "non vi è più repubblica, non vi sono più tribunali", dove è evidente, nella formulazione concisa, l'identificazione dei due termini; ad essa è avvicinabile l'affermazione del poeta Ennio, "Moribus antiquis res stat Romana virisque" ("è sui costumi e sugli uomini antichi che poggia la grandezza di Roma": citato da Cicerone, De Republica V,1). Cicerone rappresenta, senza esagerazioni, la più insigne voce latina esaltatrice della libertà: la sua straordinaria capacità oratoria gli fornì gli strumenti per ammantare di uno splendido drappeggio di parole quell'ideale che animò tutta la sua azione politica e lo condusse alla morte, per aver difeso la libertà repubblicana contro Antonio: Leopardi definì le orazioni Filippiche, che procurarono a Cicerone l'odio di Antonio e la conseguente morte, "l'ultimo monumento della libertà antica". Nella poliedrica attività di Cicerone la libertà ha un ruolo centrale: l'amore per la libertà, e il congiunto odio per la tirannide, è l'ideale politico che lo anima, anche se egli concepisce la libertà secondo gli schemi ormai vetusti del partito ottimate; l'amore per la libertà lo porta però a trascendere i limiti storici e politici della sua persona e gli fanno celebrare la libertà universale come forza motrice della vita e della storia. Nella sua visione esistono diverse sfere di libertà, corrispondenti agli ambiti in cui si estrinseca la vita dell'uomo. Nell'ambito etico, egli elogia la libertà dalle passioni, "per la quale gli uomini magnanimi devono lottare in ogni modo" (De officiis I,20); questa libertà, che consente all'uomo di elevarsi al di sopra delle bassezze e degli appetiti che lo accomunano alle bestie, deve essere coltivata dall'uomo politico, perché solo essa può procurargli la gloria. Nella sua visione la pratica ha il primato sulla teoria e la virtù risiede nell'azione: si passa così all'ambito politico, dove la libertà, che risiede nel popolo, è uno degli elementi costitutivi della respublica, unitamente alla potestas nei consoli e all'auctoritas nel Senato. Così egli definisce il tribunato della plebe "guardiano e difensore della libertà" (De lege agraria II,15) e difende come "garante della libertà" (De oratore II,199) l'istituto della provocatio, che consente al cittadino di appellarsi al popolo. Nella sua opera politica più importante, il De Republica appunto, Cicerone muove dalle teorie politiche greche, in particolare di Platone e Aristotele, alle quali affianca però l'esperienza politica romana, che giudica superiore, perché tratta dalla effettiva realtà politica. In quest'opera fornisce la famosa definizione di respublica come res populi, ma aggiunge che "non si può definire però popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in un modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per fondamento l'osservanza del diritto e la comunanza di interessi" (I,25). Riprendendo l'argomentazione polibiana, egli ritiene che nè regno, nè aristocrazia nè democrazia possano essere ottimi regimi politici, in quanto proni a degenerare bruscamente e a tramutarsi nei corrispettivi regimi corrotti rappresentati dalla tirannide, dall'oligarchia e dalla demagogia (I,28). Solo una forma di governo mista, come quella romana, che risulti "dalla fusione e da un saggio temperamento" (I,29; cfr. I,35 e I,45; II, 39) delle tre forme buone, può assicurare stabilità e buon governo. E – Cicerone aggiunge – "solo in quello Stato in cui il popolo ha il sommo potere sussiste la vera libertà, di cui non v'è bene più prezioso, e che neppure può chiamarsi libertà, se non comporta una assoluta uguaglianza di diritti" (I,31; cfr. De officiis I,25, dove si dice che nei popoli liberi regna l'eguaglianza del diritto): la vera libertà deve dunque essere aequa e consiste nella populi potestas summa. Da questa condizione di uguaglianza tra tutti i cittadini discende l'autogoverno della repubblica: "un popolo libero sceglierà da sé gli uomini cui affidarsi" (I,34). La realtà della costituzione romana viene dunque messa a confronto con le costruzioni ideali dei filosofi greci e reputata superiore. A tal fine, nel II libro del De Republica Cicerone traccia un affresco storico sull'evoluzione della costituzione romana per mostrare come essa sia giunta alla perfezione grazie a una tendenza naturale della respublica non ostacolata dall'avversa fortuna. La monarchia dei primi re, di per sé non una cattiva forma di governo, fu sostituita dalla repubblica per l'odio attiratosi da Tarquinio; qui Cicerone commenta che la monarchia è incline a degenerare in tirannide e la libertà non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto (II,23).

L'influsso delle storie di Sallustio, e segnatamente della sua esposizione delle cause della grandezza e del declino della repubblica romana, sul pensiero repubblicano è tanto evidente quanto poco riconosciuto. Nella sua opera De Catilinae coniuratione Sallustio, nato da famiglia plebea e appartenente alla fazione dei populares, dipinge Catilina come il tipico rappresentante della nobiltà degenere che complotta per rovesciare il mos maiorum e la repubblica. Sebbene avversi gli aristocratici, egli non condivide gli infiammati discorsi che i suoi personaggi pronunciano contro i nobili, in quanto mirano a sovvertire quell'ordine repubblicano tradizionale che egli reputa il valore più alto. In essi la libertà appare uno dei valori sacri e costitutivi della repubblica, ma si identifica con la libertà della plebe dall'oppressione dei tiranni e, in particolare, degli ottimati: "pro patria, pro libertate, pro vita certamus", afferma Catilina (58,7), sintetizzando con retorica efficacia i tre valori supremi cui si ispira la sua congiura. Allo stesso modo Manlio dice di non cercare il potere o le ricchezze ma "libertatem, quam nemo bonus nisi cum anima simul amittit" (33,1; Manlio ripete la stessa frase al re Marcio a 6,7); così M. Porcio Catone nel supremo pericolo afferma che "sono in gioco la libertà e la nostra stessa anima" (51,43). Nelle Historiae sallustiane, infine, troviamo spesso il nesso respublica e libertas populi Romani così come la contrapposizione comune tra la libertà garantita dalla repubblica e la servitus sotto un re o un tiranno. Sallustio riprende anche l'interpretazione classica della libertà come fattore di potenza politica: "fu soltanto allorché la città di Roma riuscì a liberarsi dai re che riuscì, in pochissimo tempo, a raggiungere una tale grandezza" (7,3). Tito Livio narra la storia di Roma dalla fondazione della città – da cui il titolo Ab urbe condita – fino alla sua epoca, con un sentimento di devozione per la missione che la virtus romana era chiamata a compiere e con un sentimento politico repubblicano. All'inizio della sua opera egli afferma esplicitamente che il suo proposito è mostrare quale tipo di vita, quali costumi e quali uomini abbiano permesso la nascita e la crescita dell'impero (Praef. 9); non disgiunto dalla narrazione storica è, dunque, un costante amor di patria che anzi informa l'intera opera, dotandola di un fine morale. Nella sua narrazione delle origini di Roma ricorre spesso l'usuale opposizione tra libertà e regno, soprattutto riferita a Tarquinio (II,2): il regno, tollerabile fin quando non si è conosciuta la dolcezza della libertà ("libertatis dulcedine nondum experta": I,17; cfr. II,9), è incline a degenerare in tirannide; e la natura del tiranno è tale che "o serve umilmente o domina superbamente", mentre la libertà consiste in una via di mezzo (XXIV,25). In questo contesto Livio elogia anche il tirannicidio, che consente al popolo di riacquistare la libertà. In una fase successiva egli mostra come sia la libertà della plebe che deve essere difesa di fronte ai nobili. Egli apre quindi la sua storia di Roma repubblicana con la celebre asserzione "Narrerò ora la storia politica e militare di un popolo romano libero, sottoposto a magistrati eletti annualmente e a leggi la cui autorità è superiore a quella degli uomini" (II,1,1). Tacito, lo storico di Roma imperiale, ha nostalgia della libertà repubblicana, dei suoi uomini e dei suoi costumi, che non può fare a meno di confrontare con le bassezze e i vizi dell'impero. Lo spirito di libertà è per lui il sentimento umano più fiero e più alto ad un tempo, che unisce gli uomini al di là dei confini geografici. Così, nell'elogio di Agricola traspare la sua ammirazione per i barbari suoi avversari, i quali combattono fieramente per la libertà della propria terra, e in particolare per il capo dei Britanni Calgaco, che definisce i suoi uomini "gli ultimi della terra e della libertà" (XXX,4). La medesima ammirazione è evidente nella sua descrizione dell'amore per la libertà dei Germani, che nella Germania viene contrapposto ai vizi dei declinanti Romani. Tipico ricorre in lui lo schema di contrapposizione tra la libertà repubblicana, della vetus aetas, e la schiavitù della sua epoca (Agricola II,3; Historiae I,1 e passim; Annales, passim). Egli inserisce la biografia di Agricola nel contesto dell'epoca di Domiziano, nella quale, egli afferma, "come l'età antica vide il culmine della libertà, così noi vedemmo quello della schiavitù" (II,3). Pronunciando un elogio di Nerva egli dice che questi riuscì a far coesistere "due cose un tempo inconciliabili, il principato e la libertà" (Agricola III,1). Asserzioni analoghe ricorrono nelle Historiae, dove si dice che Mario e Silla "trasformarono in dominio la libertà vinta dalle armi" (II,38). L'usuale concezione romana per cui la libertà repubblicana ebbe inizio con la cacciata dei re compare nelle battute iniziali degli Annales: "La città di Roma era all'origine governata da re; L. Bruto introdusse la libertà e il consolato" (I,1; cfr. III,27 dove si ripete che la libertà è legata all'espulsione di Tarquinio). Più in generale, si può notare come, attraverso la descrizione drammatica del suicidio di personaggi quali Seneca e Lucano in seguito al fallimento della congiura dei Pisoni, Tacito voglia evidenziare come, una volta spenta la libertà politica, all'individuo magnanimo rimanga solamente quella libertà privata rappresentata dall'uscita volontaria dalla vita.

Nel pensiero politico tardo-medievale risplende l'individuazione, ricca di suggestioni ciceroniane, operata da Giovanni da Viterbo nel suo Liber de regimine civitatum, composto attorno al 1240, della civitas stessa nelle nozioni di libertà dei cittadini o immunità degli abitanti.

Nel Defensor pacis – un'opera di grande impatto ideologico, che vede la luce nel 1324 – Marsilio da Padova esprimeva un punto di vista sganciato dal canone ufficiale della politologia medievale, ancora compresa nella distinzione agostiniana tra una civitas terrena e una civitas coelestis: la realtà che Marsilio aveva di fronte, peraltro, non era più articolata nei due ordines che avevano governato la cristianità fino alla crisi dei poteri che si registra a partire dal XIII secolo in Europa, ma già quella dei piccoli Stati italiani, i quali saranno per duecento anni ancora i veri protagonisti della scena politica e i modelli pratici per la riflessione propriamente repubblicana sulla politica fino e oltre Machiavelli. L'attenzione di Marsilio verso il consenso dei governati, l'indicazione di forme di autogoverno da esercitarsi in piccole entità territoriali, la felicità terrena degli individui come obiettivo pratico fondamentale fanno da sfondo a una nuova definizione della libertà umana che Marsilio mette a punto nelle Quaestiones sulla metafisica e sviluppa più tardi nella sua opera fondamentale: per lui liber est, qui est gratia sui, senza che si debba necessariamente ipotizzare la collaborazione di Dio all'autorealizzazione dell'uomo, nè tantomeno si debba pensare alla libertà umana come orientata a un bene esclusivamente ultraterreno. La politica, intesa davvero come attività umana per eccellenza, surclassa la vocazione contemplativa che gli scolastici avevano attribuito alla vita umana e si realizza in una comunità di individui liberi, associatisi liberamente in vista di una tranquillità, di una "felicità civile" e di una sufficienza materiale da perseguirsi in comune; la politica così intesa è quindi per Marsilio un'ipotesi irraggiungibile per "quei cittadini che sono oppressi o caduti in schiavitù per opera di aggressori esterni" (Il difensore della pace, I,5,8, p.130).

Questa visione decisamente più "laica" della politica contrappunta l'intera riflessione di autori decisivi del canone repubblicano quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Alamanno Rinuccini, nella cui opera si mescolano suggestioni classiche, assieme a un radicale ripensamento della lezione politica ereditata dagli antichi. Salutati, cancelliere della repubblica fiorentina dal 1375 al 1406, elabora un modello di politica in cui si intrecciano la riprovazione per il governante ingiusto e irrispettoso delle leggi e la difesa dei liberi ordini della città, dove la libertà è identificata con il "dolce freno" imposto dalle leggi a tutti i cittadini: è in particolare nel suo De Tyranno che troviamo rispecchiata un'alta coscienza della vita civile di una repubblica nella realtà concreta della vita cittadina di Firenze. Una lezione ampiamente ripresa e approfondita da Bruni, che collega l'elogio della libertà dei Fiorentini – in particolare condotto nella Laudatio Florentinae urbis- all'esigenza dell'autogoverno, nonché all'indipendenza dall'esterno. La libertà della città si preserva, egli scrive nell'Historiarum Florentini populi libri XII, allorché le leggi sono più forti dei singoli cittadini. Più attenta – anche in ragione di una sofferta vicenda biografica – al tema della libertà, è la riflessione di Alamanno Rinuccini, il quale compose nel 1479 il dialogo De libertate in cui, per bocca di Aliteo, pronuncia una lode aperta del "vivere politico et civile", che trova il suo fondamento nella giustizia e nelle buone leggi, nonché nella libertà voluta e ricercata con fortezza e determinazione contro quei tiranni che paiono invece assecondare l'accidia e la viltà dei cittadini chiusi nel cerchio angusto delle loro passioni private e disamorati del loro bene più grande, ovverossia di quegli ordini e di quei costumi che limitano e orientano una saggia e responsabile ricerca della felicità. Nella medesima vena Rinuccini sottolinea, inoltre, l'importanza della libertà di parola, che contraddistingue le libere repubbliche, mentre sotto un tiranno regna ovunque un freddo silenzio.

[continua]

nuvolarossa
10-08-02, 10:21
Ma è nella Vita civile di Matteo Palmieri che troviamo compendiati tutti gli elementi costitutivi del canone repubblicano, ben raccolti intorno a un'ampia concezione antropologica che si svela attraverso una suggestiva descrizione della natura umana e della sua vocazione pratica e civile, e che fa da sfondo allo studio di quella "vita civile" che costituisce la miglior forma di associazione umana che sia data sulla terra. L'analisi delle virtù, che tanta parte occupa nell'opera, prelude quindi alla trattazione dell'esistenza associata "de' civili" e questa, solo nella misura in cui è veramente libera, può provvedere alla piena realizzazione di un'esistenza intrinsecamente virtuosa: "la natura d'ogni virtù è procedere dall'animo libero" (p.107). E non vi è libertà dove vi siano discordie e divisioni, dove la vita sia soggetta all'obbedienza servile a un potere che tenga in disprezzo le leggi e l'onore della città: e in una città come in uno Stato, anche "singulare et amplissimo" come quello di Roma in età imperiale, sono le divisioni, gli scandali e le "discordie gravissime" a mettere in pericolo "la dolce libertà" dei cittadini, fondamento della "cittadinesca concordia" e del "politico vivere" (pp.136-137).

Libertà che ricorre come tema dominante nella proposta di Girolamo Savonarola, il quale ripensa – negli anni difficili che seguono le campagne italiane di Carlo VIII e la fine di una politica italiana di Stati e di libere repubbliche – una nuova politica per Firenze, e la ripensa nella forma di una renovatio radicale, dei costumi, degli ordini, dell'idea stessa di cittadinanza, che potesse restituire una dignità perduta ai Fiorentini al di là di ogni considerazione di opportunità sulle alleanze da stringere con Stati e principi stranieri: il problema politico essenziale alla soluzione della situazione fiorentina stava allora, per il Savonarola, non nell'individuazione di opportunismi e tattiche da effettuare in un calcolo strumentale dei costi e dei benefici, ma nell'acquisizione, da parte di ognuno, di una maggiore consapevolezza religiosa, che si sarebbe dovuta tradurre in un decisivo anelito di "vera libertà", da consumare all'interno di una struttura politica che non sempre pare essere assimilata alla forma repubblicana, anche se alla perfezione della monarchia di Cristo, Savonarola contrappone la convenienza – in rispetto al temperamento libero e all'attitudine politica dei Fiorentini – del reggimento popolare.

La geniale capacità innovativa che viene solitamente riconosciuta a Machiavelli, tanto da farne il discrimine tra pensiero politico antico e moderno, risiede nella capacità di trarre le estreme conseguenze dalle virtù civiche: per amor di patria – egli afferma – è lecito dannarsi l'anima. Per il resto egli ha fatto spesso ricorso ad argomentazioni tradizionali elaborate dagli umanisti. Nel Principe egli ha mostrato, con scandalosa coerenza, come la salus reipublicae costituisca il fine ultimo dell'azione dei governanti, l'unico fine che giustifica i mezzi impiegati (cfr. Discorsi III,41). La conservazione dello Stato rappresenta però il livello minimo, la condicio sine qua non, della politicità; la politica consente all'uomo di raggiungere fini ben più alti, quali la grandezza della comunità politica e la gloria dell'uomo politico. Questi temi sono invece esposti con agio nei Discorsi, dove si discorre effettivamente di "politica" nel senso tradizionale, classico e umanistico, del termine. Qui Machiavelli vede nei tumulti, nelle lotte tra patrizi e plebei, uno dei fondamenti della libertà della Roma repubblicana, mettendo in questione quella tradizione che, a partire da Cicerone, l'aveva ascritta alla concordia ordinum (I,2;4). Questo effetto positivo e creatore di libertà delle discordie sociali a Roma è da Machiavelli attribuito alla mancanza di corruzione nel popolo romano: la medesima discordia nella "corrottissima" Firenze a lui contemporanea aveva prodotto solamente lotta tra fazioni nobiliari e perdita di libertà e potenza per la città. Fondamentale importanza per conservare la libertà di una repubblica ha poi l'istituzione, regolata dalla legge, di meccanismi che consentano ai cittadini di denunciare arbitri subiti o violazioni della libertà, senza ricorre a mezzi extra-legali o a calunnie: "accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per le logge [..] e dove non è bene ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi" (Discorsi I,8). La libertà, il "vivere libero", gli appare il presupposto fondamentale per raggiungere la grandezza politica: "E facil cosa è conoscere donde nasca nè popoli questa affezione del vivere libero: perché si vede per esperienza le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio nè di ricchezza se non mentre sono state in libertà" (II,2). E il vivere libero è possibile solo in una repubblica che si auto-governa, dove gli individui hanno a cuore il bene comune e promuovono la grandezza della comunità politica, dove delle buone leggi consentono a tutti i cittadini di vivere su un piano di uguaglianza secondo i propri desideri, i nobili alla ricerca del potere, gli "ignobili" della sicurezza. Occorre notare, infatti, come Machiavelli avesse chiaramente compreso che anche nelle repubbliche il vivere libero ha nella realtà due significati: per alcuni (una ristretta minoranza) vuol dire la possibilità di accedere ai posti di comando (quasi un'anticipazione della teoria dell'élite); per la maggioranza, però, significa semplicemente attendere ai propri affari con sicurezza (I,16). È dunque necessario "costituire una guardia alla libertà" per prevenire la tirannide (I,5), che nasce sempre "da troppo desiderio del popolo d'essere libero, e da troppo desiderio dè nobili di comandare" (I,40): tale è il governo della legge, che impone la "pari equalità", che impedisce il predominio dei "gentiluomini" e induce la plebe alla moderazione (I,58), preservando così il "vivere politico e incorrotto" (I, 55).

Machiavelli si domanda poi perché in passato gli uomini fossero più "amatori della libertà" e ne attribuisce la cagione a una scorretta interpretazione della religione cristiana, tendente a esaltare le virtù di umiltà e contemplazione, e agli "esempli rei" dei preti e della Chiesa romana (I,12): così si è "effeminato il mondo e disarmato il Cielo", mentre la religione antica "non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria" (II,2). Machiavelli generalmente contrappone la libertà nella repubblica alla schiavitù sotto un tiranno. Questo non contraddice l'elogio del principe pronunciato nell'opera omonima, perché il principe, e segnatamente il principe nuovo, ha il compito primario di creare le condizioni minime del vivere politico. La corruzione, ossia la sistematica violazione della legalità e la presenza di individui al di sopra della legge, rappresenta l'elemento discriminante: un popolo corrotto non potrà mai vivere libero (I,16) e raggiungere la grandezza politica, perché i cittadini perseguono il proprio egoistico bene trascurando quello comune: "perché non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa grandi le città" (II,2). Allorché la corruzione dilagò a Roma e i cittadini "divennero cattivi, [..] solo i potenti proponevano leggi, non per la comune libertà ma per la potenza loro" (I,18). Quando la materia è corrotta e la città ha "poca attitudine alla vita libera", è necessaria una mano regia o quasi regia e il ricorso a "grandissimi straordinari" (I,17-18).

Il medesimo rammarico già avvertito nelle pagine che chiudono il Principe si avverte nel "proemio" al Dialogo del reggimento di Firenze di Francesco Guicciardini, che consegna ai Fiorentini la sua lezione che è assieme di politica e di storia in un momento di incertezza e di trasformazione, di crisi e di accorato rimpianto in un'età – quella delle origini popolari e repubblicane di Firenze – che ognuno, nel suo intimo, sapeva irrimediabilmente perduta: Guicciardini, nel Dialogo, lamenta innanzitutto la poca somiglianza dei costumi e delle leggi corrotte dalla cattività medicea con quelle di una repubblica ideale e pare confidare apertamente nel libero corso delle cose umane affinché Firenze possa un giorno ritrovare "uno governo onesto, bene ordinato, e che veramente si potessi di chiamare libero" (p.300) benché "per la autorità che hanno è Medici in Firenze, e per la potenza grandissima del Pontefice paia perduta la libertà di quella" (ibidem). Il metodo storiografico di Guicciardini segue il filo del confronto serrato tra antichi e moderni, tra l'età in cui i diversi ordini di Roma governavano in armonica collaborazione e lo stato di afflizione proprio dei tempi presenti, in cui l'uomo di lettere in pena per le comuni sorti della sua città sta appartato in febbrile attesa di una schiarita, di una viva trasformazione che potesse riguardare ancor prima gli uomini dei governi, "perché – scrive Guicciardini – come il governo cominciassi a essere amato e a venire in riputazione, e che si vedessi che el dimostrare gli uomini ingegno e amore della libertà gli facessi crescere, forse che la natura farebbe per sé medesima che gli uomini in magistrato o privati piglierebbono di questi assunti contro à cittadini perniziosi e pericolosi alla libertà" (p.459).

Negli anni che segnano la fase aggravata della corruzione interna e della dissoluzione del potere mediceo a Firenze vengono meditate, all'interno delle riunioni degli Orti Oricellari, proposte destinate a formare il quadro della tarda riflessione politica fiorentina, che apparirà dominata da un vivo richiamo della tradizione della filosofia civile. Oltre alle voci di Antonio Brucioli e di Bartolomeo Cavalcanti è nella Republica fiorentina di Donato Giannotti che possiamo riconoscere l'appassionata ricerca di un'arte politica in cui si presenta viva l'opposizione tra una repubblica che assimila i cittadini a rotazione nelle sue cariche e una tirannia che abbruttisce e opprime i sudditi privandoli della sicurezza oltre che della libertà: e una città in cui il reggimento politico abbia consolidate tradizioni repubblicane è – scrive Giannotti – "una congregazione civile d'uomini liberi" (p.143).

È da sottolineare come questa libertà sia comunque una libertà pubblica, comunale, quella a cui pensa Paolo Paruta nel suo trattato Della perfezzione della vita politica, per il quale "chi cerca di ben vivere, non pur ha da pensare a se medesimo ma insieme alla città" (p.149). Ovverossia al luogo per eccellenza dell'esercizio responsabile di una libertà che non sia semplicemente ritagliata per gli ozi e gli uffici privati e che si ritrova perfettamente rappresentata nella figura di Catone Uticense, il quale, "essendosi dipartito da Roma con animo di starsi nelle sue ville lontano dalla repubblica, poiché intese Metello, uomo fazioso e ardito, venire alla città per chiedere il tribunato, mutato pensiero: Non è più tempo, disse, di darsi all'ozio, lasciando crescere la potenza di costui con danno della libertà pubblicà" (p.150).

Di una libertà di specie diversa si comincerà a dibattere in Inghilterra negli anni che preparano lo scoppio della guerra civile, quando matura, accanto a proposte diversamente ascrivibili ai partiti e alle fazioni direttamente schierate sul campo, un'alta presa di coscienza del senso del conflitto politico, nella forma della filosofia politica di Thomas Hobbes. In particolare, è nel Leviatano, la sua opera filosofica certamente più matura, che ricapitola e precisa posizioni già espresse nei precedenti Elements e De cive, che Hobbes dà un'originale definizione della libertà, ponendosi in netta alternativa rispetto a quel canone repubblicano che non mancherà di essere prontamente ripreso e rilanciato da autori ad Hobbes contemporanei, talora personalmente schierati contro di lui.

Nel capitolo XXI del Leviatano, "Della libertà dei sudditi", si legge che la libertà è propriamente "l'assenza di opposizione": un criterio, questo, che può essere applicato "non meno alle creature irrazionali e inanimate che a quelle razionali" (p.205). Per quanto riguarda la libertà che qui conta, quella delle creature razionali, essa in ragione della generalità del principio che ne definisce la natura, si determina in relazione agli impedimenti e ai vincoli ai quali quelle creature sono soggette. Ed è solo in relazione a questi vincoli (catene artificiali chiamate leggi civili) che si può parlare di quella "libertà naturale che, sola, è propriamente chiamata libertà" (p.207): infatti, procede Hobbes, "dato che non c'è al mondo uno stato in cui siano stabilite regole sufficienti per regolare tutte le azioni e tutte le parole degli uomini (cosa che è impossibile) segue necessariamente che in tutti i generi di azioni non menzionate dalle leggi, gli uomini hanno la libertà di fare ciò che la ragione suggerirà loro come più giovevole a loro" (pp.207-208). Dunque una libertà "negativa", totalmente privata di quella creatività che caratterizza la libertà politica, "positiva", dei repubblicani: una libertà che "si trova perciò solo in quelle cose che il sovrano, nel regolare le loro azioni [scil. dei sudditi], non ha menzionato" (p.208; mio il corsivo).

Ma se guardiamo al peso e allo spessore teorico di proposte che segnano in profondità il dibattito politico, appare essere Machiavelli il grande spartiacque delle ideologie politiche inglesi per tutti gli anni che segnano la preparazione e lo scoppio della guerra civile. Una prima significativa testimonianza di questa attenzione per un autore che, nel preciso contesto dei dibattiti che hanno luogo in Inghilterra in quegli anni, veicola un universo concettuale estraneo alla sensibilità politica e culturale inglese (per poi, nel corso degli anni, trovarvi un sorprendente radicamento) è data dall'opera di James Harrington, Oceana, che vede la luce nel 1656. Qui, il tema della libertà è fuso con l'evocazione suggestiva di una repubblica che ci pare per molti versi ricalcata sulla traccia della letteratura utopistica fiorita sul continente a partire dal secolo precedente.

Sarà, con una maggiore attenzione al dato empirico, Algernon Sidney, nei Discourses concerning Government pubblicati dopo la sua morte, a intrecciare una narrazione intorno all'origine dei governi in polemica con Robert Filmer che, nel Patriarcha, aveva sostenuto il diritto divino dei re; qui sono inoltre rintracciabili temi notorii del canone repubblicano, come l'opposizione tra esercizio virtuoso della libertà positiva e la schiavitù propria di coloro, come le popolazioni degli Assiri e delle altre nazioni orientali, che non hanno conosciuto istituzioni stabili e ordinate. Sidney estende ai Romani il suo discorso, e l'intera sezione XII del libro – intitolata "The Glory, Vertue and Power of the Romans, began and ended with their Liberty" (p.112) – consiste in un'accurata perorazione a favore delle libertà antiche, dalle quali procedette ogni bene per le generazioni che seppero goderne; così, afferma Sidney, "I dare affirm that all that was ever desirable, or worthy of praise and imitation in Rome, did proceed from its Liberty, grow up and perish with it" (ibidem).

[CONTINUA]

nuvolarossa
10-08-02, 10:23
È evidente che "libertà" per questi autori è molto più un impulso creativo che non la semplice definizione di un diritto oggettivo; esprime cioè una possibilità di comportamento, ma già collocata nell'orizzonte di una sua positività etica, quindi non indifferente a quelle esigenze di eccellenza e di gloria che si avvertono sullo sfondo, vere e proprie costanti, di queste pagine repubblicane. E la medesima tensione civile si respira nel dialogo, composto alcuni anni più tardi dei Discourses di Sidney, Plato redivivus di Henry Neville, in cui è ripreso, in apertura – e nella forma di dialogo tra un nobile veneziano e un gentleman inglese – il tema sidneiano dell'origine del governo, che non può essere ricalcata sul modello di un dominio del padre sul figlio che viene trasmesso, senza che vi siano limiti costituzionali a un tale potere dispotico, ai sovrani futuri.

Non distante da una simile concezione, ma appartenenti a una generazione successiva, sono autori come Robert Molesworth, Walter Moyle, John Toland e Scot Andrew Fletcher, nei quali vediamo fondersi, alla distintiva ammirazione per le antiche repubbliche, l'attenzione per i problemi dell'ora, gli attacchi all'istituto dello standing army e all'establishment ecclesiastico. È in particolare Moyle, nel suo Essay upon the Constitution of the Roman Government, a esprimere un dissenso, tipico del canone in esame, nei confronti di ogni ingerenza del potere ecclesiastico nell'azione dei magistrati civili: "the government of religion being in the hands of the state, was a necessary cause of liberty of conscience" (p.214), sulla base di una equiparazione sistematica delle istituzioni inglesi con quelle, reputate esemplari, della Roma repubblicana e a fissare, nella difesa libertà di coscienza, uno dei cardini del suo programma ideologico. È difficile sottovalutare l'importanza che la nozione di libertà riveste nel pensiero filosofico e politico di Spinoza. Nella sua declinazione etica e in quella politica essa costituisce il fine e il valore supremo al quale devono mirare gli sforzi degli individui, sia singolarmente sia nella loro azione più propriamente politica. Nel Trattato teologico-politico, pubblicato anonimo nel 1670, la rivendicazione della libertà di pensiero e di parola costituisce l'asse portante dell'intera opera, unitamente alla asserzione della possibilità di edificare una comunità politica nella quale tali libertà trovino piena realizzazione. Qui egli opera una drastica quanto significativa identificazione della libertà con lo Stato politico, cui concorrono in misura determinante le leggi (cap.3). Preliminare e precedente questa libertà politica è, però, la libertà individuale che consiste essenzialmente nella facoltà di libero pensiero: di qui l'amore per la conoscenza che conduce all'accettazione consapevole della struttura del reale e alla negazione del libero arbitrio; di qui la lotta contro le passioni che non consentono un pieno esercizio della libertà della mente; di qui la lotta contro il pregiudizio che ottenebra la mente, condotta in nome di una nuova, corretta interpretazione della Sacra Scrittura fondata sull'identificazione dei rispettivi ambiti di teologia e filosofia. La concezione politica spinoziana, come la sua visione etica peraltro, sono situate all'interno di una concezione metafisica nella quale la legge di determinazione causale ha un ruolo centrale: la libertà è da lui concepita come razionalità e non può pertanto essere disgiunta dalla conoscenza. La libertà civile risiede esclusivamente nell'esercizio della libertà di pensiero e di parola: di conseguenza, il cittadino attiverà tale sua libertà partecipando al dibattito politico ma agirà politicamente esclusivamente attraverso i propri rappresentanti. Già nella Prefazione Spinoza afferma che scopo dell'opera è mostrare come la libertà di pensiero e di culto sia "non soltanto compatibile con la pietà e la pace dello Stato, ma anzi non può essere soppressa senza pregiudizio della stessa pietà e della stessa pace dello Stato" (p.4). "libera in sommo grado è quella repubblica che ha le sue leggi fondate sulla retta ragione" (cap.16); il governo democratico è "il più naturale e il più conforme alla libertà" perché tutti gli uomini continuano a godere della medesima uguaglianza che vigeva nello stato di natura. Egli conclude che "il vero fine dello Stato è la libertà" (cap.20), che è innanzitutto libertà di giudizio e libertà di parola.

Montesquieu, sulla scia di Machiavelli e in contrasto con Bossuet, ritiene che i contrasti politici del popolo romano furono la fonte della sua libertà: negli Stati dove i cittadini sono tranquilli la libertà è morta. Riprendendo un pensiero di Cicerone nel De Republica, egli ritiene che la vera unione politica consista nell'armonia. Fin dall'inizio dello Spirito delle Leggi individua nella libertà l'essenza dell'umanità, quella libertà che induce l'uomo a violare le leggi divine e a mutare quelle umane. I libri XI e XII sono dedicati alla libertà politica, nei suoi rapporti con la costituzione e con il cittadino, rispettivamente. Egli osserva preliminarmente che la libertà non deve essere identificata con una forma di governo nè con la possibilità di fare tutto ciò che si vuole; quando si fà così, ad esempio nel caso della democrazia, si confonde "il potere del popolo con la libertà del popolo" (XI,2). Egli definisce perentoriamente la libertà come "il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono" (XI,3), individuando nelle leggi il limite e la garanzia, a un tempo, della libertà individuale. La libertà politica, poi, consiste in una condizione di tranquillità di spirito indotta nel cittadino dalla percezione della propria sicurezza, sicurezza determinata a sua volta dall'ordinamento dello Stato: la libertà politica è così legata alla divisione dei tre poteri fondamentali esistenti all'interno di ogni comunità politica; ogniqualvolta vi è commistione tra i tre poteri o essi sono riuniti in una sola persona o in un solo corpo, la libertà è perduta. Montesquieu afferma quindi che la costituzione inglese garantisce più di tutte la libertà del cittadino, anzi è orientata a questo fine. Egli giunge a questa provvisoria conclusione: "Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da sé medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo" (XI,6). Tuttavia, vista l'inevitabile esistenza di aristocrazie all'interno di ogni Stato, il potere legislativo deve essere affidato in parte anche ai nobili, perché non costituiscano un corpo estraneo all'interno dello Stato. Il potere esecutivo, d'altra parte, deve essere nelle mani di un monarca. Una siffatta divisione dei poteri è alla base della libertà politica; essa è visibile nel tradizionale ordinamento costituzionale inglese; lì deve essere cercata la libertà, oltre che nei boschi d'oltremanica. Tuttavia, sebbene l'ordinamento costituzionale dello Stato, ossia la disposizione delle sue leggi fondamentali, costituisca la cornice della libertà del cittadino, essa deve essere attuata sulla scorta di leggi particolari, e segnatamente delle leggi penali: "dalla bontà delle leggi penali dipende principalmente la libertà del cittadino" (XII,2). Montesquieu è poi convinto che l'entità dei tributi incida sulla libertà del cittadino o, meglio, che i tributi debbano essere commisurati alla libertà di cui gode il popolo, sia nell'entità sia nella specie: i sovrani dispotici devono imporre tasse lievi. Nel frammento Sulla libertà politica Montesquieu osserva con distaccato realismo che la parola libertà "non esprime propriamente altro che un rapporto" e non distingue le diverse specie di governo: la libertà dei poveri è la servitù dei ricchi e può essere presente sia nelle monarchie moderate come nelle repubbliche. Il tema della libertà costituisce uno dei cardini della concezione politica di Voltaire, dove viene spesso declinato in contrapposizione al governo arbitrario o tirannico. Nelle tragedie giovanili Bruto e La morte di Cesare, la libertà politica viene associata al tirannicidio. La prima, scritta sulla scorta delle suggestioni riportate dalla propria permanenza in Inghilterra e rappresentata per la prima volta nel 1730, divenne poi durante la rivoluzione uno dei simboli della libertà repubblicana. In essa ritornano molti dei temi del repubblicanesimo romano, come l'elogio della libertà repubblicana, nata dalla cacciata dei re, e l'odio per la monarchia, sentimenti che spingono il protagonista Bruto a reputare più importante la libertà della patria rispetto alla vita del figlio. È importante sottolineare come Voltaire rifugga dall'usuale identificazione della libertà con la forma di governo repubblicana; anche la monarchia può essere un'ottima forma di governo, se i cittadini godono di una libertà pubblica delimitata dalle leggi. Temi analoghi ricorrono nella Morte di Cesare, opera che mostra chiaramente l'influenza di Plutarco e del Giulio Cesare di Shakespeare, dove, grazie alla più articolata complessità dell'intreccio e al maggiore approfondimento psicologico dei personaggi, Voltaire evidenzia in tutta chiarezza i sacrifici che l'amore e la scelta della libertà impongono all'individuo. È da notare come, nonostante l'ambientazione classica, Voltaire sia fautore della libertà del cittadino dello Stato moderno, concepita, sul modello della libertà inglese, come obbedienza alle giuste leggi elaborate dallo Stato: "essere liberi significa dipendere soltanto dalle leggi" (Quesiti sull'Enciclopedia, Governo inglese). La giustificazione del tirannicidio in nome della libertà del popolo ricorre, con accenti più sfumati, anche in altre opere, dove viene ampliata la nozione di tirannide, per includere, ad esempio, quella contemporanea esercitata dai corpi intermedi nell'opporsi al potere sovrano.

Jean-Jacques Rousseau ha il merito di aver riproposto, con la potenza della propria retorica e l'appassionato afflato etico che lo contraddistingue, molti degli ideali classici della tradizione repubblicana. Essi riecheggiano nella lettera dedicatoria del Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza: la necessità della virtù civica per avere un buon governo, la quale consiste essenzialmente nella partecipazione alle cose pubbliche per amore della propria patria; il conseguente ideale dell'auto-governo, inteso come partecipazione di tutti i cittadini al potere legislativo, che si può realizzare solamente nelle piccole comunità politiche; l'esaltazione delle piccole repubbliche, come la città di Ginevra, nelle quali soltanto può esservi amore tra i concittadini, garanzia di pace e libertà sia all'interno sia nel rapporto con gli altri Stati. Egli apre il Contratto sociale con la celebre frase "L'uomo è nato libero e ovunque è in catene". Ricercando l'origine di questa schiavitù, egli la vede sorgere dalla proprietà privata e dall'ineguaglianza di ricchezza che caratterizzano la società civile di contro alla completa indipendenza di cui l'uomo godeva nello stato di natura. Questa è l'idea centrale che ritorna in tutte le opere di Rousseau: la società distrugge la libertà naturale dell'uomo; soltanto la buona società può ricompensarlo di questa perdita offrendogli la sicurezza della libertà civile sotto la legge e infondendo in lui la libertà morale (I,8). Egli prosegue affermando che "rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell'umanità, e perfino ai propri doveri" (I,4). Dall'assioma della libertà originaria dell'uomo Rousseau deduce che qualunque autorità politica legittima debba fondarsi necessariamente su qualche forma di convenzione: inizia così ad emergere il tema del patto "in virtù del quale un popolo è un popolo" (I,5), anteriore a qualunque governo. La sovranità della volontà generale, la quale esprime la volontà di ciascun individuo retto, nella società politica garantisce la libertà del cittadino. Dal momento che il corpo sovrano nasce dal contratto sociale che impegna tutti gli individui a perseguire l'interesse comune, nessuno può opporsi a esso: "chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; [..] lo si obbligherà ad essere libero" (I,7). Questo paradosso, precorritore della robespierriana "tirannide della libertà" secondo alcuni interpreti, deriva dalla convinzione che solo nello stato civile sia possibile quella libertà morale che, sola, rende l'uomo veramente uomo: uscendo dallo stato di natura l'uomo abbandona una condizione di indipendenza, la libertà naturale, per godere della libertà civile. Rousseau dà, poi, una delle più compiute esposizioni della sua visione della libertà nelle Lettere dalla montagna. Qui ritorna la sua distinzione tra l'indipendenza che contraddistingue l'uomo nello stato di natura e la libertà di cui gode nella società; egli ammonisce di non confondere la libertà con l'indipendenza: "La libertà non consiste tanto nel poter fare la propria volontà, quanto nel non essere soggetti alla volontà degli altri"; la libertà deve dunque sempre essere accompagnata dalla giustizia e non può esistere al di fuori della legge. "In una parola – egli conclude – la libertà segue sempre le sorti della legge; essa fiorisce o muore con lei" (Lettera VIII).

Gabriel Bonnot de Mably, sebbene sia stato spesso definito il più severo dei repubblicani francesi, ritiene che soprattutto una forma di governo mista possa salvare i Francesi dal dispotismo, restituendo loro la libertà. Egli enuncia la teoria dell'ancienne libertè nel suo Dei diritti e dei doveri del cittadino: "Noi Francesi eravamo liberi, liberi come lo siete oggi in Inghilterra; [..] i nostri padri hanno venduto, regalato e lasciato distruggere la nostra libertà; continuando a disprezzarla noi la dimenticheremo" (I lettera); oggi noi viviamo in uno stato di sottomissione. La libertà si definisce in positivo come autogoverno: "parliamo della libertà francese e vogliamo non essere schiavi, come se per un popolo vi fosse un modo di essere liberi diverso dall'essere il suo proprio legislatore"; in negativo essa si definisce in contrapposizione alla tirannide: "il dispotismo inizia dove finisce la libertà" (II lettera). L'amore per la libertà viene concepito come la fonte di ogni bene, ma deve essere unito all'amore per le leggi, altrimenti prevalgono le passioni e si genera la tirannide (IV lettera). Egli evidenzia poi l'importanza dell'educazione per creare cittadini liberi e la necessità di diversi tipi di magistrati sottoposti alla legge per conservare la libertà (VII lettera), senza la quale non vi può essere benessere (VIII lettera). Nei Discorsi di Robespierre si compie il rovesciamento retorico di una delle contrapposizioni fondanti il pensiero politico occidentale: il regime rivoluzionario viene infatti da lui caratterizzato come "dispotismo della libertà", in contrapposizione alla reale tirannide rappresentata dalla monarchia assoluta. Egli, identificando la repubblica con i valori della patria e della libertà, attribuisce a questo termine un significato nuovo, svincolato da una precisa tipologia delle forme di governo: "La parola repubblica – egli afferma – non significa alcuna forma particolare di governo, essa risponde a ogni governo di uomini liberi, di coloro che hanno una patria". La sua asserzione è analoga a quella di Desmoulins, che considerava la repubblica "uno stato libero con un re o uno statholder o un governatore generale oppure un imperatore" (Revolutions de France et de Brabant, 1791). Nell'infuocata oratoria di Saint-Just ricorrono molte figure retoriche mutuate dal pensiero repubblicano classico. Egli può così affermare che "la calma è l'anima della tirannide, la passione quella della libertà". Un popolo è libero quando è sovrano; la libertà dei cittadini consiste nel dipendere da leggi ragionevoli; la perfetta libertà si identifica pertanto con la forma di governo democratica. Riprendendo un tema caro a Rousseau, egli afferma che l'indipendenza è tipica dello stato di natura, la libertà della condizione civile.

La prima libertà che Immanuel Kant rivendica in nome degli ideali politici dell'Illuminismo, da lui concepito come uscita dell'uomo da uno stato di minorità che deve imputare a se stesso, è la libertà "di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi" (Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?: 52): una libertà di parola che costituisce il presupposto necessario di ogni opera di Aufklärung del popolo nonché l'unica difesa dei diritti del popolo. La libertà dell'individuo in quanto uomo ha poi un ruolo fondamentale nella sua costruzione teorica dello stato civile, in quanto ne costituisce uno dei principi a priori. A lui dobbiamo una delle più suggestive definizioni della libertà umana, concepita come possibilità di perseguire la propria personale immagine della felicità: l'idea che "nessuno può costringermi ad essere felice a suo modo" (Sopra il detto comune..: 78) si traduce in una recisa condanna di ogni governo paternalistico che, trattando i sudditi come figli minorenni, si arroghi il diritto di scegliere per il loro bene: l'imperium paternale è per lui la peggior forma di dispotismo. Nella sua visione questo "spirito di libertà" deve essere incarnato e difeso dalla costituzione, la quale deve ispirare una razionale e spontanea obbedienza alle leggi coattive dello Stato: di qui discende la "libertà legale", ossia la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui tutti i cittadini hanno dato il proprio consenso.

In una vena simile e con un'analoga visione autenticamente liberale Alexis de Tocqueville condanna il dispotismo paterno come la più perversa forma di governo che possa toccare gli uomini, e proprio quella che le società democratiche debbono maggiormente temere. Questo regime, infatti, si prende cura della vita dei sudditi fin nei minimi dettagli, ma così facendo li lascia sempre in statu pupillari: non toglie loro la forma esteriore della libertà ma ammorbidisce, piega e dirige le loro volontà; non li riduce in schiavitù, ma lascia loro solamente la libertà di "procurarsi piaceri minuti e volgari di cui nutrono la loro anima". Questo dispotismo può instaurarsi nei popoli democratici perché i cittadini delle democrazie sono proni a rinchiudersi all'interno del cerchio ristretto della parentela e delle amicizie intime, paghi del loro "materialismo onesto" e poco inclini alle grandi idealità e all'impegno pubblico. Al dispotismo paterno fà da pendant sul piano sociale quella che Tocqueville chiama la "tirannide della maggioranza", ossia il potere occulto dell'opinione pubblica che può indurre al conformismo. Questa tirannide non usa più strumenti primitivi quali catene e carnefici, "abbandona il corpo e punta diritto all'anima", traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero per stabilire ciò che è lecito e conveniente e ciò che non lo è: al di fuori di questo cerchio di opinioni convenzionali, l'individuo è libero ma isolato, uno straniero senza più patria.

I repubblicani americani usavano nomi fittizi tratti da Plutarco ma non condividono il suo repubblicanesimo aristocratico. Essi ribaltano una delle convinzioni predilette del pensiero politico europeo, criticando il presunto "spirito pacifico" delle repubbliche: essi mostrano, infatti, come le cause di ostilità tra i popoli non siano rimosse o alterate dalla loro forma di governo (n.6). Essi vedono nella separazione e distinzione dei vari poteri la garanzia essenziale della libertà; esecutivo e legislativo si controllano a vicenda. Di più, in America l'esistenza di un governo federale al di sopra di quello dei singoli Stati è un'ulteriore, doppia garanzia della libertà del popolo.




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Bibliografia.

AA.VV. Morire per la libertà, a cura di F. Ingravalle, Torino, La Rosa, 1996.

AA.VV. Libertà, Venezia, Marsilio, 1991.

Isaiah Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford, Oxford University Press, 1969.

Kurt Raaflaub, Die Entdeckung der Freiheit, Muenchen, Beck, 1985.
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tratto dal sito web:
http://www.univ.trieste.it/~dipfilo/etica_e_politica/1999_1/giorgini.html

nuvolarossa
10-08-02, 10:36
Presso l'Universita' degli Studi della Tuscia di VITERBO

Prof. Maurizio Ridolfi
I semestre

Corso monografico
Repubbliche e repubblicanesimo nell'Europa del Novecento

Il corso, in primo luogo, vuole evidenziare la complessa traduzione dei principali modelli repubblicani di governo - americano e francese - nell'Europa del Novecento; una tendenza incentivata soprattutto dopo la Grande guerra e la dissoluzione degli imperi (tedesco, austro-ungarico, russo, turco). Attraverso un approccio comparativo, spaziando tra l'Europa centro-orientale e l'Europa mediterranea, nel novero delle nuove Repubbliche anche quella italiana, nata nel 1946, potrà acquisire una più chiara connotazione politica e culturale.
In Europa si sono ridestate le passioni del repubblicanesimo, una cultura politica che in Italia vanta una tradizione originale: da Cicerone a Machiavelli, fino a comprendere Giuseppe Mazzini e Piero Calamandrei. La tradizione repubblicana rinvia non solo alla forma politico-istituzionale di governo ma anche alla natura dell'"amor di patria" e della cittadinanza democratica: è questo il filo conduttore del corso. Basti pensare ai temi che l'orizzonte del patriottismo repubblicano evoca: le istanze autonomistiche e federalistiche, la retorica, i simboli, i rituali pubblici, i monumenti, la toponomastica, i linguaggi della memoria e delle rappresentazioni narrative (politiche, ma anche letterarie).
L'articolazione del corso prevede la formazione di due gruppi seminariali, con l'analisi di fonti e testi attraverso cui evidenziare le diverse forme di religioni civili repubblicana presenti nell'Europa del Novecento. Un gruppo, coordinato dalla dott.ssa Cinzia Pellegrini, presterà attenzione all'Europa centro-orientale, in particolare alla storia della Repubblica cecoslovacca tra modello della Repubblica tedesca di Weimar (nel primo dopoguerra) e esemplificazione tra le più significative (nel secondo dopoguerra) delle "democrazie popolari" comuniste. Un secondo gruppo, coordinato dalla dott. ssa Luisa Selvaggini, si occuperà della tradizione repubblicana nel mondo iberico (la Spagna e il Portogallo), in relazione soprattutto al modello francese.

Testi per preparare l'esame
E' richiesta la preparazione dei seguenti testi :
- ALEXIS DE TOCQUEVILLE, La Democrazia in America, una delle edizioni tascabili in commercio (brani scelti indicati nell'ambito del corso)
- ANTONIO BECHELLONI, Metamorfosi di un modello repubblicano. Francia 1944-1993, Unicopli 1995
- M. RIDOLFI-N. TRANFAGLIA, 1946. Nasce la Repubblica, Laterza 1996

A scelta
Lo studente deve scegliere uno dei testi seguenti:
- MAURIZIO VIROLI, Repubblicanesimo, Laterza 2000
- GIAN ENRICO RUSCONI, Patria e repubblica, Il Mulino 1997
Chi svolgerà l'esercitazione seminariale, potrà non portare il previsto libro a scelta.
*Ai fini della valutazione, per chi non avesse già sostenuto l'esame di Storia dell'Europa o di Storia contemporanea, è richiesta la conoscenza dei lineamenti generali della storia contemporanea. Si consiglia il testo di G. Sabbatucci- V. Vidotto, Manuale di storia, vol. III. L'età contemporanea, Laterza.

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tratto dal sito web:
http://www.unitus.it/lingue/docenti/storia_contemporanea/aa01_02/vecchio_ord/

nuvolarossa
10-08-02, 10:58
MARINA TESORO, Democrazia in Azione. Il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, Franco Angeli, Milano, 1996, pp.276.


Marina Tesoro autrice che non ha certo bisogno di presentazioni per i lettori di questo Bollettino raccoglie e rielabora in questo volume una serie di saggi scritti a partire dal 1975 e che hanno come proprio asse tematico lo sviluppo storico del repubblicanesimo di prevalente ascendenza cattaneana.
Il libro appare diviso in due parti dedicate la prima al programma ed all'organizzazione del P.R.I., dalla nascita sino al primo dopoguerra, e la seconda ad approfondire alcuni aspetti della storia repubblicana legati a singoli personaggi. Si susseguono così otto saggi dedicati rispettivamente, per quanto riguarda la prima parte, ai rapporti tra socialisti e repubblicani nella Milano di fine secolo, ai caratteri fondamentali del P.R.I. sino alla Grande guerra, al partito politico nella concezione di Ghisleri, ed al problema dello Stato e più in generale alla vicende del P.R.I. nel primo dopoguerra; alla questione femminile in Ghisleri, all'attività politica di Colajanni tra Crispi e Giolitti, all'attività di Schiavetti nel P.R.I., ed al pensiero autonomista di Zuccarini nella seconda parte.
Si tratta come rileva la stessa autrice di studi <<elaborati in modi diversi, con destinazioni differenti e dunque impostati su registri di approfondimento tra loro non omogenei>> (p.11). Piuttosto che soffermarci su ognuno di essi dando vita ad una serie di minirecensioni - riteniamo dunque più opportuno soffermarci su alcune riflessioni d'insieme.
Il volume costituisce un'analisi sostanzialmente compiuta ed organica del repubblicanesimo di ascendenza cattaneana; lascia tuttavia perplessi l'idea di fondo - che del resto appare più enunciata a livello teorico che applicata effettivamente nelle singole ricerche - di uno sviluppo che condurrebbe da un 'veterorepubblicanesimo' mazziniano ed intransigente ad un 'neorepubblicanesimo' cattaneano e riformista.
In realtà, come appare evidente dalle stesse ricerche della Tesoro e come del resto il recente rifiorire di studi sulla tradizione repubblicana in particolare romagnola ha messo in luce nel movimento repubblicano convivono, compenetrandosi spesso negli stessi protagonisti, diverse tradizioni e istanze ideali, senza che sia possibile individuare un vero e proprio sviluppo evolutivo, né in senso temporale, né, tanto meno, in senso valoriale.
Del resto la stessa autrice, accanto a personaggi di indubbia derivazione cattaneana come Ghisleri e Zuccarini, si sofferma su personaggi animati da ispirazioni diverse, dal repubblicano 'realista' e, per dir così, transigente Colajanni, a Dario Papa e Fernando Schiavetti, ambedue animati, sia pure con sfumature differenti, dalla volontà di conciliare repubblicanesimo e socialismo.
Né le influenze politiche si riducono a quelle, per così dire, immaginabili. Particolarmente significativo ci pare, anche per la sua scottante attualità, il 'discorso' politico messo in campo dall'<<Italia del Popolo>> nella lotta anticrispina, che fu in grado di compattare la variopinta coalizione ostile al politico siciliano. Un discorso che si condensò in una serie di parole d'ordine: <<la protesta antifiscale>>, il <<ritorno all'ordine>> contro l'arbitrio crispino e soprattutto <<il gioco del paragone e della contrapposizione di Milano contro Roma, del Nord contro il Sud, dell'Italia civile e produttiva contro Italia corrotta e parassitaria>> (p.55). Un armamentario retorico su cui si vorrebbe saperne di più, soprattutto sulle sue radici che affondano in un humus ideologico comune a gran parte della classe dirigente e non solo milanese.
Particolarmente significativo è che, comunque, il momento di massima fortuna dei repubblicani coincida con la lotta dello 'Stato di Milano' (espressione non a caso coniata da Papa) contro Crispi. Venuta meno la coalizione anticrispina con la salita al potere di di Rudinì i repubblicani si trovarono nuovamente isolati a destra con i radicali e i liberali avanzati disponibili all'accordo con il nuovo governo e a sinistra con i socialisti che, nonostante le sollecitazioni di Papa, tornarono a rinchiudersi nel loro esclusivismo.
I repubblicani in questa situazione non riuscirono a convogliare verso la propria idea di repubblica federale il seguito conquistato dallo 'Stato di Milano' che rifluì così al suo stato primitivo di 'ideologia milanese' del primato della produttività sulla politica e della 'diversità ambrosiana'; un'ideologia che, come sappiamo, avrà, come sappiamo, lunga vita. Del resto la Tesoro è ben lungi dal negare la presenza di linee tra loro differenti e a volte conflittuali; giunge anzi a vedere nella pluralità di ascendenze politiche una sorta di "vizio congenito" (p.19) destinato a minare la stessa efficacia dell'azione repubblicana.
In particolare l'autrice individua l'antinomia di fondo nel "presentarsi come partito di antitesi assoluta al sistema politico istituzionale oppure partito riformatore" (p.81); un'antinomia che finirà per divenire paralizzante per la stessa attività del partito in alcune fasi. Questa contraddizione, che certo esisteva a livello organizzativo (e basti qui ricordare trascurando anche la posizione dei ralliées con la monarchia gli scontri costanti tra astensionisti e partecipazionisti, o in una seconda fase tra rivoluzionari e riformisti), trova una propria spiegazione nella cultura positivista ed evoluzionista di cui, almeno dai tempi dei 'placidi tramonti della monarchia' era impregnata la gran parte dei repubblicani. Una cultura per la quale, dato per scontato l'inevitabile trionfo della repubblica, diventava di secondaria importanza, e legato essenzialmente alle contingenze storiche, se ci si arrivava pacificamente o per vie rivoluzionarie.
Si spiega così il riformismo sui generis dei repubblicani caratterizzato, per così dire, da una sorta di riserva mentale, dalla convinzione cioè che le riforme strutturali necessarie al paese fossero sostanzialmente incompatibili con il regime monarchico e che quindi fosse inevitabile giungere prima o poi al redde rationem rivoluzionario.
Una mentalità che trovò una sua icastica rappresentazione (del resto ricordata dalla Tesoro) nella decisione dell'<<Italia del Popolo>>, organo ufficiale della riformista e 'cattaneana' Federazione regionale lombarda, di regalare ai propri abbonati, per il 1894, una rivoltella. Una mentalità che, andrebbe analizzata a fondo per comprendere alcuni tratti del movimento repubblicano durante il periodo monarchico.
Particolarmente significativo da questo punto di vista, ed altrimenti difficilmente spiegabile, il ruolo che il P.R.I., inserendosi nella tradizione dell'Estrema Sinistra, attribuiva al Parlamento nel proprio programma del 1897: da un lato si riconosceva l'attività dei parlamentari come uno strumento utile all'azione del partito, ma dall'altro si ribadiva che comunque tale attività andava compiuta senza nessuna concessione alle istituzioni monarchiche e nella consapevolezza della loro sostanziale inanità, per il carattere intrinsecamente irriformabile della monarchia (<<nulla speran[do] di poter ottenere dagli attuali istituti>>). Questo non toglie che gli scontri tra chi intendeva far prevalere l'opzione rivoluzionaria e i sostenitori dell'ipotesi parlamentare furono continui nella storia del partito, ma, almeno dal punto di vista teorico, la questione era, tutto sommato, chiara.
Altro punto preso in considerazione dalla Tesoro è quello della struttura organizzativa del P.R.I.. Una struttura che come è noto si presenta come sostanzialmente a macchia di leopardo con alcune zone di forte radicamento in Italia centrale, ed una presenza sparsa nel resto del paese, anche se la stessa autrice mette in luce come sarebbe necessaria una maggiore messe di studi locali per avere una mappatura più certa della geografia politica repubblicana. Tanto più utile per quelle realtà, come il Sud Italia, dove le strutture organizzative erano estremamente labili ed il processo di differenziazione all'interno dell'Estrema tutt'altro che avanzato, ma che tuttavia non è possibile, almeno a nostro parere, ricondurre alla sola dimensione notabilare e clientelare.
Dato consolidato, comunque, è il carattere scarsamente strutturato a livello nazionale, delle organizzazioni repubblicane anche in quei casi in cui la loro consistenza fosse maggiore. Il coordinamento nazionale era dato sostanzialmente da una rete di giornali e dalla presenza di un gruppo dirigente di varia formazione ma la cui autorevolezza era sostanzialmente riconosciuta da tutti. Si tratta del resto, come ben mette in luce l'autrice, di una struttura che dipendeva strettamente dalle concezioni politiche dei repubblicani, legati anche nei propri esponenti più avanzati come Ghisleri, ad una concezione ottocentesca del partito politico. Una concezione che vedeva nell'unicità del discorso politico garantito da una cultura comune e da una rete di giornali e pensatori/oratori (spesso deputati) il collante di organizzazioni altrimenti attive essenzialmente a livello locale, lì dove cioè il partito politico poteva stemperarsi nella dimensione più familiare dell'associazionismo.
L'ultimo punto su cui vogliamo soffermarci è la questione, posta dalla Tesoro sul <<come mai, pur ammettendo in termini generali, l'esistenza di una linea di discendenza tra il Partito repubblicano, Giustizia e libertà, il Partito d'azione e persino il virtuale partito della democrazia e anche riconoscendo il debito intellettuale verso Ghisleri di personaggi come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Emilio Lussu o Ferruccio Parri, i repubblicani sembrano aver lasciato alle generazioni successive una così debole traccia di sé>> (p.17). Le risposte fornite dall'autrice appaiono sostanzialmente convincenti: l'isolamento sia a destra dovuto alle èlite liberali, sia a sinistra da parte dei socialisti entrambi insensibili alle istanze repubblicane, ma anche, se non soprattutto, le deficienze interne del movimento stesso sia per gli uomini, non sempre di eccelso livello sia (e secondo l'autrice in via principale) per il <<carattere polimorfico>> del Pri, per la sua molteplicità di ascendenze e di linee politiche che provocava un dispendio enorme di forze sia nella mediazione che nello scontro tra di esse. lasciandone ben poche per la propaganda all'esterno.
Non si può, tuttavia dimenticare che la vicenda del movimento repubblicano va inquadrata nella più generale crisi della democrazia radicale a livello europeo che coinvolge anche gruppi ben più consistenti e radicati dei repubblicani come i liberals inglesi o i radicaux francesi, appartenti anch'essi alla famiglia politico-culturale dei repubblicani. Una crisi legata alla fine dell'organizzazione sociale e culturale ottocentesca - segnata dalla presenza massiccia dei gruppi borghesi, artigiani e commerciali tradizionali e di quel complesso insieme di mestieri di ancien regime dai cocchieri ai camerieri, tutti portatori di un'idea di democrazia come 'res publica dei patres familias'- che ne costituiva l'humus indispensabile.

Pietro Finelli
---------------------------------
tratto da:
http://www.domusmazziniana.it/BollettinoCorrente/X0012_Tesoro.html

nuvolarossa
15-08-02, 08:29
IDEA RINNOVATRICE

di Giuseppe Rensi
Dei due principi che si contesero il campo durante la lotta
per l'indipendenza e l'unità, il monarchico e il repubblicano, il
primo era quello che riassumeva in se lo spirito e la tendenza
della conservazione economica e sociale, secondo quello che
affermava e conteneva i postulati più arditi di rinnovazione,
ed era materiato di rivendicazioni proletarie.
E' impossibile negarlo. L'idea repubblicana, quale era
proclamata dai grandi di quel fortunoso periodo non era
un'idea meramente formale, non mirava unicamente ad u-
na questione di forma, non tendeva a lottare solamente per
ottenere un capo elettivo dello Stato in luogo di un capo e-
reditario, lasciando immutato tutto il resto. Essa invece pe-
netrava profondamente tutta la struttura sociale, e il suo
contenuto interno, la sua intima essenza, il suo tessuto or-
ganico (se così è lecito dire) inscindibile dalla forma esterna,
e senza il quale questa non si sarebbe neppure potuta con-
cepire, consisteva appunto nel concetto della trasformazio-
ne economica. L'idea repubblicana faceva appello diretta-
mente al proletatiato e lo chiamava a lottare per la repubbli-
ca allo scopo di conquistare con la repubblica e nella repub-
blica la sua emancipazione economica, e additandogli nella
repubblica non una forma estrinseca di governo, ma un
completo sistema di rinnovazione sociale. O meglio ancora:
la repubblica era la grande espressione con cui il proletaria-
to stesso dava forma alla soluzione dei problemi, al soddi-
sfacimento dei bisogni che lo angustiavano. L'idea di rinno-
vazione sociale era connaturata all'idea di repubblica. La re-
pubblica doveva essere (per usare le parole di Giuseppe
Ferrari) la rivoluzione del povero. Contro di essa la monar-
chia non doveva essere e non fu che la rivoluzione del ricco.
Niuno meglio di Giuseppe Mazzini ci offre la dimostrazio-
ne di questa verità: di Giuseppe Mazzini che fu il più strenuo
combattente per la repubblica, colui che dell'idea repubblica-
na venne sempre e viene ancora salutato apostolo.
L'idea di Mazzini fu tradita dagli uomini e dai fatti perche
l'Italia si formò su tutt'altre basi politiche ed economiche da
quelle per cui egli aveva lottato con tutta la sua anima e per
tutta la sua vita.
Eppure, chi sa? Nessuna di queste scintille ideali può an-
dare interamente perduta. Esse ci appaiono talvolta soffocate
del tutto dalla trama brutale dei fatti ma, forse, a secoli di di-
stanza, come rigermoglia il grano trovato nella tomba del Fa-
raone, torneranno a rilucere e ad ardere in qualche spirito
grande e per mezzo di lui a suscitar nuovamente nei cuori un
vasto, e forse allora, inestinguibile incendio.

(1905)

nuvolarossa
25-08-02, 10:26
LA REPUBBLICA DELL'UOMO

di Edoardo Pantano

Noi celebrammo Mazzini nelle ore tristi in cui la calunnia lo
incalzava da ogni lato: lo difendemmo quando gli altri lo com-
battevano; quando il farlo procacciava l'ironia o la persecuzio-
ne. Sotto il fascino del suo esempio o della sua parola, spiam-
mo allora i palpiti della patria, frementi di trovarli incerti e fiac-
chi -mentre qualcuno, di quando in quando, per irrobustirli
con la trasfusione del proprio sangue affrontava, in tentativi di-
sperati, il carcere o la scure, quando non poteva sfidare la mor-
te sui campi di battaglia.
Poi alla febbre degl'ideali del periodo epico del risorgimen-
to nazionale successe quella degli appetiti, alla storia eroica la
cronaca senile; e in quel periodo grigio di entusiasmi a freddo
di patriottismo senza sacrifici, di poesia senza inspirazione, di
religione senza fede -noi trovammo ancora una volta nella sua
parola o nel suo esempio la forza necessaria per sottrarci alle
pigri allucinazioni dell' ambiente, per risalire la corrente, per
contrapporre al soffio gelido dello scetticismo un'anima e un'i-
dea. Allora -ed ora? Ora perplessi, pensosi torniamo a curvarci
sul petto della patria risorta per sorprendervi il soffio di quelle
idealità rigeneratrici senza le quali un popolo non è che un nu-
mero nella storia.
E dinanzi al suo sepolcro, dove sfilano a capo scoperto an-
che coloro che un giorno lo vollero proscritto dalla sua terra na-
tia o dalla coscienza nazionale, salutiamo questo generale in-
condizionato omaggio alla sua memoria, come un raggio di lu-
ce che illumina l' anima del paese verso i suoi futuri destini. In
questo unanime consenso -al di fuori e al di sopra di ogni que-
stione di parte -sta oggi l'affermazione della sua grandezza.
Giacche se come cittadino del mondo egli fu l'interprete del
pensiero collettivo di un'Epoca nuova in cui lo Stato non sarà
più ne sopraffazione di classe, ne lotta di egoismi, ma integra-
zione piena dell'uomo nella società, del cittadino nella Patria e
della Patria nell'Umanità -come italiano egli rappresenta la in-
camazione più completa e più pura della coscienza nazionale.

nuvolarossa
01-09-02, 02:36
La frase machiavellica che Machiavelli non pronunciò
«Il fine giustifica i mezzi»: la prova lampante del fraintendimento del pensiero dello statista

Maria Mataluno

A guardarlo attentamente, così come lo presenta Santi di Tito in un famoso ritratto, è difficile credere che Niccolò Machiavelli fosse quel diabolico consigliere di tiranni dipinto da una secolare tradizione. Occhi sfuggenti e malinconici, fronte ampia, labbra sottili che accennano un indecifrabile sorriso: il grande fiorentino sembra rivolgerci uno sguardo di complicità, una richiesta di comprensione che quasi ci spinge a dare ragione a Ugo Foscolo, il quale sostenne che l’autore del Principe non intendeva elargire consigli immorali ai governanti, ma anzi mettere in guardia gli uomini liberi dai pericoli dell’assolutismo, nascondendo dietro il significato letterale delle sue agghiaccianti sentenze sulla natura umana una denuncia accorata dei mali del suo tempo. Uno studioso francese ha definito il Rinascimento l’epoca di Machiavelli, identificando questo intellettuale del Cinquecento col clima d’intrighi, guerre fratricide, complotti e tradimenti che per secoli furono considerati l’essenza del Rinascimento, l’altra faccia di una medaglia il cui recto era rappresentato dal crollo del feudalesimo e dal risveglio delle arti e delle scienze. Un’atmosfera che Machiavelli avrebbe incarnato perfettamente; soprattutto dopo che qualcuno - non si sa se siano stati i Gesuiti che misero all’indice il Principe per la sua vena anticlericale o i protestanti che all’opposto lo considerarono uno strumento della Controriforma - gli ebbe messo in bocca una frase che Machiavelli non si sognò mai né di scrivere né di pronunciare: «Il fine giustifica i mezzi». Un’affermazione che è stata piegata a giustificare le peggiori barbarie. Eppure, ripercorrendo la sua vita, appare evidente che non ci fu uomo meno «machiavellico» di Machiavelli. È vero, egli consigliò al principe l’inganno e l’ipocrisia come mezzi per uscire sempre vincente dai rapporti con gli altri Stati: ma le cronache dell’epoca dimostrano come nella sua attività diplomatica svolta quand’era segretario della Repubblica fiorentina si dimostrasse tutt’altro che scaltro, più incline a farsi ingannare piuttosto che a mettere nel sacco il prossimo. La maggior parte delle qualità che ser Niccolò ammirava di più - e che vedeva incarnate in Cesare Borgia, il figlio ribelle e spregiudicato di papa Alessandro VI - gli mancavano: si dichiarava anticlericale, ma educò i propri figli nella morale cristiana e sul letto di morte ricevette i Sacramenti; tradì la moglie come tutti i gentiluomini del Cinquecento, ma fu anche un marito e un padre premuroso e comprensivo; affermò che gli uomini pensano solo al proprio interesse, ma non sfruttò mai la sua posizione politica per arricchirsi e alla fine del suo mandato era povero come quando aveva cominciato a viaggiare per l’Italia e l’Europa curando gli interessi di uno Stato che non gli fu mai abbastanza grato da affidargli incarichi veramente importanti. Niente, insomma, nella vita di Machiavelli coincide con l’immagine che di lui ci è stata tramandata: un po’ volpe un po’ leone, servo devoto di una ragion di Stato alla quale non esitava a sacrificare umanità e senso del dovere. E dire che la sorte gli riservò non poche brutte sorprese, che avrebbero ben giustificato il suo cinismo: come quando nel 1512 i Medici rientrarono a Firenze e lui, che per quattordici anni aveva servito la Repubblica fiorentina, fu esiliato. Si ritirò allora nella sua tenuta di San Casciano, adattandosi a condurre una vita appartata, fatta di lunghe passeggiate nei campi, di serate trascorse con i contadini del luogo e soprattutto di meditazioni nella sua biblioteca, in un costante colloquio con quei classici nei quali cercava una luce capace di rischiarare il presente. Ma la bufera non era ancora passata: nel 1513 si sparse la voce di una congiura contro i Medici capeggiata da due giovani repubblicani, Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi. E poiché il suo nome figurava in una lista finita in mano alla polizia, l’ex-segretario fu arrestato, torturato e imprigionato. Fu rilasciato solo grazie all’intercessione di alcuni amici influenti; e tornò alla quiete dell’Albergaccio, dove lo aspettavano la moglie Adele e i suoi amati libri. Lì, in una casa che aveva fama di essere abitata dal diavolo - i suoi detrattori insinuarono che le sue opere fossero state scritte sotto dettatura del demonio - nacque Il Principe, un’opera scritta in quindici mesi di veglie notturne e con la quale egli sperava di riguadagnare la fiducia dei Medici. L’unica via di uscita dalla «gravità» dei tempi era, secondo Machiavelli, un principe illuminato, capace di creare uno Stato così forte da poter resistere alle mire espansionistiche dei vicini. A questo scopo il comportamento del principe doveva ispirarsi unicamente alle leggi della politica, ben distinte da quelle della morale e della religione. Un principe non deve preoccuparsi di essere giusto, buono, leale, perché la bontà può causare la sua «ruina», mentre l’inganno, la disonestà, il non tener fede alla parola data e persino l’assassinio sono mezzi necessari per il raggiungimento del bene comune. Poiché gli uomini sono per natura «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno», anche il principe deve saper essere malvagio quando le esigenze dello Stato lo richiedano. Parole che sconcertano per la loro durezza, ma al tempo stesso affascinano per il loro mistero: Machiavelli credeva davvero in ciò che scriveva o il suo era un messaggio in codice destinato ai giovani idealisti che, come Boscoli e Capponi, volevano cambiare il mondo? Non bisogna dimenticare, infatti, che il principato di cui descrive le leggi doveva essere solo una fase di transizione, al termine della quale si sarebbe giunti a quella che per lui rimaneva la migliore forma di governo possibile: la Repubblica. Comunque stessero le cose, Machiavelli, attribuendo alla politica un campo d’azione autonomo dalla morale, impresse una svolta epocale al pensiero politico, tanto da essere considerato il padre del liberalismo moderno e un teorico ante litteram dello Stato borghese. Uno Stato laico e repubblicano, dove i diritti dei singoli coincidono con quelli di tutti. Una lezione che sarebbe «diabolico» non seguire.

nuvolarossa
06-09-02, 15:46
Il numero di gennaio-aprile 2002 della rivista di storia contemporanea "Memoria e Ricerca" (pp. 195, euro 11,50), edita da Franco Angeli, è dedicato al tema "repubbliche e repubblicanesimo", a cura di Maurizio Ridolfi.

Il fascicolo evidenzia la complessa traduzione dei modelli repubblicani di governo nei paesi dell’Europa mediterranea, laddove, a partire dalla Francia della III Repubblica e anche prima della seconda guerra mondiale, si ebbero forme di governo repubblicane pur limitate e fragili (in Spagna negli anni 1873-’74 e quindi negli anni 1931-1936, in Portogallo con la I Repubblica tra il 1910 e il 1926, in Grecia tra gli anni ’20 e ‘30) ma dove anche si formarono definite culture politiche repubblicane in alcune regioni spaziali, assurte nel contesto europeo a “laboratori” della partecipazione politica e della ridislocazione dei poteri (locale, regionale, nazionale) .
È una vicenda che corre lungo un secolo, tra il 1848, quando la II Repubblica in Francia riaccese le passioni del repubblicanesimo europeo, e il 1946, quando referendum e plebisciti, perdurando regimi autoritari sia in Spagna che in Portogallo, sanzionarono la pluralistica configurazione delle forme di governo nell’Europa meridionale: con la sconfitta dell’opzione repubblicana in Grecia, la sanzione della Repubblica in Italia, l’avvento della IV Repubblica in Francia.

Riproduciamo di seguito l'indice del fascicolo per quanto riguarda la parte monografica.

REPUBBLICHE E REPUBBLICANESIMO.
L’EUROPA MERIDIONALE (SECOLI XIX-XX)
a cura di Maurizio Ridolfi

Maurizio Ridolfi, La po!iticizzazzone repubblicana nell’Europa meridionale (1830-1948,). Un percorso di ricerca
Olivier Ihi, Una territorialità repubblicana. I nomi delle vie nella Francia del XIX e XX secolo
David Luna de Carvalho, Repubblicanesimo e Repubblica laica in Portogallo(1891-1914)
Jocelyne George, I repubblicani del Vir da/ 1792 al 1945
Rosa Ana Gutiérrez Lloret, Tra municipio e parlamento. Il repubblicanesimo valenziano nella politica della Restaurazione (1875-1899)
Sauro Mattarelli, Romagna tra Otto e Novecento: la “terra della repubblica” nell'Italia unita

DOCUMENTO/IMMAGINE
Maria Pia Critelli, La Repubblica Romana de! 1849. La memoria c i! documento, nelle fotografie di Stefano Lecchi
--------------------------------------------------------------------------------
tratto dal sito web del
PENSIERO MAZZINIANO (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

nuvolarossa
06-09-02, 15:46
Il numero di gennaio-aprile 2002 della rivista di storia contemporanea "Memoria e Ricerca" (pp. 195, euro 11,50), edita da Franco Angeli, è dedicato al tema "repubbliche e repubblicanesimo", a cura di Maurizio Ridolfi.

Il fascicolo evidenzia la complessa traduzione dei modelli repubblicani di governo nei paesi dell’Europa mediterranea, laddove, a partire dalla Francia della III Repubblica e anche prima della seconda guerra mondiale, si ebbero forme di governo repubblicane pur limitate e fragili (in Spagna negli anni 1873-’74 e quindi negli anni 1931-1936, in Portogallo con la I Repubblica tra il 1910 e il 1926, in Grecia tra gli anni ’20 e ‘30) ma dove anche si formarono definite culture politiche repubblicane in alcune regioni spaziali, assurte nel contesto europeo a “laboratori” della partecipazione politica e della ridislocazione dei poteri (locale, regionale, nazionale) .
È una vicenda che corre lungo un secolo, tra il 1848, quando la II Repubblica in Francia riaccese le passioni del repubblicanesimo europeo, e il 1946, quando referendum e plebisciti, perdurando regimi autoritari sia in Spagna che in Portogallo, sanzionarono la pluralistica configurazione delle forme di governo nell’Europa meridionale: con la sconfitta dell’opzione repubblicana in Grecia, la sanzione della Repubblica in Italia, l’avvento della IV Repubblica in Francia.

Riproduciamo di seguito l'indice del fascicolo per quanto riguarda la parte monografica.

REPUBBLICHE E REPUBBLICANESIMO.
L’EUROPA MERIDIONALE (SECOLI XIX-XX)
a cura di Maurizio Ridolfi

Maurizio Ridolfi, La po!iticizzazzone repubblicana nell’Europa meridionale (1830-1948,). Un percorso di ricerca
Olivier Ihi, Una territorialità repubblicana. I nomi delle vie nella Francia del XIX e XX secolo
David Luna de Carvalho, Repubblicanesimo e Repubblica laica in Portogallo(1891-1914)
Jocelyne George, I repubblicani del Vir da/ 1792 al 1945
Rosa Ana Gutiérrez Lloret, Tra municipio e parlamento. Il repubblicanesimo valenziano nella politica della Restaurazione (1875-1899)
Sauro Mattarelli, Romagna tra Otto e Novecento: la “terra della repubblica” nell'Italia unita

DOCUMENTO/IMMAGINE
Maria Pia Critelli, La Repubblica Romana de! 1849. La memoria c i! documento, nelle fotografie di Stefano Lecchi
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tratto dal sito web del
PENSIERO MAZZINIANO (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

nuvolarossa
25-09-02, 18:24
Libro sui partiti
dell'antica Roma

PONTREMOLI. Sabato prossimo alle ore 16,30 nels alone del Quattrocento del Comune di POntrmeoli, il prof. Giuseppe Benelli presenterà il libro di Antonierra Dosi, «Gruppi e partiti politici di età repubblicana» (Ed. Quasar).
Il volume della Dosi, che è stata docente all'Università di Atene e direttrice dell'Istituto italiano di cultura di Alessandria d'Egitto, si inserisce nella collana «Vita e costumi dei Romani antichi», promossa dal Museo della civiltà romana.
Al mondo romano l'autrice ha dedicato la sua intensa attività di ricerca e questo libro sulle vicende politiche della Roma repubblicana coinvolge il lettore nelle lotte del tempo e fa comprendere cosa fossero i partiti politici di allora.

nuvolarossa
02-10-02, 23:11
A fine secolo si riscopre la repubblica

Maurizio Viroli, "Repubblicanesimo", Bari, Editori Laterza, 1999, L. 20.000

Chi scriverà la storia intellettuale di questa fine secolo "non potrà fare a meno di notare un rinnovato interesse degli studiosi per il repubblicanesimo, ovvero quella lunga e variegata tradizione del pensiero politico che si ispira all'ideale della repubblica": così si apre il recente saggio di Maurizio Viroli (Repubblicanesimo, Bari, Editori Laterza, 1999, L. 20.000).
Viroli si riferisce essenzialmente alle ricerche di un gruppo di studiosi che insegnano nelle università anglosassoni come Quentin Skinner (Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, 1998), Philippe Pettit (Repubblicanism: A Theory of Freedom and Govemment, Oxford University Press, 1998) e altri, fra cui lui stesso, docente di Teoria politica a Princeton, i quali sostengono che, negli autori classici romani come Cicerone, nell'esperienza dei liberi comuni medioevali italiani e in autori come Machiavelli, si ritrova una nozione di libertà diversa da quella propria del liberalismo settecentesco e ottocentesco di derivazione essenzialmente individualistica. Essi aggiungono che la concezione della libertà dei repubblicani non solo precede temporalmente quella che possiamo chiamare la libertà dei liberali ma ha, rispetto a quest'ultima, una maggiore ricchezza di contenuti.
La libertà dei liberali - scrive Viroli - è essenzialmente intesa come non interferenza da parte di altri nelle scelte dell'individuo. La sua formulazione più netta si trova nel celebre saggio di Isaiah Berlin, Two Concepts of Liberty (trad. it. in Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989) che la definisce come libertà negativa e a questo proposito scrive: "Normalmente posso essere definito libero nella misura in cui nessun uomo, né alcun gruppo di te uomini interferisca con la mia attività"; e ancora: "Più ampia è l'area della non-interferenza maggiore è la mia libertà". Berlin aggiunge, citando Hobbes e Bentham: "Questo è ciò che i filosofi classici inglesi intendevano nell'usare questa parola".
Rispetto alla libertà intesa come non interferenza, la nozione della libertà degli scrittori repubblicani - sostiene Viroli - è molto più ampia. Essi la intendono come "assenza di dominazione (o di dipendenza), intesa come la condizione dell'individuo che non dipende dalla volontà arbitraria di altri individui o di istituzioni che possono opprimerlo impunemente, se lo vogliono" (pagina 19). A questo proposito Viroli cita un bel passo di Montesqieu nell'Esprit des Lois laddove questi scrive: "La libertà politica consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e perché questa libertà esista bisogna che il Governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino".
Si tratta di distinzioni molto sottili rilevanti senz'altro per una ricostruzione della storia delle idee politiche. Ma, nell'aspirazione di Viroli e degli altri studiosi cui egli fa riferimento, vi è qualcosa di più: l'ideale della libertà repubblicana costituisce essenzialmente un programma politico e offre un'indicazione sulle cose da fare per realizzarlo. Il punto principale riguarda la funzione dello Stato e delle leggi. La concezione liberale ottocentesca tende a considerare le leggi e l'azione dello Stato come un'interferenza nella sfera di libertà del cittadino, Per questo i teorici liberali, come Ropke o come Hayek, guardano con diffidenza a qualsiasi programma legislativo in quanto potenzialmente tale da ridurre la sfera della libertà individuale.
Per i repubblicani invece la legislazione ò essere condizione per la realizzazione della libertà. Essi sono disposti a considerare "le leggi come il più sicuro baluardo della libertà" e sono disposti "a sopportare anche severe interferenze per ridurre il peso del potere arbitrario e della dominazione" (pagina 49). Naturalmente, non basta che una legge sia adottata da una maggioranza - come richiede il principio democratico - per ritenere che quella legge sia giusta; è necessario che la legge abbia caratteri di generalità e di non discrezionalità.
La riscoperta del repubblicanesimo come dottrina distinta dal liberalismo è molto interessante. Probabilmente questa distinzione era quella che Mazzini, in una serie di articoli pubblicati in Inghilterra fra il 1846 e il 1847 recentemente ripubblicati a cura del professor Salvo Mastellone (Pensieri sulla democrazia in Europa, Feltrinelli, Milano 1997), traccia definendo l'ideale democratico come qualcosa di essenzialmente diverso sia dal liberalismo che dal socialismo e criticando "la dottrina dei diritti individuali terrorizzata dall'idea di governo", così come il socialismo edificato "sul concetto di eguaglianza assoluta con tendenze tiranniche".
Il libro di Viroli è dunque un libro importante, anche se i problemi che esso pone sono comunque molto complessi: basta pensare alla legislazione in materia di redistribuzione dei redditi per comprendere che non è facile contemperare l'ideale della non interferenza con quella della non dipendenza. In realtà Viroli si rende ben conto della difficoltà di ricavare dall'impostazione astratta che gli propone un insieme di proposte valide per fissare le regole di una società che realizzi in pieno l'ideale della libertà repubblicana. In un passo che richiederebbe forse un'ulteriore analisi egli scrive che "il linguaggio politico repubblicano ... è un linguaggio retorico piuttosto che filosofico; non cerca il vero, ma l'utile (il bene comune); non ha bisogno di fondamenti astratti, ma di saggezza" (pagina 47). Vale però certamente la pena di fermarsi con attenzione su questi argomenti ed è bene che nel dibattito italiano possano entrare le questioni che questo libro solleva.

di Giorgio La Malfa

nuvolarossa
19-10-02, 19:35
Auguri al filosofo Norberto Bobbio
dal presidente della Repubblica

ROMA

''La forza della tua intelligente passione civile è una ricchezza per tutti noi''. Così scrive il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel suo messaggio di auguri inviato al senatore a vita Norberto Bobbio, in occasione del suo compleanno.
Nel fargli ''i più cari e affettuosi auguri di buon compleanno da parte di Franca e mia'', il capo dello Stato sottolinea a Bobbio: ''Il tuo esempio e la tua testimonianza di vita rigorosamente coerente con i valori dello spirito repubblicano contribuiscono a rafforzare la coscienza comune di quei doveri e di quelle libertà che sono patrimonio della nostra identita' di italiani e di europei''.

nuvolarossa
22-10-02, 21:59
http://img175.imageshack.us/img175/4991/prilogodp2.jpg

Giuseppe Mazzini, Thoughts upon Democracy in Europe (1846-1847), a cura di Salvo Mastellone, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2001, pp. 119, euro 15,49

Il volume inaugura la collana sulle “Forme di governo” diretta da Carlo Carini. Si tratta di un omaggio a un testo importante ingiustamente dimenticato, o quantomeno sottovalutato, formato da un corpo di otto articolo pubblicati sul “People’s Journal” dall’agosto del 1846 al giugno del 1847, che costituiscono un vero e proprio Manifesto sulla democrazia.
Questo documento viene ora proposto in lingua inglese, dopo che il curatore, il prof. Salvo Mastellone, aveva dato alle stampe, nel 1997, per Feltrinelli, la traduzione in italiano dei Thoughts. Quella inglese è infatti una versione diversa (essenzialmente per finalità) da quella pubblicata dallo stesso Mazzini in italiano dopo il 1850, dove la filosofia sociale, in parte ispirata originariamente a de Tocqueville, viene riletta alla luce degli avvenimenti romani e veneziani del 1848-49.
Mastellone ha quindi avuto il grande merito di valorizzare questi scritti inglesi di Mazzini, che apportano un contributo fondamentale alla teoria politica valido anche oggi, a cominciare dalla distinzione tra il concetto di democrazia e quello di libertà formulato dai radicali, dai sansimoniani, dai fourieristi e dai comunisti. Il Manifesto del partito comunista del 1848, peraltro, pare proprio una risposta diretta alle tesi mazziniane, come ha brillantemente intuito e ribadito in più sedi lo stesso Mastellone.
A corredo di questo volume il curatore propone una ampia e importante introduzione di 84 pagine. Un lavoro attraverso il quale emergono i lineamenti più moderni del pensiero mazziniano, a cominciare dallo spinoso tema della rappresentanza.
“La capacità rappresentativa – scrive Mastellone -, che è il fatto prettamente moderno, permette al popolo di eleggere un governo, espressione della volontà popolare, il quale perciò deve rispettare i diritti del popolo; come è noto, secondo Mazzini qualunque governo, che nega i diritti e reprime i cittadini, è destinato a cadere.
Resta ben fermo per Mazzini il diritto del popolo di ribellarsi alla tirannide politica. Se è giustificata l’insurrezione popolare contro un governo straniero, è ugualmente giustificata l’insurrezione popolare fatta in nome della libertà contro il dispotismo dell’autorità governativa. Un popolo in quanto libero può contestare l’azione governativa di una cerchia di capi, anche se eletti. Questo non significa contestare l’autorità governativa, oppure negare ‘l’idea del potere’, ma la Democrazia è ‘governo liberamente consentito da tutti’. In una Democrazia dovrebbero governare ‘i migliori ed i più saggi’; se sono tali, devono evitare la disorganizzazione o l’anarchia, perché la Democrazia ha bisogno di unione; e ‘nessuna unione è possibile dove regna un’artificiosa ineguaglianza’, dove lo spirito di dominio da un lato e di reazione dall’altro dividono un paese ‘in classi distinte, assegnando loro diversi interessi’.”
Viene quindi proposto un repubblicanesimo mazziniano che non si riallaccia tanto agli schemi classici del passato, ma guarda al futuro, sulla base di una fede nel progresso della democrazia e, soprattutto, nell’intima convinzione che la finalità della democrazia quale “sistem of government” resti “lo sviluppo morale della società civile”.
s.m.
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tratto da il Pensiero Mazziniano (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

nuvolarossa
25-10-02, 15:09
TRE IDEE DI LIBERTÀ POLITICA
PER LA SOCIETÀ MODERNA
Il sonno della democrazia produce schiavi

SECOLI di dominio straniero, la cattiva educazione morale della Chiesa cattolica, una monarchia come quella Savoia, accentratrice e con forti tendenze autoritarie, infine la umiliante esperienza del regime fascista, hanno profondamente corrotto in Italia la consapevolezza della vera libertà politica. Eppure proprio in Italia è nato e si è affermato un pensiero politico che ha elaborato il concetto di libertà in maniera ricca e originale. Il liberalismo, il repubblicanesimo, il socialismo liberale sono le tre principali espressioni di questa tradizione. Nell'opinione comune sono dottrine politiche che sostengono tre interpretazioni diverse, anche se non antitetiche, della libertà politica: il liberalismo persegue la libertà intesa come possibilità di godere di una sfera d'azione non controllata dallo Stato, il repubblicanesimo, affine in questo alla teoria democratica, proclama che la vera libertà politica non consiste nel non essere sottoposti a leggi, ma nell'essere sottoposti solo alle leggi che noi stessi ci siamo dati; il socialismo liberale è il difensore del principio che la libertà, per non essere vuota formula, ha bisogno della giustizia sociale e la giustizia sociale a sua volta ha bisogno, per non essere dispotismo, della libertà. Benché questa descrizione degli ideali di libertà propri del liberalismo, del repubblicanesimo e del socialismo liberale sia in parte corretta, essa non ci permette tuttavia di vedere che le tre dottrine in questione condividono l' idea che la vera libertà consiste nel non essere dominati, ovvero nel non essere sottoposti alla volontà arbitraria di altri uomini, e nell'avere quindi una mentalità libera contrapposta alla mentalità serva. Il concetto di libertà come libertà della mente e libertà dal dominio nasce con il pensiero politico repubblicano di Roma antica. Nel Digesto (che raccoglie opinioni giuridiche anteriori) la condizione del libero è definita in contrasto con quella dello schiavo. Per schiavo si intende l'individuo che è sotto il dominio di un altro. Il che significa che l'essenza della schiavitù non consiste tanto nell'essere sottoposto a violenza o costretto con la forza quanto nell'essere in potere di qualcuno, nell'essere sottoposto alla potestà di altri. Nulla vieta che lo schiavo sia libero di fare molte cose e possa anche essere soddisfatto. Ma fin quando resta sottoposto al potere di un altro non potrà essere libero nel significato pieno del termine e non potrà emanciparsi dalla mentalità servile. Potrà anche fare quello che vuole (se il padrone è buono o debole) ma non avrà la mentalità della persona libera. Questa concezione della libertà politica rimane viva nella storia del pensiero politico repubblicano e ispira anche le dottrine dei più eminenti pensatori liberali. Se lasciamo da parte, non perché sbagliata, ma perché parziale, l'idea che la libertà liberale consiste, secondo l'insegnamento di Isaiah Berlin, nel non essere ostacolati nel perseguire le azioni che vogliamo perseguire, possiamo vedere facilmente che autorevoli voci del liberalismo condividono l'ideale repubblicano della libertà. Cito solo, a titolo di esempio, uno dei maestri del liberalismo contemporaneo, Friedrich Hayek. Egli sostiene infatti che la vera libertà consiste tanto nell'assenza di impedimenti quanto nell'assenza di soggezione o sottomissione e spiega che libertà vuol dire essere indipendenti dalla volontà arbitraria di un altro («independence of the arbitrary will of another»), ovvero l'opposto della condizione servile. Per quanto riguarda infine il socialismo liberale è sufficiente leggere Carlo Rosselli per accorgerci che egli intende la libertà in primo luogo come libertà morale opposta alla mentalità serva. «Il problema italiano - scrive in Socialismo liberale - è essenzialmente problema di libertà. Ma problema di libertà nel suo significato integrale: cioè di autonomia spirituale, e di emancipazione della coscienza , nella sfera individuale; e di organizzazione della libertà nella sfera sociale, cioè nella costruzione dello Stato e nei rapporti tra i gruppi e le classi. Senza uomini liberi, nessuna possibilità di Stato libero. Senza coscienze emancipate, nessuna possibilità di emancipazione di classi. Il circolo non è vizioso. La libertà comincia con l'educazione dell'uomo e si conchiude col trionfo di uno Stato di liberi, in parità di diritti e di doveri, in uno Stato in cui la libertà di ciascuno è condizione e limite della libertà di tutti». Nella concezione che Rosselli aveva della libertà politica vive l'aspetto più fecondo della dottrina di Mazzini, ovvero la convinzione che la vera liberazione consiste nella liberazione dalla subordinazione spirituale e nella conquista del senso del dovere. Nelle più belle pagine di Mazzini, scriveva Giuseppe Calogero, troviamo una lucida verità pedagogica: «è vano ed illusorio attendersi il rifiorimento e la rigenerazione della pianta-cittadino, se prima non sia stata rifatta, dall'interno, la pianta-uomo, dotata della fede e della volontà cosciente di essere se stessa, e cioè padrona del proprio destino» (Attualità educativa e politica di Giuseppe Mazzini, pp.21-22). Che era poi l'idea delle menti migliori del liberalismo ottocentesco, primo fra tutti John Stuart Mill, che, ottimo conoscitore dei classici greci e romani, sapeva che la servitù più umiliante e più difficile da sradicare è quella che grava non sulle azioni ma sulle menti. Fra liberalismo, repubblicanesimo e socialismo liberale esiste un punto di incontro nell'idea di libertà intesa quale emancipazione dalla dipendenza, e conquista dell'autonomia morale dell'individuo. Essa delinea una teoria dell'emancipazione che non consiste soltanto nella lotta contro il tiranno che opprime con la forza le nostre azioni o nella resistenza contro lo Stato che pretende di sottoporre a controllo la vita intera dell'individuo o nell'opposizione ai regimi autocratici che escludono i cittadini dalla partecipazione alla vita politica. Il vero fine è la libertà degli individui interpretata come conquista dell'indipendenza e della maturità morale per mezzo delle buone istituzioni, delle buone leggi e dell'educazione. La saggezza antica che ci spiega che essere schiavi vuol dire essere schiavi nella mente e vivere senza senso del dovere è diventata attuale proprio nelle democrazie, soprattutto nella nostra.

viroli@princeton.edu
Maurizio Viroli

nuvolarossa
04-11-02, 00:57
Patria e repubblica di Gian Enrico Rusconi, il Mulino, 94 pagine, 10 mila lire.

Patriottismo cercasi
Perché manca «uno schietto affetto per le istituzioni repubblicane»? Il tema è storico, ma risponde il politologo.

Le parole della storia spesso acquisiscono significati diversi in funzione delle intenzioni politiche di chi le usa. Patria e nazione portano su di sé, da quando l’Italia è qualcosa di più che un’espressione geografica, tutto il peso di questa sindrome del senso. Perché la ragione fondamentale del discorso storico sta tutta nella possibilità di raccontare le cose così come sono avvenute, non come si vorrebbe che fossero state. Dal Risorgimento alla Resistenza, da Caporetto al ’48, dalla «morte della patria» alla «nascita della repubblica», l’Italia di oggi si trova a fare i conti con un passato a due facce. Non esiste un’unica storia su cui formulare giudizi politici, opzioni etiche, convinzioni culturali. Gian Enrico Rusconi pensa di ritrovare il bandolo di un discorso perduto intorno ai concetti di patria e nazione, guardando indietro da Mazzini a Machiavelli, riscoprendo una categoria nobile del nostro passato: il repubblicanesimo.
«Abbiamo una repubblica ma non abbiamo una cultura repubblicana che sappia ispirare uno schietto affetto per le istituzioni democratiche» è l’incipit a tesi, la trama essenziale su cui Rusconi tesse il suo ragionamento: «La riproposta del repubblicanesimo» spiega «non si muove semplicemente sul piano dell’etica politica ma presuppone una vera e propria teoria della politica». Lo scopo è quello di mettere in relazione due entità storicamente separate, come nazione e democrazia, intrecciate invece nel «vissuto collettivo» di oggi. Perché ciò accada, tuttavia, serve qualcosa in cui l’intera comunità dei cittadini si identifichi anche attraverso le differenze politiche e le contraddizioni culturali: «Riconoscersi in una storia comune è il presupposto per sentirsi una nazione civile».
Già, la storia. Rusconi la prende di petto quando si trova a dipanare la matassa della «morte della patria», a indagare il groviglio della guerra civile ’43-45, a ricostruire quel processo di legittimazione democratica che portò alla nascita della Costituzione antifascista, con una puntigliosa disamina degli autori che l’hanno preceduto, da Renzo De Felice a Ernesto Galli della Loggia. Va detto però che Rusconi più che da storico ragiona come politologo, preoccupato più del dover essere che di ciò che è stato.
Si può perciò avanzare la modesta proposta di leggere insieme a Rusconi un altro libro appena uscito, La grande Italia di Emilio Gentile (Mondadori), che ripercorre il farsi e il disfarsi del mito patriottico lungo i primi cent’anni di unità nazionale, senza essere né contro né a favore.

nuvolarossa
04-11-02, 01:28
I dieci comandamenti del buon repubblicano

Gustavo ZAGREBELSKY

Lascioamo da parte gli avvenimenti che portarono alla Repubblica, attraverso la sconfitta del fascismo, la resistenza e la guerra di liberazione, la messa in gioco delle responsabilità di Casa Savoia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E, con gli avvenimenti, lasciamo qui da parte anche le contese storiografiche su quel periodo della nostra storia, diventato negli ultimi anni oggetto di una lotta per la memoria il cui significato è nel George Orwell di 1984: "Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato". Intendo invece porre una duplice questione che può essere esaminata indipendentemente da quella controversia e dalle sue ipoteche ideologico-politiche: che cosa è la repubblica e come essere repubblicani. Una questione di "conoscenza pratica", in cui la definizione di un concetto ci suggerisce dettami su un modo d'essere e di agire. Tra le varie classiche partizioni delle forme di governo cui rivolgerci per mettere ordine in una selva piuttosto oscura, quella di Montesquieu è una delle meno ovvie e più illuminanti perché non si limita a elementi esteriori, come ad esempio il numero dei governanti (tutti, alcuni, uno, cui corrispondono, rispettivamente, democrazia, aristocrazia, monarchia ovvero demagogia, oligarchia, tirannia), o a pur importantissime regole procedurali (il voto, invece che la violenza, per cambiare i governanti, da cui i regimi della ragione o quelli della forza), ma penetra nel loro intimo, svelandone il principio etico o, secondo l'espressione ch'egli impiega, il ressort, cioè la molla che dà loro vita e movimento. Nel terzo libro dell'Esprit des lois, le forme di governo sono distinte in (a) dispotiche, (b) monarchiche e (c) repubblicane. (a) Il despota è colui che sta fuori della legge, anzi colui la cui volontà o arbitrio sono legge per gli altri. Il regime della prepotenza si tiene sulla paura. Alimenta scontento e indignazione e proprio per questo occorre che il terrore spenga il coraggio e prevenga ogni minima ambizione di libertà. Il dispotismo è il regime dell'insicurezza, delle delazioni, degli informatori e delle spie, del sospetto. Chi ha l'animo costantemente occupato dal timore primordiale di perdere la vita e i propri beni non può permettersi il lusso di alzare la testa e pretendere rispetto e libertà. Montesquieu scriveva nella metà del XVIII secolo e i suoi esempi erano i "despoti orientali" o i crudeli cesari di Roma, come Diocleziano. Noi possiamo guardare appena alle nostre spalle, ai regimi totalitari del XX secolo che, in maniera scientifica e pianificata, si sono retti sull'uguaglianza del terrore. (b) Della monarchia, la forza vitale sono gli onori: gli onori e i privilegi che il re distribuisce in cerchie concentriche per legare a sé i sudditi in un vincolo di fedeltà. La società è una gerarchia. Si sta in alto o si sta in basso a seconda degli onori ottenuti dalla fonte regale benefattrice. L'aspirazione al privilegio rafforza l'autorità del re e tanto più i privilegi sono estesi, ramificati e differenziati, tanto più saldo è il regno. Montesquieu aveva di fronte a sé l'esempio vivente di questo genere di società, la monarchia francese con le sue differenziazioni in "stati", "ordini" nobiliari ed ecclesiastici, in ceti professionali, in città che godevano di esenzioni più o meno ampie. E certamente non poteva non vedere - come vedevano i letterati del suo tempo - che gli onori alimentavano, in chi non ne godeva o ne godeva in misura minore di altri, un sentimento come l'invidia sociale che, raggiunto il limite di sopportazione del "terzo stato", avrebbe distrutto quella società. (c) Nello "stato popolare" o democrazia - che Montesquieu tratta come primo paradigma di stato repubblicano (nella sua classificazione, c'è posto anche per la repubblica aristocratica) - coloro che fanno le leggi, direttamente o tramite propri magistrati, sono gli stessi che le subiscono. Quest'identità comporta il rischio che le leggi siano influenzate da interessi particolari. Le leggi possono essere piegate al fine di sottrarsi ai doveri verso lo stato, di saccheggiare la ricchezza pubblica, di soddisfare il piacere e il lusso personale e anche, appena possibile, di obbedire allo spirito di fazione, origine dell'ingiustizia e dell'oppressione. Ecco allora che, in uno stato popolare, esposto al rischio di questa corruzione, occorre un principio etico in più, la virtù: una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso sospetta, per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi dobbiamo utilizzare con cautela, ma che, in una forma o in un'altra, inevitabilmente fa capolino in ogni discussione sulla democrazia. Quale sia il contenuto di questa virtù, possiamo cercare di ricavarlo, oltre che dagli esempi storici che Montesquieu trae dall'Inghilterra, da Roma, Atene o Cartagine, dai mali da cui la repubblica deve essere preservata. Innanzi tutto, per evitare che lo stato, che è bene di tutti, possa apparire un bottino allettante, la sobrietà degli stili di vita personali. Per garantire la forza dello stato, l'osservanza scrupolosa del dovere di contribuire con la propria opera e i propri beni alla sua prosperità. Per difendere la libertà pubblica e difendersi dall'ingiustizia e dall'oppressione, il senso dell'intangibilità della propria dignità e dei propri diritti. Per preservarsi dal male maggiore, il flagello delle fazioni, infine, l'amor di patria: un sentimento politico che supera le divisioni e impone la concordia in ciò che davvero è essenziale nella vita collettiva. Che cosa si deve intendere per patria, nel senso repubblicano? Se si considera che la repubblica è l'insieme degli apporti che ciascuno dà alla vita collettiva - i doveri - e dei benefici che ne trae - i diritti -, possiamo dire che la patria è un modo di stare insieme, una visione della convivenza, una specifica comunità di diritti che vengono riconosciuti in restituzione dei doveri. La patria, intesa come una concezione della vita collettiva, è certo il prodotto di una terra e di una storia comuni ma non è essa stessa terra, storia e, magari, sangue. L'idea repubblicana di patria appartiene alla cultura e non alla natura; è costruita sull'impegno degli uomini di ogni generazione che adempiono il dovere di trasmetterla migliore a quella successiva; è selettiva, perché impone di tenere le distanze verso chi abusa dei diritti che gli sono riconosciuti e viola o elude i doveri che deve adempiere; è inclusiva ed espansiva, perché permette di accogliere chi accetta la medesima concezione della vita, pur non venendo dalla stessa terra e dalla stessa storia; è aperta, perché si può combinare e allargare ad altre comunità di esseri umani in vista della costruzione di patrie più vaste. Il significato che può avere oggi quest'idea culturale di patria si comprende nel confronto con l'idea naturalistica, basata sulla comunanza di terra, stirpe, storia. Questa, al contrario di quella, è un dato che segna come un destino; comprende il buono, il meno buono e il peggio, tutto giustifica e tutti acquieta nell'accettazione passiva, insieme alle virtù, dei patri vizi; è chiusa su se stessa, ostacolando la costruzione di comunità umane progressivamente più vaste. Comporta infine un potenziale pericolo per la pacifica convivenza tra gli individui, i gruppi sociali e i popoli, data la carica di aggressività che essa contiene e legittima nei confronti di chi non appartiene alla stessa comunanza. Fin qui, che cosa è la repubblica. Ora, che cosa implica, nel modo d'essere e di operare dei cittadini, quella virtù con la quale la repubblica vive e cresce, ma senza la quale muore. 1. L'atteggiamento altruistico, come disponibilità a mettere in comune qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene di tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno. E' contraria all'uguale appartenenza alla repubblica e dunque non è repubblicana l'idea di un darwinismo sociale che abbandona i deboli alla condanna della selezione naturale. 2. La disponibilità all'accettazione nella comunità dei diritti di tutti coloro che lealmente si riconoscono nella comunità dei doveri, senza intolleranza nei confronti di quanti, per qualsiasi ragione storica, etnica, personale, possano apparire diversi. L'idea repubblicana ammette una sola ragione di diversità alla quale possa seguire un'esclusione: la violazione dei doveri che dei diritti rappresentano il corrispettivo. 3. L'apprezzamento e la valorizzazione della pluralità delle opinioni, e quindi anche delle opinioni divergenti dalle proprie, come espressione di un atteggiamento che non si rassegna, contentandosi di quel che collettivamente siamo, ma promuove il miglioramento cercando di correggere i difetti. 4. Lo spirito del dialogo, con ciò che ne discende nella pratica: procedure, istituzioni deliberative, tempo e anche frustrazioni e lentezze. 5. Il rigetto della politica come dogma, ciò che, contrapponendo irrimediabilmente i cittadini tra loro, pregiudica l'unità, crea repubbliche (o meglio, chiese) che dividono la repubblica. 6. La diffidenza verso le decisioni estreme e irretrattabili, non solo perché anch'esse dividono irrimediabilmente, ma anche perché contraddicono l'inesauribile diritto al libero confronto, essenza dello spirito repubblicano. 7. La cura della propria personalità, il senso della dignità e la gelosa difesa dei propri diritti, a garanzia di beni che non sono solo individuali ma riguardano l'interesse di tutti. 8. La sostituzione dell'idea lamentosa, molto nostrana ma poco patriottica, che tutto sia dovuto dall'alto, con l'idea opposta che, fin dove è possibile, ciascuno è responsabile della soluzione dei propri problemi, senza gravare sugli altri. 9. La sperimentazione pratica di ciò che significa vivere repubblicanamente, prestandosi personalmente, fin dalla prima giovinezza, a svolgere attività nella politica e nel servizio sociale. Mi accorgo che inevitabilmente, dalla repubblica e dalle sue regole, mi sto spostando sul terreno contiguo della democrazia. Ma ancora un ultimo punto, per completare il decalogo e ricollegarlo all'inizio, dove si diceva della paura e dell'invidia come i tratti di psicologia collettiva che caratterizzano i dispotismi e le monarchie: due sentimenti tetri, avvilenti e distruttivi. Dello spirito repubblicano è propria invece l'allegria, che nasce dall'ottimismo, dalla fiducia reciproca e dallo spirito creativo che scaturisce dal coinvolgimento in imprese comuni, importanti per la vita di tutti. Così è in tutti i tipi di società umane, anche le più piccole e le più semplici: tra compagni di scuola, tra studenti e professori, tra professori tra loro e tra professori e preside, se manca l'allegria, manca lo spirito repubblicano. Vuol dire che, al posto, prevale lo spirito dispotico con le sue paure o lo spirito monarchico con la sua invidia.

nuvolarossa
28-11-02, 21:57
Questa analisi e' di Giorgio La Malfa ed e' stata scritta nel 1999, in occasione dell'uscita del volume di Maurizio Viroli, "Repubblicanesimo", Bari, Editori Laterza, 1999, L. 20.000

Chi scriverà la storia intellettuale di questa fine secolo "non potrà fare a meno di notare un rinnovato interesse degli studiosi per il repubblicanesimo, ovvero quella lunga e variegata tradizione del pensiero politico che si ispira all'ideale della repubblica": così si apre il recente saggio di Maurizio Viroli (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/viroli.htm) (Repubblicanesimo, Bari, Editori Laterza, 1999, L. 20.000).
Viroli si riferisce essenzialmente alle ricerche di un gruppo di studiosi che insegnano nelle università anglosassoni come Quentin Skinner (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/skinner.htm) (Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, 1998), Philippe Pettit (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/pettit.htm) (Repubblicanism: A Theory of Freedom and Govemment, Oxford University Press, 1998) e altri, fra cui lui stesso, docente di Teoria politica a Princeton, i quali sostengono che, negli autori classici romani come Cicerone, nell'esperienza dei liberi comuni medioevali italiani e in autori come Machiavelli, si ritrova una nozione di libertà diversa da quella propria del liberalismo settecentesco e ottocentesco di derivazione essenzialmente individualistica. Essi aggiungono che la concezione della libertà dei repubblicani non solo precede temporalmente quella che possiamo chiamare la libertà dei liberali ma ha, rispetto a quest'ultima, una maggiore ricchezza di contenuti.
La libertà dei liberali - scrive Viroli - è essenzialmente intesa come non interferenza da parte di altri nelle scelte dell'individuo. La sua formulazione più netta si trova nel celebre saggio di Isaiah Berlin (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/berlin.htm), Two Concepts of Liberty (trad. it. in Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989) che la definisce come libertà negativa e a questo proposito scrive: "Normalmente posso essere definito libero nella misura in cui nessun uomo, né alcun gruppo di te uomini interferisca con la mia attività"; e ancora: "Più ampia è l'area della non-interferenza maggiore è la mia libertà". Berlin aggiunge, citando Hobbes (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/hobbes.htm) e Bentham (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/bentham.htm): "Questo è ciò che i filosofi classici inglesi intendevano nell'usare questa parola".
Rispetto alla libertà intesa come non interferenza, la nozione della libertà degli scrittori repubblicani - sostiene Viroli - è molto più ampia. Essi la intendono come "assenza di dominazione (o di dipendenza), intesa come la condizione dell'individuo che non dipende dalla volontà arbitraria di altri individui o di istituzioni che possono opprimerlo impunemente, se lo vogliono" (pagina 19). A questo proposito Viroli cita un bel passo di Montesqieu (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/montesqi.htm) nell'Esprit des Lois laddove questi scrive: "La libertà politica consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e perché questa libertà esista bisogna che il Governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino".
Si tratta di distinzioni molto sottili rilevanti senz'altro per una ricostruzione della storia delle idee politiche. Ma, nell'aspirazione di Viroli e degli altri studiosi cui egli fa riferimento, vi è qualcosa di più: l'ideale della libertà repubblicana costituisce essenzialmente un programma politico e offre un'indicazione sulle cose da fare per realizzarlo. Il punto principale riguarda la funzione dello Stato e delle leggi. La concezione liberale ottocentesca tende a considerare le leggi e l'azione dello Stato come un'interferenza nella sfera di libertà del cittadino, Per questo i teorici liberali, come Ropke (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/ropke.htm) o come Hayek (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/hayek.htm), guardano con diffidenza a qualsiasi programma legislativo in quanto potenzialmente tale da ridurre la sfera della libertà individuale.
Per i repubblicani invece la legislazione ò essere condizione per la realizzazione della libertà. Essi sono disposti a considerare "le leggi come il più sicuro baluardo della libertà" e sono disposti "a sopportare anche severe interferenze per ridurre il peso del potere arbitrario e della dominazione" (pagina 49). Naturalmente, non basta che una legge sia adottata da una maggioranza - come richiede il principio democratico - per ritenere che quella legge sia giusta; è necessario che la legge abbia caratteri di generalità e di non discrezionalità.
La riscoperta del repubblicanesimo come dottrina distinta dal liberalismo è molto interessante. Probabilmente questa distinzione era quella che Mazzini (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/mazzini.htm), in una serie di articoli pubblicati in Inghilterra fra il 1846 e il 1847 recentemente ripubblicati a cura del professor Salvo Mastellone (http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/mastello.htm) (Pensieri sulla democrazia in Europa, Feltrinelli, Milano 1997), traccia definendo l'ideale democratico come qualcosa di essenzialmente diverso sia dal liberalismo che dal socialismo e criticando "la dottrina dei diritti individuali terrorizzata dall'idea di governo", così come il socialismo edificato "sul concetto di eguaglianza assoluta con tendenze tiranniche".
Il libro di Viroli è dunque un libro importante, anche se i problemi che esso pone sono comunque molto complessi: basta pensare alla legislazione in materia di redistribuzione dei redditi per comprendere che non è facile contemperare l'ideale della non interferenza con quella della non dipendenza. In realtà Viroli si rende ben conto della difficoltà di ricavare dall'impostazione astratta che gli propone un insieme di proposte valide per fissare le regole di una società che realizzi in pieno l'ideale della libertà repubblicana. In un passo che richiederebbe forse un'ulteriore analisi egli scrive che "il linguaggio politico repubblicano ... è un linguaggio retorico piuttosto che filosofico; non cerca il vero, ma l'utile (il bene comune); non ha bisogno di fondamenti astratti, ma di saggezza" (pagina 47). Vale però certamente la pena di fermarsi con attenzione su questi argomenti ed è bene che nel dibattito italiano possano entrare le questioni che questo libro solleva.
Giorgio La Malfa

nuvolarossa
23-12-02, 16:38
I VALORI DELLA PATRIA
I principi che caratterizzano il repubblicanesimo

«Fra i principi che caratterizzano il repubblicanesimo vi sono il valore supremo della Patria di liberi ed uguali, la priorità del bene comune, il senso civico dei cittadini, la virtù dei governanti, l’affermazione dei diritti del cittadino, mai disgiunti però dall’indispensabile assolvimento del proprio dovere». «Gli azionisti affermavano che: l’Italia non sarà vera nazione fino a quando i suoi mali storici non saranno risolti: il particolarismo, il familismo, il conformismo fideista, il tirare a campare, la ricerca del compromesso ad ogni costo». L’Italia di oggi è un mercato di 58 milioni di individui la cui maggioranza vuole vivere come vuole e senza il fastidio di regole imposte: il cittadino onesto è vessato dalla burocrazia e preso in giro dai ricorrenti condoni e sanatorie che altro non rappresentano se non il fallimento di uno stato: chi ha fatto il furbo è premiato, chi è stato onesto è gabbato. Il Paese dei furbi, insomma, sorretto dal cosiddetto stellone italico. Un Paese in perenne via di sviluppo, perlomeno sul piano della convivenza civile. Ma purtroppo nel prossimo futuro nemmeno lo stellone italico ci proteggerà più. Con la mondializzazione dei mercati, certamente positiva, perché offre nuove opportunità a tutti, ai Paesi poveri come a quelli ricchi, la competizione internazionale si è fatta più dura, e si va formando un nuovo mondo dai tratti ancora imprecisati, che ha per esempio spinto i Paesi europei a lasciare da parte molte vecchie divisioni per avviare la nuova Unione Europea, di cui l’entrata in vigore dell’euro è solo un primo importante passo. Ma con la pur indispensabile partecipazione all’Europa, l’Italia è costretta ad essere più virtuosa, pena il suo declassamento. E qui nascono i problemi. Oggi non si può più andare avanti con le periodiche svalutazioni della lira perché i nostri prezzi crescono di più di quelli degli altri Paesi, per il semplice motivo che la lira non c’è più. Ecco allora che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, i nostri prodotti si vedono rosicchiare i margini di mercato, perché il loro costo aumenta di più rispetto a quelli degli altri Paesi: di quelli dei Paesi emergenti per il loro basso costo della manodopera e di quelli europei perché il sistema paese delle altre nazioni d’Europa è più efficiente del nostro. È più efficiente del nostro perché questi Paesi sono governati con maggiore virtù, perché la loro burocrazia aiuta imprese e cittadini anziché vessarli, perché il cittadino, in definitiva, si riconosce nel proprio Paese ed è dotato di quel senso civico che lo porta a compiere il proprio dovere nei confronti della collettività in misura ben superiore rispetto al cittadino italiano. Nel resto d’Europa ciò che è pubblico è di tutti, in Italia non è di nessuno. Al contrario dei nuovi sostenitori della morte delle nazioni, quale conseguenza della globalizzazione, ritengo che proprio i popoli col sistema paese più efficiente, saranno i protagonisti del nuovo assetto economico mondiale. Guardando all’Europa, basti pensare allo straordinario salto operato dalla Spagna, per capire cosa stia succedendo. Ma se oggi la Spagna è un Paese efficiente non è un caso: una volta liberatosi della dittatura quel Paese ha messo in campo le proprie energie vitali, ma impostate su solidi valori di senso civico e di apprezzamento del bene comune, sconosciuti all’Italia degli ultimi cinquant’anni. Ugo La Malfa veniva denominato Cassandra perché insisteva sui problemi economici strutturali irrisolti della giovane nazione italiana e prevedeva il collasso della fragile, pur se vitale, economia del nostro Paese, se non fossimo diventati tutti più virtuosi. La sua analisi, come spesso accade ai repubblicani (basti pensare per tutti a Giuseppe Mazzini), era solo in anticipo sui tempi, ma non per questo, anzi proprio per questo, ancora più giusta e drammatica. Perché il compito di un politico che si rispetti, è si di gestire l’esistente, ma soprattutto di prevedere ciò che è più giusto per il futuro del proprio Paese. Oggi per l’Italia, al di là dei momenti congiunturali più o meno favorevoli, è iniziato un declino economico, con tutto ciò che ne consegue, che sarà difficilmente arrestabile: lentamente, ma inesorabilmente, diventeremo più poveri. La drammatica crisi della Fiat è solo il primo, ma significativo caso. Ecco allora che i valori propugnati dal repubblicanesimo, richiamati all’inizio, non sono nostalgie ottocentesche, ma rappresentano l’unico antidoto al riscatto di un Paese che diversamente è condannato al declino.

FRANCO BOGLIONI

coordinatore
Movimento Repubblicani Europei
Brescia

nuvolarossa
10-01-03, 20:37
Memoria storica e impegno civile
La Manifestazione organizzata dall’AMI a Roma il 23 novembre scorso sul tema "Per la dignità della Repubblica e per la Costituzione. Memoria storica e impegno civile" ha avuto il merito di porre in evidenza problemi e questioni che non riguardano solo il mondo mazziniano e repubblicano, ma tutti gli italiani. Di fronte a una platea gremita sono state svolte le relazioni da parte degli studiosi invitati: il prof. Michele Ainis e il prof. Nicola Tranfaglia, coordinati dall’avv. Renzo Brunetti, vice presidente nazionale dell’AMI.
Il lavori di questa importante iniziativa sono stati conclusi da un applauditissimo intervento conclusivo di Maurizio Viroli.


Pubblichiamo il testo del comunicato emesso dall’Associazione Mazziniana Italiana in sede di presentazione del convegno.
La Repubblica e la Costituzione sono il presidio della nostra libertà.

Ci preoccupano il ritorno dei Savoia senza rinuncia ai diritti e alle pretese dinastiche, il venir meno dello spirito della Costituzione repubblicana che fa riferimento a principi di libertà e di giustizia, la confusione sul federalismo, l’affievolirsi dello spirito europeista, la personalizzazione della lotta politica.
Altrettanto grave è l'affermarsi nell' opinione pubblica di orientamenti culturali che assolvono o attenuano le colpe del fascismo e della monarchia Savoia determinati dalla perdita della memoria storica nazionale.
Noi Mazziniani amiamo questa nostra Repubblica.
È la prima e la sola che ha dato a tutti gli italiani la possibilità di vivere come cittadini liberi e che ha saputo realizzare l'ideale risorgimentale di una Patria libera e unita.
La nostra consapevolezza storica e la nostra coscienza morale ci impongono di lavorare e lottare con tutte le nostre forze per riaffermare i valori della Repubblica.
Rivolgiamo a tutti gli italiani che vogliono difendere la Repubblica e la Costituzione l'appello ad operare insieme con spirito di dialogo e di collaborazione serena.
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tratto da il
Pensiero Mazziniano (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

nuvolarossa
21-02-03, 20:16
http://digilander.iol.it/maxico//liberte.gif
LA REPUBBLICA NAPOLETANA DEL 1799
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CATECHISMO REPUBBLICANO
per l'istruzione del popolo
e la rovina dei tiranni

D. Che cosa è il Popolo?
R. E' l'unione di tutti i Cittadini, che compongono la società.
D. Quanti Popoli ci sono?
R. Il Popolo è uno, e abbraccia tutti gli uomini della terra: ma per la troppo grande estensione dei luoghi si trova separato in varie sezioni, che si limitano o dai gran monti, o dai mari, o dai fiumi, e che si chiamano nazioni.
D. Perchè queste nazioni non hanno lo stesso Governo?
R. Perchè i Governanti in vece di servire ai bisogni del Popolo, hanno servito ai propri interessi, hanno oppressi i Popoli in diverse maniere, ed a queste diverse oppressioni hanno dato differenti nomi di Governo.
D. Perchè il Popolo ha bisogno di un Governo?
R. Perchè un uomo solo non può difendere se stesso, e la sua proprietà. E' dunque necessario il Governo, affinchè mentre i Cittadini tranquilli travagliano per i loro vicendevoli bisogni, il Governo si occupi della comune salvezza.
D. Quale dunque esser dee l'oggetto del Governo?
R. Di provvedere alla pubblica sicurezza, e di far rispettare le proprietà di ciascuno individuo.
D. Chi deve stabilire il Governo?
R. Nessuno ha il diritto di governare, perchè tutti gli uomini hanno gli stessi bisogni. Il Popolo solo dunque ha il diritto di scegliere quel Governo, che giudica necessario al suo ben essere.
D. Qual è il Governo che conviene al Popolo?
R. Quello che gli procura il vantaggio della sicurezza personale, e delle sue proprietà, che gli conserva i suoi diritti, e mette gli altri nell'impotenza di opprimerlo, e di tiranneggiarlo.
D. Qual è il Governo che procura tutti questi vantaggi al Popolo?
R. Quello in cui il Popolo fa da se stesso i suoi interessi. Nessuno può aver tanta premura delle cose nostre, quanto noi medesimi. Chi è quel pazzo, che voglia affidare ad un altro gl'interessi della sua casa? Eppure gli uomini sono così sciocchi d'affidare gl'interessi della gran famiglia del Popolo tutto a persone, che non gli appartengono. Il Popolo quando si governa da se stesso non si lascia tassare il pane ad arbitrio di quelli, che si arricchiscono co' suoi travagli, non si lascia trattare come una bestia da soma dai suoi oppressori. In somma un Popolo quando si governa da se medesimo non può esser che felice.
D. Come si chiama il Governo in cui il Popolo dipende da se medesimo?
R. Si chiama Governo Democratico.
D. Questo Governo è esso antico?
R. I primi figli di Adamo vivevano in famiglia. Il lor governo era adunque Democratico, ed Iddio li benediceva. Quando poi gli ambiziosi ruppero questa fratellanza, e distrussero il Governo Democratico, le iniquità ricoprirono la terra, e Iddio l'inondò col diluvio. I figliuoli di Noè vissero altresì in famigli; l'ambizione distrusse di nuovo il Governo Democratico; e le guerre, le stragi, la morte furono i risultati di questa nuova ambizione.
D. Il Popolo può far tutto da sè nel Governo Democratico?
R. Se il Popolo volesse esercitare tutti gli atti della sua sovranità, non avrebbe il tempo di provvedere ai suoi affari. Esso deve adunque conservare la sua sovranità, ed incaricare delle persone a vegliare suoi suoi interessi. Esso elegge dunque a suo piacere i Rappresentati senza distinzione di stato o di nascita.
D. Qual è il dovere dei Rappresentati del Popolo?
R. Di far eseguire esattamente la Legge.
D. Cosa è la Legge?
R. E' la volontà sovrana del Popolo.
D. I Rappresentanti possono far la Legge?
R. La volontà essendo inalienabile, nessuno può far la Legge, eccetto il Popolo Sovrano. Esso consiglia le persone, che gli possono dar dei lumi nelle occorrenze, ma pronunzia liberamente e sovranamente la sua volontà.
D. I Rappresentanti a chi devono render conto della loro condotta?

R. Al Popolo. Esso deve giudicarli, quando escono dalle loro funzioni; e se il Popolo è stato servito male nella loro amministrazione, li punirà corrispondentemente al loro delitto.
D. Vi è niente di segreto nel Governo Democratico?
R. Tutte le operazioni dei Governanti devono essere note al Popolo Sovrano, eccetto qualche misura particolare di sicurezza pubblica, che se gli deve far conoscere, quando il pericoloè cessato.
D. Come i Cittadini esercitano nelle Assemblee primarie, allorchè procedono all'elezione dei Rappresentanti; la esercitano facendo la Legge, la quale non è, come abbiamo detto, che l'espressione generale della loro volontà.
D. Una Città può dominare sulle altre Città, o Paesi nel Governo Democratico?
R. Siccome un Uomo non può dominare su di un altro Uomo, così una Città non può comandare un'altra Città o Paese. Il Popolo è l'istesso dappertutto, e dappertutto ha i medesimi diritti. Ma le Città, ed i Paesi si devono insieme unire, e formare un Popolo solo, onde resistere ai comuni loro nemici.
D. I più recenti potenti non domineranno i più deboli di questo governo?
R. La Legge sola dominerà nel Governo Democratico. Gli uomini della Democrazia non sono così vili e timorosi, come quelli, che sono educati sotto un Governo Tirannico. Ciascuno può dire liberamente i suoi pensieri, ed ha tale energia da attaccare apertamente i suoi oppressori. Dunque non ci sono prepotenti, dove ci sono uomini liberi.
D. Tutti dunque dovrebbero essere contenti del Governo Democratico?
R. Tutti quelli, che amano il buon ordine, la tranquillità, e la felicità del Popolo amano questo Governo. Ma quelli che amano dominare sugli altri, che vogliono arricchirsi coi beni altrui, non sono certamente contenti del Governo Democratico.
D. I Nobili amano il Governo Democratico?
R. Tutti questi uomini, che vogliono distinguersi per la loro nascita, e per le loro ricchezze, e che vogliono primeggiare sugli altri, non sono amici dell'eguaglianza repubblicana. Ma quei nobili, che hanno bruciato i loro titoli, cioè le loro usurpazioni sul Popolo, che s'interessano del pubblico bene, e si confondono cogli altri Cittadini, questi amano il governo popolare, e meritano di essere tanto più stimati, quanto è maggiore il sacrifizio, che hanno fatto per lo bene comune.
D. Dunque i Nobili non sono più Nobili?
R. I Nobili nel Governo del Popolo sono solamente quelli, che si distinguono per le loro virtù patriottiche, cioè per i servizi che prestano al Popolo. I veri Nobili sono dunque gli Agricoltori, gli Artigiani, i Difensori della Patria, e non più gli oziosi, ed i prepotenti che ne sono i nemici.
D. Ed i Preti possono amare questo Governo?
R. Tutti quei Preti che vivono secondo lo spirito dell'Evangelio, devono amarlo. Infatti la Religione è tanto più pura, quanto più si avvicina alla sua sorgente. or i primi discepoli di Cristo avevano la perfetta comunione de' beni, cioè il Governo Democratico il più puro. I soli Preti adunque, che non possono amarlo, sono quelli, che vogliono dei ricchi benefizj; senza interessarsi del bene delle anime, che vogliono essere assediati da' servitori, e dominare sugli altri come altrettanti Tiranni contro lo spirito dell'Evangelio, il quale c'insegna, che Cristo disse ai suoi discepoli, che colui il quale vorrebbe dominare gli altri, sarebbe l'ultimo fra di loro.
D. Dunque la Democrazia non è contraria alla Legge di Cristo?
R. No, anzi la Legge di Cristo è la base della Democrazia. La Religione Cristiana è fondata su due principj, cioè l'amor di Dio, e quello del Prossimo. La Democrazia toglie tutte le usurpazioni, le oppressioni, le violenze; essa fa riguardare tutti gli uomini come fratelli: essa propaga dunque mirabilmente l'amor del Prossimo. Or i fratelli si possono amar fra di loro senza un comune benefattore? Dunque la Democrazia è fondata sugli stessi principj della Religione Cristiana. Un buon Cristiano dev'esser dunque un buon Democratico.
D. Ma la Religione Cristana comanda di ubbidire alle potestà quantunque discole?
R. Quando la Religione parla di Podestà, intende delle legittime, elette dal Popolo, e non di quelle usurpate dai Tiranni, i quali perciò devono esser condannati, e puniti dalla Legge, come i più grandi assassini del Popolo.
D. Perchè i Democratici prendono il titolo di Cittadini?
R. Il titolo di Cittadino è il solo titolo che conviene alla dignità di un uomo libero perchè questo nome esprime, ch'esso è membro di un governo libero, ed è parte della sovranità. Il titolo di Signore non può essere in bocca, che di uno schiavo, e non può esser preteso, che da un Tiranno.
D. Come il Cittadino esercita la sua sovranità?
R. La esercita nelle Assemblee pprimarie, dando il suo voto nell'elezione de' suoi Rappresentanti, e la esercita nella formazione della Legge.
D. Cosa è la Libertà?
R. E'la facoltà che deve avere ognuno di fare, e di dire tutto ciò, che non è contrario alla Legge.
D. La Libertà non consiste adunque nel fare tutto ciò, che si vuole?
R. Se ognuno potesse fare tutto ciò, che il suo capriccio gli detta, non ci sarebbe Governo Democratico, ma anarchia. Ognuno deve rispettar la Legge, e rispettandola fa ciò che vuole, perchè esso stesso ha voluto la Legge.
D. Cosa è l'eguaglianza?
R. E' il diritto che hanno tutti i Cittadini di esser considerati senza alcuna distinzione o riguardo innanzi alla Legge, sia che premj, o che punisca.
D. Dunque non vi è alcuna distinzione nel Governo del Popolo?
R. In questo Governo non si domanda se uno è nobile, s'è civile, plebeo, ma si domanda solamente s'è virtuoso, se è un buon padre di famiglia, se buon figlio, buon marito, buon amico, se ama la sua patria, se ha preso sempre le armi per difenderla da' suoi nemici, s'è giusto e benefico verso degli altri. Queste qualità distinguono solamente gli uomini liberi.
D. Dunque i Repubblicani devono esser virtuosi?
R. La virtù è la base della Democrazia. I Re, ed i Tiranni hanno bisogno di vizj per render gli uomini imbecilli, e tenerli sempre in discordia; così hanno tutto il comodo di opprimerli e di tiranneggiarli. Ma nel Governo del Popolo tutti gli uomini devono esser virtuosi, e riuniti, per opporsi ai comuni nemici.
D. I colpevoli sono tutti egualmente puniti, senza distinzione di nascita o di grado?
R. Noi abbiamo detto che non ci sarà un'altra distinzione, che la virtù. Dunque tutti saranno egualmente puniti. Non sarà più permesso ad un ricco d'insultare impunemente un povero, non ci saranno più prepotenti, che si faranno lecito di non pagare quelli che travagliano, e d'insultarli.
D. Tutti i Cittadini sono egualmente a parte degl'impieghi?
R. Tutti. Gl'impieghi non si daranno più ai nobili, ed ai danarosi. Il Popolo nomina i suoi Rappresentanti, ed esso nomina certamente quelle persone, che meritano la sua confidenza per i loro talenti, e per le loro virtù.
D. Ma i beni non saranno comuni nel Governo Democratico?
R. L'eguaglianza dei beni sarebbe contraria alla vera eguaglianza, perchè l'uomo attivo ed industrioso dovrebbe dividere il suo travaglio coll'ozioso, e col dissipatore. Nel sistema dell'eguaglianza si devono rispettare le proprietà di ogni individuo, ma non si deve permettere che il ricco opprima il povero.

Mario Battaglini, il benemerito storico della Repubblica Napoletana del 1799, ha ricostruito il percorso di questo Catechismo, rilevando che esso apparve per la prima volta nel 1796 con la dicitura: "Catechismo Repubblicano - Anno IV della Repubblica francese una e indivisibile, Milano-Mantova". Una seconda edizione, senza menzione nè di luogo nè di data, uscì probabilmente nel 1797 recando sul frontespizio la frase: "L'istruzione del popolo è la rovina dei tiranni".
Ancora nel 1797 il Catechismo fu stampato a Venezia con l'indicazione "Italia - L'anno primo della libertà italiana". Quella napoletana, qui riprodotta, fu la quarta edizione, attribuita all'iniziativa di Monsignor Michele Natale, vescovo di Vico Equense, martire della Repubblica, afforcato in piazza del Mercato a Napoli il 20 agosto del 1799, quando salì sul patibolo insieme con Giuliano Colonna, Eleonora Fonseca Pimentel, Vincenzo Lupo, Nicola Pacifico, Antonio e Domenico Piatti, Gennaro Serra di Cassano.
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tratto dal sito:
http://digilander.libero.it/maxico/repubblicani_forlivesi.html

nuvolarossa
02-04-03, 21:09
ATTORNO ALLE RAGIONI DI UN (NON) DIALOGO:
SUL CONCETTO DI REPUBBLICA E LA SUA CRISI

di OMAR ASTORGA (Universidad Central de Venezuela)

En torno a la república se pueden hacer discursos muy elocuentes, e incluso se puede llegar a elaborar una concepción del mundo y de la vida, que no por utópica deja de tener fuerza y atracción, especialmente cuando se presenta en la arena política. Esto sucede en cualquier Estado o república actual. Pero además de la fuerza retórica y de las tradiciones políticas que la han sustentado, la idea de república sigue contando con pensadores y estudiosos que han tratado de revelar sus propios perfiles, desde los clásicos hasta hoy. Dialogo intorno alla repubblica (Laterza, Bari-Roma 2001, pp. 125) es el resultado de una larga conversación que Maurizio Viroli sostuvo con Norberto Bobbio entre agosto y diciembre de 2000. La importancia de este diálogo no puede ser más pertinente y actual, no solo para el lector europeo. En este texto se encuentran tratados diversos tópicos, desde el republicanismo hasta la experiencia religiosa, pasando por la virtud civil, el patriotismo, los derechos y los deberes.

Viroli, estudioso del republicanismo (entre otros, véase su Repubblicanesimo, 1999) inicia su conversación con Bobbio refiriéndose al sentido específico del pensamiento político republicano. Mientras que la tradición liberal ha entendido la libertad como ausencia de interferencia, y la teoría democrática la identifica con el poder que tienen los ciudadanos de darse normas a sí mismos y no obedecer otras que las que ellos mismos se han dado, el republicanismo ve en la libertad la ausencia de dependencia de la voluntad arbitraria. Y ejemplo de ello es el esclavo, que puede no sufrir ni opresión ni interferencia, pero no llega a ser libre. El republicanismo, desde esta perspectiva, es fundamentalmente un ideal de libertad que, según la formula adoptada por Viroli, no necesariamente coincide con la teoría democrática. Y es quizás por ello que ante la pregunta que le hace a Bobbio sobre la posible distinción entre tradición política republicana, democrática y liberal, Bobbio es enfático al apuntar sobre el significado esencial del republicanismo. Según Bobbio, “la república es una forma ideal de Estado que se funda en la virtud de los ciudadanos y en el amor a la patria” (p.5). Un lector ingenuo de esta definición podría quizás esperar que el pensador italiano, de seguidas, haga una apología del pensamiento republicano. Pero el curso de su argumentación es exactamente opuesto. Virtud y amor a la patria, nos dice, eran los ideales de los jacobinos, a los cuales luego añadieron el terror. Más aún: Bobbio dice que el terror no es un añadido accidental. La república en realidad tiene necesidad del terror. Por ello sostiene que se trata fundamentalmente de un ideal retórico, de modo que si bien se puede apelar al significado etimológico del término (res publica), utilizado como expresión genérica, coincide con el concepto de Estado, tal como lo presenta Jean Bodin en su célebre libro (Les six livres de la République,1576), en el cual se describen las diversas formas de gobierno.

En el diálogo de Bobbio con Viroli se van revelando dos posiciones sobre la idea de república y, en general, sobre la política. Mientras que para Viroli la república es una suerte de ideal moral, para Bobbio, quien asume una posición realista, el discurso sobre la república no pasa de ser más que retórica. Para Bobbio, la política, sea republicana o monárquica, no es más que lucha por el poder. Por ello se pregunta, cuando algunos teóricos, como Viroli, invocan el ideal republicano, qué significa, por ejemplo, “virtud de los ciudadanos”. ¿Dónde ha existido un Estado que se haya conducido conforme a la virtud de los ciudadanos? Bobbio señala que, precisamente, el Estado entendido comúnmente como el que utiliza el monopolio legítimo de la fuerza, lo hace porque la mayor parte de los ciudadanos no es virtuosa. Bobbio piensa entonces en la política de una manera distinta a la que sostiene que es posible pensar el Estado fundado en la virtud, que fue la condición invocada por los jacobinos. Antes bien, “ningún Estado real se rige por la virtud de los ciudadanos, sino que es regulado por una constitución, escrita o no, que establece reglas para su conducta, precisamente bajo el presupuesto de que los ciudadanos no son generalmente virtuosos” (p.9).

Vale, sin embargo, destacar que la posición de Viroli, a pesar de ser, digámoslo así, utópica, no deja de ser enfática, tal como se halla expresada en la mejor tradición republicana, desde los clásicos, pasando por Maquiavelo, hasta Rousseau. Es cierto, dice Viroli, que el Estado debe ocuparse de regular la conducta de los ciudadanos no virtuosos, pero cada ciudadano debe estar dispuesto a servir al bien público y estar vigilante en contra de los “arrogantes” que tienen el poder. De no ser así la república muere y se transforma en un lugar donde quedan dominadores y dominados. (p.10). Pero sin que ello signifique que la virtud sea la voluntad de inmolarse por la patria. Para Viroli la virtud civil es el verdadero significado del ideal republicano de amor a la patria. Pero Bobbio no se deja llevar por el utopismo de Viroli. Hay que estar alerta ante los llamados de amor a la patria. También el fascismo hablaba de patria y decía que había que dar la vida por la patria, que es también una palabra que se presta a engaño de parte de aquellos que detentan el poder. Quienes la pronuncian son comúnmente tiranos y tiranuelos. Por ello, mientras que Viroli insiste enormemente en el valor de la nación y de la patria, Bobbio recuerda la manera como el fascismo se apropió de esos términos de una manera exasperante e intimidatoria, que llegó incluso a producir rechazo por parte del pueblo italiano, al menos durante el período de dominación del fascismo.

Por ello no es casual que en este contexto aparezca el problema de la libertad. Vale la pena destacar que en la conversación con Viroli, Bobbio recuerda a los pensadores políticos que más ha estudiado, entre los cuales destaca a Hobbes, por su potencia intelectual y por su estilo (baste citar, entre otros, su Thomas Hobbes, 1989). Y Viroli se vale de la referencia a Hobbes para distinguir entre el concepto de libertad negativa que expuso el filósofo ingles y el concepto de libertad positiva, republicano o democrático defendido por el propio Viroli. Bobbio no necesariamente defiende a Hobbes en la conversación que a este respecto sostiene con Viroli, pero deja claro que lo más importante, tal como lo ha escrito en un famoso libro (Governo degli uomini o governo delle leggi, 1982), es que la libertad supone el predominio de la ley y no el de los hombres. Y esto nos coloca en el terreno de la así llamada “obligación política”. Coherente con su posición republicana radical, Viroli plantea la necesidad de que la república sea intransigente con los ciudadanos en el cumplimiento de sus deberes, mientras que Bobbio postula más bien la transigencia, la pluralidad, la tolerancia como una forma más efectiva de conducir el Estado. Bobbio y Viroli confirman de esta manera sus apreciaciones sobre la república planteadas al inicio de su conversación. Por ello el ameno diálogo entre ellos no deja de ser controvertido. Si bien ambos coinciden en señalar la necesidad de insistir en el cumplimiento del deber (moral, jurídico y político), Viroli es mucho más enfático en señalar la necesidad de destacar el cumplimiento del deber como el gran tema ausente de la teoría política, inclinada más bien, a considerar el ámbito de los derechos. Bobbio acepta la posición de Viroli pero muestra también su interés por plantear el tema del deber no solamente referido a los ciudadanos sino también al Estado, es decir, a la responsabilidad que los gobernantes deben cumplir frente a los ciudadanos.

En este sentido, también para Viroli una de las principales amenazas a la republica democrática se encuentra en las facciones, entendidas como grupos fieles a un líder que intenta obtener ciertos privilegios. Y en esa dirección coincide con Bobbio al destacar la importancia que han tenido, dentro de la tipología weberiana, los así llamados lideres carismáticos, retóricos y demagógicos. Ambos se refieren particularmente a la vida política italiana, aludiendo constantemente a la emergencia de los nuevos movimientos políticos, entre otros el de Berlusconi, así como a los peligros que han amenazado la democracia italiana. De la misma forma, Viroli se refiere al peso que el dinero y la plutocracia han tenido en las democracias occidentales, incluso la de Estado Unidos, pues uno de los grandes riesgos políticos se halla en la posibilidad de que el poder del dinero pueda afectar significativamente la democracia. Y en esta dirección Bobbio reivindica el papel fundamental de los partidos para el funcionamiento de la democracia, especialmente con su presencia en el parlamento. De allí que Viroli y Bobbio traten la cuestión del así llamado por Bobbio “poder oculto” que funciona en todas las sociedades y que tiene una semejanza casi a la de Dios: mientras más observa y tiene presencia en todo, más invisible e inaccesible es. En otros términos, mientras más se oculta el poder menos participación tienen los ciudadanos, tal como también lo vieron Bentham y Foucault. De allí que Bobbio recuerde enfáticamente el lema kantiano según el cual “todas las acciones relativas a los derechos de los otros hombres cuya máxima no es compatible con la publicidad, son injustas”. Esto significa que, para que el poder sea legítimo, debe poder justificar públicamente sus acciones. Desde esta perspectiva ambos intérpretes coinciden en destacar el sentido público de la política en oposición al ocultamiento y al predominio de los privilegios.

Valga señalar, finalmente, que el realismo hobbesiano de Bobbio se pone también de manifiesto en el ámbito religioso. Mientras que Viroli plantea la fe religiosa como una guía moral que puede resultar adecuada en el ámbito social, Bobbio señala de un modo llano que los hombres tienen esa fe por temor a Dios, y que si ese temor llegara a desaparecer, se transformarían en bestias salvajes. Ante lo cual Viroli insiste al decir que tanto Maquiavelo como Tocqueville, dos grandes pensadores de la república y de la libertad, coincidieron en plantear la necesidad de la religión para la conducción de los pueblos. Pero Bobbio, coherente con su posición en torno al temor, dice que el hombre siempre actúa guiado por el temor, sea el temor al Príncipe o el temor a Dios. De allí que las normas siempre tengan disposiciones primarias (“no hagas esto”) y secundarias (“si lo haces serás castigado con”). Y esto vale tanto para el reino de la tierra como para el reino de Dios. Incluso en el caso del temor a Dios, Bobbio dice que no sólo se habla del castigo del “más allá”, sino también del castigo del “más acá” como cuando se dice que sucedió algo “por castigo divino”. No es casual entonces que en el curso de la conversación Bobbio recuerde de nuevo a Hobbes, especialmente en el momento en el que Viroli hace referencia al problema que se presenta cuando cada uno toma la justicia en sus manos o la confía a alguna asociación privada. La referencia entonces, al temor, tal como fue teorizado precisamente por Hobbes, le permite resituar la discusión del terreno religioso al terreno jurídico-político, al considerar que el Estado aparece como instancia reguladora de la libertad negativa, más allá de la experiencia religiosa.

En suma, Bobbio y Viroli ponen en evidencia uno de los núcleos fundamentales desde el cual es posible discutir de un modo realista pero también crítico el futuro de la democracia. Precisamente un diálogo abierto, como el que sostuvieron, es una oportunidad para advertir la validez y el sentido del republicanismo. El realismo de Bobbio y el entusiasmo de Viroli son un testimonio de las posibilidades interpretativas que sigue ofreciendo el tema de la república. La fluidez y la clara articulación del diálogo que se produce entre ellos, no impide advertir la distancia e incluso la contraposición que se genera en torno a este clásico pero apasionante tema.

nuvolarossa
21-05-03, 18:27
http://www.lastampa.it/common/_imgNG/lastampaweb.gif
ESCE IN LINGUA INGLESE IL LIBRO INTERVISTA DI MAURIZIO VIROLI E NORBERTO BOBBIO

La Repubblica come terza via

Rinato come tema di studi storici e teorici nelle università inglesi e americane, la teoria politica repubblicana sembra avviata a diventare un punto di riferimento nella lotta politica in Europa. Gli ideali del repubblicanesimo sono infatti un'alternativa ai modelli culturali della destra. Mentre i movimenti e i partiti politici della destra invocano l'idea di libertà come assenza di impedimenti all'agire dell'individuo, i sostenitori del repubblicanesimo proclamano che la vera libertà politica è emancipazione dalle forme di dominio, ovvero l'emancipazione dalla dipendenza dalla volontà arbitraria di altri individui. I primi considerano le leggi una limitazione della libertà; i secondi il suo più necessario fondamento. È sempre difficile fare previsioni sensate sugli eventi politici, ma è possibile che il contrasto fra destra e sinistra diventi nei prossimi anni un contrasto non più fra i sostenitori della libertà e i sostenitori dell'eguaglianza, ma fra i fautori di due concezioni della libertà: da una parte la libertà dalle regole e dalle leggi; dall'altra la libertà come emancipazione dalle forme di dominio. Purtroppo molti dirigenti della sinistra europea di origine socialista o comunista sono ancora molto freddi verso la tradizione repubblicana, e in questo modo si privano della possibilità di rispondere in modo efficace all'iniziativa culturale e politica della destra. Non si accorgono che la tanto cercata terza via fra liberalismo e socialismo è sempre esistita e si chiama repubblicanesimo. Nel nostro dialogo Bobbio ed io esprimiamo giudizi preoccupati sulla vita politica nelle società democratiche. Il denaro ha un ruolo sempre più fondamentale nel decidere l'esito delle competizioni elettorali. Sono comparsi, ed hanno grande fortuna partiti personali, ovvero, come spiega Bobbio, partiti creati da una persona in contrasto con il partito in senso proprio che consiste per definizione in un'associazione di persone. Né la potenza del denaro, né i partiti personali sono fenomeni nuovi della politica democratica. Ma nel contesto attuale - caratterizzato dal declino delle grandi ideologie, dall'assenza di leaders politici che sappiano suscitare e rafforzare la passione civile, e dalla crisi dei partiti politici come scuole di consapevolezza democratica - tanto la potenza del denaro quanto i partiti personali diventano particolarmente pericolosi. Quando abbiamo scritto il nostro Dialogo non si vedevano all'orizzonte leaders, forze politiche e movimenti capaci in qualche modo di frenare il dominio del denaro e di sconfiggere i partiti personali. Non mi pare che la situazione sia migliorata, per lo meno in Italia. Ma il pericolo che minaccia le democrazie europee è, ancora una volta, il nazionalismo, l' ideologia che proclama che il fine principale dello Stato è proteggere l'unità della nazione o del popolo dalla contaminazione di elementi culturali o religiosi o etnici ad essa estranei, o dall'assimilazione della cultura nazionale all'interno di altre culture. I leaders nazionalisti, con accenti diversi nei diversi paesi, sono infatti ostili tanto alla trasformazione delle società nazionali in società in cui convivono con uguali diritti civili politici e sociali diverse religioni e diverse culture, quanto al processo di integrazione europea. Contro il pluralismo religioso e culturale invocano politiche di discriminazione; contro l'integrazione europea chiedono il rafforzamento dell'autonomia regionale o locale.
A mio giudizio la risposta intellettualmente e politicamente più efficace al nazionalismo non è il cosmopolitismo che afferma che dobbiamo considerare noi stessi e gli altri quali cittadini del mondo dotati dei medesimi diritti fondamentali e ci insegna che la nostra identità nazionale è un dato accidentale che può avere tutt'al più un piccolo rilievo emotivo, ma deve cedere di fronte ai principi universali che la ragione ci addita. Non è neppure il patriottismo costituzionale che afferma che il nostro patriottismo di cittadini deve essere lealtà alla costituzione democratica e ai suoi principi di libertà e di eguaglianza. È piuttosto il vecchio patriottismo repubblicano che si propone di far crescere nei cittadini il sentimento di lealtà nei confronti della repubblica intesa quale insieme di valori politici e culturali. Come ho cercato di spiegare nel Dialogo, il patriottismo repubblicano non insegna la diffidenza verso le altre culture e non rende neppure sordi alle domande di solidarietà che vengono da altri popoli. Anche in questo caso l'esempio francese aiuta: contro il nazionalismo di Le Pen i francesi non hanno invocato i principi universali del cosmopolitismo e neppure un patriottismo della costituzione. Si sono appellati all'ideale della République, che è certo costituzione, ma è anche una particolare storia e una particolare cultura. Non si sono proclamati cittadini del mondo, ma francesi nel significato migliore del termine in rapporto alla loro storia e alla loro tradizione culturale. Il problema del nazionalismo solleva il tema della religione. Come il lettore potrà constatare, Bobbio è più incline di quanto io non sia ad apprezzare il valore morale della fede religiosa e a riconoscere che nei secoli l'amore di Dio (non il timore di Dio) ha saputo motivare uomini e donne ad opere di carità nei confronti di chi soffre. Eppure, in alcuni passi che a rileggerli oggi suonano come profezie, Bobbio mette in guardia contro l'immenso potere distruttivo della religione. L'Ottocento, scrive «è stato caratterizzato dall'idea che la religione fosse l'oppio dei popoli. Ci sarà ancora qualcuno che avrà ancora il coraggio di sostenere questo? Non sarà l'oppio dei popoli, ma forse, peggio ancora, la droga dei popoli. La droga uccide, l'oppio addormenta. Guarda che cosa sta succedendo nel conflitto fra palestinesi ed ebrei per colpa degli estremisti religiosi di una parte e dell'altra. Quando si avvicina a una soluzione gli estremisti uccidono. La religione spesso porta al delitto. Il giovinetto che uccise Rabin disse “Dio me lo ha comandato”. Basta questo per far capire che la religione non è l'oppio dei popoli, ma forse è addirittura peggio dell'oppio». Purtroppo gli attacchi terroristici dell'11 settembre e la degenerazione del conflitto fra israeliani e palestinesi dimostrano che Bobbio aveva visto giusto. Per quanto possa sembrare paradossale ritengo tuttavia che solo una religione possa fermare il fondamentalismo religioso che minaccia le democrazie. Intendo dire che solo una religione civile che rafforzi nei cittadini il sentimento di lealtà nei confronti delle istituzioni democratiche può dare la forza morale necessaria per resistere all'attacco terrorista. La potenza militare, economica e tecnologica non è sufficiente a sconfiggere un nemico che sa dare senso e bellezza al sacrificio della vita, se i cittadini delle democrazie non hanno quella forza interiore per sacrificarsi in difesa della comune libertà che solo una religione civile può dare.

Maurizio Viroli

nuvolarossa
16-08-03, 21:30
Intervista a Bruce Ackerman

Costituzione, Europa e repubblicanesimo

Bruce Ackerman è attualmente Professore di Legge e Teoria Politica alla Law Faculty dell’Università di Yale, dopo aver insegnato Filosofia del diritto alla Columbia University di New York. I suoi interessi di studioso sono ampi: dalla filosofia della politica alla teoria della costituzione, dalla teoria del diritto fino al diritto ambientale. In Italia è conosciuto soprattutto per la traduzione di una delle sue opere più importanti: La giustizia sociale nello stato liberale [i]. Da circa un ventennio è impegnato nella ricostruzione dei caratteri fondamentali della teoria e della storia costituzionale americana, in un progetto tuttora in fieri che prende le forme di una trilogia intitolata We the People [ii]. Ackerman ritiene, infatti, che il costituzionalismo americano sia il contributo teorico più importante apportato dalla cultura americana al pensiero occidentale. L’originalità dell’esperienza statunitense risiede nell’adozione di un sistema a duplice velocità di legiferazione: alternando momenti di politica costituzionale a periodi di politica normale, costituzionalismo e democrazia non sono più termini contrapposti ma complementari.
Attualmente i suoi interessi seguono anche altre due direzioni, legate fra loro: da un lato, lo sforzo teoretico per il recupero del valore politico e morale della cittadinanza [iii] e in particolare della figura del «cittadino proprietario»; dall’altro, l’interesse verso le modalità di implementazione di alcune fra le principali attività democratiche come il finanziamento delle campagne elettorali o le forme di attuazione di un’autentica deliberazione [iv].
In occasione di un seminario tenutosi al Dipartimento di Filosofia Politica della Luiss di Roma, sotto la direzione del professor Sebastiano Maffettone, abbiamo rivolto ad Ackerman alcune domande sulle possibili declinazioni pratiche dei suoi lavori di teoria costituzionale e sulla sua visione del repubblicanesimo.


Iniziamo dal processo di integrazione europea. In questi giorni si sta discutendo sulla futura costituzione europea; alcuni autori [v] hanno proposto di interpretare il momento storico attuale alla luce della sua teoria dualista della democrazia. Pensa che sia corretto? Si può realmente parlare di un ‘momento costituzionale’ così come lo intende Lei?

No. Una Costituzione si può sviluppare in due modi: o per mezzo di un processo rivoluzionario oppure attraverso un’evoluzione. Ritengo che il caso europeo appartenga alla seconda delle modalità che ho appena tratteggiato. Il processo di costituzionalizzazione, almeno fino ad ora, non ha richiesto la mobilitazione e l’impegno della cittadinanza. La Convenzione sta svolgendo i propri lavori alle «spalle» dei cittadini: non si può certo parlare di un esercizio della sovranità popolare. Comunque non è detto che le vicende europee debbano svolgersi secondo un percorso che ricorda la storia costituzionale americana.

Mi sembra che si possano individuare due nuclei fondamentali attorno ai quali si forma l’ellissi del discorso dualista: l’idea di sovranità popolare come fonte ultima del diritto costituzionale, da un lato, e la carica normativa di un soggetto collettivo, We the People, in grado nei momenti decisivi di autodeterminarsi con una politica costituzionale, dall’altro.

Sì, in effetti la teoria dualista si fonda sulla nozione di sovranità popolare [vi]. Con questo non intendo affatto sostenere che una Costituzione possa nascere solo attraverso un processo di mobilitazione popolare rivoluzionario. Ci sono esempi di Costituzioni nate a seguito di un percorso evolutivo, ad esempio quella inglese, che sono certamente ben riuscite. Semplicemente non credo si stia assistendo ad un processo di ridefinizione dell’assetto istituzionale europeo in virtù di una mobilitazione consapevole della cittadinanza. Ciò non significa che il risultato sarà necessariamente pessimo. Prendiamo l’esempio del Brasile: negli anni Ottanta si è assistito ad un genuino coinvolgimento popolare nel processo di riforma costituzionale. Se si compara questa esperienza con quella europea possiamo avere un’idea della differenza fra una trasformazione “evolutiva” ed una legata ad un autentico e diffuso attivismo civico. Ciononostante la Costituzione brasiliana è una Costituzione mediocre. La forma del processo di costituzionalizzazione non garantisce di per sé la qualità del risultato. Quindi è possibile che la Costituzione Europea sarà un buon documento; quello che mi sento di escludere è che essa goda del supporto della sovranità popolare, almeno nel caso in cui il processo proseguirà secondo le modalità attuali.

Nella sua opera recentemente tradotta in italiano, La nuova separazione dei poteri [vii], indica il modello italiano come un buon esempio di parlamentarismo [viii] sotto il profilo dell’ingegneria costituzionale. Che cosa pensa dell’attuale assetto costituzionale italiano? Ritiene che siano necessarie delle modifiche?

Ritengo, effettivamente, che il parlamentarismo italiano sia un buon modello istituzionale. I modelli costituzionali delle due nazioni europee che hanno perso la seconda guerra mondiale sono entrambi ben riusciti. Tuttavia, sono poco informato sul dibattito attuale italiano. Non ho quindi elementi sufficienti per esprimere un giudizio ponderato. Preferirei pertanto astenermi dal rispondere alla sua domanda.


Veniamo ora alla teoria politica. Alcuni autori leggono la sua teoria in termini repubblicani [ix]. Come definirebbe la sua posizione nei confronti del dibattito contemporaneo ed in particolare rispetto al cosiddetto “revival repubblicano” [x] che ha animato la discussione filosofico-politica americana e negli ultimi anni anche europea?

Io sono un repubblicano liberale [xi]. Credo che la teoria dualista sia anzitutto una teoria repubblicana. Per esempio, posso ritrovare una sensibilità simile nel Machiavelli repubblicano, dove viene sottolineata l’importanza di un popolo attivo e partecipe nelle scelte che lo riguardano direttamente. Ma, a differenza di Machiavelli, ritengo che ogni teoria politica debba rendere conto dell’importanza della vita privata. Il dualismo cerca appunto di dare conto, oltre che dell’aspetto partecipativo legato alla polis, anche del valore della vita privata. Sarebbe d’altronde impossibile negare l’importanza dell’elemento liberale nella nostra tradizione. Significherebbe dare una rappresentazione distorta di ciò che siamo. In questo senso mi definisco un repubblicano liberale: in quanto tale pongo sullo stesso piano l’attenzione per la vita pubblica nella polis, tipica del pensiero greco, e il rispetto per la cura della dimensione privata caratteristica della tradizione ebraico-cristiana. Non mi sembra che i due termini siano in contraddizione e si escludano l’un l’altro. Possono essere perfettamente complementari. Ritengo, anzi, che nel binomio repubblicano-liberale sia rappresentata la promessa del futuro sviluppo del costituzionalismo [xii].

Autori come Quentin Skinner [xiii] o Philip Petitt [xiv] sostengono che il repubblicanesimo non sia un filone di pensiero monolitico, ma sia possibile discernere almeno due versioni differenti: una di ispirazione populista, di matrice aristotelica, l’altra invece detta «classica», di ascendenza machiavelliana. Considera questa distinzione giusta?

Francamente non credo sia possibile distinguere fra due repubblicanesimi. Ritengo che la tradizione repubblicana sia fondamentalmente unica. Credo che la via repubblicana-liberale sia differente dalle due tradizioni dalle quali prende vita e certamente non è possibile ridurla alla sola componente repubblicana: direi che né Aristotele né Machiavelli sono le mie guide quando parlo di repubblicanesimo liberale. Si tratta di una sorta di tertium genus [xv].

A quale autore repubblicano si sente più vicino? Leggendo We the People verrebbe da pensare ad Hannah Arendt [xvi].

Sì, se fossi costretto ad evocare un nume tutelare credo ricorrerei ad Hannah Arendt. Certamente sono stato più influenzato dal suo pensiero che da Aristotele o Machiavelli. Tuttavia, su alcune questioni fondamentali dissento profondamente dal suo pensiero. Non condivido, ad esempio, la sua condanna della questione sociale pronunciata nella ricostruzione delle vicende rivoluzionarie [xvii]. Inoltre, credo nel valore della vita privata in maniera nettamente più consistente rispetto a lei. Detto ciò, provo sempre un forte imbarazzo nel paragonare la mia teoria a quelle dei grandi del passato. In fondo, ciò che importa maggiormente è pensare da e per sé.

a cura di Marco Goldoni

nuvolarossa
01-11-03, 13:13
Jean-Yves Frétigné, Biographie intellectuelle d’un protagoniste de l’Italie libérale. Napoleone Colajanni (1847-1921), Roma, École française de Rome, 2002, pp. 844

Questo notevole e poderoso lavoro di Frétigné delinea il profilo intellettuale di Napoleone Colajanni. Vengono evidenziate le tappe del “positivismo” del deputato siciliano, attraverso i passaggi del mazzinianesimo, dell’influenza cattaneana e del socialismo di fine Ottocento. L’autore, quindi, delinea il profilo riformista di Colajanni, attraverso il repubblicanesimo “estremo”, la nozione di federalismo, la prassi democratica (contro il trasformismo), la difesa dei diritti dei lavoratori, l’analisi meridionalista. Il libro racchiude due parti (su tre) della tesi di dottorato dell’autore, e si ferma praticamente all’alba del Novecento, tralasciando quindi le ultime fasi dell’evoluzione politica e scientifica di Colajanni. Il contributo si presenta di grande interesse anche per la particolare prospettiva, italo-francese, della ricerca.


tratto da il
Pensiero Mazziniano (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

Manfr
21-12-03, 11:22
Salve a tutti gli amici Repubblicani!:)
Sto in questo periodo svolgendo un lavoro scolastico sulla figura di Mazzini e sulla genesi del Repubblicanesimo...ho consultaltato una pletora di fonti bibliografiche, ma quelle a mia più diretta disposizione sono colpevolmente carenti su questo fondamentale capitolo della nostra storia.
Mi rivolgo quindi a voi, sperando nella vostra bontà e ringran da ora chiunque sarà così gentile da aiutarmi, poer ottenere infromazioni sul Repubblicaneismo e il Mazzinianesimo... che sicuramente siete le persone più adatte!;)

nuvolarossa
21-12-03, 13:57
Manfr, per avere informazioni sul Repubblicanesimo puoi cominciare a dare una scorsa a questo stesso thread a cui il tuo post e' stato accodato ...ed inoltre agli altri thread sotto linkati ..

http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=22136&highlight=Repubblicanesimo
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=70173&highlight=Repubblicanesimo
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=36055&highlight=Repubblicanesimo
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=21596&highlight=Repubblicanesimo
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=13463&highlight=Repubblicanesimo
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=2088&highlight=Repubblicanesimo

Il Consiglio migliore da seguire e' quello di utilizzare il motore di "ricerca" interna del Portale ... in modo da interagire armonicamente tra le tue necessita' e l'abbondanza della fonte in cui sei immerso.

Manfr
21-12-03, 15:45
Che dire...grazie infinite!!!:) :) :)

nuvolarossa
28-12-03, 13:37
Antonio Banfi, Il governo della città. Pericle nel pensiero antico, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 292, euro 30,00

La personalità di Pericle, emblema di una certa concezione della politica, viene esaminata sotto la prospettiva dei contemporanei, sotto il profilo filosofico e come ri-scoperta di un modello di governo.

tratto dal sito web del
PENSIERO MAZZINIANO

nuvolarossa
01-01-04, 23:26
Marco Platania, Repubbliche e repubblicanesimo in Montesquieu. Percorsi bibliografici, problemi e prospettive di ricerca, in “Annali della Fondazione Einaudi”, XXXV, 2001, Firenze, Olschki Editore, 2002

Un lucido percorso alla ricerca delle correnti interpretative del pensiero di Montesquieu sulle repubbliche. L’autore ha tenuto opportunamente conto dei principali filoni di ricerca indicando implicitamente ulteriori percorsi ipotizzabili.

tratto dal sito web del
PENSIERO MAZZINIANO

nuvolarossa
02-08-04, 20:48
Calendario di incontri su temi di grande rilievo/Libertà individuali, ricerca, energia, istruzione, riforme istituzionali

Un'intesa di indirizzo pragmatico

In quest'ultimo periodo si sono svolti una serie di incontri, organizzati su iniziativa di un gruppo di amici repubblicani, tra cui Simone Ascoli, Carmen Attisano, Valeria Conocchiella, Riccardo Masini, Pasquale Spinelli, Giulio Tartaglia, ed ai quali hanno partecipato, tra gli altri, Giovanni Postorino, consigliere nazionale del PRI, il dottor Paolo Gajano Saffi, il dottor Alessandro Rossi, l'ingegner Andrea Cassalia, il dottor Francesco Di Iorio ed il dottor Valerio Torano.

Questi appuntamenti, che si intensificheranno nel prossimo periodo autunnale, sono volti alla determinazione di linee politico-programmatiche su temi quali la difesa delle libertà individuali, la ricerca scientifica e le politiche energetiche, le riforme istituzionali, le politiche economiche e sociali, il mondo dell'istruzione secondaria e universitaria, il sistema della comunicazione politica. Nell'intenzione degli organizzatori si vuole recuperare lo spirito rivoluzionario del movimento mazziniano-repubblicano, esprimendolo in una nuova carica riformatrice e in un maggiore coraggio nell'azione politica, attuando così un vero rilancio del P.R.I. e fornendo una risposta adeguata alle tante esigenze del nostro Paese: insomma meno chiacchiere vuote e più programmi concreti.

È stata evidenziata, in particolar modo, l'importanza della battaglia contro la legge sulla fecondazione assistita, per il progresso medico-scientifico, la tutela della salute della donna e la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione eterologa e quindi dare una vera speranza a tante coppie sterili. A tal proposito, si sono delineate, per l'immediato, le azioni a supporto della raccolta firme per i referendum e si è deciso di fornire un contributo concreto attraverso la promozione e la partecipazione, insieme agli esponenti di altre forze politiche, ai comitati referendari locali che a breve si andranno a costituire.

È stata anche analizzata la situazione politica e, in linea con il risultato dell'ultimo Consiglio Nazionale, si è convenuto che l'azione di rilancio politico-programmatico del Partito sia da collocare nella più ampia prospettiva del dialogo con i rappresentanti del Nuovo PSI e del Partito radicale e dei movimenti e delle personalità di area laica, liberal-democratica e riformatrice. L'obiettivo è realizzare un'intesa che, superando la contestualità del momento elettorale e gli angusti confini degli attuali schieramenti, sia in grado di maturare una riflessione pragmatica sui bisogni del sistema Paese e sia motore propulsivo per guidare l'Italia verso un progresso economico e sociale che, anche a causa dell'attuale contesto politico, risulta sempre più incerto.

nuvolarossa
24-02-05, 16:15
Mazzini e il Popolo

Cio’ che noi cerchiamo (…) e’ un principio nuovo, quello del Popolo, del Popolo come lo intendiamo noi, raccolta di individui godenti di certi diritti in unione di tutti, in una credenza, in un intento, in una legge comune..

nuvolarossa
12-03-05, 13:48
Incontro con Michele Finelli, redattore de Il Pensiero Mazziniano

Giuseppe Mazzini, due secoli di modernità

Il primo articolo della Costituzione della Repubblica Romana e quello della Costituzione Italiana sono pressoché identici I principi irrinunciabili di convivenza democratica

In occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, è stato a Verona, ospite dell'associazione mazziniana, Michele Finelli, autore de «Il monumento di carta. L'Edizione nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini». Redattore del Pensiero Mazziniano, autore di diversi saggi di argomento risorgimentale, Finelli sta curando in collaborazione con la Commissione editrice degli Scritti di Giuseppe Mazzini e la Domus Mazziniana di Pisa la redazione su supporto informatico dell'Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini.
Con lui abbiamo parlato del suo recente libro e dei suoi importanti studi.
« La repubblica romana è stata il più importante esperimento democratico in Italia nel secolo diciannovesimo. Come ne parla Mazzini nella sua opera?
«Mazzini ha sempre un ricordo positivo di quell'esperienza. Non solo perché ha provato sul campo il sogno della repubblica, ma anche perché lui stesso si è rivelato un valente uomo di governo. Quando lui passa da Roma dopo aver avuto l'amnistia dal governo italiano, dopo il 1870, si rifiuta di entrare nella Capitale monarchica. L'abilità di Mazzini come uomo di governo si è vista sostanzialmente sotto due aspetti. Da un lato si è imposto per la sua grande capacità oratoria davanti al parlamento della repubblica romana, lui che abitualmente era un timido. Dall'altro lato c'è da rilevare come la Costituzione della repubblica romana sia profondamente permeata dai suoi principi e dalle sue idee. Penso anzitutto all'articolo 5, che abroga la pena di morte, alla sua incredibile modernità. Anche in questo vedo l'attualità della repubblica romana. Penso che quest'anno il testo costituzionale del 1849 sarà ancora ripreso ed evidenziato.»
- Quali furono le reazioni del Maestro all'instaurazione della monarchia in Italia? «Indubbiamente le reazioni furono negative. Non era certo quella l'Italia che Mazzini si aspettava. Quando arriviamo all'Unità, nel 1861, il movimento mazziniano si trovava in difficoltà, spiazzato da un lato dal fallimento dei moti di Milano del 6 febbraio 1853 e dalla frattura tra Mazzini e Garibaldi, frustrato d'altro canto dal tentativo pure fallito d'un contatto fra Mazzini e Vittorio Emanuele II. Questi eventi favorirono Cavour, che nel 1857 promosse la Società Nazionale, sorta di associazione culturale, in realtà politica, con cui lo statista raccoglieva finanziamenti per la futura guerra. A questo punto Garibaldi si volge in questa direzione. In politica estera c'erano già stati la guerra di Crimea e l'attentato a Napoleone III di Felice Orsini. Nel 1860, quando Giuseppe Mazzini arriva a Napoli dice a Garibaldi: "dobbiamo proseguire per Roma". Ma Garibaldi va a Teano. Nel 1861 la delusione è grande, ma Mazzini è ancora animato da una speranza: Roma e Venezia sono ancora irredente. Il progetto repubblicano non è ancora del tutto fallito. Mazzini cominciava ad invecchiare. Compare una nuova variabile. Il Maestro aderisce all'Internazionale di Londra del 1864, ma poi l'anarchico Bakunin entrerà in conflitto col movimento mazziniano, che uscirà dall'Internazionale. Nel 1866 verrà creata l'Alleanza Repubblicana Universale, in contatto con gli Stati Uniti. Vi aderirono anche alcuni membri del Congresso. L'ultimo tentativo di svolta repubblicana fallisce nel 1870, quando Mazzini viene arrestato a Palermo.»
- Cosa emerge del rapporto a volte difficile fra Mazzini e Garibaldi?
«Appare l'evoluzione del rapporto, prima entusiastico, poi più freddo. Inizialmente il contatto fu epistolare. Già negli anni quaranta Mazzini sosteneva che bisognava portare Garibaldi in Italia. Nel '53 si apre il dissidio. Herzen a Londra fa incontrare Garibaldi e Mazzini. L'eroe Nizzardo brinda: "al mio amico, al mio maestro". Ma ormai la rottura era già consumata. Nelle lettere Mazzini di tanto in tanto esprime questo disappunto politico. I fatti di Roma del '49 furono un prologo alla rottura definitiva. Fu anche uno scontro fra due personalità diverse, fra un uomo di pensiero e un uomo d'azione.»
- Qual è la concezione di Mazzini dello Stato?
«Credo che la concezione di Mazzini sia abbastanza lineare, quella di uno Stato democratico. E' il padre della democrazia italiana, il testo di riferimento è quello della repubblica romana. E' un meccanismo che parte dalla base del suffragio universale, dalle elezioni e passa dalla responsabilità politica degli eletti. Cooperativismo e associazionismo sono al centro della concezione sociale di Stato mazziniano. Lavoro e capitale sono nelle stesse mani. Il Maestro ha reso meno traumatico l'inserimento nello Stato delle classi popolari, anche grazie a istituzioni come le associazioni di mutuo soccorso e le biblioteche popolari. Mazzini non era né per il liberismo assoluto né per il collettivismo. Voleva evitare situazioni di conflitto fra le classi sociali. Si batté per l'imposta diretta e progressiva.»
- Le idee di Mazzini trovarono seguaci anche nel resto d'Europa e nel mondo. Vuol parlarci di loro? «Fu ispiratore del radicalismo e del movimento sindacale inglese. Molti esponenti delle Trade Unions si legarono a lui. Ebbe rapporti stretti col mondo ebraico, in primis colle famiglie Nathan Rosselli. E' vero che Mazzini fece seguaci, però prese anche molto da loro. Quando arriva in Gran Bretagna conosce la filantropia. E deve molto a questo. La scuola che fonda a Londra per gli emigranti italiani è mutuata da modelli inglesi. C'è uno scambio reciproco. Uno degli errori della storiografia mazziniana è dire solo che Mazzini ha dato. Comunque anche Gandhi nei suoi scritti ha fatto riferimento a Mazzini, come ha ricordato anche il professor Rigopulos di Cà Foscari.»
- Come guardano oggi gli eredi di Mazzini all'attuale momento politico?
«Bisogna premettere che l'associazione mazziniana è strettamente apartitica. Tuttavia l'associazione mazziniana è rivolta a un tema non solo culturale, ma anche politico, che è la Costituzione. Mettere in discussione questo impianto costituzionale significa mettere in discussione principi di convivenza democratica che il mazzinianesimo ha ispirato. Il primo articolo della Costituzione della repubblica romana ed il primo articolo della Costituzione italiana del 1948 sono praticamente i medesimi. Le vicende politiche del partito repubblicano non ci riguardano.»
Giovanni Masciola

Il monumento di carta. L'Edizione Nazionale degli Scritti di Giuseppe Mazzini di Michele Finelli, Pier Giorgio Pazzini Editore, Rimini, 139 pagine, 15 euro. www.pazzinieditore.it

nuvolarossa
28-06-05, 08:55
IL PETRARCA CRITICATO

Lettera scritta da Checco di Meletto Rossi

(ANSA) - FIRENZE, 27 GIU - Sara' resa nota una lettera inedita, di protesta, parte in prosa e parte in versi, indirizzata a Petrarca da Checco di Meletto Rossi. L'autore, umanista minore, cancelliere della Corte Ordelassi di Forli' e amico del Boccaccio, scrive a Petrarca nel 1354 per protestare, con reverenza e affetto, per il passaggio di Petrarca dalla Corte Avignonese a quella dei Visconti di Milano. L'episodio fu considerato da molti un tradimento degli ideali repubblicani. Petrarca rispose solo in tarda eta'.

nuvolarossa
07-10-05, 21:31
Una ricorrenza per parlare di valori e relativismo culturale

Intervento presentato a Ospedaletto, 16 settembre 2005, nell'ambito delle giornate repubblicane.

di Gianni Ravaglia

Al di là delle varie interpretazioni filosofico - culturali, che lascio a chi meglio di me ha approfondito i caratteri del mazzinianesimo, ritengo importante rilevare che in Mazzini, a differenza di altri pensatori liberali, l'idea di libertà è innervata dal concetto del dovere che comporta l'esigenza di rafforzare le virtù civiche dei cittadini, la loro integrazione civica, per realizzare, a cominciare dalla famiglia, un superiore interesse nazionale e, quindi, universale.

Non so se l'indubbio successo delle manifestazioni per il bicentenario della nascita di Mazzini abbiano lasciato il segno nella riproposizione del pensiero che sottende tutta l'opera del maestro e cioè che uno stato democratico, una repubblica, non può vivere se non ha valori condivisi che ne sostengano le fondamenta.

Credo comunque che la misura del successo delle celebrazioni di questo bicentenario sarà dato dalla sensibilizzazione che avremo fornito all'opinione pubblica circa l'esigenza di recuperare quei concetti di repubblicanesimo e di religione civile, che sono propri del pensiero mazziniano, quali presupposti di valore del nostro stato laico democratico e che vorremmo diventassero valori universali.

Trovo decisivo riscoprire tali concetti per vari motivi.

Innanzitutto, dalla nascita dello stato italiano ad oggi il tema dell'identità italiana, dello scoprire la ragion d'essere del nostro stare insieme come Stato o per meglio dire come Patria comune, ha coinvolto un dibattito tra cattolici e laici, tra liberalismo e totalitarismo, tra il valore della giustizia e quello della libertà, sul significato della resistenza, sulla validità dei principi inseriti nella nostra Carta Costituzionale. Di fatto però l'unico riconoscimento univoco che si è riusciti ad ottenere è il valore dello Stato democratico laico, inteso come non etico.

Per il resto un comune sentire circa l'identità della nazione è ancora condizionato da conflitti atavici.

Il problema che io mi pongo allora è questo: se ancora non abbiamo un comune sentire nazionale, pure in una normale dialettica che almeno riconosce il vincolo della democrazia, come faremo ad affrontare la nuova sfida, che si pone a tutto l'occidente, del fondamentalismo islamico, che invece non riconosce questo vincolo, che ancora concepisce solo lo stato etico, che neppure sa declinare la parola libertà, che non esiste nel lessico arabo?

In secondo luogo si avverte in Italia la carenza di valori civili di base, condivisi, elemento questo cui fa da contrappeso l'affermarsi di un relativismo culturale di derivazione marxista, del quale l'espressione più problematica è un generico multiculturalismo, con effetti deleteri sul piano interno e internazionale, ma anche il potenziamento dell'unica supplenza valoriale oggi avvertita che è quella della Chiesa.

Per intenderci, io penso che tra gli articoli più disattesi della nostra Costituzione vi sia l'articolo 4 che recita: "il cittadino deve concorrere al progresso spirituale e materiale della società". Cioè l'articolo dei doveri.

Nel comune sentire dei cittadini la nostra pare essere solo una democrazia di diritti, ciò che manca è una cultura dei vincoli di cittadinanza. L'esempio, per non dire altro, del livello della nostra evasione fiscale, che attraversa tutti i ceti, è il sintomo più evidente dell'assenza di tali vincoli. Le grandi energie di solidarietà che pure esistono sono investite fuori dal quadro politico, dentro una realtà sociale che non sa o non vuole trasferire alla politica tali motivazioni. Cosicché la politica si dimostra incapace di fissare obiettivi che vadano oltre il menu di diritti individuali se non in alcuni casi delle licenze individuali e dei gruppi corporativi.

Ciò che manca all'Italia è una diffusa cultura repubblicana.

Cittadinanza, civismo, integrazione civica, patriottismo costituzionale, religione civile, interesse nazionale, sono tutti concetti propri di un lessico repubblicano.

Se anche i laici vivono di rendita

Non è il momento qui, dato il tempo a disposizione, di affrontare la complessità dei problemi che si pongono, mi basta denunciare un punto: anche la cultura laica in questi anni ha creduto di poter vivere di rendita sulle tesi dei suoi grandi maestri senza produrre riflessioni innovative.

Il problema della secessione imposto dalla Lega, i nodi dello sgretolamento della famiglia, del ruolo delle scuola, i problemi dell'immigrazione, quelli del progressivo depauperamento delle condizioni di sviluppo della Nazione, i problemi immensi che pone lo sviluppo della bioetica, sono tutti temi che invece andrebbero approfonditi alla luce dei valori repubblicani.

Così come credo vada approfondito il tema della religione civile.

Come religione civile potremmo intendere -con G. E. Rusconi- un insieme di credenze che fanno riferimento ad una unità trascendente che fungono da legittimazione a una comunità politica e alla qualità della sua integrazione.

Al di là della religione di chiesa, quella cristiana, nella tradizione italiana possiamo riconoscere due varianti di religione civile: quella crociana "di religione della patria come religione di libertà" e quella mazziniana che ci dice: "l'ordinamento politico di una nazione è un solenne atto religioso e nella parola ordinatrice la religione e la politica affratellano in bella e santa armonia. Il nome di Dio splenderà sull'alto edificio che la nazione innalzerà: il popolo ne sarà la base. E' Repubblica questa? E' Repubblica".

Il potere temporale della Chiesa e la sua contrarietà all'unità della nazione ha poi fatto prevalere, negli interpreti del mazzinianesimo, concetti fortemente anticlericali tali da accantonare la forza e la modernità complessiva del messaggio mazziniano nella sua versione di una ricerca di una religione civile.

Il ruolo della religione civile

Ebbene io credo che, se il mazzinianesimo vuole svolgere un ruolo di interesse nazionale, riproponendo i valori propri di una identità nazionale per l'Italia, deve rivalutare anche il concetto di religione civile di Mazzini.

Repubblicanesimo e religione civile provengono dallo stesso ceppo e sono due modi di completare le teorie della libertà promuovendo anche l'integrazione civica e il civismo, senza i quali la stessa libertà rischia di perire nell'arbitrio o nell'anarchia. In altri termini, senza negare ad alcuno, a cominciare da me stesso, il diritto al proprio umanesimo ateo, se riteniamo che per uno stato democratico sia essenziale avere cittadini liberamente consapevoli di avere vincoli di reciprocità e di cittadinanza, e se crediamo sia decisivo per l'Italia che i cittadini scoprano il legame repubblicano della reciprocità tra diritti e doveri, ritenendo tale legame fondamentale per una comunità politica che voglia configurarsi come nazione; dunque, come laici dobbiamo concedere, abbandonando quelle forme di anticlericalismo di cui ancora si ammanta certa cultura laicista, che i cittadini cattolici mantengano la propria autonomia dogmatica e istituzionale e avanzino con gli strumenti dello stato liberale le proprie richieste per il rafforzamento dell'identità religiosa, così come i cattolici debbono porsi l'obiettivo essi stessi di costruire una religione civile, riconoscere la forma liberale dello stato che ha compiti suoi propri separati da quelli della chiesa, nel reciproco riconoscimento di una comune identità nazionale. Un cattolicesimo liberale dunque in grado di riconoscere che, pur esistendo una storia di divisioni, esiste anche una comune identità nazionale.

Dibattito a più voci

A tal proposito credo sia importante approfondire il dibattito a più voci tra Pera, Habermas e il nuovo Papa Ratzinger, soprattutto laddove quest'ultimo ammette che "vi sono patologie della religione che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo, ma anche alla ragione-se si parla di bomba atomica e dell'uomo visto come prodotto- devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell'umanità".

A mio parere i principi del repubblicanesimo e della religione civile rappresentano anche una risposta al relativismo culturale. Su questo piano ritengo si giochi il nodo dei rapporti culturali con la sinistra postcomunista e socialista. Crollato il muro di Berlino e il mito del totalitarismo di stampo marxista-collettivista, la sinistra, in debito di valori guida, nel rifiuto della cultura liberale e di quella repubblicana, non volendo smentire le proprie origini marxiste, ha abbracciato la filosofia relativista.

Il relativismo nega che i valori possano essere oggettivamente fondati. Secondo questa concezione non esistono valori universali da condividere e da difendere, in base ai quali giudicare altre culture, altri regimi, altri valori, ciò in quanto gli uomini, i loro pensieri, sono solo frutto dell'ambiente e della cultura in cui vivono. Tale concezione in sostanza non riconoscere il valore liberale dell'autonomia dell'uomo come individuo pensante. Tale concezione invece è figlia del pensiero di Marx, che scrive: "non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere,ma è,al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza".

Dal relativismo è nato il concetto di multiculturalismo in forza del quale ogni cultura ha una sua valenza che è inutile giudicare. E così i valori che da Socrate in poi in occidente si sono ritenuti universali, della libertà , della democrazia, per tale scuola di pensiero, sono solo illusioni, credenze accettate in quanto appunto prevalenti nelle società occidentali.

Dunque per impedire un giudizio storico di forte critica sul totalitarismo collettivista, il politicamente corretto della sinistra italiana ed europea, oggi vuole imporre un pensiero prevalente che non permette a noi, sulla base dei nostri valori occidentali liberali e repubblicani, di giudicare i regimi teocratici o quelli totalitari, né potremmo decidere di voler insegnare ad altre culture i valori della dignità dell'uomo e del suo essere capace di capovolgere la premessa marxista: di decidere il proprio essere e la propria storia con la propria coscienza.

Esportare la democrazia

Il dibattito attorno alla validità o meno della tesi di esportare la democrazia nei regimi che non solo ne impediscono lo sviluppo, ma che minacciano in vario modo lo sviluppo delle nostre società, ha al fondo una valutazione su tali aspetti.

Anche il comportamento che dovremo tenere nei confronti dell'immigrazione discende dall'aver sciolto tale nodo ideale e politico. Sergio Romano sul "Corriere della Sera" scrive che lui non si preoccupa se in futuro potremo avere un Italia islamica. Non so perché Romano la pensi così, so però che questo è il vero obiettivo della sinistra marxista, che preferisce l'islamismo al liberalismo.

Io invece mi preoccupo , non tanto per me che non la vedrò, ma per i miei figli e nipoti.

La polemica sugli scritti della Fallaci o sulle esternazioni di Marcello Pera è il frutto di diverse valutazioni attorno a tale problematica. Ma anche qui a ben vedere la cultura repubblicana e della religione civile ci offre gli elementi per una risposta.

Se è possibile ed anzi auspicabile ricercare i caratteri di una religione civile in chi, come la chiesa cattolica, riconosce il valore della ragione per mitigare i fondamentalismi della fede, e il valore dello stato laico democratico, come ha scritto il nuovo Papa, ben più difficile ci appare il dialogo con le religioni che ancora negano tali principi.

Ci si dovrebbe domandare prima di contestare la Fallaci o Pera, quale potrebbe essere il punto di incontro e se c'è un punto di incontro.

Si parla di stati arabi moderati, ma la moderazione di tali stati è conseguenza dei rapporti di forza geopolitica oppure è, come noi vorremmo, il risultato di un processo educativo che ha scoperto e che insegna la dignità dell'individuo, uomo o donna che sia, la sua autonomia di pensiero, la sua libertà di partecipare e di decidere la forma democratica del proprio stato.

Come mai, mi chiedo, il responsabile della Lega araba ha contestato duramente la prima Costituzione in odore di democrazia, approvata da uno stato arabo, quello iracheno. E ancora, i cittadini che giungono in Italia dai paesi arabi hanno interesse ad integrarsi, ad accettare i nostri valori, a discutere assieme a noi della validità dei loro. Hanno la volontà di diventare parte attiva, con valori condivisi, dei diritti e dei doveri della cittadinanza - o no. Se noi accettiamo, secondo la logica del relativismo e del multiculturalismo, che l'Arabia Saudita continui a finanziare le madrasse e i doposcuola per insegnare anche in Italia la logica del terrore ai bambini musulmani, come ci potrà essere integrazione? E ancora, se è vero che la logica demografica, stante i processi immigratori in atto, potrebbe condannare l'Europa a soccombere di fronte all'avanzata dell'Islam- di questo passo, infatti, i nostri nipoti sarebbero costretti a vivere in una Europa a maggioranza islamica- quale comportamento dobbiamo assumere? Accettiamo il multiculturalismo e snaturiamo i nostri valori fondamentali, o chiediamo che siano gli altri a cambiare se vogliono ospitalità in Italia e in Europa, riproponendo per intero l'insegnamento dei valori del liberalismo, del repubblicanesimo e della religione civile?

La mia risposta avrete capito qual è. Dico di più: io disprezzo il cinismo di Sergio Romano. Ma se Romano continua a dettare il suo verbo politicamente corretto nel maggiore quotidiano della borghesia nazionale, qual è la gravità del pericolo?

Cari amici, la posta è molto grossa.

Io credo che vada denunciato con forza che sul valore della libertà, sui diritti umani, individuali della persona, sui diritti alla partecipazione democratica, sul principio dell'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, quale che sia il sesso, la razza o la religione professata, tutti principi sconosciuti e anzi combattuti dall'islamismo, non esiste meticciato possibile.

La mia valutazione è che vada difeso Pera contro coloro che lo denigrano senza aver capito il senso del suo ragionamento, e lo difendo contro l'intellettualismo politicamente corretto che, per citare un detto della sinistra francese, ha sempre preferito aver torto con Sartre piuttosto che avere ragione con Aron, ma che appunto ha sempre avuto torto. Il dramma è che continua imperterrita a sentenziare, e trova sempre nuovi utili idioti che le credono.

Ma siccome la democrazia è anche questo, dico solo che il dialogo, lo scambio, l'integrazione, nuove sintesi culturali e politiche sono sempre possibili e auspicabili, ma esse trovano fondamento proprio nell'affermazione e condivisione di alcuni valori universali che vanno difesi e possibilmente affermati in tutto il mondo.

nuvolarossa
11-03-06, 10:40
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nuvolarossa
25-05-06, 21:34
I nostri valori
Un tavolo permanente fra tutti i repubblicani ovunque essi si trovino

di Giancarlo Tartaglia

La conseguenza più negativa delle ultime elezioni politiche non è tanto la vittoria ai punti di una similmaggioranza sgangherata, che pure già inizia a produrre i primi consistenti danni con le dichiarazioni a ruota libera di quel centinaio di ministri e sottosegretari che formano il governo Prodi, quanto la constatazione che sulla base dei numeri, ancorché contestati, nessuno schieramento può dire di aver vinto veramente le elezioni. La divisione dell'elettorato al cinquanta per cento tra centro-sinistra e centro-destra, infatti, oltre a rendere fisiologicamente instabile qualsiasi governo di parte finisce per produrre sul sistema politico un effetto ancora più devastante che è quello di congelarlo per un tempo indefinito e indefinibile.

Siamo sempre stati critici nei confronti di questa cosiddetta Seconda Repubblica che, introducendo con un colpo di mano giudiziario-mediatico il sistema bipolare, ha di fatto spaccato il Paese e distrutto quelle forze che della Prima Repubblica ne erano state l'asse portante e che ne avevano garantito la stabilità politica e creato le condizioni per lo sviluppo economico. Così come abbiamo sempre sostenuto che occorresse fuoriuscire al più presto dalle maglie strette di un meccanismo estraneo alla storia, alla cultura e alla stessa struttura sociale del nostro Paese e ridare spazio e voce a quella molteplicità di culture politiche, che, pur aggiornate rispetto ai problemi che oggi si pongono ad una società immersa in un mondo ineluttabilmente globalizzato, ne rappresentano il substrato sedimentato e il collante vero, rispetto a sigle e formule artificiali, usa e getta, costruite a tavolino negli studi dei pubblicitari e destinate a riempire, come prodotti commerciali, lo spazio effimero di una breve stagione.

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Il sistema bipolare italiano, lungi dal creare quella semplificazione che i suoi fautori hanno sempre propagandato, ha ingenerato soltanto una grande confusione, rendendo estremamente difficile comprendere quali siano i reali obiettivi degli schieramenti contendenti, sommatorie di istanze eterogenee. In questa confusione l'elettore è stato costretto a scegliere più sulla base del grado di simpatia o di antipatia che ispiravano i leaders antagonisti che non sulla base dei contenuti programmatici, che altro non erano che indigesti frullati di contraddizioni.

Ai tanti elogiatori del sistema bipolare di stampo americano (che poi, guarda caso, sono anche coloro che vedono negli Stati Uniti la fonte di tutti mali del mondo), abbiamo ricordato che un sistema bipolare funziona ad una sola condizione: che entrambi i soggetti convergano verso il centro, come accade appunto negli Stati Uniti. In questo caso si garantisce la stabilità. Il bipolarismo italiano, al contrario, è un bipolarismo strabico nel quale i due soggetti, anziché tendere al centro, divergono verso le rispettive estreme e il risultato, certo non esaltante, è sotto gli occhi di tutti dopo un decennio di sperimentazione.

Proprio per questo speravamo che con le elezioni, la sconfitta di uno schieramento ne avrebbe messo in crisi i presupposti, trascinando inevitabilmente nel processo di scomposizione anche lo schieramento opposto, avviando un nuovo processo di ricomposizione degli schieramenti e delle forze politiche sulla base di quelle omogeneità storico-culturali che si sono volute negare e archiviare troppo frettolosamente. Non si comprende perché, per esempio, in tutto il resto d'Europa parole come liberalismo e socialismo continuino ad avere un significato ed un senso ben preciso, mentre in Italia pare non abbiano più diritto di cittadinanza se non come generico patrimonio comune, per cui tutti, da destra a sinistra, si definiscono insieme liberali e socialisti.

Ecco perché il risultato elettorale di sostanziale parità francamente non ci aiuta, anzi rischia ancora una volta di congelare gli schieramenti con tutte le loro interne contraddizioni.

Da questa constatazione dobbiamo però partire, se vogliamo dare un senso alla nostra presenza politica come Partito repubblicano, anche approfittando del fatto che, collocati oggi all'opposizione, siamo meno vincolati e più liberi nella nostra azione. Il Partito Repubblicano forse più di altri ha sofferto e soffre per la dolorosa diaspora che lo ha diviso e lacerato in tutti questi anni. Molti repubblicani hanno voluto, con passione e credendoci, schierarsi, a prescindere, nel centro-sinistra nella convinzione che non potesse essere che quella la collocazione del partito; molti altri repubblicani, nell'illusione, dimostratasi fallace, che tutto si rinnovasse, hanno cercato e trovato, a destra o a sinistra, collocazione in formazioni politiche nominalisticamente nuove, scoprendo tardivamente di trovarsi in vecchie case che con una superficiale rinfrescatura di calce si presentavano sul mercato come nuove. Molti repubblicani sono rimasti nel Pri, legati, oltre che ai suoi valori anche ai suoi simboli, alcuni soffrendo, altri tentando di far sentire come fosse possibile la voce del partito e delle sue idee.

Credo, però, che in tutti i repubblicani, dovunque essi siano, prevalga comunque il senso dell'appartenenza ad una cultura politica, sempre minoritaria, ma vissuta e sentita sempre per i suoi valori di libertà come lievito indispensabile alla crescita democratica della società italiana.

Questo valore ci accomuna e questo valore non va disperso. Ritengo perciò che sia ormai maturo il tempo per riflettere su iniziative che possano riprendere quel filo spezzato della nostra storia. Credo anche che debba essere proprio il Pri a fare il primo passo e a prendere l'iniziativa.

Non si tratta di fare un appello a tutti i repubblicani a tornare nella casa comune. Sarebbe sterile e improduttivo per tutti. Penso, piuttosto, alla creazione di un tavolo permanente di confronto tra tutti i repubblicani, dovunque essi siano e militino, per discutere, come è loro costume, sui temi veri e reali del Paese, sulla politica estera, sulla politica economica, sulla politica istituzionale. Un tavolo che non abbia lo scopo di portare nel centro-destra chi ha fatto la scelta del centro-sinistra o viceversa, ma che sia un'occasione di ripresa di un confronto, di un reciproco arricchimento, un'occasione per dimostrare al Paese come si possa discutere nell'interesse generale, in quell'ottica lamalfiana, spero da tutti condivisa, per cui in alcuni momenti storici sia più opportuno parlare dei contenuti piuttosto che degli schieramenti. Oggi è uno di quei momenti.

Roma, 25 maggio 2006

tratto dal sito del Partito Repubblicano
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nuvolarossa
01-06-06, 19:44
Continuità e costanza
Come salvaguardare il nostro patrimonio politico e morale

di Francesco Nucara

Le campagne elettorali sono di fatto terminate.

Restano i ballottaggi, qualche Comune in Sicilia e il rush finale del referendum sulla legge di riforma della Costituzione, approvata dal Parlamento all'inizio di quest'anno.

Da un'analisi generale del voto non sembra ci siano state sorprese rispetto alle precedenti consultazioni amministrative e a noi pare che nemmeno per il Pri siano state registrate grandi variazioni.

Un leggero miglioramento, una maggiore presenza con liste dell'Edera - o anche composite - il ritorno al Comune di Milano, valgono a sottolineare una ripresa apprezzabile del Pri.

Sorprendono - e positivamente - i risultati conseguiti in Romagna: a Ravenna si assorbe una scissione e si confermano percentuali e seggi; a Bertinoro si arriva al 17%; a Cesenatico al 10%; a Rimini, con una lista insieme ad altri, si riesce ad entrare in Consiglio comunale.

Questa affermazione, in Romagna come altrove, è dovuta all'impegno straordinario dei dirigenti locali.

Non è il caso di Roma, dove i dirigenti locali e nazionali sono scomparsi dalla circolazione per tutto il corso della campagna elettorale e financo nell'espressione del voto, che mi auguro sia stato dato, da parte loro, all'Edera.

Potremmo parlare di un'analisi cautamente positiva.

Tuttavia, un partito si costruisce con impegno continuo e costante. Tale impegno trova sbocco naturale nella partecipazione convinta dei veri militanti, prescindendo dal ruolo che si svolge, alle campagne elettorali. Quando un dirigente di partito, chiunque esso sia, si defila proprio durante la campagna elettorale, non è più un dirigente e non c'è bisogno di prendere provvedimento alcuno.

I sermoni si fanno in Chiesa. Il partito non è una Chiesa: è un luogo di discussione, di ricerca e di decisione.

Bisogna porre fine ai percorsi a "strappi". Non servono a nulla e rischiano di farci solo del male.

Come a nulla servono le puntuali chiacchierate ipocrite che sentiamo in giro per l'Italia nelle ormai poche sedi del Pri. Ugo La Malfa sosteneva che un buon politico si distingue per gli atti che produce e per i comportamenti conseguenti.

Spesso ci siamo fermati alla prima parte, generando aspettative illusorie, incertezza sui comportamenti da seguire, svogliatezza nelle battaglie da portare a termine, incoscienza nella gestione dell'attività politica.

A questo va aggiunto che i dirigenti nazionali non si rendono conto dei notevoli sacrifici, anche politici, dei militanti che operano sul territorio.

Essi sono la linfa vitale che consente a pochi, pochissimi, di rappresentare il Pri nelle più alte Istituzioni del Paese.

E' a loro che dobbiamo la salvezza di un patrimonio politico e morale di cui forse non siamo degni.

Sulla "Voce" l'amico Tartaglia ha lanciato un appello per incontrare i repubblicani, "dovunque si trovino" e accertare se sia possibile parlare di valori condivisi.

Riceviamo molti apprezzamenti. E' un primo passo. Quello successivo deve servire ad aprire le porte a chiunque voglia entrare o rientrare nel nostro Partito affinché insieme a noi, "resistenti" degli anni '90, possa contribuire all'affermazione dei principi di cultura laica che ormai vanno scomparendo, annacquandosi in coalizioni che non hanno alcun filo conduttore comune.

I valori laici non sono quelli dell'anticlericalismo tout-court. Essi sono riferibili a ragionamenti senza pregiudizi, senza asserzioni ideologiche, senza fanatismi. Siamo contro gli ‘ismi' per tradizione, per storia e per cultura.

Un buon repubblicano riflette e cerca di convincere gli altri delle proprie ragioni, sempre disposto ad accettare gli altrui convincimenti nella dialettica delle opinioni. Dobbiamo ritrovare lo spirito dei nostri predecessori, essere più generosi con il partito, rinunciare anche a pur legittime ambizioni personali per il bene del Pri e del Paese.

Non ci dobbiamo socialdemocratizzare; è l'ora di uscire allo scoperto con le nostre labili forze, rivedendo, se necessario, il percorso di questi anni.

La classe dirigente del Pri è consunta.

Se il Pri vuole ancora dire qualcosa alle future generazioni, deve attuare una vera e propria rivoluzione morale, politica, statutaria, organizzativa, dirigenziale.

Queste possono essere le condizioni per ripartire e per poter affermare la nostra autonomia vera e non finta o, ancora peggio, occasionale.

Roma, 1 giugno 2006

tratto dal sito del Partito Repubblicano
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nuvolarossa
02-06-06, 19:59
Essere Repubblicani oggi !

Delle tre correnti politico-culturali che hanno caratterizzato l'evoluzione dell'Europa nel XIX e nel XX secolo: il pensiero liberale, quello democratico e quello socialista, il
Partito repubblicano durante tutta la sua storia ha sempre rappresentato l'espressione della
democrazia nel suo più pieno significato .
Mentre i gruppi conservatori aderirono tardivamente, senza alcun entusiasmo, al moto per l'indipendenza e
l'unità d' Italia, e per di più lo fecero nella speranza di poter annullare quanto in esso vi era di
progressivo sul terreno economico e politico, gli uomini della democrazia repubblicana forti dei propri ideali e degli insegnamenti di Mazzini ritenevano che l'unità del nostro paese e la fratellanza con gli altri paesi Europei fosse un elemento inderogabile e determinante per un giusto sviluppo sociale ed economico.

In questo contesto di principi Mazzini fonda il movimento della "Giovine Italia", concretizzando il proprio operato con l' insediamento della Repubblica Romana il 9 Febbraio del 1849, piena espressione della dottrina mazziniana come si evince dall'articolo 4 dei “Principi Fondamentali” della costituzione della repubblica romana del 1849

"La sovranità appartiene al popolo, il governo deve essere democratico, tutti gli uomini sono uguali e a tutti si deve dare la possibilità di migliorare, moralmente ed economicamente. Tra patriottismo e nazionalismo c’è differenza, perché il patriota ama la sua terra e sente tutti i popoli come fratelli

la libertà di culto e l’indipendenza del potere spirituale del Papa; l’inviolabilità delle persone, delle proprietà, del domicilio e della corrispondenza; la libertà di pensiero senza “censura preventiva”; la libertà d’associazione “senz’armi e scopo di delitto”. Essi inoltre prevedevano le garanzie per i cittadini e per gli eletti dal popolo di fronte alla magistratura, indipendente “da ogni altro potere dello stato”, l’abolizione dell’aristocrazia coi suoi titoli, l’abolizione della pena di morte"

In queste poche righe è racchiuso gran parte del pensiero Repubblicano che dopo 150 anni risulta ancora essere perfettamente attuale e non avverte certamente il bisogno di essere riveduta o corretta come invece lo è stato per altre correnti politico-ideologiche che si formarono contemporaneamente nel periodo risorgimentale in Italia e in Europa.

Essere repubblicani oggi vuol dire quindi riconoscere e fare propri questi valori di democrazia e fratellanza fra i popoli, rispettare diritti e doveri di ogni persona, e lavorare per la buona gestione dello stato come strumento del popolo per il popolo

tratto da
http://www.pri-forlimpopoli.it/

nuvolarossa
22-06-06, 10:21
Il patriottismo repubblicano italiano: prospettive di storia comparata

Maurizio Ridolfi

La Repubblica degli Italiani e le altre Repubbliche: uno schema di analisi

Movendo da un approccio comparativo europeo e americano, il seminario intende avviare il confronto tra gli storici italiani su un tema - il "patriottismo repubblicano" - ritornato di forte attualità grazie alle iniziative del Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi.
Affinché la ricerca storica contribuisca a interpretare in modo genuino e non artificiale il concetto di patriottismo repubblicano, occorrono alcune annotazioni preliminari. In primo luogo, sul piano dei concetti, a cosa si vuole fare riferimento? In modo molto semplice, come ha evidenziato Maurizio Viroli [1] , si può affermare quanto segue:

a) per Repubblica possiamo intendere la comunità di cittadini sovrani, fondata sul governo delle leggi (l'eguaglianza dei diritti civili e politici) e sul perseguimento del bene pubblico (scopo di ogni cittadino virtuoso);
b) per Repubblicanesimo facciamo riferimento ad una tradizione di lungo periodo del pensiero politico, distinta da quelle liberale e democratica, che si caratterizza soprattutto per l'interpretazione della libertà politica e della virtù civile;
c) per Patriottismo possiamo invece considerare la passione civile che induce a manifestare un amore per la propria comunità (appunto la Repubblica) e per i concittadini; una sorta di "carità laica" e di "religione civile";
d) in definitiva, per Patriottismo repubblicano si allude alla passione civile capace di indurre i cittadini della Repubblica (ognuna distinta dalle altre), al di là delle loro differenze (condizione sociale, cultura, religione, razza) ad agire concretamente per il bene pubblico.

Mentre gli studi sul pensiero politico e la rinascita del repubblicanesimo nella cultura occidentale sul piano teorico ci aiutano a comprendere la storia dei concetti, poco ancora sappiamo sulle analogie e sulle diversità a proposito delle forme assunte dal patriottismo repubblicano in quelle realtà dove, a partire dal secondo Settecento negli Stati Uniti e in Francia, la costituzione di Repubbliche comportò la promozione di pedagogie politiche intese a creare la passione civile dell' "amor di patria". Anche in questo caso, considerando le acquisizioni scientifiche della storiografia europea e americana, è utile richiamare quali siano i temi possibili di questo comparativo percorso di ricerca storica:

a) i caratteri genetici della Repubblica, in relazione alle strutture politiche (la Costituzione, il federalismo, i poteri dei Municipi, ecc.) che marcarono la transizione da una forma di governo ad un'altra (appunto la Repubblica);
b) il ruolo svolto dalle élites e dalle istituzioni politiche (in primo luogo attraverso le leggi, il buon governo e la promozione della partecipazione alla vita pubblica, nella sfera nazionale come in quella locale e municipale) nella costruzione culturale di una pedagogia e di una passione civile patriottiche distinte dal nazionalismo (etnico, naturalistico o universalistico che sia);
c) il rapporto tra religione e patriottismo civile, nelle forme e nei linguaggi attraverso cui l' "amor di patria" si esprime; con la presenza di un modello americano (le fedi religiose come fattori di rinvigorimento del patriottismo e delle virtù civiche) e di un modello francese e europeo (la competizione tra religione nazionale e etica laica nel definire forme e linguaggi del patriottismo);
d) la costruzione di storie e memorie pubbliche (monumenti, commemorazioni, toponomastica, ecc.), in relazione alla (eventuale) presenza di una tradizione repubblicana ovvero ai "miti di fondazione" intesi ad avvalorare la legittimità della Repubblica, grazie a cui corroborare la dignità di un popolo e la sua cultura civile, infondendo ai cittadini l'obbligo morale a proseguire l'opera dei "padri della patria", così come di profeti, martiri ed eroi della causa repubblicana;
e) la rifondazione di simboli attraverso cui materializzare le passioni patriottiche e la tradizione repubblicana (bandiere, inni, colori, insegne, ecc.)
f) la "politica della festa" promossa dalle istituzioni con lo scopo di chiamare i cittadini a ricordare, in riti civili e ricreativi allo stesso tempo, i momenti alti della tradizione repubblicana e a mantenere vivo il patriottismo nella memoria culturale pubblica;
g) il riconoscimento di onori e premi ai cittadini virtuosi impegnati nella promozione del bene pubblico (le onorificenze).

Nell'Europa del Novecento la storia dei patriottismi repubblicani ha registrato esempi diversi: basti pensare ai casi della Germania e della Russia sovietica rispetto al grande modello della Francia della III Repubblica. Oltre Atlantico, dalla cultura politica nordamericana è invece venuta una peculiare rappresentazione di patriottismo, in cui il richiamo alle immagini dell'antica Roma repubblicana si coniugò ad una idea di patria che si fonda su presupposti culturali e non naturalistici, con un sentimento diffuso di comunione tra i cittadini e un largo utilizzo di simboli identitari nei rituali pubblici.
Il caso dell'Italia è del tutto peculiare, a lungo simile a quello della Spagna per un dato di fondo: la presenza di un repubblicanesimo costretto ad un ruolo minoritario all'interno di istituzioni monarchiche. Nel secondo dopoguerra invece le due storie nazionali di differenziarono. Come sappiamo, in Italia, il 2 giugno 1946 un referendum istituzionale sancì l'avvento della Repubblica [2]. Con quest'anno, la data del 2 giugno è ritornata ad essere la festa della nazione, offrendo l'occasione per ravvivare nella memoria culturale pubblica il principale evento fondativo delle istituzioni democratiche e per ridestare un genuino patriottismo repubblicano tra i cittadini [3] L'origine referendaria della Repubblica e la legittimazione, con l'elezione popolare dell'Assemblea Costituente, del testo della Costituzione, assicurarono alla nuova Italia un futuro democratico. Occorre interrogarsi sulle motivazioni per le quali a questo "patriottismo costituzionale" non abbia corrisposto un altrettanto diffuso patriottismo repubblicano. Agli storici tocca il compito di scavare nelle diverse memorie degli Italiani e di indagare sulla natura dei miti di fondazione dello Stato democratico, sui simboli e sui valori nel nome dei quali la classe dirigente, dopo il 1945, ha affrontato il sempre attuale proposito del "fare gli Italiani" e di creare un sentimento nazionale; ovvero, sulle ragioni per le quali essa non è stata in grado di fare ciò, quando addirittura non ha voluto. All'indomani della sconfitta referendaria della Monarchia nel 1946, i più ferventi seguaci di Mazzini ammonivano che "fatta la Repubblica" occorreva "fare i repubblicani". E' un compito ancora attuale.
Oltre che sul concetto di patria e sul suo diverso utilizzo, è sulla qualità della tradizione repubblicana italiana che merita soffermarsi. L'approccio comparativo, ponendo attenzione alla storia dei patriottismi repubblicani tra l'Europa e le Americhe, può agevolare la costruzione di percorsi di ricerca capaci, anche per l'Italia [4], di restituire la complessità dei valori ideali e delle rappresentazioni simbolico-rituali che le Repubbliche e il repubblicanesimo alimentarono nella storia contemporanea. Anche nella moderna e secolarizzata società di massa, come ha evidenziato Emilio Gentile [5], lo spazio della dimensione simbolico-rituale non solo persiste, ma esso diviene un fattore prioritario nelle strategie politiche di organizzazione del consenso. I riti e i simboli, suscitando una partecipazione emotiva oltre la sfera razionale, rendono riconoscibili le aspirazioni al mutamento sociale, favorendo l'emergenza di domande altrimenti prive di espressione.

tratto da http://www.cssem.org

nuvolarossa
22-06-06, 20:57
Il modello repubblicano: la "rifondazione" del patriottismo francese dopo la Grande Guerra

Andrea Baravelli

Il modello repubblicano elaborato in Francia dalla Rivoluzione francese rappresenta, insieme a quello americano, il punto più maturo della riflessione politica Sette-Ottocentesca. Pochi dubbi esistono anche sul fatto che, in Europa, sia stato il modello francese a influenzare maggiormente l'evoluzione delle diverse storie nazionali. La Francia rivoluzionaria, dunque, non solo elaborò un compiuto sistema politico-istituzionale capace di scardinare quello fino ad allora esistente - l'Ancien régime - ma diede vita a un nuovo modo di intendere lo spazio pubblico (che sarebbe, poi, divenuto lo spazio politico). Questo spazio pubblico si popolò di soggetti (in numero sempre più vasto man mano che aumentava la politicizzazione delle popolazioni) e di materiali (oggetti linguistici, metaforici, simbolici, ecc.), che si sarebbero organizzati costruendo una trama di regole, di identità e di significati. Rispetto all'esperienza americana, quella francese si segnalò per i cattivi rapporti nei confronti delle religioni tradizionali. Pregiudicato il rapporto con il cattolicesimo a causa dei reciproci errori e incomprensioni iniziali, il repubblicanesimo francese si sarebbe costruito come religione alternativa (religione laica e civile, per usare i concetti formulati da Emilio Gentile), dotata di un proprio calendario, proprie festività e, soprattutto, una propria visione escatologica del mondo [1]. Così, la Rivoluzione repubblicana assunse su di sé il destino e il futuro della Nazione intera, identificando le proprie sorti con quelle della Nazione. Nacque allora il patriottismo repubblicano francese.
Se l'evento rivoluzionario non poté più essere cancellato, né sottaciuto, in realtà il processo di adattamento del paese alla rivoluzione sarebbe stato molto lento. Ci sarebbe voluto tutto il secolo, a prezzo di una lotta durissima fra francesi, per giungere a soluzioni generalmente accettate dalla grande maggioranza dei cittadini. Tuttavia, attraverso apporti differenti (il 1848 con l'emergere della questione sociale, il periodo imperiale con l'affermazione dell'ideale della "progressività" e del "razionale determinismo"), il repubblicanesimo sarebbe giunto a elaborare una dottrina compiuta e, soprattutto, a giungere stabilmente al potere. Con la Terza Repubblica si sarebbe aperto un periodo segnato dalla sforzo di costruire una cultura politica che fosse largamente condivisa. A questo compito la Terza Repubblica si accinse con uno straordinario spirito pedagogico e con un formidabile dispiegamento di mezzi. Insomma, gli uomini della Terza Repubblica si adoperarono perché si giungesse a una identificazione fra "l'essere francesi" (cioè l'appartenere a una patria storicamente definita) e "l'essere repubblicani" (cioè condividere un sistema di riferimenti ideali e di valori che si istituzionalizzavano nella terza Repubblica stessa). Con successo i repubblicani riuscirono a imporre l'idea che il lavorare per abbattere la Repubblica equivalesse al tramare contro l'intera nazione. Insomma, fra la fine degli anni Settanta del secolo e la prima decina del 900 la cultura politica repubblicana si impose su quella legittimista-cattolica che pure contava molti seguaci. Tale cultura si iscriveva nel solco filosofico dei Lumi e del Positivismo, si richiamava all'eredità storicamente idealizzata della Rivoluzione francese derivandone - dal punto di vista istituzionale - la necessità dell'adeguamento a un modello di tipo parlamentare. Tale cultura preconizzava una società di progresso graduale all'interno della quale l'azione dello Stato e il merito individuale avrebbero portato alla creazione di un mondo di piccoli proprietari possessori dei loro strumenti di lavoro; all'interno della quale la scuola sarebbe stata il motore primo dello sviluppo. Infine, specie nella sua versione Radicale, tale cultura poggiava su un solido e aggregante (si pensi al ruolo della Massoneria) anticlericalismo. Soprattutto, tale cultura politica si seppe dotare di un vocabolario all'interno del quale i termini di cittadino, grandi antenati, gli immortali principi o il progresso costituivano parole-chiave. Ugualmente anche simboli quali il berretto frigio, la Marsigliese, la Marianna costruivano un linguaggio simbolico adeguato a tale cultura politica. Insomma, alla vigilia della guerra esistevano, in Francia, due culture politiche sedimentate, riassumibili nella nota formula dello scontro fra partito del Mouvement e partito dell'Ordre. L'una, quella repubblicana, più forte e istituzionalizzata; l'altra, quella legittimista-cattolica, pur assai ben radicata e persistente nel paese, più debole.
La reazione del paese allo scoppio della prima guerra mondiale sembrò la consacrazione dell'efficacia pedagogica della Repubblica. La "comunità di agosto", che sembrò affratellare in un medesimo afflato patriottico l'intera nazione (indipendentemente dalla fede religiosa o politica), poté apparire come l'apogeo del progetto pedagogico degli uomini della Terza Repubblica: quello teso, cioè, a costruire una RELIGIONE CIVILE REPUBBLICANA DI MASSA. La nazione, nel momento del pericolo, si comportò secondo i criteri e gli schemi propri di un patriottismo di tipo repubblicano (quale passione civile capace di indurre il cittadino della Repubblica, al di là delle proprie opinioni religiose e politiche, ad agire per il bene comune). La guerra stessa, però, finì per sconvolgere questo quadro. Soprattutto, con la guerra nacquero nuovi problemi da risolvere, vennero proposte nuove teorie politiche-economiche, si affermò una nuova sensibilità civile e politica. All'indomani della guerra la cultura politica repubblicana (trionfatrice nel 1914) sarebbe apparsa come superata, incapace di soddisfare le vere esigenze della nazione e, quel che più conta, causa di rivalità e separazione permanente fra i diversi componenti della medesima nazione. Cos'era successo? Era capitato che, con il protrarsi della guerra, una formula assolutamente condivisibile e condivisa come era stata quella dell'appello all'Union sacrée ("dimentichiamo temporaneamente tutte le divisioni per concentrarci sulla necessità di sconfiggere il nemico") si era trasformata in una vera e propria ideologia, al limite di una nuova cultura politica. Tale nuova cultura politica, per i valori diffusi, permetteva alle Destre (cattoliche e nazionaliste) di rientrare all'interno del gioco politico e della "cittadella repubblicana". Questa nuova cultura politica apparve come la più adatta a risolvere il gran numero di esigenze nuove che erano nate con la guerra. Vediamo in sintesi quali erano tali esigenze:

1) La guerra sembra imporre la necessità dell'unicità del comando:
apparve chiaro che, per esigenze di razionalità ed efficienza, la pratica della DELIBERAZIONE (tipica del parlamentarismo francese) dovesse essere sostituita da STRUMENTI DECISIONALI più rapidi e autonomi. Quel che ne uscì colpito fu il prestigio del parlamentarismo. Tale argomentazione logica, inoltre, non poteva non apparire straordinariamente vicina ai valori autoritari e gerarchici da sempre propugnati dalle Destre.
2) La guerra impose rapporti nuovi nel mondo del lavoro e dell'economia:

Maggiore concertazione produttiva fra imprese e Stato; interventismo dello Stato nel settore economico (aborrito dalla cultura politica repubblicana) -> Si avvicina all'ideale di società organica tanto cara ai pensatori di destra.

Regime di maggiore disciplinamento sociale all'interno del mondo del lavoro; forme di compartecipazione operaia al di fuori dell'ottica rivendicativa e di classe -> Idem

Promozione delle élites tecniche ("a ciascuno il proprio mestiere = ciascuno al proprio posto") -> Si avvicina all'ideale ARISTOCRATICO delle Destre.

3) La guerra sembra mostrare come i clivages tradizionali (in particolare quello religioso) su cui si è retta la politica nel passato possano considerarsi come ormai superati.
4) La guerra disumanizza il nemico. Ciò alimenta la xenofobia e il razzismo delle Destre.
5) L'Union sacrée risponde al desiderio di gran parte della popolazione francese, la quale - pur non essendo antiparlamentare - è profondamente avversa all'idea di "partiti", all'idea della divisione della nazione per scopi partigiani

A tutto ciò si aggiunge, dopo il 1917, la diffusa convinzione che il vero nemico della Francia non sia più il clericalismo, bensì il bolscevismo. Nei primissimi anni Venti si contrapposero, dunque, due culture politiche. Queste erano ancorate, a loro volta, a due differenti concezioni di patriottismo:

· Un patriottismo repubblicano di tipo classico, proprio dei repubblicani della vecchia generazione. Tale tipo di patriottismo ritiene che la difesa della Francia sia, innanzitutto, la DIFESA DELLA SUA FORMA DI GOVERNO REPUBBLICANA. Infatti, è la forma repubblicana che ha generato la Francia moderna e le ha assegnato un compito "immortale" quale è quello di difendere e diffondere nel mondo gli immortali principi del 1789.
· Un patriottismo nazionale di tipo nuovo, proprio delle Destre. Esso si appoggia al vasto consenso riscosso dalla formula di Union sacrée e - come ha scritto René Rémond - sacrifica il suffisso nella parola nazionalismo per relegare nell'antinazionalità chi si oppone all'Union sacrée. Questo patriottismo nazionale non è, però, pregiudizialmente ANTIREPUBBLICANO. Mostra di accettare - almeno formalmente - le istituzioni nate dalla Rivoluzione. Così facendo, esso sembra disponibile a volere realmente mettere fine alla guerra che ha contrapposto i francesi per oltre un secolo Inoltre, tale patriottismo sembra volere recuperare la tradizione storica e ideale precedente al 1789.

Il patriottismo nazionale ebbe tanto successo nella Francia degli anni Venti perché apparve come una pratica "inclusiva" rispetto a un patriottismo repubblicano che riproponeva schemi di esclusione (i nazionalisti, i cattolici) considerati ormai datati. Insomma, la cultura politica di Union sacrée ebbe successo perché riuscì a scindere il binomio ideale su cui si era retta la cultura politica del repubblicanesimo: l'idea, cioè, che REPUBBLICA e NAZIONE fossero due termini indissolubilmente legati. Le Destre seppero affermare con successo che, pur non combattendo la forma istituzionale repubblicana, si poteva essere patriottici anche non condividendola. Gran parte della forza di persuasione di tale cultura politica, infine, è da collegare la capacità pervasiva del sistema simbolico-rituale da essa allestita. I simboli della guerra, in particolare, divennero un patrimonio esclusivo della cultura di Union sacrée. Simboli dalla enorme forza evocativa (come l'immagine del Poilus, o l'immagine del Cristo sofferente o quella della Pulzella d'Orléans) appartenevano d'ufficio a chi, da quella guerra, mostrava di volere trarre un insegnamento per il futuro. Non certo a chi la guerra voleva dimenticare frettolosamente, come una parentesi da chiudere al più presto.

Conclusioni:
La Grande Guerra sconvolse assetti stabiliti, rese tutto più instabile ma anche maggiormente possibile. Herbert Gorge Wells, nel primo numero dei Cahiers de Probus (novembre 1918), sottolineò come "maintenant tout devient fluide. Le monde est plastique et les hommes peuvent le pétrir à leur gré". La cultura di Union sacrée rappresentò, allora, uno straordinario strumento di trasformazione: degli assetti politici, dei clivages fondamentali come pure del concetto stesso di patriottismo. Al patriottismo repubblicano della Terza Repubblica, che non riconosceva lo statuto di veri patrioti a tutti coloro non si riconoscessero nella fede repubblicana, si sostituì un concetto di patriottismo all'apparenza più largo e inclusivo (basato sulla comune appartenenza a una Nazione storicamente definita, a prescindere dalla fede religiosa o dalle inclinazioni istituzionali) ma, in realtà, nettamente orientato a Destra. Il fallimento di questa cultura politica avrebbe riportato le Destre nel ghetto della cittadinanza limitata e le avrebbe portate a maturare soluzioni estreme, non solo ANTIREPUBBLICANE, MA ANCHE ANTINAZIONALI (come dimostrerà l'accettazione della sconfitta militare nella Seconda guerra mondiale come benefica al fine di rigenerare la Nazione). Dall'altra parte, l'incapacità del patriottismo repubblicano così come era stato elaborato dalla Terza Repubblica di mettersi in gioco e ripensarsi avrebbe contribuito a ingessare il malessere politico e istituzionale. La strana disfatta del 1940 nasce, in questo senso, anche dalla mancanza di risposte di fronte alle esigenze sollevate nell'immediato dopoguerra.
La risposta sarebbe venuta da de Gaulle, il quale seppe attingere, nella guerra antinazista, da entrambi i campi in cui era divisa la Francia politica, con un'opera di grande sincretismo che mise l'uno accanto all'altro simboli della tradizione cristiana (Giovanna d'Arco, la Croce di Lorena, ecc.) a simboli della tradizione repubblicana classica (il berretto frigio, la Marianna). Il generale, ugualmente, seppe fondere i due concetti di patriottismo: si rifece alla tradizione storica nazionale che andava ben al di là della data del 1789 (per esempio con i riferimenti alla Lorena, terra di frontiera), ma pure a una interpretazione rigorosa dei principi rivoluzionari (quelli che rendevano la Francia una nazione con una missione universale; cosa che, tra l'altro, contribuiva a delegittimare ulteriormente la rassegnata e tutta ripiegata su se stessa Vichy). Con De Gaulle e la V Repubblica trovò, infine, sistemazione il contrasto che, negli anni Venti, aveva contrapposto i fautori di una REPUBBLICA PARLAMENTARE (trincerati dietro il sacro rispetto delle forme codificate) e di una REPUBBLICA di GOVERNO (che vuole fare le riforme esaltando il ruolo dell'esecutivo). Con De Gaulle, infatti, la politica francese accettò l'idea che la rappresentanza della volontà generale potesse essere delegata dall'Assemblea a un esecutivo; in cambio, De Gaulle e i governi della V Repubblica avrebbero accettato di fare proprie le idee più universali e meno - per così dire - tecniche del PATRIOTTISMO REPUBBLICANO: l'idea di una missione di civilizzazione, i principi fondamentali, l'attenzione per la questione sociale, ecc.
Poche ultime considerazioni si possono formulare in chiusura, come piccola provocazione forse utile al dibattito:
1) Occorre riflettere con maggiore attenzione attorno al termine patriottismo, cercando di definire quali caratteristiche possiedano i diversi tipi di patriottismo esistenti. Occorre chiedersi, allora, se esistano punti di riferimento comuni, se essi siano sempre inconciliabili o possono, invece, a volte trovare strade comuni.
2) Occorre riflettere sulla capacità di "trasmigrazione" dei simboli e dei miti politici. Noi sappiamo come ideologie diverse siano composte di elementi e concetti spesso comuni che, variamente disposti e "illuminati", portano a interpretazioni generali differenti [2]. Non sarebbe il caso allora di indagare il "mutamento" dei simboli attraverso le epoche e i regimi? Accanto a ciò che muta nei simboli e nelle procedure sarà anche opportuno analizzare le costanti, ovvero ciò che si conserva inalterato.
3) È possibile - come avvenne per la Francia degli anni Venti - che ideologie e culture politiche di Destra, indipendentemente dalla volontà reazionaria spesso esplicitamente dichiarata, possano meglio rappresentare le esigenze complessive di rinnovamento civile, politico e istituzionale di una società che ideologie dichiaratamente e intimamente progressiste? Non è forse il caso di interrogarsi sull'esistenza di impliciti pregiudizi anche all'interno della storiografia?

tratto da http://www.cssem.org

nuvolarossa
24-06-06, 18:58
Repubbliche e repubblicanesimo
Per una storia comparata dei patriottismi repubblicani
Immagini della Roma Repubblicana nella cultura nordamericana

Matteo Sanfilippo (Un. della Tuscia, Viterbo)

Negli anni 30 la produzione europea ambientata nell'antica Roma è in un vicolo cieco: il gusto del tableau vivant e la recitazione esasperata tipiche del muto non collimano con le esigenze del sonoro. Prende invece quota la produzione statunitense, che nei primi decenni del secolo si è limitata a stigmatizzare la crudeltà di Nerone (Nero and the Burning of Rome, 1908, di Edwin Porter; Quo vadis?, 1913, di anonimo). Questi due film erano i frutti sorprendentemente miseri di una cultura dominata dall'immagine di Roma. Sin dai tempi della Rivoluzione il pensiero americano ama infatti rispecchiarsi in Coriolano, Catone e Cicerone; quando poi la nuova nazione ha iniziato ad aspirare a un impero nell'Ottocento, ha riscoperto persino i meriti degli imperatori.
Alla fine del secolo scorso il richiamo alla Roma repubblicana e imperiale si avverte soprattutto nell'architettura statunitense. Alcuni padiglioni dell'Esposizione di Chicago del 1892 sono nel "Roman style" che caratterizza anche l'Esposizione Panamericana di Buffalo (1901) e gli edifici pubblici del periodo. Quel profluvio di colonne e marmi, rigidamente bianchi, contraddistingue gli scenari dei film "romani", ma non assicura loro il successo. Pochi anni dopo, però, David W. Griffith suggerisce di abbinare a quelle scenografie attrici poco vestite e di ricorrere a storie con una solida morale cristiana. Sono così accontentati i patiti dell'antichità riletta attraverso un neoclassicismo aggiornato, i moralisti e gli amanti della bellezza muliebre.
Nei decenni successivi la Roma di celluloide all'americana ospita gli adattamenti delle opere di Bulwer-Lytton (Gli ultimi giorni di Pompei), Sinkiewicz (Quo vadis?) e Wallace (Ben-Hur). Lo spettatore è sedotto dall'architettura e dalle tuniche trasparenti, ma è anche avvertito che i peccatori pagano il fio delle loro malefatte, mentre i cristiani guadagnano il regno dei cieli. Tra questi film Ben-Hur: A Tale of the Christ (Fred Niblo, 1925) si rivela un ottimo investimento e pone le premesse dei successivi kolossal. Senonché la sua versione sonorizzata (1931) non piace, perché il pubblico non vuole il riciclaggio del muto, ma opere nuove. E queste sono prodotte da Cecil B. De Mille che sfrutta il potenziale erotico della decadenza romana. I suoi film esaltano la morale cristiana, ma indugiano sulle perversioni pagane, come il bagno nel latte d'asina di Poppea (Il segno della Croce, 1932). De Mille non rifugge dalle scenografie alla Griffith, anzi la sua Roma è veramente gigantesca. Tuttavia è più freddo del suo predecessore e nel corso di una carriera lunghissima (1913-1956) impone una pratica dell'eccesso controllato, assai apprezzato dai produttori timorosi di sforare il budget senza attrarre spettatori. La lezione di De Mille influenza i kolossal del secondo dopoguerra. Quo vadis? (Mervin Le Roy, 1950), La Tunica (Henry Koster, 1953), Giulio Cesare (Joseph L. Mankiewicz, 1953), Ben-Hur (William Wyler, 1958), Barabba (Richard Fleischer, 1962), Cleopatra (Joseph Mankiewicz, 1963) e La caduta dell'impero romano (Anthony Mann, 1964) sono in egual modo debitori al primo mago dello storico-mitologico americano.
In questo revival dell'antica Roma giocano comunque più fattori: la lezione di De Mille, ma anche il contatto diretto con Roma durante la guerra, il turismo di massa e i nuovi rapporti politici con l'Italia. A tali elementi si aggiunge la mai cessata influenza architettonica. Tra le due guerre molti stadi americani sono modellati sugli anfiteatri romani: è il caso, per esempio, del Memorial Coliseum utilizzato nelle Olimpiadi di Los Angeles del 1932. Nel secondo dopoguerra inoltre l'American Academy di Roma ospita architetti affermati, che incorporano nei successivi progetti elementi tardo-romani. Così Louis Kahn si ispira alla Villa di Adriano a Tivoli e alle Terme di Caracalla. Il "Roman style" torna di moda ed è esasperato nei tanti casinò ed alberghi di Las Vegas, che vogliono riproporre, ingigantito, il lusso sfrenato dell'impero.
Il kolossal degli anni cinquanta sfrutta questa passione per la romanità, ma introduce anche una riflessione sugli Stati Uniti come nuova Roma. L'America deve difendere i confini della civiltà dai barbari comunisti, ma per far ciò rischia di tradire le proprie origini. E' infatti nata imitando la Roma repubblicana e sconfiggendo l'impero britannico, ora sta invece sostituendosi a quest'ultimo: chi la salverà dalla degenerazione che travolge ogni epigono della Roma imperiale? In tutti i kolossal serpeggia questo interrogativo. La macchina spettacolare mette in risalto la piccineria degli imperatori e dei loro funzionari. Sono ben pochi i personaggi che danno prova di vera purezza d'animo: i cristiani, naturalmente, e qualche stoico che vive ancora come nella Roma repubblicana. In alcuni film, per giunta, neanche quest'ultima è ben vista: Spartacus (Stanley Kubrick, 1960) contrappone le virtù degli schiavi all'avidità dell'élite senatoria. I kolossal sono quindi apologhi spettacolari, che invitano l'America a non tradire le proprie origini, a non cedere a un'"imperializzazione" assai pericolosa, a non dimenticare le ragioni degli schiavi (un richiamo importante quest'ultimo, nel decennio in cui iniziano le grandi lotte per i diritti civili). Il problema è affrontato in quegli anni anche dalla fantascienza: tra il 1950 e il 1952 Isaac Asimov raccoglie in tre volumi il primo ciclo della Fondazione, redatto a partire dal 1942 basandosi su Storia della decadenza e caduta dell'impero romano di Edward Gibbon (1776-1788). Asimov evidenzia come i germi del decadimento siano insiti in qualsiasi impero. Soltanto progettando una valvola di sicurezza (la Fondazione appunto) è possibile far sopravvivere la democrazia. La riflessione di Asimov guarda in direzione opposta a quella seguita dal paese. Negli anni 50 anticomunismo, antisemitismo e razzismo si danno la mano, mentre negli anni 60 la Baia dei Porci e l'impegno nel Vietnam dimostrano che gli Stati Uniti sono ormai simili all'impero romano, hanno trovato i loro Parti e perso le pristine virtù. Il kolossal ha fallito il suo scopo culturale e presto fallisce anche al botteghino. Il flop della già ricordata Cleopatra di Mankiewicz porta infatti la Fox alla bancarotta e fa crollare tutto quel sistema produttivo.
La Roma imperiale e, più in generale, il kolossal in costume spariscono dagli schermi americani, a parte tarde imitazioni dei film di gladiatori all'italiana (The Seven Magnificent Gladiators di Menahem Golan e Yoram Globus, 1982) e miniserie televisive (Gli ultimi giorni di Pompei, 1984). Il peplum all'americana diventa quindi occasione di presa in giro: la Roma puzzolente di A Funny Thing Happened on the Way to the Forum (Richard Lester, 1966), il discorso di John Belushi drappeggiato in un lenzuolo durante il toga-party di Animal House (John Landis, 1978), lo schiavo nero con la radiolona sulle spalle in La pazza storia del mondo (Mel Brooks, 1981). Oppure deve accentuare la propria carica erotica come nella versione americana di Io, Caligola (1979) di Tinto Brass e Bob Guccione. Senonché il mito di Roma non scompare del tutto. In architettura il post-modernismo si nutre di modelli romani: il Getty Museum a Malibu ricalca, per esempio, lo schema delle ville pompeiane. La saga di Guerre stellari di George Lucas (i film nel 1977-1983; i romanzi, fumetti e videogiochi negli anni successivi; la rimasterizzazione elettronica dei primi film nel 1996; il nuovo episodio iniziato del 1999) è l'ennesimo apologo sulla degenerazione di una repubblica caduta sotto un malvagio imperatore. Soprattutto Il gladiatore (Ridley Scott, 2000) segna il grande ritorno della lotta per la libertà condotta nelle arene di celluloide.
In conclusione i film, qui presi in esame, formano un corpus coeso, con molti rimandi interni, spesso più importanti della realtà storica per delimitare il piano della verosimiglianza condiviso da troupe e spettatori. Sono infatti stranoti gli anacronismi veicolati da questi film e ripetuti decennio dopo decennio: architettura, abiti, pettinature, gesti e oggetti assolutamente sconosciuti ai romani. D'altronde la stessa valenza del discorso sull'impero (e quasi tutte queste pellicole sono ambientate nella crisi dopo la morte di Cesare oppure durante l'età imperiale, salvo quelle sul pericolo cartaginese, quali le già citate Annibale e la vestale e Revak, lo schiavo di Cartagine) spinge a forzature polemiche, poco curanti del dettaglio storico. Il Nerone del Quo vadis? del 1951 ritrae, per esempio, il senatore McCarthy, mentre Ben-Hur e Spartacus sono sceneggiati, alla fine dello stesso decennio, avendo in mente il Medio-Oriente sotto il protettorato americano. A questo proposito merita un suo autonomo spazio Il gladiatore di Ridley Scott, nel quale sono scopertamente sottolineate le citazioni del corpus filmico precedente e le licenze con la storia.

tratto da http://www.cssem.org

nuvolarossa
27-06-06, 08:10
Repubbliche e repubblicanesimo
Per una storia comparata dei patriottismi repubblicani
Patria, Nazione e Repubblica: le due Germanie nel secondo dopoguerra

Brunello Mantelli (Università di Torino)

1) Un punto di partenza comune: il 1945 come Stunde Null (ora zero). Le epurazioni all'Est (SBZ) ed all'Ovest (Trizone).
2) La ricostruzione della struttura politica nella Trizone: il Parlamentarisches Rat ed il Grundgesetz (costituzione provvisoria). La questione del federalismo ed il localismo. Federalismo imposto e federalismo inventato: le posizioni dei partiti.
3) La "repubblica di Bonn" di Konrad Adenauer: l'aggancio renano/cattolico; pangermanesimo teorizzato ed occidentalismo dichiarato (la questione dell'integrazione dei Vertriebene ecc.). BHE e CDU. La prospettiva larvatamente neutralistica e gesamtdeutsch della SPD (neutralismo mascherato).
4) L'identificazione "nazismo = hitlerismo" e le teorie parentetiche (i riflessi tardi nel caso Jenninger).
5) La DDR: la SED come prodotto di 2 spinte convergenti, la pressione dello SMAD ed il fusionismo della Ost-SPD di Otto Grotewohl. Le oscillazioni dell prima metà degli anni Cinquanta. L'autodefinizione come "Primo Stato socialista degli operai e dei contadini in terra tedesca". Modello centralizzato (abolizione dei Länder - il caso della Sassonia).
6) La BRD da Adenauer a Kiesinger: amnesia e rimozione del concetto di "patria" (culto dei caduti lasciato alle chiese come espressione di pietas privata e ripiegata sulla soggettività individuale / frattura radicale rispetto a quanto accadde dopo la Grande Guerra - allora conflitto sulla memoria).
7) Cesura degli anni Sessanta/Settanta. Rinasce storiograficamente la questione del Sonderweg, sotto forma di legenda nigra. Il rapporto col passato muta in coincidenza con i movimenti giovanili ('68) ed il cambio politico(governo Brandt/Scheel). Attuazione della Ostpolitik, che ha profonde radici nella storia della SPD.
8) La DDR ed il recupero del passato tedesco: dall'identità "socialista" all'autopresentazione come la "vera Germania" (polemica contro l'occidentalismo e sue ambiguità). Recupero di Lutero, di Federico II, ecc. La contrapposta costruzione dei musei di storia tedesca (Est ed Ovest).
9) La Wende del 1° cancellierato di Helmut Kohl (ruolo di Stürmer e teoria della necessità di un legame superiore estraneo alla società civile. Rinascita della teoria di un necessario Ersatzkaiser: il problema dell'identità come legame sociale).
10) L'Historikerstreit ed il suo significato: nullo per la storiografia, grande sul piano della politica e dell'identità (perché Goldhagen ha avuto successo).
11) L'unificazione: wir sind ein Volk!
12) La nuova Berliner Republik e le paure che porta con sé. Il rapporto col passato NS e DDR: la teoria delle 2 dittature ed il suo corto respiro. L'opinione pubblica e l'asimmetria NS/DDR. E' il primo periodo a mantenere un alto potere evocativo.

tratto da http://www.cssem.org

nuvolarossa
28-06-06, 08:28
http://img175.imageshack.us/img175/4991/prilogodp2.jpg

La Prima Repubblica Spagnola


La Prima Repubblica tanto solo durò 11 mesi. Durante questo regno si succedono quattro presidenti, quello che dimostra un'instabilità politica. I principali problemi della Prima Repubblica furono:
• La mancanza di Autentici repubblicano e lo scarso appoggio popolare
• La divisione dei pochi repubblicano

I tipi di Repubblicano che esisterono furono:
• Repubblicani Federalisti: Sostenitori di applicare il programma di repubblicano di forma progressiva e facendo concessioni ai moderate, affinché lentamente fosse accettando il sistema.
• Repubblicani Unitari o Radicali: Sostenitori di una Repubblica più unitaria. Erano ma radicali ed intransigenti, reclamavano un'azione rapida, utilizzando ña insurrezione se era necessario.

Ci furono 4 presidenti: Estanislao Figueras, Salmerón, Castelar e Pi i Margal.La azione di Pi i Marniera è la più sottolineabile perché diede luogo ad una Costituzione.
• Estanislao Figueras, 4 mesi,: fece di fronte ad un'insurrezione in Cuba ed ad un problema cantonalista 1, sistema politico che aspira a dividere lo Stato in angoli, ognuna delle città che si proclamarono indipendenti in 1873.
Il cantonalismo sarà quello che finisca con l'I República.

• In 1873 guadagnano le elezioni i repubblicano federali. Pi i Marniera convocò Parlamenti costituenti. Si elaborò la Costituzione di 1873, dispari panna. Raccoglie i principi nei quali si baserebbe se avesse trionfato il repubblicanesimo federale.
Art. La 1 Spagna si divide in 17 stati, compresa Cuba e Porto Ricco.
Art. 2 faceva una dichiarazione di diritti che quasi coincideva con la Costituzione di 1869.
Nell'aspetto religioso era molto tagliente: stabiliva le differenze tra chiesa e Stato. Stabilisce libertà di culto e prohíbe la dotazione del clero.

• Salmerón lottò contro il cantonalismo. Per frenarlo ricorse alla generale Pavia che controllò l'insurrezione in Andalusia, ed al generale Martínez Campos che controllò il cantonalismo in Levante.
Salmerón si rifiutò di firmare una sentenza di morte contro leader cantonalistas e dimise.

• Emilio Castelar fu l'ultimo presidente, repubblicano moderato. La situazione di insurrezione in Spagna fece che Castelar portare a termine un governo autoritario dittatoriale e chiudesse il Parlamento. Si prodursi un colpo di Stato della Generale Pavia il 03-01-1874. Il suo trionfo mise fine all'I República. La chiusura del Parlamento fece molto male a militare e politica.
Come c'è un vuoto di potere, si forma un governo provvisorio diretto per Montanaro. Obiettivi:
1, finire col governo provvisorio
2, stabilire la monarchia dei Borboni con Alfonso XII

Antonio Cánovas sarà l'addetto di reimpiantare la monarchia dei Borboni.

nuvolarossa
29-06-06, 11:05
Repubblica, s.f.

Nel linguaggio comune il termine, che deriva dal latino res publica (“cosa pubblica”), indica semplicemente uno stato che non è monarchico. Assai diverso è però il significato classico presentato da Cicerone: la repubblica è costituita da una moltitudine ordinatamente consociata sulla base del consenso alla legge e al fine dell’utilità comune (De Republica, I, 25). Secondo la definizione ciceroniana la repubblica viene pertanto contrapposta non già alla monarchia, bensì ai governi ingiusti, che calpestano le leggi, definiti poi da Sant’Agostino magna latrocinia. Di per sé la res publica – afferma Cicerone nel terzo libro della sua opera – può essere tanto “popolare” quanto “regia”.
Nel medioevo la storia del termine si arricchisce di un’accezione “universalistica”. L’espressione respublica christiana denota infatti l’ideale dell’ordine e dell’unità di tutta la società cristiana, fondata sulla pace e sulla giustizia. Permane comunque anche il significato “classico”, conservato dai termini moderni république, commonwealth, Republik, e, appunto, repubblica. La république a cui, nei suoi celebri Six livres, si riferisce Jean Bodin, include monarchia, aristocrazia e democrazia, quando hanno un droit gouvernement, in contrapposizione con i regimi basati invece sulla violenza e sull’anarchia. Accanto a questa connotazione, tuttavia, se ne affaccia una nuova: la repubblica diventa una “forma di governo” e si specifica per la sua differenza e opposizione rispetto al governo di uno solo (vedi Machiavelli e lo stesso Montesquieu). Le repubbliche si possono però reggere con un’estensione territoriale modesta. Devono avere inoltre, secondo Montesquieu, la “virtù” come molla dell’integrazione sociale, che spinga i cittadini ad anteporre il bene comune al proprio interesse particolare.
Discende di qui un cliché della letteratura politica del Settecento: la repubblica è il piccolo stato che consente l’esercizio di una forma “diretta” o comunque “partecipativa” di democrazia. La Rivoluzione americana e quella francese introducono però un’importante novità: la repubblica si realizza anche in grandi nazioni. In realtà i due casi non possono essere del tutto sovrapposti. In quello americano emerge infatti un nuovo paradigma repubblicano, per certi versi opposto a quello europeo precedente. La “repubblica” intende proprio evitare i rischi della democrazia “diretta” dei piccoli stati. È una repubblica “plurima” e si basa sulla concorrenza tra le diverse volontà degli stati (nel Senato) e della nazione (nella Camera dei deputati). Nei Federalist Papers vengono distinte “repubblica” e “democrazia”, intendendo mostrare chiaramente come il progetto politico americano originario sia molto più “repubblicano” che “democratico”. Nel caso francese la nuova nazione rappresenta invece, in un certo senso, una proiezione più fedele, e ingigantita nella Grande Nation, del modello delle “piccole repubbliche”. Nella Costituzione del 1793 si punta sull’unità e sull’indivisibilità della volontà del popolo e della sua sovranità. Il Terrore è poi, nei tredici mesi dell’esperienza giacobina, lo strumento escogitato per realizzare la “virtù” in un grande stato moderno.
Nel Novecento il termine “repubblica” ha continuato ad arricchire e a complicare il proprio percorso. Ci sono state anche le “repubbliche socialiste”, le quali però, senza il requisito di un consenso autentico, hanno perduto ogni parentela con la definizione ciceroniana. A partire dalla metà degli anni settanta è esplosa infine l’elaborazione teorica del cosiddetto “repubblicanesimo”. E nuovamente la “repubblica”, nel dibattito teorico-politico, ha assunto molteplici significati, a seconda che sia stata presentata in una versione“comunitaria” o “liberale”.

tratto da http://www.lindice.com/

nuvolarossa
30-06-06, 09:50
Rousseau e il repubblicanesimo

Luca Alici*

Premessa

In questo testo tenterò di cogliere sviluppi e alcuni esiti della teoria repubblicana dell’ordine politico e della libertà, per fornirne una reinterpretazione alla luce della riflessione di Jean-Jacques Rousseau, in tre momenti:

1) Innanzitutto affronterò il dibattito attuale sul repubblicanesimo, cercando di illustrare i temi principali attorno ai quali si articola.

2) In secondo luogo cercherò di focalizzare l’attenzione sugli aspetti che, a mio avviso, collegano la riflessione di Rousseau alla prospettiva repubblicana: emergerà un Rousseau lettore di Aristotele e Machiavelli, la cui antropologia sarà fondamentale per inquadrare nozioni centrali nell’ambito del nostro itinerario, come quelle di libertà, legge e virtù civile.

3) Infine proverò a offrire un’interpretazione in chiave non individualistica del repubblicanesimo, che ruota attorno alle idee russoiane di comunità ed identità e che non dovrebbe prestarsi, per la sua interna morfologia, all’accusa di organicismo, mentre risultà vicina ad alcuni concetti portanti del comunitarismo.




Il repubblicanesimo

“Repubblicanesimo è un concetto politico di recente formazione. Elaborato dapprima dalla ricerca storica, è passato a occupare un ruolo sempre più importante nei testi di politica solo negli ultimi vent’anni”1. Questo concetto ha conquistato, notoriamente, una porzione importante del dibattito politico contemporaneo, grazie soprattutto a Pocock, Skinner e Pettit.

Pocock, nel suo Il momento machiavelliano, espone, agli inizi degli anni Ottanta, un’ipotesi interpretativa, fondata sull’idea che sia possibile innanzitutto riscontrare una continuità teorica tra l’umanesimo fiorentino, e in particolare Machiavelli, gli anni dell’Interregno (e più in specifico Harrington) e le riflessioni dei rivoluzionari americani; in secondo luogo, Pocock propone una lettura secondo cui le idee cardine che animano tale tradizione repubblicana sono da considerarsi riformulazioni di idee chiave aristoteliche: il cittadino di Machiavelli e dei repubblicani inglesi non è altro che la reincarnazione dello zoon politikon di aristotelica memoria; la vita politica da loro concepita è pensata come la piena realizzazione dell’individuo; si parla nuovamente di una nozione condivisa del bene comune. Il repubblicanesimo nasce quindi come una forma di aristotelismo politico, in cui divengono fondamentali le idee di partecipazione al potere politico e di realizzazione della natura umana nel contesto pubblico: “Il repubblicanesimo classico […] altro non fu in sostanza che una riformulazione della scienza politica esposta da Aristotele nella sua Politica e proprio tale scienza si dimostrò quanto mai flessibile e idonea a rendere ragione dei fenomeni sociali dei secoli decimosettimo e decimottavo”2. Secondo Pocock, infatti, “le idee proprie della tradizione dell’umanesimo civile (quella mescolanza di aristotelismo e di machiavellismo sulla natura dello zoon politikon) forniscono una chiave per capire i paradossi delle tensioni moderne tra la consapevolezza che l’individuo ha della propria personalità, da un lato, e, dall’altro, la coscienza della società, della proprietà, della storia”3. Infatti identificano “l’uomo onesto e probo nel cittadino (civis), [trasportano] la virtù nella sfera politica […], rendendo poi dipendente la virtù del singolo dalla virtù degli altri suoi concittadini. Se la virtus poteva esistere solo quando c’erano dei cittadini associati per realizzare una res publica, allora la politeia ossia la costituzione e l’organizzazione della comunità politica (vale a dire: la struttura funzionalmente differenziata che Aristotele aveva teorizzato per consentire la partecipazione alla cosa pubblica) in pratica veniva ad identificarsi proprio con la virtù”4.

Skinner propone una interpretazione diversa sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia sul piano teoretico. Innanzitutto mette in luce il legame tra repubblicanesimo e tradizione romana, piuttosto che nei confronti della grecità, e quindi svincola il repubblicanesimo da ogni matrice aristotelica. Vi è a suo avviso una ideologia repubblicana abbastanza definita già dal XIII secolo in Italia, la quale si ispira al pensiero romano – Cicerone, Livio, Sallustio – e si radica prima dell’arrivo della filosofia pratica aristotelica in Occidente: se “analizziamo la teoria repubblicana della libertà politica, - scrive Skinner - possiamo vedere che la libertà individuale è connessa con la virtù civile senza ricorrere a nessuna dottrina della realizzazione umana”5; egli non presenta l’uomo “come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla ‘corruzione’, un essere che tende a trascurare i propri doveri verso la collettività; nella res publica […] gli individui perseguono fini diversi gli uni dagli altri, non si può assumere l’esistenza di fini necessariamente condivisi da tutti”6. In questo modo il repubblicanesimo perde ogni vincolo metafisico e si presenta come terza via tra l’individualismo liberale e il comunitarismo di matrice aristotelica.

Argomento del contendere è dunque la possibilità di una concezione condivisa di bene comune e di una idea della comunità politica come luogo di realizzazione dell’uomo, che Pocock accetta, mentre Skinner respinge. Così scrive proprio quest’ultimo: “Questi scrittori [gli scrittori repubblicani] non sono affatto dei pensatori aristotelici e non si richiamano in alcun modo a una visione ‘positiva’ della libertà sociale. Essi, cioè, non sostengono mai che siamo esseri morali dotati di certi fini determinati e che quindi siamo liberi nel senso più proprio solo quando questi fini vengono attuati […], essi usano un concetto puramente negativo di libertà inteso come assenza di impedimenti nella realizzazione dei fini che ci si è dati”7

John Rawls preciserà questa distinzione parlando di classical republicanism e civic republicanism per designare rispettivamente l’interpretazione alla Pocock o alla Skinner del repubblicanesimo. 8

La discussione si fa ancora più articolata se l’attenzione si sposta sul concetto di libertà. Non si tratta infatti semplicemente di ripresentare la distinzione tra libertà positiva (Pocock) e libertà negativa (Skinner), ma, all’interno del concetto di libertà come immunità da interferenze altrui e assenza di dipendenze, è necessario aggiungere una nuova figura. Il confronto coinvolge a questo proposito Skinner e Pettit: quest’ultimo arriva infatti a sostenere che la libertà repubblicana costituisca una terza famiglia all’interno delle concezioni della libertà. Se “la libertà negativa si configura come assenza di interferenza, la libertà dei repubblicani si presenta piuttosto come assenza di dominio da parte di altri” 9. Quale in concreto allora la differenza?

“Si è sottoposti a dominio quando si è soggetti alla volontà arbitraria di un altro, alla sua interferenza arbitraria; l’altro, però, può decidere per lunghi periodi di non interferire di fatto: si può così essere sottoposti a forme di dominio senza subire interferenze dirette. La concezione repubblicana della libertà come assenza di dominio tiene conto non solo delle interferenze attuali, ma anche delle interferenze potenziali. L’ideale repubblicano della libertà non si propone semplicemente di eliminare ogni interferenza attuale, ma intende mettere al bando tutte le potenziali interferenze di carattere arbitrario”10. Ciò comporta, secondo Pettit, maggiori garanzie e sicurezze per l’individuo e un’idea di libertà che “avrebbe un elemento concettuale in comune con la concezione negativa – il privilegiare l’assenza, non la presenza – e un elemento in comune con quella positiva: il privilegiamento della padronanza, non dell’interferenza”11. Pettit parla dunque per primo della concezione repubblicana della libertà come di una terza famiglia, di una terza via tra l’idea di libertà negativa, come concetto che richiama l’opportunità, e l’idea positiva di libertà, come concetto che rinvia all’esercizio12.

Skinner, in seguito a questo confronto, opera una revisione della sua idea negativa della libertà, secondo cui la libertà non è autodeterminazione collettiva. Privilegiando il debito nei confronti del pensiero e delle istituzioni della repubblica romana, elabora quella che definisce la “teoria neo-romana della libertà”. Se infatti nei “saggi degli anni ’80 Skinner sosteneva che la divergenza tra repubblicani e liberali non verteva sul significato della libertà, ma essenzialmente sui mezzi necessari a conservare e garantire la libertà stessa”13, respingendo meccanismi impersonali di garanzia e tutela, il confronto con Pettit porta l’attenzione sul significato della costrizione. E’ lo stesso Pettit a sottolineare queste differenze: “Mentre io sostengo che per i repubblicani la libertà equivaleva al non dominio – la non dipendenza dalla volontà altrui – egli [Skinner] ritiene che i romani e i neoromani ripudiassero in egual misura tutte le forme di dominio e tutte le forme d’interferenza, compresa l’interferenza non arbitraria, esercitata da un governo della legge degno di questo nome […]. Skinner propone un antonimo della nozione di libertà orizzontalmente complesso: dominio e interferenza: per quanto mi riguarda invece privilegio un antonimo verticalmente complesso: in primo luogo, dominio; in secondo, subordinato luogo, fattori condizionanti che includono l’interferenza”14.

Ne consegue che per Pettit può “darsi dominio senza interferenza perché, in quanto tale, esso richiede semplicemente che qualcuno abbia la capacità di interferire arbitrariamente nei tuoi affari; non c’è bisogno che qualcuno interferisca effettivamente. Può darsi poi interferenza senza dominio in quanto l’interferenza non comporta di necessità l’esercizio nella capacità di interferire in maniera arbitraria, ma solo l’esercizio di una facoltà assai più limitata”15.

Emerge, dunque, un percorso articolato, talvolta contraddittorio, che apre importanti questioni su cui riflettere, relativamente alle quali l’opera di Rousseau può offrire spunti interessanti.



Rousseau, Aristotele e Machiavelli

Per introdurre il pensiero di Rousseau nel dibattito relativo al repubblicanesimo mi soffermo sul Rousseau lettore di Aristotele e di Machiavelli e interprete di un clima politico che vede il diffondersi del sentimento repubblicano nella Francia illuminista del Settecento; il recupero di questi elementi rappresenta una base utile di riferimento per capire l’antropologia filosofica e la teoria politica del filosofo ginevrino.

a) Una premessa: l’idea di repubblica nella Francia del ‘700

I “philosophes” sono impegnati in una riflessione che tocca un problema di fondo, “quello del modo di governare gli uomini senza snaturarli, […] nell’eterna difficoltà di conciliare il massimo di giustizia distributiva con il minimo di sacrificio in termini di libertà individuale […] problema che, nel Settecento, fu del ‘radicale’ Rousseau come del ‘riformista’ Mably e del ‘borghese’ Quesnay”16. Il clima della Francia del Settecento, però, sullo sfondo del quale tali problematiche vengono affrontate, è influenzato dall’eco del pensiero dei repubblicani inglesi: eco che, da Montesquieu alla Rivoluzione, dà vita ad un entusiasmo per la repubblica e la virtù civica, che si sviluppa all’interno, prima, e in opposizione, poi, ad ogni potere assoluto. Montesquieu e Rousseau, insieme ad altre voci ed esperienze, forniscono forse le coordinate più adatte per cogliere questa progressiva diffusione del sentimento repubblicano.

Nell’Esprit des lois Montesquieu parla della complicata situazione di una Francia di repubbliche e stati assoluti; nelle sue pagine vengono presentati i problemi connessi a una simile compresenza, come, per esempio, quelli legati alle dimensioni e allo spirito delle repubbliche, o al ruolo della virtù e dei mœurs; si sottolinea, però, che “il problema storico posto dalle repubbliche moderne è solubile soltanto all’interno delle monarchie, in un compromesso, sempre difficile ma pur fecondo, tra le strutture nobiliari, cittadine, giudiziarie e il sovrano, che caratterizza gli stati moderni”17.

Rousseau entra in questo dibattito da una prospettiva nuova: “Pubblicando il suo Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, - scrive Venturi - Jean-Jacques Rousseau poneva un nuovo rapporto tra le nuove idee e la tradizione repubblicana. Sembra aver ritrovato la patria perduta [Ginevra] […]. Quel che egli cercava era un paese in cui società civile e governo si confondono e in cui governanti e governati facciano tutt’uno, in cui ‘le peuple et le souverain ne soient qu’une même personne’. ‘Un gouvernement démocratique, sagement tempéré’ dunque, in cui domina la legge e non la volontà dei singoli governanti, in cui la tradizione è tutto e nulla l’arbitrio […]. Così, per pagine e pagine, continua quella che un contemporaneo ginevrino chiamò ‘l’inestimable épître’ di Rousseau, e che era in realtà uno dei più curiosi e paradossali documenti della volontà d’inserire la tradizione repubblicana al cuore stesso del pensiero politico illuminista”18.

Le pagine di Venturi ci permettono di cogliere come Rousseau viva il progressivo “contatto e contrasto tra le idee politiche dell’illuminismo e le istituzioni repubblicane esistenti ancora nel secondo Settecento […]. Le idee di contratto, di eguaglianza, di democrazia trovarono nella tradizione repubblicana, nella realtà ginevrina, messe in movimento dai contrasti fra i patrizi e la borghesia, un primo elemento concreto, una prima soluzione politica. E’ utile leggere il Contrat social – continua Venturi - in chiave ginevrina, non, evidentemente, per identificare la visione politica di Rousseau con la realtà della città di Calvino, ma per vedere appunto come si venga stabilendo un rapporto sempre più stretto fra gli ideali e i fatti, tra le speranze e il movimento reale”19.

Su questo sfondo, rappresentato dal clima repubblicano della Francia in lotta con l’assolutismo, si inseriscono i riferimenti ad Aristotele e a Machiavelli.

b) Rousseau e la tradizione aristotelica

“Non in depravatis, sed in his quae bene secundum natura se habent, considerandum est quid sit naturale”20. Questa epigrafe, tratta dalla Politica di Aristotele, con cui Rousseau apre il suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, costituisce forse lo spunto migliore per cercare di cogliere la radice aristotelica, secondo cui ogni cosa tende ad un suo proprio compimento e sviluppo, in relazione all’idea russoiana di un telos della natura umana e di una sua perfettibilità.

Rousseau è lettore di Aristotele, e dell’influenza del secondo sul primo qui interessano principalmente due aspetti: l’idea di natura umana, che emerge principalmente nei due Discorsi, e la convinzione secondo cui si è uomini solo dopo essere stati cittadini, come viene sottolineato nel libro I del Manoscritto di Ginevra. Tutto l’itinerario teorico di Rousseau, dai primi discorsi al Contratto sociale, è infatti animato dalla persuasione che il passaggio dall’”uomo naturale” all’”uomo civile” comporti la perdita dell’”innocenza” originaria, ma soprattutto la piena realizzazione delle potenzialità umane in società. L’ingresso nel “corpo politico” costituisce l’attuazione e il compimento della “perfettibilità” che contraddistingue la “constitution humaine”.

Ci troviamo perciò di fronte ad un autore per il quale il concetto di “natura” è più ricco e al tempo stesso ambivalente rispetto alla tradizione giusnaturalistica, cui comunque Rousseau fa riferimento, ma dalla quale per molti aspetti prende le distanze. La natura infatti non è solo l’origine, il principio originario a livello ontogenetico e filogenetico, ma anche l’insieme delle facoltà di cui l’uomo è dotato, lo stadio di queste facoltà in potenza, il loro primo embrione: l’uomo selvaggio “avoit dans le seul instinct tout ce qu’il lui falloit pour vivre dans l’état de Nature, il n’a dans une raion cultivée que ce qu’il lui faut pour vivre en société”21. L’uomo selvaggio vive isolato, non può essere “méchant” perché non sa cosa vuol dire “être bon”22, possiede la libertà del volere e la perfettibilità “en puissance”23, l’istinto di conservazione e la “pietà”, entrambi pre-morali e quindi anteriori alla ragione, come istinti fondamentali24: l’uomo naturale dunque si distingue per la sua “capacità di perfezionarsi”, per la sua ripugnanza nei confronti della sofferenza dei propri simili e per un sentimento naturale che non ha nulla di sociale, ma che nella dimensione politica troverà, grazie a ragione e coscienza, il luogo della propria evoluzione in senso morale.

Questa ambivalenza del concetto di natura, come origine e sviluppo, che pone anche una differenza essenziale tra Rousseau, da un lato, e Hobbes e Locke 25, dall’altro, avvicina Rousseau ad Aristotele: basti pensare al concetto di natura come “sostanza delle cose”26 e all’idea di una potenzialità e quindi di un teleologismo interno alla natura umana27

Ecco allora che studiare l’uomo originario, come Rousseau fa nei suoi due Discorsi, vuole essere il primo passo per cogliere nella politica lo spazio atto al compimento delle potenzialità umane. Il Contratto sociale, riferendosi al passaggio dallo “stato di natura” allo “stato civile”, afferma quanto segue: “C’est alors seulement que la voix du devoir succédant à l’impulsion physique et le droit à l’appetit, l’homme, qui jusques là n’avoit regardé que lui-même, se voit forcé d’agir sur d’autres principes, et de consulter sa raion avantd’écouter ses penchans. Quoiqu’il se prive dans cet état de plusieurs avantages qu’il tient de la nature, il en regagne de si grands, ses facultés s’exercent et se dévesent, ses idées s’étendent, ses sentimene s’ennoblissent, son ame toute entiere s’éleve à tel point, que si les abus de cette nouvelle condition ne le dégradoient souvent au dessous de celle dont il est sorti, il devroit bénir sans cesse l’instant heureux qui l’en arracha pour jamais, et qui, d’un animale stupid et borné, fit un être intelligent et un homme”28. La socievolezza dunque non è facoltà già data all’origine, ma è, in ogni caso, potenziale e connaturata all’uomo; grazie a questa avviene il passaggio da una dimensione istintuale ed irriflessa ad una “morale”, legata alla ragione e alla coscienza. E’ in questo senso forte, e non meramente strumentale, che l’uomo “ne peut plus se passer de ses semblables”29.

Prima di arrivare però a definire meglio l’idea di una compiuta e realizzata natura umana entro la società politica, è bene, per motivi di chiarezza e completezza, soffermarsi sul rapporto decisivo tra “ragione” e “coscienza”, coordinate centrali dell’impianto dualistico dell’antropologia filosofica russoiana: solo partendo da qui si può infatti spiegare il senso del passaggio allo “stato civile”.

Accolgo l’interpretazione di Iring Fetscher: “In contrasto con la concezione dei giusnaturalisti, la coscienza non è, per Rousseau, né identica alla ragione, né un ‘giudizio’ (jugement): essa è un sentimento e più precisamente il sentimento dell’amore per l’ordine, un ordine entro il quale il singolo si ordina in rapporto al centro comune”30. La relazione tra “ragione” e “coscienza” è dunque strettamente legata alla dimensione sostantiva e la loro cooperazione permette lo sviluppo della moralità e della socievolezza. La ragione non è sufficiente, da sola, per agire secondo moralità: è strumento idoneo a fornire indicazioni, senza offrire un efficace movente. Subentra, a colmare questo vuoto, la coscienza, “espressione della ‘sensibilità attiva’ del soggetto, contrapposta alla sensibilità ‘passiva’, circoscritta all’esistenza materiale”31. Ma la stessa coscienza “come puro istinto morale non ha la forza sufficiente per imporsi alle passioni né per chiarire il significato e il fondamento della legge morale”32.

Perciò, solo la ragione e la coscienza, insieme, possono indirizzare all’esercizio della virtù e consentire il sorgere di una condotta morale: “E’ solo in questo momento che l’uomo è in grado di compiere una scelta morale, che sarà negativa se opporrà individuo a individuo, condizionando la felicità del singolo all’infelicità degli altri, nella trasformazione dell’amore di sé in amor proprio, e sarà invece positiva, se sarà ispirata appunto dalla coscienza come amore dell’ordine, della giustizia nei rapporti dell’uomo con i propri simili nel quadro dell’ordine dell’universo”33.

Il rapporto tra “ragione” e “coscienza” risulta perciò decisivo. Il dualismo antropologico (“ragione” e “coscienza” come espressione della componente “métaphysique et morale” e “passioni” come manifestazioni della componente fisico-materiale34) fa sì che l’uscita dallo stato di natura si configuri prioritariamente come un compito morale. Si afferma dunque una sorta di circolo virtuoso per cui “ragione” e “coscienza” consentono e fondano il passaggio all’”uomo morale” e ad uno stato politico ben ordinato; la société bien ordonnée, a sua volta, fa sì che “l’individuo sia posto in condizioni istituzionali tali da favorire lo sviluppo e l’espressione delle sue proprietà distintive”35.

Si giustifica anche in tal modo la trascrizione politica delle premesse antropologiche sinteticamente ricostruite. Si ricordi Rousseau: “Ce passage de l’état de nature à l’état civil produit dans l’homme un changement très rémarquable, en substituant dans sa condite la justice à l’instinct, et donnant à ses actions la moralité qui leur manquoit auparavant”36. E ancora poco più avanti: “On pourroit sur ce qui précede ajouter à l’acquis de l’état civil la liberté morale, qui seule rend l’homme vraiment maitre de lui”37.

Il passaggio delineato è quello da uno stato pre-umano alla piena realizzazione dell’individuo attraverso la scoperta della propria identità e la propria educazione morale:38 non si può parlare di comunità nello stato di natura perché esso è uno stato pre-umano, fatto di isolamento, indipendenza e autosufficienza, mentre Rousseau parla di comunità al di fuori dello stato di natura, perché è qui che prende corpo l’apertura all’altro e si intrecciano le relazioni morali39, essenziali per la costituzione dell’identità dell’individuo40. Chapman sostiene, giustamente, che l’“uomo si sviluppa nella società piuttosto che essere modellato dalla società. Qui è l’originalità della concezione roussoiana della natura umana”41 “Per Rousseau l’uomo dipende dalla società per ciò che egli è, nel senso che solo nella società le sue potenzialità possono essere realizzate o violate […]. Per Rousseau, la società è essenziale alla vera esistenza dell’uomo dal momento che egli è veramente tale solo in un ambiente sociale”42.




c) Rousseau e la tradizione machiavelliana

L’influenza di Machiavelli su Rousseau non è sistematica, ma la relazione tra i due è significativa per l’argomento qui trattato: si pensi, per esempio, al rapporto tra libertà dell’individuo e libertà della città, alla figura del Legislatore, al tema della dittatura.

Scrive Viroli riferendosi a Rousseau: “L’uomo, come la Città, è libero quando non dipende da un altro. L’analogia fra la libertà della Città e la libertà degli individui, si trova già in Machiavelli”43. E qualche pagina dopo: “La costituzione repubblicana di Rousseau rivela un’affinità sostanziale con il ‘vivere libero’ di Machiavelli. Come la repubblica di Rousseau il ‘vivere libero’ di Machiavelli si fonda sul prevalere dell’interesse comune sugli interessi particolari”44. Sia Rousseau che Machiavelli parlano dunque dei rischi della perdita di libertà, in riferimento alla quale si richiamano entrambi all’esempio della Roma uscita dall’oppressione dei Tarquini45, e Rousseau apprezza in Machiavelli il valore riconosciuto alla libertà, alla indipendenza dalla tirannide e dall’aggressione esterna, nonché il riconoscimento dell’importanza di un legame profondo tra la libertà pubblica della città e la libertà dell’individuo, costruito attorno alla virtù civica.

In secondo luogo la vicinanza tra i due autori riguarda, almeno per certi aspetti, la figura del Legislatore: “Tanto il Legislatore di Rousseau quanto quello di Machiavelli sono ‘ordinatori’. Il primo trasforma una moltitudine di individui in una ‘società bene ordinata’; il secondo instaura una ‘repubblica bene ordinata’. Entrambi si ispirano al principio del bene comune e meritano gloria imperitura in quanto fondatori della libertà. Tra il ‘prudente ordinatore’ di Machiavelli e il grande Legislatore di Rousseau c’è tuttavia una differenza di rilievo: il primo deve avere un’autorità assoluta, il secondo non ha alcun potere”46. Aveva sottolineato tale vicinanza anche Aldo Maffey: “Machiavelli penetra nel Settecento trasformando il principe in legislatore, attraverso una mediazione tra la tradizione corrente cinquecentesca empirico-realistica e quella seicentesca giusnaturalistico-razionale […]. Rousseau, accettando la pratica machiavelliana, si preoccupa di dare una giustificazione morale anche all’operato dell’autore del Principe, ponendosi come anello di congiunzione tra Alberico Gentili, Francesco Bacone e la tesi romantico-liberale che troverà espressione poetica nei Sepolcri di Ugo Foscolo”47. In questa ottica si legge in primo luogo la considerazione della dittatura da parte di questi due autori 48 e, quindi, il riferimento a Numa, che Rousseau condivide, al di là del mito, con Machiavelli, quasi negli stessi identici termini: ”Ceux qui n’ont vu dans Numa qu’un instituteur de rites et de ceremonies religieuses ont bien mal jugé ce grand homme. Numa fut le vrai fondateur de Rome […]. Ce fut Numa qui le rendit solide et durable”49. A Numa viene riconosciuto ciò che Rousseau definisce “le même esprit [qui] guida tous les anciens Législateurs dans leurs institutions. Tous chercherent des liens qui attachassent les Citoyens à la patrie et les uns aux autres, et ils les trouvérent dans des usages particuliers, dans des ceremonies religieuses qui par leur nature étoient toujouts exclusives et nationales [...], dans des jeux qui tenoient beaucoup les citoyens rassemblés, dans des exercices qui augmentoient avec leur vigueur et leurs forces leur fierté et l’estime d’eux-mêmes, dans des spectacles qui, leur rappellane l’histoire de leurs ancêtres, leurs malheurs, leurs vertus, leurs victoires, interessoient leurs cœurs, les enflamoient d’une vive émulation, et les attachoient fortement à cette patrie dont on ne cessoit de les occuper”50.

Simili e altri riferimenti, presenti nell’opera di Rousseau, consentono di mettere in luce il fatto che il filosofo francese consideri Machiavelli esponente importante della tradizione repubblicana, attento non più alla virtù del singolo principe, legata alla contingenza delle situazioni, ma alla possibilità che la virtù stessa riguardi il corpo cittadino nel suo complesso: “Machiavelli era un ‘honnête homme et un bon citoyen’, che, costretto dalle circostanze a ‘deguiser son amour pour la liberté’, aveva tuttavia manifestato la sua ‘intention secrète’ nei Discorsi e nelle Storie fiorentine e che per secoli era stato frainteso da ‘lecteurs superficiels et corrompus’. In quanto al Principe, Rousseau faceva propria la sua interpretazione in chiave obliqua sino a definirlo ‘le livre des républicains’ […]. Ormai l’immagine (e il mito) del Machiavelli repubblicano aveva definitivamente soppiantato quella del consigliere dei principi e del teorico della ‘ragion di Stato’”51. Sono note le parole di Rousseau nel Contratto sociale: “En feignant de donner des leçons aux Rois il en a donné de grandes aux peuples. Le Prince de Machiavel est le livre des républicains”52. Emerge quindi, da parte di Rousseau, un’interpretazione di Machiavelli in chiave repubblicana, che fa riferimento più al Machiavelli dei Discorsi che al Machiavelli del Principe.

“Machiavelli e Rousseau – scrive a tal proposito Viroli - parlano il medesimo linguaggio repubblicano. Tuttavia anche se l’immagine di una repubblica bene ordinata presenta nell’uno e nell’altro i medesimi caratteri, l’approccio resta diverso: Machiavelli si pone il problema di realizzare in concreto, non di giustificare razionalmente, la repubblica; Rousseau dedica la sua opera politica principale al problema della giustificazione razionale della repubblica e solo occasionalmente si interroga sui modi concreti di instaurare una costituzione politica repubblicana. Machiavelli e Rousseau appartengono entrambi alla tradizione repubblicana moderna e furono sostenitori dell’idea repubblicana della politica come l’arte di fondare e preservare una repubblica. Furono tuttavia repubblicani in modi diversi e le loro idee sul significato e sulla possibilità di una repubblica rivelano slittamenti importanti all’interno della tradizione repubblicana”53.




Una versione “comunitaria” del repubblicanesimo

Secondo Maffettone, “La concezione, tipica del repubblicanesimo, della libertà come assenza di dominio non può essere scissa dall’idea di virtuosa partecipazione alla vita pubblica, dato che è proprio quest’ultima ad assicurare che il cittadino non sia un suddito”54. E’ da questa osservazione che vorrei ripartire per sottolineare come in Rousseau si possano conciliare le discordanze interne alla tradizione repubblicana, nella prospettiva di un recupero comunitario del repubblicanesimo, organizzato appunto attorno all’idea di libertà come assenza di dominio e virtuosa partecipazione alla vita pubblica.



a) L’idea di libertà

Come scrive Derathé, “il fine principale, per non dire l’unico, di Rousseau, è la libertà [...]. L’originalità di Rousseau consiste proprio nell’avere posto il problema in questi termini. Tutti i suoi predecessori si chiedevano in quali condizioni potesse essere istituita un’autorità politica e rispondevano invariabilmente: con l’alienazione della libertà naturale. Per loro, l’istituzione del governo civile avveniva a spese della libertà, quasi che ognuno fosse stato disposto a sacrificare una porzione di libertà per garantirsi la sicurezza formando, insieme a tutti gli altri, un’unione di forze e di volontà. Per Rousseau, la sicurezza comune non deve comportare la sottomissione, e il problema è appunto far sì che gli uomini possano unirsi in un corpo politico senza per questo rinunciare alla libertà, che è un diritto inalienabile” 55.

Per Rousseau la libertà non è un prezzo da pagare nel passaggio alla “società civile”, è anzi una conquista morale dell’individuo che in società forma il proprio ”être moral”.

Da questo punto di vista l’originalità della sua posizione è notevole: l’idea che l’ordine politico non deve nascere a discapito della libertà lo separa infatti, in generale e in primis, dalla tradizione giusnaturalistica 56, dalle posizioni di Hobbes 57, e infine dall’individualismo atomistico del liberalismo. La chiave di lettura è rappresentata dai concetti di “contratto sociale” e “volontà generale”, condizioni trascendentali dell’ordine politico, che consentono a Rousseau di assegnare un senso nuovo a nozioni quali quelle di “perdita della libertà” e “alienazione dei diritti personali”. L’originalità sta nel fatto che egli prende in considerazione “l’atto in virtù del quale un popolo è un popolo” 58, grazie al quale cioè si crea la società politica come “corpo” e compare il “bene pubblico”: il suo artificio non accosta singoli individui monadologicamente strutturati e non crea un semplice vincolo formale, ma permette la costruzione di un legame in base al quale “les bras, et la vie même de tous ses membres” 59 sono comunitariamente intrecciate.

Il contratto sociale deve legare e obbligare senza assoggettare: anzi la cessione della libertà “naturale” e l’acquisizione della facoltà di partecipazione equivalgono all’acquisizione della “libertà morale”. L’ingresso nella società politica creata dal patto, infatti, consente la realizzazione delle condizioni per una condotta non improntata all’arbitrio e condizionata dalla passionalità. Rousseau esclude il patto di sottomissione e parla solo di patto di “associazione” da parte di un uomo libero in quanto, contemporaneamente, souverain e sujet. Osserva a tal proposito Derathé come per “Rousseau […] non sono gli individui a impegnarsi gli uni con gli altri, perché ‘l’atto di associazione comporta un impegno reciproco del pubblico con i singoli’. Questi contraggono un impegno reciproco con il corpo di cui diventano membri [...]. Si tratta dunque di una vera promessa reciproca fra il corpo del popolo, considerato come una persona morale, e i singoli” 60. Si realizza così un contratto in cui l’impegno è della “comunità” intesa come una sola “persona morale”: si parla di una obbligazione etica che è personale61, bilaterale62e incondizionata63 e di un impegno morale che è indirizzato al governo delle passioni 64.

La “volonté générale” è invece “regle du juste et de l’injuste”65: deve partire da tutti e dirigersi a tutti in quanto costituisce contemporaneamente la volontà di tutto il popolo e “di ognuno degli associati non in quanto individuo, bensì in quanto membro della comunità o del corpo sovrano”66 “On doit - argomenta Rousseau – concevoir par là, que ce qui généralise la volontà est moins le nombre des voix, que l’intérêt comun qui les unit: car dans cette institution chacun se soumet nécessairement aux conditions qu’il impose aux autres”67.

Quindi “l’essence du corps politique est dans l’accord de l’obéissance et de la liberté, et que ces mots de sujet et de souverain sont des corrélations identiques dont l’idée se réunit sous le seul mot de Citoyen” 68.

Si comprende perciò il significato della contrapposizione russoiana tra “liberté naturelle” e “liberté civile”, effetto del patto secondo giustizia: “Il faut bien distinguer la liberté naturelle qui n’a pour bornes que les forces de l’individu, - scrive Rousseau – de la liberté civile qui est limite par la volontà générale […]. On pourroit sur ce qui précede ajouter à l’acquis de l’état civil la liberté morale, qui seule rend l’homme vraiment maitre de lui; car l’impulsion du seul appetit est esclavage, et l’obéissance à la loi qu’on s’est prescritte est liberté” 69.

Viroli sottolinea ulteriormente questi aspetti: “Ritengo che i concetti di libertà positiva e libertà negativa non colgano il significato della teoria rousseauiana della libertà politica. Rousseau non è infatti il teorico della libertà positiva, ma della libertà nel senso repubblicano, ovvero della libertà di cui gli individui godono in virtù della buona costituzione politica che li mette al riparo dalla dipendenza dalla volontà di altri individui. E’ libertà ‘positiva’ in quanto consiste nell’obbedienza alle leggi che gli individui stessi si sono dati; è ‘negativa’ in quanto la sovranità della legge protegge ogni cittadino dai torti, dalle offese e dalle interferenze arbitrarie degli altri, si tratti di magistrati o di cittadini. La libertà che si fonda sulla sovranità della volontà generale e sulla forza delle leggi è per Rousseau il massimo bene di cui possono godere i cittadini di una ‘società bene ordinata’”70.

Rousseau è dunque vicino all’idea repubblicana di libertà come “condizione in cui una persona è nella sostanza immune, e immune nelle questioni cruciali, rispetto ad atti d’interferenza basati sull’arbitrio”71. Rousseau si rifà qui alle origini antiche della tradizione repubblicana, legate all’idea di libertà come opposto della servitù e alla relazione tra libertà e intersoggettività.

Non solo: a mio avviso, egli consente di considerare meno confuse alcune affermazioni tradizionalmente considerate “repubblicane” e che invece Skinner, ad esempio, non considera tali. “La prima – scrive lo stesso Skinner – mette in rapporto la libertà con l’auto-governo e, di conseguenza, collega l’idea di libertà individuale, in modo apparentemente paradossale, con l’idea di impegno civico (public service)”72. Rousseau, da par suo, sottolinea invece fortemente l’imprescindibilità del legame tra libertà individuale e impegno civico, non vedendovi alcuna incongruenza. Chapman sostiene, a buon diritto, che, “limitando la legislazione a questioni di interesse comune, Rousseau costringe ognuno a cercare il proprio bene personale senza invadere l’ambito dei beni personali degli altri. Così il dovere e l’aspirazione, la giustizia e l’interesse sono fatti coincidere”73.

“L’altra tesi, – continua Skinner – correlata alla prima, stabilisce che possiamo essere obbligati a essere liberi; essa, quindi, lega l’idea di libertà individuale, in modo anche più platealmente paradossale, con il concetto di coercizione e costrizione” 74. Questa seconda critica tocca una questione centrale, che riguarda la compatibilità tra costrizione, legge e libertà. Prima di soffermarci allora sul valore della legge in Rousseau vorrei sottolineare come egli associ la costrizione alla libertà esclusivamente all’idea di assenza di potere arbitrario di qualcuno su altri: “Dal punto di vista di Rousseau impedire ad una persona di ottenere il potere è costringerla ad essere libera. La mancanza di potere sugli altri è la condizione della sua libertà, dello sviluppo della sua ragione e della sua coscienza, della sua vita in una società fondata sulla legge”75. Lo si può dire anche in altro modo: “Se ‘essere liberi’ significa non essere sottomessi alla volontà particolare di un individuo né sottomettere altri alla nostra volontà particolare, non è contraddittorio dire che chi è costretto ad obbedire alla volontà generale è in effetti ‘costretto a essere libero’” 76.

Il testo di Rousseau è quanto mai chiaro: “Quiconque refusera d’obéir à la volontà générale y sera contrain par tou le corps: ce qui ne signifie autre chose sinon qu’on le forcera d’être libre; car telle est la condition qui donnant claque Citoyen à la Patrie le garantit de toute dépendance personelle; condition qui fait l’artifice et le jeu de la machine politique, et qui seule rend légitimes les engagemens civils, lesquels sans cela seroient absurdes, tyranniques, et sujets aux plus énormes abus”77.

L’idea di un obbligo che viene imposto in nome di una “volontà generale” ha però spesso costituito terreno fertile per l’accusa di populismo nei confronti di Rousseau. Osserva Maffettone: “I repubblicani, infatti, non vogliono essere scambiati per populisti e neppure passare per rousseauiani dell’ultim’ora, e anzi tendono a criticare qualsiasi identificazione di questo genere”78.

Questa affermazione consente di affrontare uno dei limiti che hanno relegato Rousseau lontano dai riferimenti importanti all’interno del dibattito sul repubblicanesimo: l’accusa di “populismo” e l’idea che la sua nozione di libertà conduca ad un paradosso: “Infatti, benché una legge non arbitraria possa non dominare gli individui né compromettere la loro libertà, ne condiziona comunque inevitabilmente la libertà, restringendo la gamma delle scelte non dominate accessibili a coloro che sono soggetti alla legge; può darsi che non li privi della libertà ma, si potrebbe dire, li rende in ogni caso meno liberi”79.

L’accusa mossa a Rousseau è in sostanza quella di ridurre il popolo, nel suo essere “corpo collettivo”, a padrone e lo stato a servo, per cui la libertà si riduce all’autogoverno: “Per quanto possano apparire per altri aspetti repubblicani affascinanti le sue posizioni […], Rousseau ha probabilmente le maggiori responsabilità per la diffusione di questa concezione populista. La sua svolta populista ha rappresentato l’inizio di un nuovo corso che ha raggiunto il suo punto culminante solo allorché si è giunti a considerare l’ideale dell’autogoverno democratico come la principale alternativa, o quantomeno la principale alternativa tra le concezioni della libertà esistenti, all’ideale negativo della non interferenza. Ritenere populista la tradizione repubblicana significa proprio favorire quella dicotomia che ha reso invisibile l’ideale repubblicano” 80.

In realtà Rousseau condivide con i repubblicani lo stesso fondamentale interrogativo e problema, ma vede nella legge il fondamento della libertà stessa. Queste le sue parole nel Discorso sull’economia politica: “Comment se peut-il faire qu’ils obéissent et que personne ne commande, qu’ils servent et n’ayent point de maître; d’autant plus libres en effet que sous une apparente sujétion, nul ne perd de sa liberté que ce qui peut nuire à celle d’un autre? Ces prodiges sont l’ouvrage de la loi. C’est à la loi seule que les hommes doivent la justice et la liberté. C’est cet organe salutaire de la volontà de tous, qui rétablit dans le droit l’égalité naturelle entre les hommes. C’est cette voix céleste qui dicte à cheque citoyen les préceptes de la raison publique, et lui apprend à agir selon les maximes de son propre jugement, et à n’être pas en contradiction avec lui-même. C’est elle seule aussi que les chefs doivent faire parler quand ils commandent”81.
Risulta lampante la comunanza di spirito di questo scritto di Skinner in La libertà prima del liberalismo: “Come possono dei cittadini naturalmente auto-interessati essere persuasi ad agire virtuosamente, in modo tale che essi possano sperare di massimizzare una libertà che, se lasciati a se stessi, getterebbero senz’altro via? La risposta, di primo acchito, suona familiare: gli scrittori repubblicani ripongono tutta la loro fiducia nel potere coercitivo della legge […]. La principale giustificazione della legge è che, obbligando le persone ad agire in maniera tale da preservare le istituzioni di uno stato libero, essa crea e preserva un grado di libertà individuale che, in sua assenza, verrebbe rapidamente meno, aprendo le porte a una condizione di assoluta servitù”82.

A nostro avviso quindi è possibile rintracciare in Rousseau alcuni dei nodi concettuali più ricorrenti in Pettit e Skinner: è in sintonia con il primo, il quale afferma che, “come le leggi creano l’autorità di cui fruisce chi governa, così le leggi creano la libertà che i cittadini possiedono in comune” 83, e parla delle leggi come di qualcosa che interferisce senza dominare84. E’ vicino a Skinner non soltanto nella considerazione che ogni cittadino può “esercitare un uguale diritto di partecipazione alla creazione delle leggi”85, ma anche nella convinzione che “se uno stato o una repubblica deve essere considerata libera, le leggi che la governano – le regole che determinano i movimenti del suo corpo – devono essere approvate con il consenso di tutti i suoi cittadini, dei membri del corpo politico nel suo insieme. Nella misura in cui questo non accade, il corpo politico sarà spinto ad agire da una volontà diversa da quella propria, e sarà di conseguenza privato della sua libertà"86.

In secondo luogo, egli evita la deriva del “populismo” nel momento in cui, concependo la libertà stessa come il prodotto della legge, sostiene che essere completamente liberi significa essere pienamente cittadini in una società organizzata attorno alla legge: “J’aurois voulu vivre et mourir libre, c’est-à-dire tellement soumis aux lois que ni moi ni persone n’en pût secouer l’honorable joug; Ce joug salutare et doux, que les têtes les plus fiéres portent d’autant plus docilement qu’elles sont faites pour n’en porter aucun autre”87

Rousseau afferma quindi il fondamento della libertà nella legge e sostiene che, in una società in cui ciascuno è chiamato ad obbedire solo a se stesso proprio perché obbedisce alla “volontà generale”, espressione della raison publique, cioè di una deliberazione alla quale ogni cittadino partecipa in quanto membro dell’assemblea sovrana, il potere di dare leggi è lo strumento per vivere liberi e non sottomessi ad una volontà arbitraria. Il principio di fondo è quello enunciato nei Frammenti politici, e cioè che “nul ne peut se dire asservi quand il n’obeit qu’à sa volonté” 88.

Rousseau vede per questo motivo nelle leggi la condizione di conservazione del patto: “On est libre quoique soumis aux loix, et non quand on obeit à un homme, parce qu’en ce dernier cas j’obéis à la volontà d’autrui mais en obeissant à la Loy je n’obéis qu’à la volonté publique qui est autant la bienne que celle de qui que ce soit” 89. E quindi la seconda caratterizzazione essenziale della “volontà generale”, oltre il fatto di essere la volontà che esprime la raison publique, frutto della discussione comune nell’ambito del “corpo sovrano”, consiste nel “poter agire solo attraverso le leggi, mentre è contrario alla sua essenza statuire su un oggetto individuale” 90.

La legge è dunque garanzia ed espressione della libertà, in quanto, da un lato, tutela contro l’arbitrio dei singoli e, dall’altro, è il prodotto di volontà razionali singole impegnate a risolvere, attraverso il confronto dialogico, i problemi inerenti alla deliberazione sulle norme della convivenza. “La reciproca dipendenza dalla legge è il solo fondamento moralmente legittimo dell’associazione. Attraverso la dipendenza dalla legge gli uomini sono messi in grado di associarsi senza alcuna dipendenza personale che li renderebbe stolti moralmente. Attraverso la legge ognuno è messo in condizione di annullare le sue tendenze edonistiche. La legge infine libera e soddisfa le potenzialità morali dell’uomo” 91.

b) La virtù

“La legge insomma mette in grado gli uomini non soltanto di vivere insieme nella libertà, ma anche di conquistare la virtù” 92. Da questo punto di vista, centrale è proprio il concetto di “vertu”, strettamente collegato alla legge: è la vertu publique infatti che garantisce l’unità politica e i diritti dell’individuo. Così Rousseau: “Dans tout païs où le Luxe et la corruption ne regnent pas, le témoignage public de la vertu d’un homme est le plus doux prix qu’il en puisse recevoir, et tutte bonne action n’a besoin pour sa recompense que d’être denoncée publiquement comme telle […]. Quel étoit le mobile de la vertu des Lacedemoniens si ce n’estoit d’être estimé[s] vertueux? Qu’est-ce qui àpres avoir conduit ces triomphateurs au Capitole les ramenoit à leur charue? Voilà une source d’intérest plu sure et moins dangereuse que les Tresors, car la gloire d’avoir bien fait n’est pas sujette aux mêmes inconveniens que celle d’être riche et donne une satisfaction beaucoup plus vive à ceux qui ont appris à la gouter”93.

Rousseau segue quindi una strada che, mentre lo separa dal costituzionalismo come strategia per il controllo istituzionale dei poteri (Locke e Montesquieu), lo pone in continuità con la tradizione del repubblicanesimo classico (vedi, ad esempio, i suoi richiami costanti a Roma), nella quale è proprio il “tono morale” (Taylor 94) della comunità a garantire l’equità delle decisioni. Naturalmente l’aver messo da parte il bagaglio del costituzionalismo liberale crea non pochi problemi 95, ma non è il caso di affrontarli in questa sede, altro essendo lo scopo di questo saggio.

Il rapporto stabilito tra virtù e ordine politico ci permette di qualificare Rousseau come critico del liberalismo individualistico e della scissione tra etica e politica. Scrive Fetscher, proprio su a questi aspetti: “La relazione tra etica e politica [in Rousseau] è dunque bilaterale. L’uomo morale (virtuoso) è il cittadino ideale perché non cura mai il proprio interesse privato di uomo fisico, ma sempre soltanto l’interesse superiore del proprio ‘Sé’ etico, che non può entrare in conflitto con l’altrui interesse privato e ancor meno con quello della comunità etico-giuridica poiché mira a beni la cui quantità è illimitata, né può mai essere esaurita per quanti se ne godano. Ma lo stato costituito offre pur nella sua forma deteriore l’idea di un ordine che la ragione può riconoscere per farlo amare dalla coscienza e aiutare così la virtù a signoreggiare le passioni”96.

Virtù e libertà sono quindi viste in un rapporto di reciproco sostegno, “l’insieme delle qualità che ognuno di noi, in quanto cittadino, deve possedere: qualità che ci consentono di servire di buon grado il bene comune e di difendere così la libertà della nostra comunità, qualità che ci permettono, di conseguenza, di garantire sia la sua grandezza sia la nostra libertà individuale”97.

Conclusioni

Gli elementi messi in luce vorrebbero essere dei sintetici richiami ad aspetti che possono servire per giustificare l’idea che Rousseau, forse troppo frettolosamente escluso dalla considerazione di quanti hanno affrontato il tema della comunità e del repubblicanesimo, costituisce invece una voce importante e un tornante storico decisivo.

Non solo infatti egli affronta molte delle questioni riprese ai giorni nostri dalla riflessione repubblicana, ma si dimostra attento ad alcuni importanti sviluppi interni a tale riflessione, cercando di argomentarli e fornendo soluzioni teoricamente rilevanti a problemi e contraddizioni: svolge l’apparente paradosso che lega libertà, legge e costrizione98; rafforza attorno al concetto di virtù civile l’idea di una sottomissione dell’interesse privato al bene pubblico99; sottolinea il valore dell’ordine per il mantenimento e il rafforzamento della libertà; ripresenta l’ideale classico della giusta proporzione della virtus100.

Rousseau recupera quindi il repubblicanesimo come istanza della cittadinanza attiva101. Egli, che critica allo stesso tempo il despotisme di Hobbes e il liberalismo proprietario di Locke, guarda al rapporto politico come ad una relazione connotata dal consenso e innestata sulla “voce del dovere”102. Ma il repubblicanesimo di Rousseau non si risolve soltanto “nell’adesione all’ideale della repubblica intesa come antitesi della tirannide o nell’adesione al governo popolare in antitesi al governo monarchico”103. Non siamo cioè di fronte semplicemente ad una teoria della buona costituzione politica legata ad una idea di libertà ridotta al semplice non “equiparare il modo in cui la legge restringe la libertà a quello proprio dei prepotenti o dei ladri”104.

Le riflessioni che ho proposto possono essere spunti per concentrare l’attenzione, in fase conclusiva, sull’idea russoiana di “comunità” (communauté), fondata sul concetto di indipendenza da ogni autorità o potere personale e intesa come autodeterminazione collettiva; il tutto sullo sfondo rappresentato dal problema del rapporto costitutivo tra comunità e identità. E’ proprio questa relazione di Rousseau la coordinata attorno alla quale si può tentare un recupero comunitario, lontano da ogni contaminazione organicistica.

La “comunità”, infatti, così come la progetta Rousseau, permette la nascita dell’uomo alla sua vera umanità: comporta la scoperta e l’affermazione dell’ identità umana, la realizzazione della vera natura dell’uomo, della libertà e dell’uguaglianza politica dei cittadini, innestate sulla legge e sulla virtù. La “società ben ordinata” è una communauté che realizza la “libertà morale” dei suoi membri105.

Rousseau è l’assertore di un legame forte tra formazione morale dell’identità e comunità. Si è avuto modo di sottolineare che la costituzione della comunità sia considerata come la scoperta e la realizzazione delle potenzialità umane e dell’identità morale dell’individuo: “Soit qu’un penchant naturel ait porté les hommes à s’unir en società, soit qu’ils y aient été forcés par leurs besoins mutuels, il est certain que c’est de ce commerci que sont nés leurs vertus et leurs vices et en quelque maniére tout leur être moral”106 E’ stato giustamente osservato che “la ricerca di un’identità personale poteva essere soddisfatta dalla creazione di una comunità solidale, un moi commune, in cui contemporaneamente ciascuno scoprisse se stesso nella massima solidarietà verso gli altri”107.

A dar vita e consistenza al patto sociale e quindi alla comunità politica è il preferire in ogni cosa il maggior bene di tutti, ideale che si incarna in una legislazione giusta, espressione della “volontà generale”, mirante al bene e alla conservazione dell’intera comunità, e in una “virtù pubblica” che concorre alla conservazione del “tout”. All’interno della comunità “i soggetti non trovano un principio di identificazione - e neanche un recinto asettico entro cui stabilire una comunicazione trasparente o, magari il contenuto da comunicare. Essi non trovano altro che quel vuoto, quella distanza, quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi: ‘donanti a’, in quanto essi stessi ‘donati da’ un circuito di donazione reciproca che trova la propria peculiarità appunto nella sua obliquità rispetto alla frontalità del rapporto soggetto-oggetto, o alla pienezza ontologica della persona”108. Il riscontro in questo passo dell’Emilio: “C’est la foiblesse de l’homme qui le rend sociable: ce sont nos miséres communes qui portent nos cœurs à l’humanité, nous ne lui devrions rien si nous n’étions pas hommes. Tout attachement est un signe d’insuffisance : si chacun de nous n’avoit nul besoin des autres il ne songeroit guéres à s’unir à eux. Ainsi de nôtre infirmité même nait nôtre frêle bonheur. Un être vraiment heureux est un être solitaire: Dieu seul joüit d’un bonheur absolu ; mais qui de nous en a l’idée ? Si quelque être imparfait pouvoit se suffire àlui- même , dequoi joüiroit-il selon nous ? Il seroit seul, il seroi misérable. Je ne conçois pas que celui qui n’an besoin de rien puisse aimer quelque chose : je ne conçois pas que celui qui n’aime rien puisse être heureux”109..

Nasce così una comunità politica omogenea la cui forza collettiva è la condizione che rende possibile la sopravvivenza dei singoli, in cui ciascuno è debitore nei confronti della comunità: lo scopo dell’association è quello di una vita buona, classicamente intesa come vita virtuosa; la realtà del “cittadino” è quella di colui che antepone l’”interesse comune” all’interesse “privato”; l’interesse preminente, ma niente affatto unico, diviene la conservazione della comunità stessa.

La chiave di lettura di una simile posizione sta nell’antropologia di fondo relazionale di Rousseau che, come abbiamo avuto modo di sottolineare, richiama esplicitamente la propria derivazione aristotelica riguardo all’idea di natura e di perfettibilità e relativamente alla “relazione tra ciò che [...] preoccupa come individuo e ciò che la società persegue in termini di obiettivi e scopi generali”: “Questa percezione della connessione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico, tra un’opinione ‘particolare’ e un’opinione ‘pubblica’, rappresenta il primo difficile passo verso la coscienza politica, poiché si richiede che colui che appartiene alla comunità esprima bisogni, rivendicazioni e aspirazioni private in modo pubblico”110.

Rousseau fornisce dunque un contributo, non sempre adeguatamente valutato, alla definizione della comunità politica, “ribadendo più volte il grande valore della solidarietà sociale, della necessaria subordinazione dell’individuo al gruppo, dell’importanza della dipendenza impersonale, della vocazione redentrice dell’appartenenza e dei benefici che scaturiscono da una stretta identificazione tra individuo e gruppo”111 e sottolineando che le istituzioni di cui ha descritto fondamenta e strutture “rassemblent tout ce qui peut contribüer à former dans les mêmes hommes des amis, des citoyens, des soldats, et par consequent tout ce qui convient le mieux à un peuple libre”112.

Ciò avviene comunque all’interno di un percorso intellettuale che, partendo dalla critica della società del suo tempo, è indirizzato a progettare una comunità politica che, in nome del perseguimento del “bene comune”, consegua la libertà e l’uguaglianza politica dei cittadini e diventi luogo di realizzazione della vera natura dell’uomo. L’esito lo ha però condotto a scontrarsi con le concrete difficoltà della società moderna delle maschere e ha causato il finale ripiegamento su se stesso, che però non sa di abbandono dei propri ideali, quanto piuttosto di una loro personalissima difesa e conservazione, in attesa che un mondo esterno migliore li possa accogliere e rendere storicamente fecondi. Rousseau è “un filosofo che ‘sente’ prima di ‘pensare’, e pensa per immagini; un teorico della società assorto nell’osservazione del proprio io, lacerato da contraddizioni esistenziali delle quali ricercherà una soluzione razionale. In certo senso, tutta l’opera sua può essere letta come la trascrizione simbolica di una rivolta emotiva, come una proiezione dei suoi conflitti o del suo difficile rapporto con se stesso e con il mondo reale. Rousseau stesso ne fu ben consapevole. Riferì, appunto, alla singolarità del proprio io l’autenticità dell’esempio morale e civile che propose”113.

Il tentativo russoiano di realizzare il compimento dell’individuo nella comunità e quindi di formare in maniera interrelazionale l’identità trova infatti un esito segnato dal distacco netto tra piano speculativo e piano esistenziale della sua riflessione. Non “si tratta - però - […] di suggerire una ‘vita da anacoreta’, ma di indicare la maniera per trarsi fuori momentaneamente ‘dalla calca’ e per chiudere così ‘l’accesso alle passioni’ attraverso quella che si potrebbe definire una strategia del recupero finalizzata a ricostituire l’armonia interna del soggetto per poter poi tornare nell’insidioso labirinto della società” 114. In questa prospettiva si apre la possibilità di una realizzazione storica delle idee russoiane sulla comunità e si lascia aperto lo spazio per riflettere ancora sull’idea di una comunità politica. Solo in un’ottica simile si può cogliere il valore della sua riflessione su identità, autenticità e politica 115: egli ha per lo meno intravisto, nell’ambito delle coordinate filosofiche e storiche della modernità, lontano però dall’organicismo aristotelico e dall’individualismo moderno, l’importanza del ruolo della politica nella formulazione e nella realizzazione delle identità individuali e ha parlato di una identità che entra a far parte della richiesta politica, ammettendo la pertinenza antropologica della dinamica politica.



* Università di Perugia



Note

1 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, tr. it. M. Geuna, Einaudi, Torino 2001, p. V.

2 J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, tr. it. A. Prandi, Il Mulino, Bologna 1980, p. 559.

3 Ivi, p. 781.

4 Ivi, pp. 320-321.

5 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, a cura di M. Viroli, tr. it. G. Ceccarelli, Il Mulino, Bologna 1989, p. 29.

6 M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, «Filosofia politica», XII, 1, (1998), p. 108.

7 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 97.

8 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, a cura di S. Veca, tr.it. G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano 1994, pp. 177-178.

9 M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, cit., p. 109.

10 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XVIII-XIX.

11 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, tr. it. P. Costa, Feltrinelli, Milano 2000, p. 32.

12 Per la distinzione tra libertà positiva e libertà negativa mi limito a rinviare a I. Berlin, Due concetti di libertà, in Quattro saggi sulla libertà, tr. it. M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989; la riflessione sull’idea di libertà come concetto di esercizio o di opportunità si trova invece in Ch. Taylor, Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in AA.VV., L’idea di libertà, a cura di Ian Carter e Mario Ricciardi, Feltrinelli, Milano 1996.

13 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XXII-XXIII.

14 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., pp. 353-354.

15 Ivi, p. 34.

16 A. Maffey, L’idea di stato nell’illuminismo francese, Studium, Roma 1975, p. 23.

17 F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970,p. 58.

18 Ivi, pp. 96-97.

19 Ivi, pp. 104-105.

20“ dei de skopein en tois kata phusin echousi mallon to phusei, kai mê en tois diephtharmenois” (Aristotele, Politica, 1, 5, 1254a 35-37 cit. in J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, in Oeuvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Éditions Gallimard, Paris 1964, III, p. 109).

21 Ivi, p. 152.

22 Cfr. Ivi, p. 154.

23 Cfr. Ivi, p. 162.

24 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, tr. it. L. Derla, Feltrinelli, Milano 1972, p. 28.

25 L’idea di una natura intesa non esclusivamente come principio originario, ma come progressivo sviluppo, tramite la “perfettibilità” di “facoltà potenziali” contenute già in origine nella “constitution humaine”, pone infatti Rousseau su di un piano radicalmente differente sia rispetto a Hobbes che a Locke. Mentre questi due ultimi autori hanno in comune l’idea che l’ingresso nel body politics non aggiunga né tolga nulla all’identità dell’individuo, che è quindi già un tutto di per sé e non ha alcun bisogno di legami interpersonali per realizzarsi, Rousseau, in virtù dell’idea di una natura dotata di un telos, ancora incompiuto nello “stato di natura puro” (cioè nell’isolamento),può guardare alla progressiva evoluzione della comunità come alla realizzazione della natura stessa dell’uomo.

26 “La sostanza è un principio ed una causa […] e questa è, in alcuni casi, causa finale […]; in alcuni altri casi, invece, essa è causa motrice prossima […]. La causa motrice si ricerca quando si tratti di spiegare il generarsi e il corrompersi delle cose, mentre l’altra causa si ricerca anche quando si tratti di spiegare l’essere delle cose” (Aristotele, Metafisica, VII, 17, 1041a 10-30 a cura di G. Reale, tr. it. G. Reale, Rusconi, Milano 1978, p. 350-351).

27 “Abbiamo trattato dell’essere che è primo e al quale si riferiscono tutte le altre categorie dell’essere, ossia della sostanza […]. E […] l’essere viene inteso nel significato di essenza, o di qualità, o di quantità e, in un altro senso, l’essere viene inteso secondo la potenza e l’atto” (Ivi, IX, 1, 1045b 25-35, p. 378).

28 J.J. Rousseau, Du contract social, in Oeuvres complètes, cit., p. 364.

29 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’état de nature”], in Oeuvres complètes, cit., p. 479.

30I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 73.

31 R. Gatti, Una fragile libertà. Esercizio di lettura su Rousseau, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 17.

32 A. Bonetti, Antropologia e teologia in Rousseau. La professione di fede del Vicario Savoiardo, Vita e Pensiero, Milano 1976, p. 171.

33 Ivi, p. 164.

34 Rinvio all’Emilio per una considerazione più sistematica dell’idea russoiana di passioni e del rapporto tra componente morale e fisico-materiale. Mi limito qui a far cenno a due passi: “Nos passions – scrive Rousseau – sont les principaux instrumens de notre conservation; c’est donc une enterprise aussi vaine que ridicule de vouloir les détruire; c’est controller la nature, c’est réformer l’ouvrage de Dieu” (J.J. Rousseau, Emile, in Oeuvres complètes, cit., pp. 490-491). E ancora: “Tout sentiment de peine est inséparable du desir de s’en délivrer; toute idée de plaisir est inséparable du desir d’en joüir ; tout desir suppose privation, et toutes les privations qu’on sent sont pénibles ; c’est donc dans la disproportion de nos desirs et de nos facultés que consiste nôtre misére. Un être sensible dont les facultés égaleroient les desirs seroit un être absolument heureux.
En quoi donc consiste la sagesse humaine ou la route du vrai bonheur ? Ce n’est pas précisement à diminüer nos desirs ; car s’ils étoient au dessous de nôtre puissance, une partie de nos facultés resteroit oisive, et nous ne jouirions pas de tout nôtre être. Ce n’est pas non plus à étendre nos facultés, car si nos desirs s’étendoient à la fois en plus grand raport, nous n’en deviendrions que plus misérables : main c’est à diminuer l’excés des desirs sur les facultés, et à mettre en égalité parfaite la puissance et la volonté. C’est alors seulement que toutes les forces étant en action l’ame cependant restera paisible, et que l’homme se trouvera bien ordoné” (Ivi, pp. 303-304).

35 R. Gatti, Una fragile libertà. Esercizio di lettura su Rousseau, cit., p. 30.

36 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 364.

37 Ivi, pp. 365.

38 Anche Ch. Taylor sottolinea questo aspetto parlando di Montesquieu e Rousseau: “La vita politica […] è in un senso importante prioritaria rispetto agli individui. La vita politica fonda la loro identità, rappresenta la matrice in virtù della quale essi possono diventare i tipi di esseri umani che sono” (Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it. R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 248).

39 Proprio riguardo l’idea di “indipendenza” nello stato di natura si può cogliere un’ulteriore differenza di piani tra Rousseau, Hobbes e Locke. Il filosofo francese concorda con Hobbes e Locke nel ritenere che l’indipendenza originaria significhi libertà da qualsiasi potere personale o autorità, ma la giudica una condizione difettiva, un’assenza di relazione, una mancanza di rapporto.
E’ qui che s’incentra innanzitutto la differenza prospettica nei confronti del modello hobbesiano: il non-rapporto, l’irrelatività, fatta in Hobbes di timore e conflitto, non è, per Rousseau, il prodotto di una stato civile distruttivo del legame sociale, ma ciò che precede l’uno e l’altro. In secondo luogo una tale impostazione è lontana dall’egoismo razionale dell’atomismo liberale, che vede in una presuntuosa indipendenza, paradossalmente incapace di sussistere senza ricorrere alla creazione contrattuale di un governo e di un sovrano, una condizione paradigmatica e ideale.

40 E’ bene qui sottolineare però un aspetto, che non ho modo di sviluppare, ma che è necessario tenere presente per una lettura completa e problematica delle idee di Rousseau che sto illustrando: Rousseau parla, relativamente alla comunità, di una formazione dell’identità umana e non di una identità propria e singolare. Non si prende in considerazione, cioè, quella che Derrida, in un testo molto chiaro nel definire i problemi dell’amicizia politica intitolato Politiche dell’amicizia, definisce la “quantificazione della singolarità”. Derrida non fa mai esplicito riferimento a Rousseau, ma qualche suo spunto coglie indirettamente alcuni dei limiti dell’idea russoiana di “comunità”. Il rischio in sostanza è quello di sfociare verso l’impersonalità e l’indifferenza, di dimenticare l’infinita singolarità che l’umanità dell’uomo introduce nella proporzionalità del tout (Cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1995).

41 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, tr. it. A. Prontera e N. D’Elia, Edizioni Micella, Lecce 1974, p. 137.

42 Ivi, p. 153.

43 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, Il Mulino, Bologna 1993, p. 152.

44 Ivi, p. 168.

45 “S’ils tentent de secoueur le joug, ils s’éloignent d’autant plus de la liberté; que prenant pour elle une licente effrenée qui lui est opposée, leurs revolutions les livrent presque toûjours à des séducteurs qui ne font qu’aggraver leurs chaînes. Le Peuple Romani lui-même, ce modale de tous les Peuples libres, ne fut point en état de se gouverner en sortant de l’oppression des Tarquins” (J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 269). Cfr. Machiavelli: “E debbesi presupporre per cosa verissima che una città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera […]. Ma non si vede il più forte exemplo che quello di Roma; la quale, cacciati i Tarquini, poté subito prendere e mantenere quella libertà; ma morto Cesare, morto Gaio Gallicola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette mai, non solamente mantenere, ma pure dar principio alla libertà” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 17, in Opere, a cura di R. Rinaldi, Utet, Torino 1999, pp. 528-529).

46 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 186.

47 A. Maffey, L’idea di stato nell’illuminismo francese, cit., pp. 61-62.

48 Tutto il capitolo sesto del libro quarto del Contratto sociale, com’è noto, riprende motivi espressi nei capitoli trentaquattro e trentacinque del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

49 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée, in Oeuvres complètes, cit., p. 957. Queste le parole di Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: “[Numa], trovando uno popolo ferocissimo e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a voler mantenere una civiltà; e la costituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella repubblica; il che facilitò qualunque inpresa che il senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare […]. Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1, 11, in Opere, cit., pp. 493-497).

50 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée, in Oeuvres complètes, cit., p. 958.

51 G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 294-295.

52 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 409.

53 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 20.

54 S. Maffettone, Repubblicanesimo, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 5, 1/2000, p. 53.

55 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, tr. it. R. Ferrara, Il Mulino, Bologna 1993, p. 279.

56 Cfr. J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., pp. 183-184.

57 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 93.

58 Ivi, p. 730.

59 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, in Oeuvres complètes, cit., p. 248.

60 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 274.

61 Emblematiche le parole di Rousseau: “Les engagemens qui nous lient au corps social ne sont obligatoires que parce qu’ils sont mutuels, et leur nature est telle qu’en les remplissant on ne peut travailler pour altrui sans travailler aussi pour soi” (J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 373).

62 Afferma chiaramente a tal proposito Rousseau: “On voit par cette formule que l’acte d’association renferme un engagement réciproque du public avec les particuliers, et que chanque individu, contractant, pour ainsi dire, avec lui-même, se trouve engagé sous un double rapport; savoir, comme membre du Souverain envers les particuliers, et comme membre de l’Etat envers le Souverain” (Ivi, p. 362).

63 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 96.

64 Torna a farsi evidente la centralità del dualismo dell’antropologia di Rousseau: saranno infatti ragione e coscienza che, insieme, indirizzeranno all’esercizio della virtù e al controllo delle passioni, rappresentando rispettivamente la fonte delle indicazioni e il loro movente.

65 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 245.

66 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 284.

67 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 374.

68 Ivi, p. 427.

69 Ivi, pp. 364-365.

70 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 19.

71 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 4.

72 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 81.

73 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 66.

74 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 81.

75 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 66.

76 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 150.

77 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 364.

78 S. Maffettone, Repubblicanesimo, in “Filosofia e questioni pubbliche”, cit., p. 61.

79 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 355.

80 Ivi, p. 42.

81 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 248-249.

82 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. 95-96.

83 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 49.

84 Cfr. Ivi, p. 48.

85 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 25

86 Ivi, pp. 23-24.

87 J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 112.

88 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“Du pacte social”], cit., p. 484.

89 J.J. Rousseau, Ivi, [“Des loix”], cit., p. 492.

90 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 446.

91 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 53.

92 Ivi, p. 56.

93 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’honneur et de la vertu”], cit., p. 501.

94 In questo senso Taylor parla di Rousseau “come uno dei progenitori del discorso sul e del riconoscimento […], perché comincia a riflettere seriamente sull’importanza dell’uguale rispetto e anzi lo considera indispensabile per la libertà” (J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it. L. Ceppa e G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1999, p. 31). A suo avviso infatti il filosofo francese rappresenta in primo luogo colui che ha contribuito decisivamente allo “spostamento dell’accento morale” verso la “voce interiore” e il “contatto coi propri sentimenti”, favorendo in tal modo la nascita della nozione di autenticità: “Rousseau presenta ripetutamente la moralità come il seguire una voce naturale che è dentro di noi; spesso questa voce è sommersa dalle passioni indotte dalla nostra dipendenza dagli altri, la principale delle quali è l’orgoglio o amour propre. La salvezza morale viene dal recupero di un contatto morale autentico con se stessi; Rousseau dà addirittura un nome a quel contatto intimo con sé, più fondamentale di qualsiasi idea morale, che è la fonte di una gioia e di una appagamento così grandi: ‘le sentiment de l’existence’” (Ivi, p. 14). Su questo contatto morale autentico con se stessi, lontano dall’orgoglio egli può costruire “una reciprocità perfettamente equilibrata [che] rende innocua la nostra dipendenza dall’opinione e la fa essere compatibile con la libertà” (Ivi, p. 34).

95 Il problema consiste nell’individuare gli strumenti adeguati per affermare una sovranità che garantisca il rispetto dei diritti individuali senza ricorrere alla strategia del costituzionalismo, quella strategia che, dividendo i poteri, rende impossibile, per Rousseau l’istituzione di una vera sovranità. Si viene però a creare in Rousseau una sorta di circolo vizioso: egli parla infatti di una autolegislazione da parte del popolo sovrano, ma si accorge della difficoltà di pensare un popolo sempre sufficientemente “illuminato” e “saggio”. Se bisogna prendere “gli uomini come sono” è chiaramente controfattuale pensare che la garanzia del rispetto dei diritti individuali e in generale l’attuazione di decisioni che non cadano mai nell’arbitrio possa essere affidata soltanto alla “virtù pubblica” di un sovrano che è fatto, come Rousseau stesso riconosce, non di “dei”, ma di “esseri umani”, fragili, fallibili, soggetti alle passioni.

96I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 81.

97 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 93.

98 Cfr. Ivi, pp. 86-87.

99 Cfr. M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 21.

100 Ivi, p.13.

101 “Chacun de nous met en commun sa personne et toute sa puissance sous la suprême direction de la volonté générale; et nous recevons en corps claque membre comme partie indivisibile du tout. A l’instant, au lieu de la personne particuliere de chaque contractant, cet acte d’association produit un corps moral et collectif composé d’autant de membres que l’assemblée a de voix, lequel reçoit de ce même acte son unité, son moi commun, sa vie et sa volonté. Cette personne publique qui se forme ainsi par l’union de toutes les autres prenoit autrefois le nom de Cité, et prend maintenant celui de Republique ou de corps politique” (J.J. Rousseau, Du contract social, cit., pp. 361-362).

102 “Mais quand les citoyens aiment leur devoir, et que les dépositaires de l’autorité publique s’appliquent sincérement à nourrir cet amour par leur exemple et par leurs soins, toutes les difficultés s’évanouissent” (J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 253-254).

103 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 167.

104 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 355.

105 A questo tema è dedicato l’ottavo capitolo del libro primo del Contratto soiciale.

106 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’honneur et de la vertu”], cit, p. 504-505.

107 S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, tr. it. R. Giannetti, Il Mulino, Bologna 1996, p. 540.

108 R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. XVI-XVII.

109 J.J. Rousseau, Emile, cit., p. 503.

110 S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, cit., pp. 92-93.

111 Ivi, p. 547.

112 J.J. Rousseau, Lettre à D'Alembert, in Oeuvres complètes, cit., p. 96.

113 P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 9.

114 R. Gatti, L'enigma del male. Un'interpretazione di Rousseau, Studium, Roma 1996, pp. 73-74.

115 Interessante proprio riguardo al legame tra passioni, identità e autenticità il testo di Elena Pulcini, L’individuo senza passioni, che, proprio relativamente a Rousseau, così si esprime: “Rousseau mostra […] che le passioni acquisitive e competitive generano, in virtù della coazione all’appropriazione alimentata dal bisogno di distinzione e di riconoscimento, la nascita di una falsa identità, di un’identità distorta e inautentica. A questa, Rousseau oppone l’immagine di un Io autentico, che è capace di dar vita a un legame sociale fondato su uguaglianza e giustizia, uscendo dalla dinamica delle passioni acquisitive e riattivando quelle che si propone qui di chiamare passioni comunitarie” (E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 13).

nuvolarossa
02-07-06, 09:38
Per una repubblica federale mondiale: il cosmopolitismo kantiano *

di Giuliano Marini

1. I princìpi a priori dell'idea di repubblica

Occorre enunciare, all'inizio della nostra trattazione, i princìpi a priori dell'idea di repubblica. Dobbiamo muovere dall'espressione letterale di Kant nel primo articolo definitivo della Pace perpetua, poi integrarla secondo gli apporti di altri luoghi della stessa opera. Secondo la lettera, i princìpi a priori dell'idea di repubblica sono tre:

- la libertà di tutti (letteralmente, qui: dei membri di una società) in quanto uomini (Menschen);

- la dipendenza (Abhängigkeit) di tutti in quanto sudditi (Untertanen);

- la uguaglianza (Gleichheit) di tutti (letteralmente, qui: dei medesimi) in quanto cittadini (Staatsbürger).1

Non inganni il numero di tre, per la sua corrispondenza con la trattazione di due anni prima, nella parte seconda dello scritto Sul detto comune:"Questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica". Lì Kant aveva indicato, al posto della dipendenza, la indipendenza (Unabhängigkeit: fonicamente vicina ma di senso opposto), e l'aveva collegata non alla qualità di sudditi, come farà la Pace perpetua per la dipendenza, bensì alla qualità di cittadini (Staatsbürger), che nella Pace perpetua sarà collegata all'uguaglianza.2 La differenza tra le due elencazioni è radicale, e caratterizza la concezione politica della Pace perpetua in senso decisamente democratico, e per ciò stesso, formalmente e sistematicamente, come centro della filosofia politica di Kant, culmine ormai raggiunto, e sostanzialmente restante nei testi successivi; con l'eccezione della parte sistematica sul diritto pubblico nella Metafisica dei costumi, ma non della "partizione (Einteilung) della dottrina del diritto" nella stessa opera.3 In poche parole, si può dire che se la posizione del 1793 è favorevole al suffragio ristretto, la posizione del 1795 è favorevole al suffragio universale.

Infatti: alla libertà di tutti in quanto uomini corrisponde la uguaglianza di tutti in quanto cittadini; e tale qualità non corrisponde alla condizione della indipendenza, come indipendenza economica, o sibi sufficientia, come voleva lo scritto del 1793, (portando quindi al suffragio ristretto), bensì alla condizione di uguaglianza, che spetta a tutti gli uomini in quanto tutti sono esseri liberi. Libertà e uguaglianza sono quindi i fondamenti dell'idea repubblicana in Kant; e ciò è confermato dalle definizioni che Kant dà dei due princìpi. La dipendenza (come Kant stesso riconosce nella importante nota al testo), intesa come sudditanza, non ha importanza concettuale: "Per quanto concerne il principio della dipendenza giuridica, non occorre darne alcuna definizione, perché esso è già implicito nel concetto di costituzione statuale in generale”.4 Si noti che la libertà è definita non già, come nel Detto comune, come non-impedimento (ciò che noi chiamiamo libertà negativa), bensì in senso rousseauiano, "come la facoltà di ubbidire unicamente a leggi esterne cui ho potuto dare il mio assenso”,5 cioè come autonomia. Si aggiunga che l'uguaglianza è definita nel senso della contemporanea sottomissione di tutti alle leggi che noi stessi ci diamo, ed include quindi anche la dipendenza. Ne risulta quello stretto vincolo dei princìpi a priori che la "partizione della dottrina del diritto" esprimerà nel modo teoricamente più reciso:

La libertà [...] in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale, è quest'unico diritto originario spettante a ogni uomo in forza della sua umanità.

L'uguaglianza innata, cioè l'indipendenza, per cui non possiamo essere costretti da altri a nulla più di ciò a cui possiamo reciprocamente costringerli, epperò la qualità che ha l'uomo di essere il suo proprio padrone (sui juris) [...]; tutte queste facoltà sono già insite nel principio della libertà innata e da essa [...] realmente non differiscono.6


La implicazione reciproca di cittadinanza e di sudditanza in una repubblica, è inoltre affermata nella Pace perpetua con questa osservazione incidentale, che si incontra anch'essa in sede di commento al primo articolo definitivo: "In una costituzione nella quale i sudditi non sono cittadini -dunque in una costituzione non repubblicana”.7 Da questa osservazione si ricava che in un regime dispotico i sudditi non sono cittadini, obbediscono cioè a leggi che non si sono date, perché non tutti i sudditi sono cittadini; mentre in una repubblica i sudditi obbediscono alle stesse leggi che si sono date, perché tutti i sudditi sono anche cittadini.

Si deve anche notare che la stessa Pace perpetua, quando nella prima appendice parla delle figure di uomo politico, contrappone il politico morale, che si appella ai "soli concetti di diritto della libertà e dell' uguaglianza", che derivano dalla sapienza (Weisheit), ai moralisti politici, che si appellano invece al meccanicismo universale, ossia alla teoria derivante dalla prudenza (Klugheit), e "possono tentare di provare la loro tesi con esempi di costituzioni male organizzate di antichi e nuovi tempi (ad esempio, di democrazie senza sistema rappresentativo"8 -esempi di quella Unform.9 non-forma, sistema informe, non-strutturato, che è la democrazia diretta-, mentre non è tale una democrazia rappresentativa.

Ulteriori argomenti giovano a stabilire che la repubblica kantiana è una democrazia che non esclude alcun essere umano.

1) Primo argomento è la "limpidità (Lauterkeit) della sua origine, l'esser scaturita dalla pura fonte del concetto di diritto”.10 Questa affermazione si comprende se si passa oltre ogni discussione e comparazione empirica su forme di stato, e ci si riporta al passo della Critica della ragion pura che trattando della Repubblica di Platone vi vede il più chiaro esempio di un perfetto sistema politico che rispetti la libertà e l'uguaglianza degli uomini. Essa lo fa, ricordiamo, collegando la repubblica alla maggior libertà per tutti gli uomini, che sia compatibile con leggi pubbliche:11 è in questo pensiero la limpidità dell'origine, derivante dal collegamento con l'idea di diritto.

2) Un altro argomento è di carattere pragmatico. Il tema dello scritto è il raggiungimento della pace, con l'eliminazione graduale e progressiva della guerra. Per raggiungere questo fine occorre abolire il dispotismo, dove il monarca, con l'aristocrazia che lo circonda, prende le decisioni sui problemi più gravi dello stato. Egli non soffre personalmente svantaggi; e tutto il male ricade sul popolo. Occorre che i destinatari di tutti i mali, cioè tutti i sudditi, assumano la decisione in proposito.12

3) C'è infine un importante argomento metafisico. Kant parla, qui e altrove, dell'eventualità di altri esseri intelligibili e di rapporti degli uomini con loro: esseri intelligibili fra l' uomo e Dio, come gli angeli o gli eoni (è quest'ultimo l'esempio fatto da Kant in questo luogo). Ebbene, Kant afferma che la repubblica, con il requisito dell'uguaglianza -che esclude soltanto Dio, essere supremo-, è l'unico sistema politico che si convenga a rapporti con altri esseri intelligibili. Quando tratta dei princìpi a priori sui quali si regge la repubblica -libertà ed uguaglianza- egli afferma: "La validità di questi diritti innati, necessariamente appartenenti all'umanità e inalienabili, viene confermata ed elevata dal principio dei rapporti giuridici dell'uomo anche con esseri superiori (ove egli ne concepisca di tali), in quanto, secondo questi medesimi princìpi, si rappresenta anche come cittadino di un mondo soprasensibile”.13 Pienamente conseguente a questo secondo principio, che innalza in tal modo la validità dei princìpi di libertà ed uguaglianza, è che ogni essere intelligibile dev'essere incluso fra coloro che decidono le questioni comuni. Ne consegue un aspetto solitamente non considerato della Pace perpetua: essa tace sul principio della sibi sufficientia economica come requisito per la cittadinanza; essa tace, altrettanto coerentemente, sull'esclusione delle donne (aspetti trattati entrambi, invece, nel Detto comune e nella parte sullo stato nella Metafisica dei costumi).14


2. La struttura della repubblica

Kant distingue con rigore forma imperii (Form der Beherrschung) da forma regiminis (Form der Regierung).

a) La forma imperii deriva dalle "persone che detengono il supremo potere statuale" (meglio: dal numero delle persone), e si avrà quindi la distinzione fra autocrazia (più oltre, nello stesso contesto: monarchia: qui usati come sinonimi; mentre la Metafisica dei costumi ne preciserà il diverso significato), aristocrazia, democrazia; corrispondenti a potere di uno, di alcuni, di tutti.15

b) La forma regiminis deriva dal modo in cui si regge lo stato: Art der Regierung, modo del governo, intesa la parola nel senso lato che ha quasi perso nella lingua italiana, e che Kant esprime meglio quando scrive il "modo [...] secondo il quale lo Stato fa uso della pienezza del suo potere" (Art, wie der Staat von seiner Machtvollkommenheit Gebrauch macht); e si avrà la distinzione fra repubblicanesimo (Republikanism) e dispotismo (Despotism).16

aa) Il repubblicanesimo si basa sulla divisione dei poteri, che non esiste nel dispotismo. E' interessante notare che Kant, nella trattazione del primo articolo definitivo, parla soltanto della distinzione tra il potere legislativo e il potere esecutivo.17 Ma non sembra sia il caso di derivarne conseguenze istituzionali: infatti nella trattazione del secondo articolo definitivo Kant, parlando del sistema politico-giuridico mondiale (repubblicano) parla esattamente della tripartizione dei poteri in legislativo, esecutivo, giudiziario.18 E' certamente importante che Kant sia esatto là dove propone la sua più audace proposta di organizzazione sovrastatuale, perché noi comprendiamo che parla sul serio; invece nella trattazione dell'articolo primo è sufficiente al suo scopo il distinguere la creazione della legge dalla sua applicazione, essenziale alla repubblica e negata dal dispotismo, dove il despota non conosce quella distinzione e può cambiare la legge secondo i casi a cui la applica.

bb) Ciò si riflette anche sul secondo aspetto in cui Kant fa consistere la distinzione tra repubblicanesimo e dispotismo: il sistema rappresentativo, presente nel primo caso, assente nel secondo.

Vediamo meglio che cosa vuol dire 'rappresentativo'. Kant introduce il concetto di repubblica, invitando a non confonderla con la democrazia, come avverrebbe, a suo dire, nel parlare comune. E Kant intende per democrazia la democrazia diretta, teorizzata da Rousseau. Ma una tale democrazia è per Kant inevitabilmente dispotica, perché in essa tutti legiferano e tutti applicano la legge, eventualmente anche contro uno solo: ciò che porta a una contraddizione, perché in tal caso abbiamo tutti che non sono tutti.19 Una simile democrazia è magmatica e non-strutturata al suo interno; o, come scrive Kant più tecnicamente, è una non-forma (Unform). Ecco come Kant passa a trattare del sistema rappresentativo, che introduce una struttura formale nell'insieme del popolo. Si ha così la rappresentanza politica del popolo nei suoi eletti, o deputati, o rappresentanti. Questa è la forma per cui la sovranità passa ai rappresentanti, che costituiscono il potere legislativo. E' importante in proposito tornare su ciò che Kant scrive trattando, come fa nella prima appendice alla Pace perpetua, della eccellenza della repubblica tra le forme di stato. Egli riporta le obbiezioni alla repubblica che sono in bocca ai moralisti politici, i quali parlano della repubblica come di un sistema irrealizzabile, e portano "esempi di costituzioni antiche e moderne male organizzate (per esempio, di democrazie senza sistema rappresentativo)”.20 Si intenda invece per repubblica una democrazia ben organizzata, rappresentativa, e cadranno le obbiezioni dei moralisti politici. Questa argomentazione conferma che per repubblica Kant intende la forma regiminis che noi oggi denominiamo democrazia rappresentativa, o anche democrazia politica, o democrazia liberale, organizzata sul fondamento della divisione dei poteri.

Ma vediamo meglio anche le considerazioni kantiane sulla rappresentanza. Egli confronta tra loro, in proposito, le tre formae imperii. Dopo aver detto della democrazia, passa alle costituzioni autocratica e aristocratica, per affermare che in esse "è perlomeno possibile ammettere un modo di governo (Regierungsart) conforme allo spirito di un sistema rappresentativo", e fa l'esempio di Federico II, che si diceva "il primo servitore dello stato”.21 Cioè l'autocrate si considerava come rappresentante dello stato, e non si identificava con esso; e possiamo anche aggiungere che egli si considerava, nella sua qualità di esecutore e di capo della forza dello stato, come rappresentante ed esecutore dello stato e del suo diritto, intesi come a se stanti, e separati dal loro esecutore. Questa Regierungsart, questo modo di reggere lo stato, è molto importante nel modo di pensare politico di Kant, che spesso si richiama alle leggi permissive della ragione per sostenere che il passaggio dal dispotismo alla repubblica può richiedere tempo e prudenza, e che, fino a quando non maturino le condizioni adatte, è bene ricorrere a questo modo di governare lo stato "nello spirito del repubblicanesimo”.22 Esso non è peraltro la concezione politica propria di Kant, che consiste nel teorizzare la repubblica in senso proprio, con divisione dei poteri e con sistema rappresentativo nel potere legislativo, quella che egli considera come "unica costituzione perfettamente giuridica" (einzige vollkommen rechtliche Verfassung).23 Ma non è questo il luogo per considerare analiticamente le possibili combinazioni tra formae imperii e formae regiminis.24


3. Federazione o confederazione?

Nel lessico giuridico-politico kantiano non esiste una terminologia esatta e costante che valga a distinguere ciò che noi oggi chiamiamo federazione e ciò che noi oggi chiamiamo confederazione, ossia tra:

a) federazione, cioè una unione di stati che cedano la loro sovranità ad un'entità giuridico-politica ad essi superiore, alla quale essi si sottomettano per affrontare i problemi politici comuni alla nuova entità, ed alla quale affidino le controversie che possano sorgere tra di esse, allo stesso modo in cui i privati cittadini trasferiscono allo stato (societas civilis) il potere di dirimere con mezzi coattivi i conflitti che possano sorgere tra di loro;

b) confederazione, cioè una unione di stati che conservino la loro piena sovranità e soltanto si accordino nello stabilire comuni organismi e comuni metodi, al fine di preservare la pace.

Prescindiamo, in queste osservazioni preliminari e terminologiche, dalla successione cronologica degli scritti da cui attingiamo le espressioni kantiane, pur dando sempre la sede originaria con la sua datazione; le esamineremo pertanto ponendole in rapporto sistematico fra di loro. Per esprimere la distinzione, sopra da noi enunciata, corrispondente ai termini italiani federazione e confederazione, attingiamo ora da un testo ben noto, e visto solitamente in una sua invincibile contraddittorietà, ovvero il secondo articolo definitivo dello scritto Per la pace perpetua, del 1795. Troviamo definite con esattezza, nei seguenti brani di Kant, la soluzione a) e la soluzione b), sopra da noi menzionate.25


a) federazione:

Considerati in quanto stati, i popoli possono essere giudicati come fossero singoli uomini che, nel reciproco stato di natura (ossia nell'indipendenza da leggi esterne), si ledano già per l'essere l'uno vicino all'altro, e ognuno dei quali può e deve esigere dall'altro, per la sua sicurezza, di entrare con lui in una costituzione analoga a quella civile, in cui ciascuno possa essere assicurato del suo diritto.26


Che un popolo dica: "Non ci deve essere più guerra tra noi; perché vogliamo costituirci in uno stato, ossia vogliamo dare a noi stessi un supremo potere legislativo, esecutivo e giudiziario, che risolva pacificamente le nostre controversie": questo è comprensibile.27


Per stati in rapporto reciproco, secondo ragione non c'è altra maniera per uscire dalla situazione priva di legge, che non racchiude altro che guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro libertà selvaggia (priva di legge), piegarsi a leggi pubbliche coattive, e formare così uno stato di popoli (civitas gentium), certamente in continua crescita, che abbraccerebbe da ultimo tutti i popoli della terra.28


[...] idea positiva di una repubblica mondiale [...].29

b) confederazione:

e dato che tuttavia per gli stati, secondo il diritto internazionale, non può valere ciò che vale per uomini in uno stato privo di legge secondo il diritto naturale, cioè "dover uscire da questo stato" (perché essi, come stati, hanno già internamente una costituzione giuridica e così sono sfuggiti alla coazione di altri rivolta a condurli sotto una più estesa costituzione legale secondo i concetti del diritto di questi ultimi).30

"pertanto è il libero confederalismo (Föderalism)" che la ragione connette necessariamente con il concetto del diritto internazionale, se si deve dare a questo ancora qualche significato.31

L'attuabilità (la realtà oggettiva) di questa idea della confederalità (Föderalität), che deve gradualmente estendersi a tutti gli stati, e così condurre alla pace perpetua, può essere esibita. Infatti se la fortuna permette che un popolo potente e illuminato possa (kann) costituirsi in repubblica (che per sua natura dev'essere inclinata alla pace perpetua), allora tale repubblica serve per altri stati da punto centrale dell'unione confederativa (föderative Vereinigung), al fine di unirsi ad essa e così assicurare lo stato di pace secondo l'idea del diritto internazionale ed estendersi sempre più largamente con ulteriori legami di questa specie.32

[...] quando questo stato dice: "Non ci dev'esser nessuna guerra tra me ed altri stati, sebbene io non riconosca alcun supremo potere legislativo che a me assicuri il mio diritto e al quale io assicuri il suo", allora non è affatto comprensibile dove io voglia fondare la garanzia del mio diritto, se non sul surrogato dell'unione in società, e cioè sul libero con federalismo (Föderalism) che la ragione connette necessariamente con il concetto del diritto internazionale , se qui deve pur restare qualcosa di pensabile.33

così in luogo dell'idea positiva di una repubblica mondiale (perché non tutto debba andar perduto), fanno ricorso al surrogato negativo di una confederazione (Bund) permanente e sempre più estesa, che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, ma col continuo pericolo della sua rottura.34

Il diritto internazionale dev'essere fondato su un confederalismo (Föderalism) di liberti stati.35


4. La 'Religione' (1793) e le formulazioni del chiliasmo filosofico

L'opera kantiana La religione entro i limiti della mera ragione, del 1793, ha importanti aspetti che la collegano al più importante scritto politico, cioè La pace perpetua, di due anni dopo. In questa sede, saranno presi in considerazione gli aspetti politici che illuminano il problema del federalismo su un piano mondiale, e che poi saranno messi a confronto con passi analoghi dello scritto successivo. Ma l'opera sulla religione ha anche altri aspetti politicamente rilevanti, che attendono una interpretazione complessiva.36

Al capitolo I, dal titolo Von der Einwohnung des bösen Prinzips neben dem Guten: oder über das radikale Böse in der menschlichen Natur (Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono: o del male radicale nella naturea umana), è trattato il tema, di cui sono evidenti anche il rilievo e le conseguenze politiche, della tendenza al male, presente nella natura umana accanto alla tendenza al bene. Il § 3, Der Mensch ist von Natur Böse (l'uomo è cattivo per natura), ha come sottotitolo, o meglio come motto, il verso oraziano Vitiis nemo sine nascitur. Esso tratta la dottrina kantiana del male radicale (das radikale Böse); dottrina complessa, ma riassumibile in quest' opera nella proposizione conclusiva, secondo cui l'uomo ha una tendenza -che gli è possibile superare (überwiegen, anche: vincere) ma non estirpare (vertilgen)-, alla cosiddetta inversione dei moventi (Umkehrung der Triebfedern), cioè a sovrapporre, ma anche soltanto a mescolare, la ricerca della felicità (movente materiale) all'obbedienza alla legge morale (movente formale).37 Questa tendenza è illustrata da Kant con vari esempi, tratti da vari campi della vita morale degli uomini, e talora impressionanti nella loro crudezza. A noi interessa l'esemplificazione conclusiva sulla vita internazionale, contenente la definizione del duplice chiliasmo, filosofico e teologico. E' opportuno qui riferire l'intero passo, che è insieme la più chiara enunciazione kantiana dei due chiliasmi, e la più perspicua formulazione della soluzione da dare al problema di un diritto cosmopolitico che sia in grado di assicurare a tutti gli uomini della terra, con forza coattiva, il diritto ad una uguale libertà, e come conseguenza la pace perpetua (nel che consiste l'assetto finale dell' umanità affermato dalla dottrina filosofica della storia denominata da Kant chiliasmo filosofico).

[...] so daß der philosophische Chiliasm, der auf den Zustand eines ewigen, auf einen Völkerbund als Weltrepublik gegründeten, Friedens hofft, eben so wie der theologische, der auf des ganzen Menschengeschlechts vollendete moralische Besserung harret, als Schwärmerei allgemein verlacht wird.

[...] di modo che il chiliasmo filosofico, che spera in uno stato di pace mondiale, fondato su una confederazione di popoli come repubblica mondiale, è, precisamente come il chiliasmo teologico, che fa assegnamento sul completo miglioramento morale di tutto il genere umano, messo generalmente in ridicolo come una stravaganza.38

La formulazione kantiana dell'assetto cosmopolitico previsto dal chiliasmo filosofico merita un'analisi dettagliata:

Völkerbund als Weltrepublik

che si può rendere in italiano, con esattezza giuridica adeguata ai nostri tempi, come confederazione di popoli come repubblica mondiale.

L'espressione Weltrepublik tornerà anche nella Pace perpetua, ma senza le parole che la precedono nella definizione che qui stiamo esaminando. Ma queste precedenti parole hanno essenziale importanza per il tema del quale ci stiamo occupando in questo contributo: cioè sul problema del federalismo di Kant. La parola Bund è adoperata da Kant nel senso che noi oggi facciamo corrispondere all' italiano confederazione e che più sopra abbiamo precisato: per il quale possiamo utilizzare il termine tedesco Konföderation (di derivazione latina, che non si presterebbe ad equivoci).39 Quindi Kant pensa, con tale termine preso nella sua singolarità, a popoli che conservano giuridicamente la loro sovranità e non la cedono ad uno stato ad essi superiore che risolva le loro conseguenze. Ma qui il temine Völkerbund (letteralmente confederazione di popoli) non viene usato come singolo, sibbene unito all'espressione che si addice allo stato mondiale nella sua forma regiminis repubblicana, cioè a Weltrepublik. Ora domandiamoci: a che cosa allude il primo termine collegato al secondo, cioé Völkerbund als Weltrepublik (confederazione di popoli come repubblica mondiale)? Non può alludere ad altro che a popoli che mantengono una loro competenza e configurazione giuridica ma che per le loro dispute si affidano alla competenza di una repubblica sovrastatuale che le dirima con la forza del diritto. E' ciò che oggi noi chiamiamo repubblica federale (Bundesrepublik). Nel caso di una repubblica mondiale (Weltrepublik), potremo quindi parlare di una repubblica federale mondiale (Weltbundesrepublik). Il termine è ottenuto, come la lingua tedesca consente, con l' unificazione dei due termini composti originari, e dà luogo a qualcosa di diverso e di più ampio che essi non siano; ovverosia aggiungendo: al Völkerbund la concezione repubblicana, alla Weltrepublik la concezione confederale, che qui si trasforma nella connessione propria di ciò che noi oggi chiamiamo federalismo. Se i giuristi hanno distinto a lungo lo Staatenbund (confederazione di stati) dal Bundesstaat (stato federale), qui li vediamo unificarsi nella visione (fenomenologica, potremmo dire) della loro genesi, e divenire una repubblica federale mondiale, di una Weltrepublik als Staaten -(= Völker)- bund, cioè ad una Weltbundesrepublik (repubblica federale mondiale).

Questa ipotesi interpretativa è inoltre confermata da un' altra definizione che si ritrova in un'importante nota allo stesso passo kantiano che ora abbiamo esaminato. Lì Kant usa la dizione -se vogliamo, ancora più chiara, anche perché meno concisa: Staatenverein (Republik freier verbündeter Völker), che possiamo rendere letteralmente come unione di stati (repubblica di liberi popoli confederati).40 Sparisce Welt, ma il concetto di pluralità (che può estendersi a totalità) è presente con Verein. A che cosa si riferisca l'unione, è detto qui con maggiore chiarezza che non nella definizione del testo prima commentata: sarà una unione (Verein) di stati (Staaten), i quali ultimi sono subito dopo definiti allorché viene specificato di quali stati si tratti: di liberi popoli confederati (freie verbündete Völker); e frei, liberi, sono quei popoli che si reggono a repubbliche. Sarà quindi una repubblica di repubbliche; ossia, di nuovo e con ancor maggiore chiarezza, una repubblica federale mondiale.


5. La 'Pace perpetua' e la realizzazione graduale di una repubblica federale mondiale

Dobbiamo ora tornare allo scritto politico fondamentale, Per la pace perpetua. Sul nostro problema, quello del sorgere di motivi federalistici, esso potrebbe apparire, ad un primo sguardo, un momento di crisi. E tale esso è stato certamente considerato da molti studiosi del pensiero di Kant, che vi hanno visto il prevalere del realismo sull' ideale di un cosmopolitismo repubblicano apportatore di pace. All'origine di questa interpretazione minimalista del pensiero politico kantiano -che avrebbe proposto, appagandosene, lo strumento della confederazione come unico possibile strumento di pace, anche se parziale- stavano le righe conclusive del secondo articolo definitivo, che parlano del Völkerbund (lì divenuto semplicemente Bund), come soluzione a cui mirare; e tutte le considerazioni, non poche per la verità, che Kant spendeva per porsi nell'ottica dei teorici giusnaturalisti dello jus gentium come jus belli, e mostrare come il postulato di ogni diritto stesse nella dottrina della sovranità degli stati nell'età moderna, i quali stati non potevano, senza contraddirsi, ipotizzare un potere sovrastatuale; potremmo dire: uti superiorem recognescentes. Nella realtà, questo stile argomentativo di Kant, del dare la parola alla tesi avversaria,41 includeva altresì una immedesimazione kantiana nella dottrina dello jus gentium, a tal punto che l'enunciato del secondo articolo definitivo tratta appunto dello jus gentium: laddove la dottrina rigorosamente cosmopolitica viene confinata nella complessa ma forte parte ultima della trattazione, che ipotizza una costituzione repubblicana mondiale con i suoi tre poteri -legislativo, esecutivo, giudiziario-, destinati a dirimere le controversie fra i popoli.42

E' peraltro da notare un particolare che fin qui, salvo errore, non è stato posto in luce (o in luce adeguata) dagli interpreti del pensiero politico del filosofo; e si tratta di un particolare -meglio, di una peculiare costellazione argomentativa- che include i due scritti che ho già designato come contenenti il nucleo essenziale della concezione cosmopolitica repubblicana e federalistica. Si tratta precisamente dell'attuazione di un confronto testuale tra la formulazione del 1793-94 (la Religione, nelle sue due edizioni) e la formulazione conclusiva del secondo articolo definitivo della Pace perpetua, comprensiva della soluzione in thesi e della soluzione in hypothesi). Rivediamole accanto:

Rel, 1793-94: Völkerbund als Weltrepublik

ZeF: 1) positive Idee einer Weltrepublik

2) negatives Surrogat eines Bundes (intendi: Völkerbundes)

Vediamo subito che ciò che era unito nella Religione, Völkerbund als Weltrepublik, si scinde nello scritto politico del 1795 -destinato com'esso era ad una larga diffusione oltre la cerchia dei dotti e ad un'efficacia pratica nel mondo della politica, cioè in mondo intollerante di ogni sogno della ragione e radicato in una prudenza autosufficiente (prudentia, Klugheit); si scinde fra una meta teorica, non negata affatto nella sua realtà oggettiva (objektive Realität), ed una soluzione assai inferiore quanto a garanzia dei diritti degli uomini e della pace che ne consegue, designata coerentemente come "surrogato negativo", ma tuttavia, "perché non tutto debba andar perduto", pur sempre capace di porre al riparo dalla guerra e di arrestare "il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, ma col continuo pericolo della sua rottura".43

Si può dire quindi che Kant ha inteso esporre la soluzione in thesi come soluzione dettata dalla ragione pratica nella sua purezza e nella sua sapienza (Weisheit, sapientia). Egli sa come ragionano i politici empirici, che sono quasi sempre puri e semplici moralisti politici, e respingono irridendole le teorizzazioni della ragion pratica; ed offre una soluzione che può essere accettata da loro: da loro, che, "secondo la loro idea del diritto internazionale, non vogliono affatto questo" (una per loro fantomatica repubblica mondiale), "e rigettano in hypothesi ciò che in thesi è giusto".44 Ed è pensando a loro che si limita a prospettare, appunto in hypothesi, la soluzione confederale del Völkerbund.

Ma Kant considera questa soluzione in hypothesi come una costruzione fragile, esposta al "continuo pericolo della sua rottura", e riafferma il suo giudizio nella stessa argomentazione complessiva dell' art.2. Infatti nella sua filosofia, anche com'egli l'ha esposta in questo testo, c'è la vera soluzione della ragion pura nel suo uso pratico, che va ben al di là della soluzione offerta ai "moralisti politici", e comprende l'intero orizzonte cosmopolitico. E' il caso di tornare su un passo da noi considerato (supra, § 3), e di riportarlo ora nella sua interezza. Si vedrà qui che Kant, illustrando con rigore e con fiducia moderata, ma reale, la soluzione in hypothesi, la espone in tutta la sua possibile estensione pratica. Non si limita a illustrare i pregi di una singola confederazione o di una costellazione di più confederazioni parziali, ma intende portarla all'estrema sua "attuabilità (realtà oggettiva)" (Ausführbarkeit, obiektive Realität), la quale "può essere esibita" (läßt sich darstellen). L'affermazione è rafforzata politicamente, con un esempio contenente una chiara allusione alla rivoluzione francese.


Questa confederazione (Bund) non è rivolta ad un'acquisizione di qualsivoglia potere dello stato, ma soltanto al mantenimento e all'assicurazione della libertà di uno stato per sé e insieme di altri stati confederati (verbündete), senza che questi debbano perciò sottomettersi (come uomini nello stato di natura) a leggi pubbliche e ad una coazione sotto di esse. -L'attuabilità (la realtà oggettiva) di questa idea della confederalità (Föderalität), che deve gradualmente estendersi a tutti gli stati, e così conduce alla pace perpetua, può essere esibita. Infatti se la fortuna permette che un popolo potente e illuminato possa costituirsi in repubblica (che per sua natura dev'essere inclinata alla pace perpetua), allora tale repubblica serve per altri stati da punto centrale dell'unione confederativa (föderative Vereinigung), al fine di unirsi ad essa e così assicurare lo stato di pace secondo l'idea del diritto internazionale ed estendersi sempre più largamente con ulteriori legami di questa specie.45


Come si vede, Kant vuole arrivare ad una confederazione dei popoli di tutta la terra. A quel punto, potranno gli stati ancora dire che non si può attuare il passaggio, che anch'esso "può essere esibito", a poteri sovrastatuali? Ovvero: i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario, con tutte le regole, e le varie gradazioni di sovranità trasmissibile, che avranno mostrato l'esperienza e la ragion pura pratica? Questo è il problema. Già la premessa generale allo scritto del 1793, sul rapporto fra teoria e pratica, richiamava l'attenzione sulla possibilità che il dovere morale sia adempiuto "anche nell'esperienza", e in due modi ben distinti fra loro, "che lo si pensi come compiuto o si pensi il suo compimento come sempre più vicino".46 Anche l'idea di Weltrepublik, sappiamo, ha una sua "realtà oggettiva",47 che finirà per l'imporsi agli stati consociati: a ciò porteranno la maturazione morale dell' umanità, e in subsidium la provvidenza, che farà uso delle stesse inclinazioni degli uomini, anche perverse, perché gli uomini abbiano la libertà, il diritto che le corrisponde, e come conseguenza materiale (attinente alla felicità), la pace perpetua. Teleologia morale e teleologia fisica concorreranno in questo disegno; la provvidenza promoverà e utilizzerà le stesse rivoluzioni, che in sé non sono permesse agli uomini. Il disegno della provvidenza sarà esso stesso un disegno morale e politico: come ci attesta la Religione, quando afferma la coincidenza della condotta morale e della teleologia.48

E' il caso di riflettere su un aspetto solitamente trascurato. La stessa Pace perpetua, in fine alla prima appendice sul rapporto fra morale e politica, dopo aver delineato le figure del politico morale e del moralista politico, acquista un tono più solenne, allorché si rifà alla massima: fiat justitia, pereat mundus, da intendere "come obbligazione dei detentori del potere di non rifiutare a nessuno il suo diritto per avversione o per compassione verso altri"; né si deve temer troppo che il mondo abbia a perire, ove si ricordi la massima, di ispirazione evangelica (Mt, 6, 33), secondo la quale la pace arriverà da sé, ove si persegua "il regno della ragion pura pratica e la sua giustizia".49 Forse non è azzardato vedere in questa condotta il comportamento di una terza figura di uomo politico, che attinga soltanto alla sapienza (sapientia, Weisheit): ovvero, un uomo politico soltanto sapiente, che non si curi nemmeno delle regole della prudenza, e proceda imperterrito secondo giustizia -come il tipo weberiano del Gesinnungspolitiker, ove si ponga, al posto dei valori tra loro in conflitto al modo weberiano, il valore assoluto della morale kantiana. Ebbene, un tale uomo politico dovrà mirare al regno della giustizia, il che comporterà, precisa Kant, "in primo luogo una costituzione interna dello stato stabilita secondo puri princìpi del diritto, ma in seguito anche la costituzione che unifica questo stato con altri stati vicini o anche lontani (analogamente ad uno stato universale), al fine di una composizione legale dei loro conflitti".50 A questa soluzione si potrà giungere gradualmente.

A titolo conclusivo, si possono leggere ora, senza alcuna forzatura ermeneutica, due passi dalla trattazione del diritto pubblico nella Metafisica dei costumi. Il § 61, conclusivo della trattazione dello jus gentium, attuerà un confronto fra la soluzione confederale del Congresso dell'Aja e la soluzion propriamente federale del Congresso degli Stati Americani. Il modello confederale aveva funzionato per buona parte del secolo, ma poi la concordia politica europea che aveva portato ad esso si era affievolita, e le procedure confederali si erano estinte. Il modello propriamente federale degli Stati americani -indissolubile, a differenza del primo- poteva invece, esso solo, portare ad una composizione civile dei conflitti che sorgono fra i popoli e gli stati. Con parole consuete nel suo linguaggio, Kant precisa che solo attraverso il modello americano "può venir realizzata l'idea di un istituendo diritto pubblico dei popoli, per decidere le loro controversie in modo civile, come a dire attraverso un processo, non in modo barbarico (al modo dei selvaggi), cioè attraverso la guerra".51

Per parte sua, la conclusione (Beschluß) dell'intero diritto pubblico rimediterà con importanti notazioni teoretiche il problema della raggiungibilità di una società civile repubblicana su tutta la terra, e lo dirà, da un tal punto di vista, rientrante nell'ambito del giudizio problematico. Ma resterà pur sempre il dovere morale, attuabile attraverso un'approssimazione infinita. "Il repubblicanesimo di tutti gli stati, insieme e in particolare",52 sarà forse la situazione dell'umanità futura: una soluzione analoga a quella degli Stati d'America, secondo i criteri che sapienza e prudenza consiglieranno agli uomini preoccupati, come voleva Kant, insieme della pace e della libertà. Sapienza e prudenza consiglieranno a quale punto la soluzione federale dovrà fermarsi, quanto a divisione della sovranità fra gli stati membri e lo stato federale che tutti li regge, con la sua struttura tripartita dei poteri e con la rappresentanza nel potere legislativo. Non c'era nulla, al tempo di Kant, paragonabile all'attuale Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma è possibile oggi, a chi sia preoccupato insieme del futuro della pace e della libertà, indicare le misure pratiche, che in una "infinita approssimazione" mirino a preservare entrambi questi inscindibili beni dell'umanità.



* Questo testo è stato presentato come relazione al convegno "La filosofia politica di Kant", organizzato dal Seminario perugino per lo studio dei classici. Una sua versione cartacea è inclusa, con molti altri interventi, nel volume degli atti (Aa. Vv., La filosofia politica di Kant, Milano, Angeli, 2001)


Note

1 I. KANT, Zum ewigen Frieden (=ZeF), B 21.

2 I. KANT, Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis (= Gemeinspruch), A 236. Per i passi citati da questo testo, e da Zum ewigen Frieden (ZeF), mi valgo, con alcune modifiche, delle traduzioni italiane di Filippo Gonnelli, in I. KANT, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1999, e, per ZeF, anche di V. Cicero, in I. KANT, Pace perpetua, Rusconi, Milano 1997.

3 I. KANT, Metaphysik der Sitten (= MdS), Rechtslehre, B 196-198 (§ 46), B 45-46 (cito dalla traduzione di G. Vidari, in I. KANT, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1956, con alcune modifiche).

4 ZeF, B 21.

5 Ibidem.

6 MdS, Rechtslehre, B 45-46.

7 ZeF, B 24.

8 ZeF, B 91-92. Vedi anche, infra, in corrispondenza alla nota 20.

9 ZeF, B 26.

10 ZeF, B 23.

11 I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, B 370.

12 ZeF, B 23-24.

13 ZeF, B 21. Durante il dibattito Silvestro Marcucci mi ha fatto notare che nell'ultima fase del suo pensiero Kant ha smorzato la sua convinzione dell'esistenza di abitanti di altri pianeti. Ho perciò eliminato un cenno che avevo fatto in proposito nel testo da me letto, dopo il riferimento kantiano ad eventuali esseri intelligibili esistenti fra l'uomo e Dio. Ma è questo, nell'argomentazione kantiana, il riferimento veramente risolutivo sul piano metafisico. Con tale argomento intendo anche rispondere alle obiezioni e domande rivoltemi da Giuseppe Duso e Filippo Gonnelli in ordine alla mia interpretazione della repubblica kantiana nel senso della democrazia politica dei nostri giorni (caratterizzata dalla tripartizione dei poteri e dal potere legislativo fondato sul suffragio universale). La prospettiva religiosa implicata dalla Pace perpetua si collega alla fondazione politica presente nella Religione: Weltrepublik, allgemeine Republik nach Tugendegesetzen, dovranno pur riunirsi nella perfezione della Reich der Zwecke (dove si potrà dire, secondo le parole dell'Apostolo: “non est Iudaeus neque graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos unus estis in Christo Jesu" [Gal., 3, 28]).

14 A mia conoscenza, la non-menzione delle donne tra i non-cittadini è rilevata soltanto da M. Ch. PIEVATOLO, nel suo libro L'uguaglianza degli invisibili. A ripartire da Kant, Carocci, Roma 1999, pp. 62,67; e in genere nei §§ 2.3 (I confini della ragion pratica: il sentiero liberale), e 2.4 (I confini della ragion pratica: il sentiero cosmopolitico), alle pp. 55-70.

15 ZeF, B 27-28; MdS, Rechtslehre § 51, B 238-239.

16 ZeF, B 25-26.

17 ZeF, B 25-26.

18 ZeF, B 36.

19 ZeF, B 26.

20 ZeF, B 91-92. Ma vedi già supra,in corrispondenza alla nota 8.

21 ZeF, B 26-27.

22 Un luogo particolarmente significativo, in cui si trova questo riferimento allo "spirito del repubblicanesimo" (Geist des Republikanism), si ha nella nota apposta da Kant in calce al § 6 dello scritto Der Streit der philosophischen Fakultät mit der juristischen (seconda parte dello Streit der Fakultäten), A 148. Ma in quel contesto l'affermazione kantiana ha tutto il sapore di una clausola salvatoria di fronte alla censura.

23 ZeF, B 28; vedi anche MdS, Rechtslehre, § 52, B 242 : "unica costituzione conforme al diritto" (einzige rechtmässige Verfassung).

24 Di questo tema tratto in altro studio, di prossima pubblicazione, dal titolo Implicazioni sistematiche dell'idea di repubblica in Kant (nel quale i primi due paragrafi corrispondono ai §§ 1 e 2 del presente testo, e il terzo ha per titolo I rapporti tendenziali tra formae imperii e formae regiminis).

25 Rinvio in proposito al mio studio Il diritto cosmopolitico nel progetto kantiano per la pace perpetua con particolare riferimento al secondo articolo definitivo, in "Studi kantiani", VIII,1995, alle pp. 87-112 (poi compreso in Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998, pp. 41-70). In detto studio, la prima appendice cerca di cogliere il senso unitario del secondo articolo definitivo, scomponendolo e ricomponendolo secondo i vari livelli dell'argomentazione.

26 ZeF, B 30.

27 ZeF, B 36.

28 ZeF, B 37-38.

29 ZeF, B 38. E' ricorrente nella letteratura critica l'argomento dell'energico rifiuto kantiano di uno stato universale, in ragione del suo inevitabile, orribile dispotismo. Ma chi utilizza tale argomento, non considera che Kant manifesta questo timore soltanto quando pensa ad uno stato universale nella sua forma regiminis dispotica (la Universalmonarchie); e quel timore esprime tre volte, salvo errore: Gemeinspruch (1793; A 278-279); Religion, 2. ed. (1794; B 30); ZeF (1795; B 63-65). Ma Kant non manifesta mai quel timore quando pensa alla forma regiminis repubblicana (la Weltrepublik), che pure potrebbe subire, per le passioni e gli errori degli uomini, una involuzione dispotica. Questa circostanza può esser considerata prova di una implicita opzione federalistica, e della fiducia ad essa connessa: implicita innanzitutto nella teorizzazione del systema juris materialiter consideratum, nella sua necessaria tripartizione (jus civitatis, jus gentium, jus cosmopoliticum), che non sarebbe pensabile in una repubblica mondiale unitaria, ma soltanto in una repubblica mondiale federale. Dei luoghi che contengono un federalismo esplicito, parla il presente testo.

30 ZeF, B 34.

31 ZeF, B 36-37.

32 ZeF, B 35-36.

33 ZeF, B 36-37.

34 ZeF, B 38.

35 ZeF, B 30.

36 Rinvio in proposito a quanto ho scritto in Tre studi cit., passim.

37 I. KANT, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (= Rel, B 34-36).

38 Rel, B 31.

39 Ho usato altrove il termine Konföderation (in Kants Idee einer Weltrepublik, in Eros and Eris -Contribution to a hermeneutical Phenomenology- Liber Amicorum for Adriaan Peperzak, a cura di P. van Tongeren et al., Kluwer, Dordrecht 1992, pp. 133-146). E' entrato nell'uso della giurisprudenza costituzionale tedesca, nel senso di confederazione, il termine Verbund (distinto da Bund, riservato al senso di federazione), corrispondente al verbo verbünden, da cui sich verbünden (confederarsi), verbündet (confederato).

40 Rel, B 30. La nota è aggiunta nella seconda edizione (1794).

41 L'esempio più chiaro si ha in Gemeinspruch, A 283.

42 ZeF, B 36.

43 ZeF, B 38.

44 Ibidem.

45 ZeF, B 35-36. Durante il dibattito Corrado Malandrino ha osservato che sarebbe più appropriato tradurre föderative Vereinigung con unione federativa anziché con unione confederativa. Comprendo l'importanza e il fondamento del suo rilievo, anche pensando alle parole successive: “al fine di unirsi ad esse e così assicurare lo stato di pace secondo l'idea del diritto internazionale". Tuttavia, a mio avviso, l'intero passo da me citato, pur con tutta la sua forza, vive ancora nella prospettiva confederale risultante e contrario dalle righe iniziali. La stessa prospettiva confederale, estendendosi e rafforzandosi, diviene sempre più atta al passaggio alla forma repubblicana (all'idea positiva, con tripartizione dei poteri e rappresentanza del legislativo), e al contemporaneo distacco dal surrogato negativo della mera confederazione (Bund). Ma ad un certo punto dovrà pur avvenire una rottura epistemologica, dal piano confederale al piano federale; ed anche la “infinita approssimazione" alla “idea positiva di una Weltrepublik", che comprende una successione infinita di miglioramenti, mai conclusiva, rientra tutta nella fase in cui sia già realizzata (ma giammai adeguatamente!) una forma repubblicana sempre meno imperfetta nella sua approssimazione asintotica.

46 Gemeinspruch, A 205.

47 MdS, B 265.

48 Rel, "Vorrede zur ersten Auflage", B V-X.

49 ZeF, B 90-92.

50 ZeF, B 92-94.

51 MdS, §61, B 258

52 MdS, Rechtslehre, Beschluß, B 264.

tratto da http://bfp.sp.unipi.it/index.htm

nuvolarossa
03-07-06, 09:01
Il patriottismo costituzionale repubblicano

G. E. Rusconi considera come in Italia - a differenza di altri paesi - non si sia affermata nella cultura popolare una radicata tradizione repubblicana. Invece della "morte della patria" sembra ci sia stato piuttosto il mancato sviluppo di una cultura repubblicana. In Italia - osserva Rusconi, ed è difficile dargli torto - la tradizione repubblicana è sempre stata minoritaria, a partire dalle rivoluzioni del 1796-99; nel Risorgimento il repubblicanesimo italiano venne sostanzialmente sconfitto e, nel secondo Ottocento, dovette subire la forte concorrenza del socialismo. Anche presso il fascismo, la tradizione repubblicana - dopo l’iniziale adesione - venne messa da parte, per essere poi superficialmente ripresa nel periodo di Salò. La tradizione repubblicana riprese nel secondo dopoguerra con l’azionismo, sotto la caratterizzazione della "rivoluzione democratica". Secondo Rusconi, l’unico momento repubblicano effettivamente vitale nella storia del nostro paese si ebbe a ridosso della Costituzione, momento che egli descrive come effettivamente carico di pathos. Subito dopo la tematica repubblicana viene messa da parte e la nozione di "patria" venne abbandonata alla propaganda del MSI.

La Resistenza non era riuscita effettivamente a recuperare in toto l'ideale repubblicano: "L’antifascismo militante porta con sé alcuni motivi del repubblicanesimo storico e del suo patriottismo repubblicano; ma le profonde divergenze politico ideologiche al suo interno e le differenti priorità, anche ideali, delle sue componenti partitiche sono troppo profonde per poter svolgere con convinzione quella funzione" (G. E. Rusconi, 1997: 14). Infatti - prosegue l'autore- "Privo di attrazione per le grandi formazioni politico ideologiche popolari di sinistra (che si proclamano orgogliosamente "marxiste") e in latente antagonismo con la cultura cattolica - democristiana, il repubblicanesimo si riduce a identikit ideologico di una modesta parte dello schieramento politico... su questo sfondo si verifica ... l’obsolescenza e la perdita di rilevanza dei motivi repubblicani coincide con la rimozione della tematica della patria /nazione nella cultura politica italiana, che da allora rimane riserva ideologica della destra monarchica e neofascista" (G. E. Rusconi, 1997: 13). Il riferimento dominante delle forze antifasciste non sarà in effetti il repubblicanesimo, bensì il Risorgimento; sarà proprio Giustizia e Libertà a interpretare la resistenza come un Secondo Risorgimento. Il secondo Risorgimento tuttavia si disgregherà e con esso ogni motivo profondamente repubblicano. Conclude l'autore che, al suo parere, "Nessuno dei grandi protagonisti sociali e politici della vicenda 1943 - ‘48 possiede i requisiti culturali e politici in grado di proporre un’idea e una solida pratica democratica che sappia nel contempo ridare vita a una nuova identità nazionale - secondo i criteri di una "nazione civica democratica" che noi oggi esigiamo. Ma facciamo questa constatazione retrospettiva senza alcuna arroganza, perché siamo consapevoli che le premesse per un maturo nesso tra democrazia e nazione sono state poste in quel periodo" (G. E. Rusconi, 1997: 54).

Cosa occorre allora? Rusconi ha il merito di non limitarsi a una diagnosi della situazione storico politica e di tentare una serie di proposte di cambiamento. Sul piano formale l’Italia è stata retta da un patto repubblicano; tuttavia è constatazione diffusa che questo patto non si sia radicato nella coscienza comune; il compito non ancora assolto è dunque quello di riconciliare la forma della democrazia repubblicana (le istituzioni) con il comune modo di sentire, ovvero con la "nazione storica", così come si è venuta costituendo. Se la Costituzione ha rappresentato, nella storia recente, il solo momento effettivamente fondativo, questa va "culturalizzata" ovvero radicata nella cultura comune. La proposta di Rusconi è quella di cercare di favorire lo sviluppo di un rinnovato patriottismo costituzionale - repubblicano, definito in questi termini: "Chiamo patriottismo repubblicano il senso di lealtà e di affetto verso la forma politico - istituzionale democratica del nostro paese: in essa riconosciamo un pezzo importante della nostra stessa identità e l’espressione della comunità cui storicamente apparteniamo - e alla quale vogliamo continuare ad appartenere" (G. E. Rusconi, 1997: 9)

A questo proposito Rusconi si dilunga intorno a tre concetti chiave, capaci a suo parere di ricostruire in un certo senso l'anello mancante tra la cultura dei cittadini e le istituzioni repubblicane:

le virtù repubblicane

la religione civile
il patriottismo espiativo

L’analisi di Rusconi si rifà alle recenti teorie comunitaristiche: in sostanza si ritiene che le istituzioni non possano sussistere di per sé, indipendentemente dalla cultura civica che alberga nella società civile: "Abbiamo una repubblica, ma non abbiamo una cultura repubblicana che sappia ispirare uno schietto affetto per le istituzioni democratiche." (G. E. Rusconi, 1997: 7). Rusconi mette l’accento sull’importanza della consapevolezza storica per l’integrazione della nazione: "consideriamo dunque la nazione democratica come un vincolo di cittadinanza che trae forza dalla memoria riflessiva, ricostruttiva di una storia vissuta insieme, che a un certo punto ha portato alla forma politico - istituzionale repubblicana. Questo processo è considerato fondante (anche se non in modo esclusivo) della identità politica di coloro che vi si riconoscono . La "repubblica" diventa così sinonimo di "nazione dei cittadini" nella loro piena consapevolezza politica." (G. E. Rusconi, 1997: 39).

Non ci si può aspettare tuttavia che la convergenza tra istituzioni formali e cittadini nasca spontaneamente, occorre rielaborare le motivazioni profonde dei cittadini. Egli assegna un ruolo importante agli intellettuali (che egli ha ripetutamente e pubblicamente criticato per il loro tendenziale disimpegno). Afferma infatti: " ...per rispondere a queste attese manca a tutt’oggi un presupposto indispensabile: manca una classe politica e un ceto intellettuale che siano convinti della urgenza dei problemi evocati e soprattutto che abbiano gli strumenti culturali per affrontarli in modo efficace" (G. E. Rusconi, 1997: 33). E ancora: "Di fatto la coscienza nazionale in Italia vive in una condizione di subcultura tra le carenze della educazione scolastica e la latitanza della grande cultura sterile su questa tematica" (G. E. Rusconi, 1997: 34).

In questo senso grande importanza dovrebbero avere gli intellettuali nel ricostruire una memoria storica condivisa. Rusconi giunge ad affermare che esisterebbero nella società civile italiana le risorse civiche su cui basarsi per un risveglio del "patriottismo delle istituzioni" , mancherebbe tuttavia un progetto e una volontà culturale e politica. Commentando i risultati di un sondaggio egli afferma che "Della nazione - Italia esce un’immagine giustamente ambivalente, ma non priva di potenziali di identificazione positiva,. Questi potenziali sono bloccati dal rammarico per gli evidenti difetti del funzionamento del sistema democratico; ma sono frenati soprattutto dall’assenza di un grande progetto politico - culturale che valorizzi in senso civico - democratico il sentirsi parte di una grande storia comune" (G. E. Rusconi, 1997: 35). In sostanza, pur intravvedendo una via d’uscita, Rusconi non manca di segnalare un certo pessimismo, soprattutto nei confronti delle forze politiche e intellettuali odierne.

La prospettiva di Rusconi pone una serie di problemi della massima rilevanza: quali sono i rapporti tra il patto politico originario e la dimensione della società civile? Ci sono casi in cui la forma istituzionale repubblicana è stata calata su una società civile non matura... Nel caso si ritenga rilevante la sussistenza di una dimensione societaria di base, si pone immediatamente il problema se questa dimensione sia inevitabilmente un prodotto storico antropologico (e quindi non facilmente modificabile) oppure se sia un prodotto storico intenzionale di intellettuali o di organizzazioni politiche (e quindi modificabile con relativa facilità, poiché se ne abbia l’intenzione).

tratto da http://www.novecento.org/

nuvolarossa
05-07-06, 18:16
Gli ‘incroci’ del repubblicanesimo
Dialogo fra Franco Melandri e Giampietro “Nico” Berti

Le discussioni, le ricerche e le riflessioni attorno al repubblicanesimo, a quanto lo costituisce e lo contraddistingue dalle altre forme del pensiero politico occidentale così come il peso che esso ha avuto nelle vicende politiche dell’Occidente stesso, sono sempre più vivaci, soprattutto nell’ambito della cultura statunitense. Tutto questo, ovviamente, non vuol dire che l’Europa, e segnatamente l’Italia, sia esclusa da un tale dibattito. Proprio la riflessione teorico-politica italiana, anzi, è chiamata ad un confronto approfondito con tali discussioni e ricerche non solo in virtù della tradizione di pensiero repubblicano che, da Machiavelli a Mazzini, essa ha prodotto, ma soprattutto perché la varietà di proposte teorico-politiche che in Italia si sono sviluppate (dal socialismo al comunismo, dal liberalismo all’anarchismo, dal popolarismo allo stesso repubblicanesimo, mazziniano e no) ha anche dato vita a riflessioni ed esperienze originali -come, ad esempio, quelle di Francesco Saverio Merlino o dei fratelli Rosselli- la cui esplorazione è senza dubbio feconda proprio per la stessa ricerca repubblicana.

Nell’Italia del secondo Ottocento e del primo Novecento, oltretutto, sia lo sviluppo di un movimento anarchico forte socialmente e teoricamente originale, che l’esistenza di un movimento repubblicano, determinante per la storia del paese stesso e altrettanto originale teoricamente, ha fatto sì che il confronto, come anche le osmosi, fra il repubblicanesimo e le altre tradizioni politiche fosse particolarmente approfondito, come alcuni storici e teorici della politica stanno, soprattutto recentemente, mettendo in luce. I rapporti fra repubblicanesimo e anarchismo, come anche i possibili sviluppi che potrebbero nascere da una riflessione che cerchi un’osmosi fra le due tradizioni, sono al centro della conversazione fra Franco Melandri –studioso del pensiero anarchico e libertario e collaboratore delle riviste “Libertaria”, “Una città” e” arcipelago” – con Giampietro 'Nico' Berti, ordinario di Storia Contemporanea all'Università di Padova. Curatore di numerose antologie dedicate al pensiero di teorici dell’anarchismo come Proudhon, Kropotkin, Malatesta, Berti è anche autore di innumerevoli studi e saggi sulla storia e sulle idee del movimento anarchico, fra i quali, in particolare, Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930) (Franco Angeli editore, Milano 1993) ed il fondamentale Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento (Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 1998).

Il dibatto teorico-politico degli ultimi anni ha visto un ritorno in primo piano della questione del repubblicanesimo, ritenuto spesso alternativo sia al liberalismo e al comunitarismo di matrice statunitense, che alle concezione puramente funzionalistiche della democrazia. In queste discussioni non sono pochi coloro il cui approccio al repubblicanesimo appare segnato da venature libertarie, ma, innanzitutto, quali sono i rapporti esistenti fra questa tradizione e quella dell'anarchismo?

Prima di tutto credo che, per focalizzare meglio le questioni, sia opportuno dividere l'aspetto specificamente teorico da quello storico, anche se, ovviamente, nella realtà tali aspetti sono sempre incrociati più o meno strettamente.

Riguardo all'aspetto teorico, che è quanto qui più ci interessa, quel che va subito sottolineato è che il repubblicanesimo, un’idea che attraversa tutta la tradizione del pensiero politico occidentale, si fonda sostanzialmente su un'istanza etico-politica: la virtù civica. Fin dall’antica Grecia, tale virtù è stata vista come la preminenza, nell’ambito della politica, del bene pubblico, del bene della polis, sugli interessi privati o di casta, ed è in funzione di tale virtù che il repubblicanesimo postula la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica della polis stessa.
In questo senso il repubblicanesimo ha certamente una forte valenza democratica, ma essa è implicita, è appunto una valenza, perché non è che, preso di per sé, il repubblicanesimo sia necessariamente democratico. Nella storia, infatti, non sono state poche le repubbliche oligarchiche e non democratiche, basti pensare alla Repubblica di Venezia, a quella di Genova, eccetera. Il fatto che possano esistere delle repubbliche oligarchiche ci pone di fronte ad un altro tratto distintivo del repubblicanesimo, un tratto che lo distingue radicalmente dall'idea monarchica, e cioè il fatto che il repubblicanesimo, proprio in forza della preminenza data alla virtù, non ammette che ci possa essere un potere che discenda per via di sangue, quindi che ci sia un potere trasmesso in senso dinastico. Questo è l'aspetto fondamentale che, nel Seicento o nel Settecento, differenziava la Repubblica di Venezia, di Lucca, di Genova e così via, da uno stato monarchico. In esse, infatti, sicuramente non c’era più democrazia di quella esistente nella maggioranza dei regni europei, ma certo c'era una maggior certezza del diritto e soprattutto vigeva il fondamentale principio per cui il potere non è dato una volta per tutte a qualcuno, cioè, appunto, che il potere non discende per via dinastica, di sangue.

Anche il principio per cui non è ammissibile che ci sia qualcuno che possa star sopra gli altri per diritto di sangue ha certo un'implicita valenza democratica e non a caso è questo principio che, con la rivoluzione francese, porta alla coincidenza fra repubblica e democrazia e alla nascita dell'idea repubblicana moderna, secondo la quale la repubblica è il veicolo del principio democratico. Questa coincidenza a sua volta mette in luce la radicale differenza esistente fra il repubblicanesimo e il liberalismo. Se il principio democratico, cioè l’autogoverno del popolo, può essere fatto valere realmente solo attraverso la repubblica, vuol dire che in un ordinamento monarchico questo autogoverno è compiutamente impossibile ed infatti quel che in una monarchia può essere fatto valere è solo il principio liberale, cioè il principio del controllo più o meno allargato del potere dato storicamente, la qual cosa significa che si può avere una monarchia costituzionale, ma non si può avere mai, per principio, una monarchia realmente democratica. Da tutto questo emerge che, implicitamente, nella sua valenza radicale, l'idea repubblicana veicola non solo la democrazia, ma anche un egualitarismo di fondo. E’ su questo piano, così come nella preminenza del fattore etico sul potere, che il repubblicanesimo e l'anarchismo sono vicini. Questa vicinanza è sicuramente uno dei motivi che favorirono, all’epoca della Prima Internazionale (che, non va dimenticato, ebbe fra i fondatori anche società operaie direttamente ispirate da Giuseppe Mazzini), il passaggio dal repubblicanesimo all’anarchismo. Quasi tutto l'internazionalismo italiano, e certo quasi tutto il primo anarchismo italiano, infatti, ha avuto un’origine mazziniana, lo stesso Errico Malatesta, il più grande fra gli anarchici italiani e uno degli esponenti più importanti dell’anarchismo in quanto tale, proveniva dalle file mazziniane.
Tornando comunque alla teoria del repubblicanesimo, va anche sottolineato che la preminenza attribuita al fattore etico -che, come ho detto, è fondamentale anche nella tradizione anarchica- comporta il fatto che il repubblicanesimo non si basi su una concezione empirica della realtà. Le concezioni empiriche della realtà, quale sono quella liberale, sono concezioni che ‘vengono a patti col mondo’, cioè concezioni che danno per scontato che i problemi del mondo (ineguaglianze, ingiustizie, differenti capacità e possibilità di partecipazione alla vita pubblica) non possono essere radicalmente risolti e quindi devono essere almeno in parte accettati, mentre le concezioni politiche fondate su dei principi metastorici -come appunto repubblicanesimo e anarchismo- manifestano una ‘indisponibilità’ di fondo a tale accettazione, una ‘indisponibilità’ da cui poi origina la figura del repubblicano come figura paradigmatica dell'integrità etico-civile.

Tutto questo significa anche che l’idea repubblicana -come anche l’idea anarchica- dà l’impressione, di una maggior astrattezza di quella liberale. Per rendersene conto basta confrontare il repubblicanesimo di Mazzini, il suo rigore, con il liberalismo di Cavour, che era un maestro della mediazione, del compromesso. Come ho già detto, il liberalismo è originariamente fondato sulla mediazione, in un certo senso è la ricerca del meno peggio, è la ricerca del costante controllo sugli effetti del potere e sul potere stessoo. Il liberale vero, cioè, cerca di ridurre il potere a partire dalla constatazione empirica dei problemi che esso pone, ma non ha, di per sé, alcun principio fondamentale al di fuori di quello della divisione dei poteri, mentre, invece, il repubblicano ha principi etico-politici che ritiene debbano essere comunque salvaguardati.

In questo senso il repubblicanesimo mantiene una radice filosofica fortemente aristotelica: l’essere umano è cioè visto essenzialmente come zoon politikon e lo scopo della politica è soprattutto la ricerca del bene collettivo…

Certamente questa è la radice dell'idea che la vita pubblica sia sostanzialmente partecipazione civile e che il bene pubblico sia identificabile con la virtù. Proviamo a pensare alla tradizione repubblicano-democratica nella rivoluzione francese, al giacobinismo. Cos’è il giacobinismo se non esaltazione della virtù? Anche il fanatismo rivoluzionario giacobino ha alla sua origine la riscoperta del repubblicanesimo antico che, a fronte della corruzione dell’ancien regime, si traduce in una visione del mondo, e della vita pubblica, austera, severa, intransigente.

Detto questo va tuttavia riconosciuto che, sul piano storico-politico, il repubblicanesimo ha spessissimo finito col mediarsi con la concezione liberale e democratica, mentre si è mediato molto meno con la concezione socialista ed è in questo sviluppo che avviene il distacco fra la tradizione repubblicana e l’anarchismo. Dicevo prima che in Italia, ma anche in Spagna, l’internazionalismo socialista e l’anarchismo nascono essenzialmente dalla matrice repubblicana, ma questo non toglie che, fin dal loro sorgere, anarchismo e internazionalismo siano profondamente e ineludibilmente legati alla componente socialista, che è essenzialmente ‘storicistica’. Tale concezione parte dalla constatazione che c’è un processo storico fondato sulla lotta di classe e ritiene che occorra inserirsi in esso per potervi fare fronte e ‘risolverlo’, mentre la tradizione repubblicana, anche in virtù dei presupposti di cui parlavamo prima, vede il processo storico fondato non tanto sulla lotta di classe, ma sull'idea che le nazioni, i popoli, hanno delle missioni storico-epocali che vanno assolte. E’ su questa base che il repubblicanesimo e l’anarchismo si divaricano profondamente, una divaricazione resa evidentissima dal giudizio radicalmente contrastante dato sull’esperienza della Comune di Parigi. Mentre infatti i repubblicani, in particolare Mazzini, videro nella Comune il tradimento dell’idea nazionale francese fatta in nome della lotta di classe, un tradimento che aveva contribuito alla vittoria del kaiserismo prussiano, gli anarchici, Bakunin innanzitutto, videro nella Comune il primo tentativo di un nuovo ordine, un ordine che andava al di là della questione nazionale, considerata secondaria rispetto alla questione sociale. Da questo punto in poi gli anarchici accuseranno i repubblicani di far costitutivamente parte di quel mondo borghese che essi invece rifiutano, e l'anarchismo sposerà decisamente le cause del socialismo, anche se nella concezione socialista dell’anarchismo permarranno sempre le impronte metaetiche, metastoriche, metapolitiche che lo apparentano al repubblicanesimo.

Ma anche nel socialismo stesso -a parte ovviamente il marxismo, in cui l'impronta storicistica è, forse, predominante- non c'è una profonda matrice repubblicana? Penso a Rousseau, a certi teorici dell’illuminismo…

Nel nostro socialismo, cioè nel socialismo italiano, più che la matrice repubblicana, ad essere determinante è la radice democratica in senso stretto e questo proprio per l’influenza storicistica cui accennavo prima. Questo non toglie che, se noi prendiamo come punto focale il problema della sovranità, il principio democratico -per cui la sovranità deve appartenere al popolo nel suo complesso- accomuni certamente repubblicanesimo e socialismo, distanziando ambedue dal liberalismo, per il quale, almeno in prima battuta, il problema della sovranità non si pone, ponendosi invece, come dicevo, il problema di come limitare il potere della sovranità data, legittimata storicamente, ed al liberale importa relativamente poco che tale potere sovrano sia di fonte popolare o sia di altra fonte, monarchica o oligarchica.
Rispetto alla questione della sovranità, l’anarchismo ha invece una posizione del tutto particolare, perché, da una parte, ha la stessa preoccupazione del liberalismo di limitare ogni possibile fonte di potere, sino ad arrivare ad affermare l’abolizione di ogni potere, ma, dall’altra parte, sta, almeno in un certo senso, anche con la democrazia e il repubblicanesimo, poiché ritiene che tutti debba poter partecipare alla vita della polis. Infatti, alla domanda fondamentale sulla sovranità, cioè “Chi deve comandare?”, il repubblicanesimo e la democrazia rispondono “Il popolo!”, mentre l’anarchismo risponde ”Tutti! O ogni singolo individuo per sé!”, la qual cosa per un verso è l’estremizzazione dell’idea della sovranità popolare, per cui ‘il popolo’ sono veramente tutti, mentre, per un altro verso, è una risposta irriducibile all’idea di sovranità popolare ed è una sorta di ‘esplosione’ della stessa idea di sovranità.

In effetti, l'anarchismo fa un ‘salto di qualità’ nel senso che, negando il fatto che la sovranità possa risiedere in un qualche ambito specifico, per quanto allargato, di fatto finisce per negare l’idea stessa di sovranità e quindi nega che possa e debba esistere un ambito politico specifico, mentre il repubblicanesimo, per quanto possa essere interpretato libertariamente, continua a pensare che un ambito politico in quanto tale debba comunque persistere…

E’ così, ed infatti proprio questo è il piano in cui repubblicanesimo e anarchismo si rivelano irriducibili l’uno all’altro. Ma se sul piano teorico questa è la differenziazione fondamentale, non va dimenticato che, sul piano storico-politico, le differenze aumentano, perché il repubblicanesimo non è mai arrivato ad affermare la necessità dell'abolizione delle classi e della proprietà privata, come invece l’anarchismo ha fatto e fa. Nell’anarchismo la dimensione socialista, come dicevo prima, è fondante, mentre nel repubblicanesimo, anche in quello più sensibile e attento alla questione sociale, tale dimensione comunque manca o è del tutto trascurabile.

Quello che dici, però, tralascia due questioni fondamentali. La prima è che, nella tradizione dell’anarchismo americano -una tradizione in gran parte autonoma da quella dell’anarchismo europeo e che in Europa non solo è poco nota, ma quasi sempre anche malissimo interpretata- la necessità dell’abolizione della proprietà privata è contestata (in tale anarchismo, anzi, la proprietà privata viene proudhonianamente vista come una delle basi irrinunciabili della libertà), mentre in alcune teorizzazioni del repubblicanesimo -fatte, anche recentemente, soprattutto negli Stati Uniti- tale dimensione sociale è implicita. Penso, in questo senso, all’idea repubblicana della libertà come ‘non dominio’. Tale idea di libertà va oltre all’idea hobbesiana, ma anche del liberalismo classico, della ‘libertà negativa’ e postula una diminuzione delle differenze sociali, una lotta ai monopoli, un favorire l'associazionismo, tutti aspetti che certo non sono estranei ad una sensibilità rispetto alla questione sociale. Non va poi dimenticato che tale sensibilità era presente anche nel repubblicanesimo di Mazzini, il quale, come accennavi prima, favorì la nascita delle società operaie...

Quello che dici, rispetto all’anarchismo americano, è vero, ma è anche vero che l’anarchismo ‘classico’ -cioè l’anarchismo di matrice europea che si rifà a Bakunin, Kropotkin, Malatesta, tanto per fare dei nomi- non ha spesso considerato l’anarchismo americano -cioè l’anarchismo dei Benjamin Tucker, dei Josiah Warren- un anarchismo in senso proprio, ma una forma molto radicale di liberalismo. In questo senso il dibattito, iniziato già a fine Ottocento, è ancora aperto e, anche nella stampa anarchica italiana, molto vivace. Tutto questo per dire che, ovviamente, quando io parlo di anarchismo mi riferisco all’anarchismo ‘classico’, che non solo è di fatto quello più importante sul piano storico e sociale, ma che, secondo me, è soprattutto anche quello che, speculativamente, è andato più a fondo nella riflessione.

Allora, l'anarchismo classico si fonda sull'idea di abolire le classi e abolire lo Stato e su questo piano il repubblicanesimo non può che divergere dall’anarchismo. Certo ci sono stati i Giovanni Bovio, cioè repubblicani storici che guardavano all’anarchismo, ma -a parte che la famosa frase di Bovio "Anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia” è alquanto discutibile, per non dire del tutto sbagliata proprio da un punto di vista anarchico- il repubblicanesimo non crede che sia possibile arrivare ad abolire il potere, in fondo non si pone nemmeno il problema perché il repubblicanesimo pensa ad un potere partecipato, che è una cosa completamente diversa dall’abolizione del potere.

E' chiaro che poi si può affermare che il potere partecipato, universalizzato, che la democrazia universalizzata, non sono altro che l'anarchia, ma qui si va in un altro campo ancora, ed è il campo teorico che ha cercato di delineare Francesco Saverio Merlino. Merlino sosteneva infatti che l’estensione universale della democrazia corrispondeva di fatto all'anarchia, perché pensava che la partecipazione di tutti a tutto fosse di fatto un’abolizione del potere come ambito separato, ma in realtà le due cose non coincidono. La differenza sta nel fatto che un conto è dire che, come fanno gli anarchici, non ci deve essere un principio informatore, un arché, quindi un potere, che informi la società e un conto è dire, invece, che questo principio è irrinunciabile, che non è possibile fare senza, anche se tale principio e potere deve essere universalmente partecipato. Fra le due impostazioni c'è una differenza abissale e, credo, inconciliabile.

Per comprendere a fondo tale inconciliabilità bisogna sempre tener presente che l'anarchismo ha una matrice hegeliana, una matrice che non può togliersi e senza il quale non è probabilmente pensabile. La matrice hegeliana, dell'hegelismo di sinistra, determinante per l’anarchismo, è dovuta al fatto che esso è innanzitutto una teoria negativa, è cioè una teoria che parte da una negazione, la negazione del principio di autorità, e che solo in seconda battuta fa delle proposte in positivo, proproste positive che, però, sono inscindibili dal presupposto negativo.
Questa matrice negativa, la negazione del principio di autorità, l’anarchismo, almeno quello storicamente dato, non se la può togliere, è la sua origine, ed è completamente diverso dal dire, come poi farà Merlino, che se facciamo sì che il potere, l’autorità, sia universalmente partecipata in effetti, di fatto, esso scompare. La differenza sta proprio nell’assunto filosofico fondante.

Pensare ad un potere universalmente partecipato innanzitutto significa che si accetta che la società abbia un principio informatore e che, quindi, la società abbia un potere, qualunque sia la forma che esso può prendere, ma queste, come ho detto, sono le cose che l’anarchismo rifiuta appunto per principio, come motivo fondante. L’anarchismo, partendo da un tale rifiuto, non può pensare né ad un principio fondante né ad un potere, per quanto partecipato, al massimo può arrivare a pensare ad una situazione dinamica per cui, a fronte di ogni ambito di normazione, anche il più informale e condiviso, ci sia sempre non solo la possibilità di non partecipare, ma anche la possibilità di appellarsi ad un principio ‘altro’, quindi di fare diversamente. Dall’altra parte non si può non notare anche il fatto che un principio ed un potere partecipati al massimo designano il totalitarismo perfetto, perché, in un caso del genere, all'interno della società non rimarrebbe nessuno spazio per chi, per fare un esempio, dice "A me non interessa partecipare alla decisione se la ferrovia tra Bassano e Padova debba passare per Castelfranco, a me non interessa partecipare e non voglio partecipare".
Questa attenzione allo spazio per chi rifiuta, fondante nell’anarchismo, non ha a che fare con la tradizione repubblicana e democratica, ha a che fare con la tradizione liberale. Pensiamo, a questo proposito, alla ‘libertà degli antichi’ e alla ‘libertà dei moderni’ come le tratteggia Benjamin Constant. La libertà degli antichi dice che tu devi partecipare, la tradizione liberale contemporanea, invece, dice che tu puoi partecipare o non partecipare, dipende dalla tua volontà, dai tuoi desideri. Considerando tutto questo è certo possibile che un pensiero come quello di Merlino sia vicino al repubblicanesimo, mentre l’anarchismo, nella sua essenza, rimane irriducibile ad esso.

Ma il potere, almeno nella forma in cui lo pensa il repubblicanesimo, non è soprattutto una forma di relazione e non un principio fondante assoluto? Anche riguardo a Merlino, la sua concezione di una democrazia ‘universalizzata’ non è, prima e più che un'istituzione, soprattutto una forma allargata e, appunto, condivisa, di relazione?

Francamente, detto così, non si capisce bene che cosa sia ‘relazione’ e cosa sia ‘istituzione’

‘Istituzione’, nel senso in cui ne ho parlato, è l'assoluta autonomizzazione di uno spazio dalle relazioni che questa stessa istituzioni va a normare, mentre, invece, ‘potere come relazione’ intende indicare uno spazio che, come può essere lo spazio politico, certo non è del tutto riconducibile allo spazio sociale che norma, tuttavia la separazione di tale spazio dal sociale avviene all'interno di una relazione diretta, partecipata, col sociale stesso. Per cercare di mostrare la differenza con due immagini: nel primo caso il potere è come una sorta di ganglio esterno che si attacca a un corpo -è, simbolicamente, la classica rappresentazione del potere del governo e dello stato: il polipo o il cancro-, nel secondo caso, invece, il potere è una funzione particolare di un più grande organismo. Proprio perché tale, proprio perché funzione particolare, essa non è riducibile all’insieme, ma rimane comunque strettamente legata ad esso, ne è appunto funzione...

Mi sembra che questa seconda ipotesi, senz’altro tendenzialmente ‘merliniana’, non sia, alla fin fine, altro che un'idea radicale della democrazia, niente di più che un'idea radicale della democrazia, la quale, fra l’altro, riporta la questione sulla differenza fra la concezione democratico-repubblicana e la concezione liberale della libertà. Sono due concezioni che, una volta poste in relazione, hanno implicito una sorta di corto circuito che, secondo me, viene messo bene in mostra dalla Costituzione italiana. Dicevo prima che, per il liberale, quel che importa non è tanto chi comanda, ma che chi comanda dia certe garanzie indiscutibili ed infatti, coerentemente con questo principio, nella Costituzione italiana, ad esempio, la pena di morta viene esclusa. Nella stessa Costituzione è però previsto un articolo che salvaguarda il principio democratico, per cui la Costituzione stessa può essere cambiata dalla maggioranza dei cittadini. In questo senso il problema rimane sempre quello di contemperare le due libertà, la libertà ‘negativa’, cioè la ‘libertà da’, che è tipicamente la libertà liberale, e la ‘libertà positiva’, cioè la ‘libertà di’, che è la libertà del repubblicanesimo, della democrazia e anche del socialismo. Tornando a quello che dicevi prima sulla teorizzazione repubblicana contemporanea della ‘terza libertà’, cioè la libertà come ‘non dominio’ a me pare che anch’essa sia in fondo riconducibile alla libertà negativa nel senso in cui ne parlava Isaiah Berlin, ma anche nel senso in cui ne parlava Hobbes.
I repubblicani contemporanei, tuttavia, sostengono che, in realtà, le due libertà non esauriscono la libertà stessa e la ‘terza libertà’ rappresenterebbe appunto una nuova concezione della libertà stessa. Un esempio che fanno per spiegare la loro concezione della ‘terza libertà’, della libertà come non-dominio, parte dall’esempio del servo del padrone compiacente. Il servo del padrone compiacente, che cioè non pretende di decidere della vita del servitore al di fuori dell’orario di lavoro previsto, vive sicuramente in una condizione di libertà negativa, ma questa condizione non toglie che il servo rimanga comunque su un piano di inferiorità rispetto al padrone, che non abbia la sua stessa capacità e possibilità di incidere sulle cose e così via.

A questo problema la democrazia risponde con la libertà positiva, ma a questa il repubblicanesimo contemporaneo obietta che certo essa corre il rischio di diventare, come dicevi tu prima, una forma di totalitarismo, un obbligo a partecipare. A fronte di questi due problemi, dicono i repubblicani, ecco che diventa necessaria una terza accezione di libertà, che è appunto la libertà come non-dominio, in cui, da una parte, certo ci sono degli spazi garantiti da ogni ingerenza, come nella libertà negativa, mentre, dall'altra parte, c'è però anche tutto un insieme di norme, di relazioni, per cui non esiste una differenza data una volta per tutte, spazi in virtù dei quali il servo non necessariamente sarà sempre servo e comunque può ‘guardare il padrone negli occhi’. La libertà come non-dominio, insomma, è una libertà che certo difende gli spazi individuali dalle ingerenze indebite, ma anche favorisce, senza che questo diventi di fatto un obbligo, le norme che portano a una maggior partecipazione sociale della gente, a una maggior liberazione dei singoli e delle associazioni.

In questo senso, per fare un esempio, la norma per cui tutti devono andare a scuola può essere interpretata, alla luce della libertà negativa, come una ingerenza indebita, ma in realtà, dicono i repubblicani, è una norma che favorisce la libertà, perché andare a scuola, l’istruzione, favorisce il fatto che il singolo, se lo vuole, sia poi in grado di decidere maggiormente di sé e di partecipare alle decisioni collettive con capacità e cognizione di causa. In questa concezione della libertà, fra l’altro, a me sembra che i punti di contatto con la concezione anarchica della libertà siano non certo pochi…

Certo la libertà anarchica non è solo negativa. La libertà negativa è la libertà liberale, è la libertà che dice "libertà di stampa", ma poi non si preoccupa che tu abbia la possibilità di stampare e diffondere il tuo giornale, mentre la libertà positiva -che è l’idea di libertà fatta propria anche dal socialismo- è quella che afferma che tu devi avere la possibilità reale di farlo, e si preoccupa di rendere operativa tale possibilità, la qual cosa implica che il potere politico debba assumersi il compito di trovare le risorse materiali per soddisfare questa tua libertà positiva. A me pare che in questo attribuire al potere politico dei compiti affermativi sia già implicito il rischio del totalitarismo, perché le risorse disponibili sono comunque limitate e quindi il potere politico è chiamato a decidere cosa deve essere stampato e cosa no, per cui, per fare un esempio, esso potrà decidere che deve essere stampata a La divina Commedia, ma se io, invece, voglio avere Topolino? All’opposto, se le risorse fossero illimitate, tutti potrebbero stampare tutto, ma questo sarebbe il parossismo: tutti avrebbero il diritto di fare il Corriere della sera…

Anche senza arrivare ai paradossi, questa concezione della libertà ‘attiva’ si pone comunque sul filo del rasoio perché stabilire che il potere politico deve favorire la partecipazione attiva dei cittadini vuol dire che fargli assumere la responsabilità di distribuire le risorse pubbliche, che derivano dalle tasse di tutti, a dei singoli individui, e allora in base a quale criterio tale potere deve decidere di dare risorse a Berlusconi invece che a Berti o viceversa?

A me sembra che su questo terreno abbiano ragione i liberali: c’è una valenza totalitaria nel ceppo democratico. Tale valenza risiede nel fatto che, se tu vuoi estendere a tutti le "libertà positive", significa che devi dare al potere politico il compito di trovare le risorse materiali per soddisfare tali libertà positive, e questo comporta una crescita continua del potere politico stesso. Mentre, invece, nella classica concezione liberale, una volta tolti di mezzo gli ostacoli, cioè una volta affermata la libertà negativa, tutte le questioni vengono demandate al libero gioco delle forze presenti nella società civile. Nella concezione liberale la società politica è una cosa del tutto staccata dalla società civile, per cui quello che la società politica può dire è solo "libertà di stampa", dopodiché, se tu vuoi fare un giornale, le risorse le devi trovare nella società civile, non le puoi trovare nella società politica...
Per la concezioni liberale la società politica può solo dare ai singoli cittadini dei principi generali di comportamento -dei principi che, in linea di massima siano kantianamente universali o universalizzabili-, ma non può e non deve dare loro delle risorse pubbliche per fini particolari.

Tutto questo ovviamente non toglie che tutta una serie di libertà positive, di libertà in senso repubblicano, democratico, socialista, siano giustissime, si tratta però di vedere in che senso possono avere una valenza che non coinvolga tutta la società politica, che non la obblighi ad assumersi compiti che non siano effettivamente universali.
Su questo piano va sottolineato che tutti quelli che oggi noi riteniamo diritti delle persone sono in realtà diritti storici. Cento anni fa neanche gli anarchici riconoscevano certi diritti alle donne, oggi invece siamo arrivati ad una sensibilità per cui negare i diritti delle donne viene considerato assurdo. Oggi abbiamo una sensibilità ecologica, addirittura si discute se riconoscere o no certi diritti agli animali, e questo succede perché la visione di quanto viene considerato ‘diritto’ cambia nel tempo e, cambiando la visione storica dei diritti, cambia anche il rapporto che noi abbiamo con le risorse materiali necessarie all’affermazione dei diritti positivi. Però, attenzione, perché comunque tutto questo, come ho detto, proprio perché innervato da una valenza fortemente democratica, si muove su un crinale pericoloso, che è quello per cui certe volte può essere possibile che si limiti una libertà individuale in nome di una libertà pubblica mitica…

Ma tutti questi problemi non sono anche i problemi che la concezione anarchica della libertà ha in sé?

Certamente ed è proprio partendo da questo grumo di problemi che Merlino ha attuato la sua riflessione. Il punto critico della discussione centrale del famoso dibattito Malatesta-Merlino, che è il fondamentale dibattito attraverso cui il pensiero merliniano si precisa e si stacca dall’anarchismo, è esattamente quello che stiamo dibattendo noi e cioè cosa fare nel caso di bisogni, o libertà positive, diverse, quindi come risolvere le controversie. Nella discussione fra i due gli esempi esplicativi vengono fatti prendendo ad esempio le ferrovie e Malatesta vorrebbe risolvere i disaccordi eventualmente sorti sulla decisione circa il tracciato delle ferrovie stesse dando a tutti risorse perché ognuno possa fare la linea dove crede oppure, laddove le risorse siano insufficienti, perché la minoranza venga convinta della bontà dell’ipotesi della maggioranza, o viceversa, non facendo in genere nulla finché una sostanziale unanimità non sia stata raggiunta. A questa idea Merlino fa l’obiezione -che è dello stesso tipo di quella che facevo prima parlando del Corriere della sera- che non è possibile, in un territorio dato, fare cinque, o ottanta o ottocento, linee ferroviarie diverse. Al massimo, dice Merlino, sarà possibile farne due o tre, ma non tutte quelle che eventualmente possono essere proposte e quindi, alla fin fine, è comunque una maggioranza quella che finisce per decidere. A questa obiezione anche Malatesta non sa cosa rispondere e alla fine di fatto conviene che è giusto, è necessario, è ragionevole, che sia la maggioranza a decidere dove fare la linea. Attenzione però: in questo dibattito il problema fondamentale non è tanto il problema della legittimazione o meno maggioranza a decidere per tutti, che è un problema tipicamente democratico, è il problema delle risorse ad essere fondamentale, quello che cioè viene messo in luce è che, al suo fondo e prima di ogni altra questione, il problema della libertà è strettamente collegato a quello delle risorse. Perché, infatti, regge l'obiezione di Merlino? Regge perché, al di là del principio scelto, comunque, in qualsiasi società, anche in quella anarchica, le risorse saranno comunque limitate ed è questa limitatezza ad importi certe scelte e non altre. Se le risorse fossero infinite, ogni opinione potrebbe essere realizzata, si potrebbero fare mille linee ferroviarie...
Il punto fondamentale di ogni teoria politica è proprio questo: come rapportarsi alla limitatezza delle risorse. Il problema è il rapporto tra il potere cosiddetto politico, pubblico, le risorse materiali e le opinioni individuali: il potere pubblico è il potere di tutti, le risorse materiali sono oggettive, tendenzialmente limitate e le opinioni sono tante. Allora come può il potere politico soddisfare domande diversificate in base a una limitata disponibilità di risorse materiali? A questo problema il liberalismo dà una risposta che è apparentemente semplice, ma che, in realtà, è forse l’unica risposta possibile: dati alcuni principi fondamentali, validi per tutti, ogni opinione dovrà trovare le risorse per realizzare quello che vuole.
Nella concezione liberale, però, c'è un problema di fondo ed è che essa di fatto mette fra parentesi la capacità degli esseri umani di dialogare fra di loro, di influenzarsi. In sostanza il liberalismo pensa all’essere umano come ad un essere ontologicamente dato, definito e completo, ma non è detto che in realtà questa sia la sua ‘natura’, è forse più probabile che nell’essere umano sia fondamentale il suo essere zoon politikon, la qual cosa renderebbe, se non più plausibile, certo meno assurda, almeno in linea generale, l’idea di Malatesta…

Ho detto che Malatesta, alla fine, è costretto a convenire con Merlino, ma questo non vuol dire che abbia tutti i torti. Giustamente diceva che, una volta tolto il grosso delle disuguaglianze sociali, anche la diversità di opinione sarebbero probabilmente meno dirompenti, meno significative. In questo era del tutto coerente con l’anarchismo, per il quale, certo ci saranno sempre delle differenze fra le opinioni, ma queste saranno generalmente più contemperabili e conciliabili di quanto lo siano le differenze dovute all’esistenza delle classi e al fatto che vi è chi governa e chi è governato.

Questa concezione dell’uomo come zoon politikon, però, rimanda ancora una volta alle consonanze fra anarchismo e repubblicanesimo e alla loro distanza dal liberalismo. La concezione liberale, in base ad un’antropologia ontologicamente individualistica alla fine finisce per basarsi solo sulla forza della pura opinione numerica -che fra l’altro mi pare sia quanto di più anti-individualistico sia pensabile- così come finisce per non far diminuire l’autoritarismo sociale. A tutto questo si aggiunga poi che la logica liberale, come dimostrano le degenerazioni dei sistemi liberali vigenti, nen riesce neppure a selezionare le élites migliori, ma le peggiori. All’opposto, il pensare che quel che l’essere umano è non sia un ‘qualcosa’ dato in sé, ma dipenda dal suo essere costitutivamente ‘relazione’, sta forse il nocciolo di un’idea ‘pratica’ di libertà che possa andare al di là della libertà liberale, salvaguardandone però l’attenzione alla limitazione di ogni possibile fonte di potere. Infatti, pensare che l’essere umano sia costitutivamente ‘relazione’ non vuol dire solo che ognuno ha la capacità di relazionarsi con gli altri in un ambito sociale e civile, ma soprattutto vuol dire che l’essere umano come tale ‘sta’ nella parola, cioè che il linguaggio -che è costitutivamente relazione, che è in sé dialogico e capace di trasformazione- è l’ethos originario e ineludibile dell’essere umano. In questo senso penso alla formula arendtiana “libertà della politica, ma anche libertà dalla politica” come ad una indicazione di ricerca che, da una parte, salvaguarda dal pericolo totalitario insito nella democrazia, ma, dall’altra parte, anche postula un ambito politico che non sia pura rappresentanza, e quindi scontro, di interessi. Per buttare là delle suggestioni, tale ambito politico potrebbe essere inteso come forma specifica della relazionalità sociale, e quindi potrebbe avere innanzitutto la funzione della rappresentazione, cioè del rendere evidente non solo il significato e le conseguenze dei diversi modi di vedere il mondo, ma soprattutto quello di mantenere costantemente aperto se stesso come spazio dialogico, uno spazio che, in tal modo, da una parte ‘aprirebbe’ alla perseguibilità delle diverse libertà private e collettive, mentre, dall’altra parte, esso sarebbe di bastione contro ogni tentativo totalitario, di per sé impedendo che, ad esempio, con una procedura democraticamente ineccepibile, si possano abolire le libertà fondamentali, come invece storicamente è accaduto nelle democrazie liberali e rappresentative. Uno spazio politico inteso in questo senso sarebbe come una sorta di ‘costituente’ sempre in atto…

Sì, queste consonanze che cercano d'individuare quelle zone di ‘operatività pubblica’, chiamiamole così, che hanno una forte valenza egualitaria e libertaria senza dubbio ci sono, così come è senz’altro necessario ripensare non solo le funzioni, ma la stessa natura dello spazio politico, ma, detto questo, bisogna stare attenti sia a non esagerare né la portata e il significato di queste stesse consonanze, né a pensare che lo spazio politico possa configurarsi secondo i nostri desideri. Dei tentativi di elaborazione di una diversa visione della politica, pensiamo al Proudhon de Il principio federativo, ci sono stati anche in passato. Ma attenzione, perché quando Proudhon, nel 1863, scrive questo libro è già lontano dall’anarchismo, perlomeno dall’anarchismo che sta prendendo forma soprattutto ad opera di Bakunin e dei suoi sodali. Il Proudhon de Il principio federativo parla di Stato, parla di repubblica, e cerca sostanzialmente, almeno secondo me, di dare forma ad un repubblicanesimo libertario. Come ho detto fin dall’inizio, posso capire che ci siano dei tentativi di collegare tradizione repubblicana e tradizione libertaria, ripeto ancora che alcuni elementi di fondo comuni ci sono, ma non penso che le due tradizioni possano essere fuse in qualche modo perché, oltre agli elementi comuni, ce ne sono tanti che le differenziano radicalmente proprio sul piano dei principi fondanti. L’anarchismo è rivoluzionario e socialista, il repubblicanesimo può anche essere rivoluzionario, ma non può essere socialista. Per l'anarchismo europeo l'idea dell’abolizione delle classi è fondante, per il repubblicanesimo no. Certo negli elementi accomunanti le due tradizioni c'è anche un influsso del romanticismo, che per ambedue si traduce nell’idea che è dal basso, dal profondo del popolo, che viene continuamente la linfa vitale che porta alle forme politiche, ma anche questo influsso si traduce in spinte del tutto opposte: per il repubblicanesimo questa spinta implica una nuova politica, per l’anarchismo implica un rifiuto della politica che si traduce nella volontà di abolirla.
Non è pensabile un anarchismo che, in qualche modo, faccia i conti con la dimensione della politica?

Io sono vent'anni che dico che bisogna fare i conti con la politica, però bisogna essere consapevoli che un anarchismo che faccia i conti con la politica sarebbe, ammesso sia possibile, un anarchismo con un DNA nuovo, diverso da quello dell’anarchismo classico.

Nelle cose che accennavi prima, nei richiami alla Arendt, ad esempio, certo c’è una tensione in questo senso, e certo sia nelle teorizzazioni di certi neo-repubblicani che in quelle della Arendt ci sono elementi compatibili con una sensibilità libertaria, ma rimane la questione che tutto questo implica una frattura con la tradizione anarchica. Io sono disponibilissimo ad immettere elementi nuovi in questa tradizione, penso che sia necessario farlo, ma è anche vero che non intendo perdere niente di essa.

Sul piano di questa ‘innovazione nella continuità’ tu pensi che il tentativo merliniano non abbia niente da dire? Merlino, senza dubbio, è stato un personaggio ed un pensatore eccezionale, io ne sono affascinato, ma ciononostante rimango dell’opinione che le teorizzazioni merliniane siano ascrivibili ad una sorta di socialismo liberale, anche se, per definirle, lui non ha mai usato tale definizione e le chiamava invece ‘socialismo libertario’. Se andiamo a vedere quello che ha scritto anche negli ultimi anni, le sue teorizzazioni della politica non mi paiono francamente molto diverse dalle classiche concezioni liberali. So che il mio amico Massimo La Torre non la pensa così, che per lui Merlino sarebbe riuscito a delineare veramente un socialismo libertario in cui sarebbe predominante la matrice repubblicana, la stessa che sarebbe presente nell’ultimo Proudhon. Può darsi che La Torre abbia ragione, per carità, ma sarebbe una tradizione repubblicana non molto lontana dal liberalismo. In fondo, io credo che, nel pensiero politico della modernità, le tradizioni fondamentali, quelle da cui poi parte tutto siano due: quella democratico-socialista e quella liberale, tutte le altre -repubblicanesimo, anarchismo, socialismo liberale, liberalismo radicale, eccetera- non possono che pendere o verso l’una o verso l’altra.

tratto da Il Pensiero Mazzianiano

nuvolarossa
10-07-06, 09:56
IL COMMENTO DI UN ERUDITO ADRIESE ALLE Memorie di FELICE FORESTI
E alcune riflessioni sulla "rivoluzione" carbonara e sull’idea di "repubblica"

Italia 1860. Si riporta ( scil. uno scritto di F. Foresti), ma con tutta riserva, pel noto carattere dell’autore e del partito che rappresenta. Non m’occupo per ora a confutare le assurde massime che di tanto in tanto son predicate in questo scritto…(1)

Le parole sopra citate pertengono a un notissimo erudito adriese, Francesco Antonio Bocchi, il quale era indubbiamente un fedele suddito di S. M. l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Già dall’ "incipit" si può rilevare che le Memorie del carbonaro Foresti non erano particolarmente apprezzate dal Bocchi, che ne sottolineava le numerose "assurdità". Certamente, se a tanti anni dagli eventi narrati dal Foresti, qualcuno si prendeva ancora la briga di marcarne l’infondatezza in più punti, ciò significa che i tempi erano ormai maturi per un tentativo di confutazione globale di tutto quel mondo sotterraneo delle sètte, e in particolare quella dei carbonari, che avevano dato negli anni ’20 la stura a una serie di fortuiti "mutamenti di stato" che avrebbero successivamente portato, casualmente e per vari versi "immerite", all’Unità d’Italia. Il Bocchi scriveva le sue note alle Memorie del Foresti a ridosso del 1860, cioè in tempi ravvicinati a quell’evento unitario che avrebbe comportato la fine del dominio austriaco nella Penisola. Tale evento imminente fu vissuto da parte della classe dirigente nazionale come una catastrofe, e lo si arguisce anche dal fatto che il Bocchi si sobbarcò sulle spalle il compito davvero titanico di riscrivere a mano "tutte" le Memorie del Foresti, ricopiandole con pazienza certosina da un libro di Atto Vannucci, apparso a stampa nel 1860.(2) Il Bocchi dunque riscrisse a mano il tutto e fece seguire, a margine, un commento astioso e sarcastico dei ricordi del Foresti. L’acredine del commento testimonia dell’urgenza del momento politico che si viveva, e il significato di un’impresa del genere sta probabilmente nell’estremo tentativo della pubblicistica filoaustriaca di stroncare alle radici l’idea risorgimentale e unitaria di cui erano ritenuti storicamente responsabili i carbonari, e in particolare Foresti, uomo di indubbio valore e coordinatore nel Polesine di varie "vendite" carbonare. Colpire l’uomo, ridicolizzarlo ("ridicolo" è termine usato dal Bocchi, cfr. c.19 v) significava implicitamente ridicolizzare le idee di cui egli era portatore, e in quest’impresa il Bocchi ce la mise veramente tutta. Né, d'altra parte, la frequentazione giovanile di patrioti al Caffè Pedrocchi sembra credenziale sufficiente per dare al Bocchi l'aureola di fervente sostenitore dell'Unità.(3) Il motivo per il quale il commento del Bocchi non vide la luce delle stampe e rimase sepolto nell’archivio dello stesso sta nel fatto, evidente, che nel 1861 fu raggiunta l’Unità, e che i carbonari ne divennero, per così dire, i "protomartiri", e le loro "vite" furono epicamente narrate dalla pubblicistica popolare, che prese a saccheggiare il libro del Vannucci e a trarne sunti a mo’ di edificazione per l’ignaro vulgo.(4) Di lì a pochi anni, nel 1866, anche Rovigo e il Polesine vennero annessi al Regno d’Italia. Certamente il clima politico di quegli anni suggeriva la prudenza. Prudentemente il Bocchi non insistette ulteriormente e lasciò nel cassetto quanto faticosamente s’era copiato. La prudenza non è mai troppa, ed è virtù che è d’uopo praticare con intelligenza se si vuol raggiungere una tranquilla vecchiaia: il Bocchi lo sapeva e fu "virtuoso".

LE "MEMORIE" DEL FORESTI E IL COMMENTO DI F.A. BOCCHI

Italia, 1860. ( Si riporta, ma con tutta riserva, pel noto carattere dell'autore e del partito che rappresenta. Non m'occupo per ora di confutare le assurde massime che di tanto in tanto son predicate in questo scritto) [ c. 1 r]

…Certo la società (scil. la carboneria) esordì nel regno di Napoli, figlia della Massoneria , anzi una riforma di questa. Suo scopo politico era nel 1820, conforme ai tempi, la liberazione dall’Austria…

N.B. Dunque la società aveva anche altri scopi diversi dai politici. [ c. 1 r]

…Parecchi mesi appresso furono tutti liberati, i conjugi d’Arnaud ebbero bando perpetuo dagli stati austriaci; la signora morì nel ritorno in Francia. Passerini e Camerata furono certo carbonari; non so gli altri…

…Qui il Foresti è poco chiaro, giacché si vede che non tutti furono posti in libertà coi conjugi D’Arnaud. [c. 6 v]

…Villa e Fortini furono fatti carbonari da me: Villa pauroso e vile confessò tutto, persino l’esistenza organizzata della società carbonara in Polesine, ed i suoi rapporti con quella di Ferrara, e che io era fondatore e capo dirigente. Quindi gravissimo danno agli imprigionati. Fortini ne fu sacrificato; buono, corto di mente, timidissimo, apparteneva alla vendita subalterna di Fratta di cui era capo Villa, ma era solo apprendente, quindi ignaro di tutto. Villa volle un giorno far paura a quel semplice prete, e ordinò un notturno convegno di tutti i membri della sua vendita in casa sua. Vennero tutti armati del pugnale carbonico e incappucciati. Fortini giunto all’anticamera fu preso in mezzo da due carbonari che gli teneano il pugnale levato sul petto. Atterrito il prete si vide introdotto in mezzo al convegno, fra visi e mani armate: Villa lo rampognò di aver tradito il segreto della società; l’altro negava, e Villa replicò: " Ti crediamo, questa volta, ma vogliamo un’arra di tua costanza futura; soscrivi." E gli fu posta una carta, che fu letta e diceva: " Io Marco Fortini come prova della mia costanza e fedeltà alle dottrine e mire della Carboneria, dichiaro qui alla presenza de’ miei cugini Carbonari, di abjurare per sempre alla religione cattolica romana, al cui clero io appartengo…".

…Indipendentemente da questi fatti del Fortini, è impossibile negare al Carbonarismo intendimenti anticristiani. La Framassoneria è notorio essere sètta anticristiana e come tale condannata dalla Chiesa; ma la Carboneria per confessione di Foresti medesimo non è che una riformata framassoneria, …Dunque etc… [ cc. 7v e 7r]

Salvotti mi diceva: io non avrei condannato quel povero prete nemmeno a 12 mesi di carcere. Fortini fu graziato dall'imperatore dopo 7 anni di carcere nello Spielberg e mandato libero in Dalmazia, ove fu riammesso al sacerdozio sotto la guida dell'infanissimo Paulovitz...

Paulovitz era vescovo di Cattaro: a carico suo non si spacciarono che esagerazioni e calunnie. [c. 8 v]

…Ordinai a Villa di bruciare le carte carboniche ( statuti, cerimoniali, vocabolari per la secreta corrisponenza). Villa bruciò una parte, diede l’altra al fido Oroboni che la celò in un sepolcro di marmo di sua casa privata, e confidò incautamente tale nascondimento al Villa. Cercava la polizia tali carte…Villa ne’ suoi interrogatorii palesò il luogo preciso. Quindi Oroboni fu arrestato dal commisario Lancetti, che sapeva del nascondiglio, e nondimeno chiese:" Avete carte?" . "No". " Voi ne avete, la polizia lo sa". " Non ne ho". Sì e no lunga pezza. " Se non le date subito, io metto in rovine il palazzo di vostro padre". " Fatelo." Quindi Oroboni accerchiato di soldati vien condotto ne’ sotterranei della Cappella, s’apre la tomba, si levano le carte, e Lancetti sclama[sic] : "Le vedete? Ma pagherete cara la vostra ostinatezza"…

…Tutto ciò vien chiamato dal Foresti "nobile", "fedele fermezza e rettitudine…[c. 8 r]

…Arrestato Arnaud e compagni, struggemmo le carte, io particolarmente, che aveane di importanti. Ma dimenticai l’importantissima…

… E’ poco credibile tale dimenticanza. [c. 8 r]

…Solera non era stato ancora arrestato, nemmeno i ferraresi Canonici e Delfini, che lo furono soltanto un anno e più dopo, per tradimento di Tomasi…

…Nota l’esagerazione di questa e simili espressioni. [ c. 10 r ]

…Si cominciò il processo regolare nello stesso monastero di S. Michele. Primi interrogati i meno gravati, quindi quelli che avevano tutto confessato alla polizia. Per poco osarono la convenuta ritrattazione. Salvotti ne infuriò, s’accorse di cocente preventivo, indovinò me istigatore. Solo Solera persisté a dire tutto, forse fin d’allora s’apparava la via dell’impunità e del sovrano favore…

…Eppure, per asserzione dello stesso Foresti, anche Solera restò 6 anni allo Spielberg. [ c. 14 v ]

…Io esaminato fra gli ultimi, non declinai dalle prime deposizioni. Quindi Salvotti:" Ebbene! Ella sta troppo bene qui; la passeremo ai rigori e all’isolamento delle carceri criminali. Colà non potrà sedurre i compagni a ritrattazioni, ed a violare il dovere della sincerità verso l’imperatore…

Chi di buon senso potrà dare torto al Salvotti? [ c. 14 v]

...Quindi diceva fra me: bisogna morir subito...Richiamava la famiglia, la fidanzata*, e piangeva...

E mai un pensiero di religione! [ c. 18 r]

...Sgorga il sangue, sento un lieve dolore, cui succede respirazione affannosa, credo morire e ne godo...

Creda chi può! [ c. 19 v]

... Getto a terra il lenzuolo, aspettando con serena calma l'ultimo respiro ...

Quale eroe! Che Bruto, quale Catone, e Seneca di nuovo stampo! [ c. 19 v]

...Comincio a scarnificarmi le arterie delle braccia...

Pazzo ed empio! [c. 19 v]

...A queste violenze succede una tensione di nervi al cervello...Arresto il sangue col fazzoletto e col lenzuolo a più doppi...

Ma non era risoluto di morire? perché arrestare il sangue? Se il racconto non è una favola, che miserabile figura, mista di ridicolo non fa l'eroe! [c. 19 v]

...Mi calmai, e quasi mi vergognai del tentato suicidio, sopratutto pegli odiosi commenti che ne farebbe il mondo...

E niente per motivi di religione! [ c. 20 r]

...Nessun de' processati e de' molti carbonari del Ferrarese, Romagna, Veneto, tradì il segreto, sebben tutti lo conoscessero...

Come si accorda ciò con quello più sopra detto? Che cioè pochi soli (vedi sopra e le note alla sentenza) erano partecipi del vero scopo della carboneria? [c. 24 v]

...Qualunque apprendente sapeva tali cose…

Come dunque si osa sostenere che i semplici apprendenti non partecipavano all'alto tradimento? [c. 24 v]

...Da prima leggevamo liberamente i molti libri portati; dopo due anni ce li tolsero, lasciandoci solo per grazia pochi ascetici e controversisti religiosi...

Qui il Foresti esclama: noja da morire! [c. 29 v]

...P. Paulowitz dalmata poi vescovo di Cattaro, infamissimo ignorantone,* di cui narra il vero Andrjane, mi ripeteva: " S.M. è in collera con lei, suo incorreggibile nemico, tuttavia speri nel suo animo generoso. Avete a fare qualche importante rivelazione?...".

* Sic! [c. 30 r]

...Recatosi a Brünn l'Imperatore nell'estate 1834...

E 1835 aggiungono le memorie, ma deve essere errore, perché Franc. I moriva il 2 marzo 1835. Saranno piuttosto gli estati 1830, 1834. [c. 31 v]

[ Il commento finale del Bocchi alle sentenze riportate nelle Memorie]

... Il Foresti chiama questa sentenza infame e iniquissima, perché, dice egli, i soli Solera, Munari, Foresti, Canonici, Delfini potevano per tutti i principii di giurisprudenza criminale essere ritenuti rei di alto tradimento; come quelli che erano capi attivi, in corrispondenza attiva coi rivoluzionari d'Italia del 1821, ed agirono con vero scopo rivoluzionario, allo scopo cioè d'effettuare il loro disegno vagheggiato e progettato d'espellere gli Austriaci e rendere libera, indipendente ed unita la loro patria Italia. Ma qual'era [sic] il delitto degli altri condannati? Niuno! Quale elemento e veduta rivoluzionaria nella loro condotta? Veruna. Apprendenti semplici, od iniziati, di una società secreta non conoscenti di proposito e con fondamento lo scopo politico, estranei ai secreti convegni cospirativi; furono in essi puniti atrocemente il nome semplice di Carbonaro e delle segrete espressioni di amor patrio. Orribile, Orribile! e l'Austria è giusta ed illuminata?

Così Foresti ed il Vannucci; ma io, in luogo di ribattere le fanatiche accuse, rimando il lettore ai medesimi loro racconti, onde possa capacitarsi se si estendeva più in là di quanto essi asseriscono la colpa dei Carbonari. [c. 39 v e 40 v]

LA CARBONERIA E "I Fonti dell’empietà"

Queste dunque le osservazioni del Bocchi sulle Memorie di Felice Eleuterio Foresti, il quale è personaggio fin troppo noto agli studiosi per soffermarvisi oltre, se non per osservare, cosa fondamentale per gran parte dell' assunto di questa ricerca, che egli, dopo i travagli dello Spielberg, trovò sicura e accogliente ospitalità in America, in quegli Stati Uniti ove ebbe onori, considerazione e infine tenne una cattedra universitaria, anzi, due.(5) E’ un dato di fatto incontrovertibile che il mondo anglosassone, Inghilterra e America, fu l’esito finale di tanti e tanti carbonari; oltre al Foresti, si potrebbero citare Maroncelli, ricordato presente in America nelle "Memorie" di A. da Ponte; Rossetti, carbonaro poi fuggito su una nave inglese e stabilitosi in Inghilterra fino al termine dei suoi giorni.(6) Anche la letteratura, attraverso Nievo, ci rammenta che Carlino trovò rifugio nel mondo inglese e quindi in America; fra gli stranieri è difficile non pensare a Stendhal, che aprì le "Cronache Italiane" proprio con la storia di un carbonaro, Missirilli, il quale sognava di poter fuggire in America con la sua amante.(7) Inghilterra e America appaiono quindi le mète privilegiate dei fuggiaschi carbonari. Non s’intende qui riaprire la questione sulle origini della carboneria, che affaticò per molti anni gli studiosi, e del resto pare definitivamente assodato che tali origini siano da rapportarsi a una matrice francese, con l’assimilazione dei carbonari ai "charbonniers" della Franca Contea. l’Inghilterra viene vista più che altro come una foraggiatrice cinica e interessata della sètta carbonara, la quale, appunto, avrebbe trovato ottimi supporti nella sua azione eversiva grazie "all’oro inglese", espressione con la quale, semplicemente, si liquida una qualsiasi influenza dell’Inghilterra sulla formazione dei nuclei carbonari. Già Candeloro, nella sua classica opera sulla storia d’Italia, aveva con ragionevoli argomenti attribuito le origini della Carboneria all’area francese, e più precisamente alla Franca Contea, ove si era sviluppato il fenomeno dei "charbonniers", i quali, come si è rilevato, possedevano statuti assai simili a quelli più tardi dei carbonari. Candeloro aveva individuato nel generale Briot il tramite attraverso il quale era attecchita la Carboneria in Italia: e tra l’altro Briot era originario della Franca Contea e a suo tempo era stato "charbonnier".(8) Ma, come ha detto bene Dionisotti,(9) i conti del nostro Risorgimento con l’Inghilterra non sono ancora del tutto chiusi, e non lo sono se non altro perché, al di là di dirette influenze anglosassoni sulla formazione della Carboneria, resta il fatto che autorevoli componenti della sètta guardarono al mondo inglese e americano come a un "modello" certo difficilmente esperibile in Europa, ma degno della massima attenzione.

C’è però in via preliminare un elemento che salta subito agli occhi nel commento a margine del Bocchi: le reiterate accuse al Foresti di "irreligiosità". La cosa potrebbe suonare alquanto strana, e tale sembrò anche a molti carbonari, i quali rimasero per lo meno stupiti della durezza della Chiesa nei loro confronti. Se si guardano poi un po’ da vicino le biografie dei carbonari polesani classici, da don Fortini a Villa a Oroboni, a nessuno verrebbe in mente di accusarli di empietà, soprattutto alla luce delle testimonianze in nostro possesso, che parlano tutte di indubitabile pietà religiosa.(10) Ma a un' analisi anche sommaria della bolla di condanna, si arguiscono facilmente le motivazioni profonde di essa. I carbonari infatti furono assimilati ai priscillianisti, ovvero ai primi eretici in senso assoluto che subirono una condanna senza appello della Chiesa, con un vescovo, Priscilliano, addirittura fatto giustiziare dall'imperatore. "Nell’Occidente – scrive Santo Mazzarino – il problema dell’unità episcopale assumeva [un] aspetto politico…I vescovi spagnoli tagliarono corto, e accusarono Priscilliano di manicheismo….L’imperatore Massimo lo condannò a morte". (11) L'assimilazione dei carbonari agli antichi priscillianisti la dice lunga circa l'indice di pericolosità che la setta assumeva agli occhi della Chiesa. La Carboneria,infatti, non solo aveva operato un'indebita quanto autarchica appropriazione di Cristo, elevato, com'è notorio, a Gran Maestro, con tutti i riti che ne seguivano e che sono fin troppo noti, ma propugnando la "rivoluzione", essa predicava, lo disse chiaramente Lamennais, "una dottrina manichea".(12) A ciò si debbono poi aggiungere le reiterate e tutt’altro che pacifiche prese di posizione dei carbonari verso la gerarchia, come quelle, per esempio, contenute nell’Istruzione del 1819, ove si predicava l’ "annientamento per sempre del cattolicesimo ed ancora dell’idea cristiana".(13) Già per queste ragioni, dunque, fa meraviglia la meraviglia dei carbonari, a meno che non si voglia supporre una certa qual (possibile) ingenuità di fondo in molti.

Quando Pio VII nel 1821 emanò la famosa enciclica contro la carboneria, i ranghi della setta subirono un evidente assottigliamento; molti sacerdoti, ed erano parecchi, si defilarono e altri furono invitati a meditare e a sottoporsi ad adeguati esercizi spirituali. Un po’ tutti i carbonari, laici o ecclesiastici che fossero, furono però colti di sorpresa dall’asprezza della condanna papale, che giungeva tra l’altro dopo anni e anni di tolleranza più o meno implicita verso la sorella maggiore della Carboneria, la Massoneria. Qualcuno protestò vivacemente, specie nell’ambiente napoletano, ove si sottolineò che, a ben guardare, anche la Chiesa a suo tempo era nata come "società segreta", e si rilevava, tra l’incredulità e la sorpresa, che la setta dei carbonari non aveva nulla contro la religione cattolica, e che i suoi scopi erano eminentemente politici e patriottici. " Egli è vero - dicevano i settari napoletani - che una tal Società ha un oggetto politico, ma non è questo né per ombra pure di opposizione con le massime della religione".(14) Ciò che agli ideologicamente disarmati "buoni cugini", che costituivano la "base" , sembrava il massimo delle giustificazioni era invece "la" ragione della condanna della Chiesa, alla quale non sfuggiva la pericolosità di un mondo latomico che non solo si insinuava nel clero, portando così l’eresia nel seno stesso della gerarchia, frantumandola, separandola, appunto, e quindi avviandone i membri meno consapevoli a una contrapposizione interna foriera di nuove e pericolosissime scissioni, ma anche sottoponeva il mondo cattolico a una prova, i cui effetti potevano essere esiziali all’antica e, di recente rinverdita, solidarietà tra il Trono e l’Altare. In effetti la carboneria, agli occhi della Chiesa, apparve come una vera e propria eresia, il cui successo avrebbe comportato conseguenze catastrofiche anche a livello politico, "separando" una volta per sempre Chiesa e Stato. Ai "Buoni Cugini" era letteralmente sfuggita la ragione di quella sottile equazione instaurata tra priscillianisti e la loro setta. Così come il vescovo Priscilliano e i suoi seguaci erano stati condannati perché avevano operato una primeva e grave frattura nel mondo cristiano proprio in un momento in cui la Chiesa, nel IV secolo, attraverso i suoi vescovi, era tutta proiettata verso l'unità, il superamento delle divisioni interne e si trovava a un punto di svolta strategico con il potere imperiale, di cui si cercava la protezione per lo sradicamento del paganesimo residuo, tutt’altro che facile a estirparsi, allo stesso modo i carbonari, se lasciati fare, sarebbero riusciti a concretizzare una spaccatura tra il trono e l'altare, proprio quando si era a una svolta epocale, ossia in una temperie storica cruciale, in cui la Chiesa stava producendo il suo massimo sforzo di ricongiunzione tra le due sfere, quella religiosa e quella politica, dopo la bufera rivoluzionaria, e mentre la cristianissima Austria si ergeva in Europa a baluardo di quell'antico regime che invece costituiva l'ostacolo da abbattere per il carbonarismo, la cui rimozione però avrebbe significato ulteriori lacerazioni tra Chiesa e Stato, divisioni insanabili tra due corpi, che pure erano, per la Chiesa, uno solo: quello cattolico-romano. Di fronte a orizzonti così oscuri, che rinnovavano nella mente dei più avvertiti i fantasmi del protestantesimo, la Chiesa sferrò un attacco senza precedenti al mondo delle sètte, mettendo in campo i suoi uomini migliori su tutti i fronti per sradicare una volta per sempre non solo il "male" ma anche le sue radici, ovvero "i fonti dell’empietà",(15) indagando chi mai fossero i "responsabili primi" di tutte le scissioni, di tutte le eresie, e, nel contempo, dando un mandato assolutamente primario alla cristianissima Austria, e carta bianca a tutti i sovrani d’Europa, che si riconoscessero nello spirito della Restaurazione, fatto essenzialmente della ritrovata unità tra Chiesa e Stato. In Austria infatti Metternich aveva trovato in Schlegel il "portatore presso la pubblica opinione del [suo] messaggio politico…L’idea-forza di tutta la propaganda conservatrice e reazionaria…aveva insistito con grande energia nel sottolineare il ruolo negativo della Riforma e in generale il peso della scissione religiosa negli eventi rivoluzionari del presente…E’ quindi comprensibile come proprio la Curia romana – in quanto centro focale contro cui si era tradizionalmente diretta la lotta dei settori più avanzati – assurgesse ora a simbolo, non solo di un recupero di valori, ma soprattutto di una riorganizzazione della società su basi prerivoluzionarie…".(16) E ancora, sottolinea C. De Pascale, " si potrebbe osservare che la traduzione di concetti politici in linguaggio religioso non è altro che, ancora una volta, la riproposizione di uno schema antico, se è vero che, alle soglie del mondo moderno, si verificò il processo esattamente uguale e contrario, con la traduzione in linguaggio politico di schemi mentali originariamente religiosi e teologici".(17) Nei vari stati europei della Restaurazione "la politica diventa una diretta creazione di Dio; la religione, o la teologia, costituiscono il fondamento di esso".(18) E, per concludere, Schlegel osserva che il " repubblicanesimo…ha fatto molti più danni di quanti non ne abbia fatti lo stesso spirito rivoluzionario ed ‘anarchico’…", in quanto "gli uomini hanno preteso di dichiararsi tutti uguali di fronte alla legge, cosi come sono uguali di fronte a Dio; hanno voluto raggiungere quell’unità che fa svanire ogni contrasto e gradazione, sconvolgendo quell’ordine gerarchico fondato sulla differenza e sulla distinzione; hanno trascurato gli insegnamenti della storia ed hanno sconvolto i secolari rapporti stabiliti dalla tradizione".(19) Repubblicanesimo e democrazia si oppongono senza residui alla "saldatura di ‘antichità’ con ‘religione’…". Metternich, nel Memorandum segreto ad Alessandro I, enunciò tale concetto in modo chiaro e senza alcuna ambiguità. Venendo a parlare dell’abuso della stampa da parte dei rivoluzionari, sottolineava che essi "employes it to promote impiety, disobedience to the laws of religion and the State".(20)

Nell’ Introduzione alle Memorie di G. Garibaldi A. Dumas, scrisse: "…Il carbonarismo cominciava a produrre buoni frutti, crescere in modo meraviglioso nelle Romagne… Luciano era stato innalzato al grado di gran maestro. Nelle riunioni segrete, dimostrandosi la necessità di strappare il potere di mano ai preti, s’invocava il nome di Bruto, e si preparavano gli spiriti alla Repubblica…". (21)

Dumas l’aveva pur detta la parola chiave dell’ideologia carbonara: "repubblica".

C’è nella storia interna della carboneria, nella sua soggiacente ideologia un aspetto che la marchia a fuoco e non poteva non renderla invisa alla gerarchia cattolica: l’ideale repubblicano. E’ stato osservato che se c’è una costante nella carboneria questa è il repubblicanesimo, una tendenza che è ravvisabile non solo negli statuti più antichi, ma anche in quelli più tardi di fine Ottocento.(22) Lo stesso Foresti fu un fervente repubblicano sin alle soglie della morte, pur riconoscendo tra gli adepti la presenza di una "discrepanza nelle forme organiche": "chi volea monarchia temperata, chi democrazia, fra cui io".(23) Foresti poi annacquò la sua fede repubblicana probabilmente solo per motivi strategici, e dopo un’aspra polemica che trovò, verso la seconda metà degli anni ’50, una larga eco persino sui più prestigiosi giornali statunitensi, in quanto, proprio perché repubblicano, fu considerato persona "non gradita" da Vittorio Emanuele II, allorché il governo americano lo propose come console a Genova.(24)

"Quando gli uomini – si legge nell’ Idea generale dell’Ordine – credettero di trovare la felicità fra le mura cittadine, e che per la comune difesa diedero il comando della loro forza ad un solo, il quale in luogo di proteggerli e difenderli ne divenne l’oppressore, e sbandita la civile eguaglianza, e intronizzato il diritto lesivo di dispotismo, di barbarie, di proprietà…".(25) La condanna del potere di "un solo", il cenno all’eguaglianza e al diritto "lesivo" di essa, ossia la "proprietà", fanno di questo primo statuto un manifesto quasi radical-giacobino dell’idea di repubblica, un’idea che fece la sua comparsa prima in Inghilterra con i "levellers" e poi in Francia. Tra l’altro, l’incipit dello Statuto sembra quasi la parafrasi di un passo dell’altrettanto odiato Machiavelli, quello "repubblicano" dei "Discorsi".

" …E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare riputazione a uno perché batta quelli che egli ha in odio…sempre interverrà ch'e' diventerà tiranno di quella città…". (26)

L’attacco al versante repubblicano dell’opera di Machiavelli fu operato subito e anche trasversalmente, come quando, ad esempio, nel 1592 si proibì la République di Bodin, intendendo però soprattutto, secondo Luigi Firpo, colpire Machiavelli. Il gesuita Antonio Passevino, nel Judicium, si scagliò sì contro il cap. 5° della République, ove si predicava la "liceità della ribellione al tiranno e della soppressione fisica dello stesso", ma le critiche più acute si appuntarono soprattutto su quei punti dell’opera che predicavano la "tolleranza religiosa, la coesistenza legalizzata delle confessioni",(27) per cui ciò che non si voleva era l’affermazione dell’indifferentismo religioso, altro argomento forte che venne usato anche nell’enciclica contro i carbonari. In effetti, nell’età della Restaurazione, specie dal mondo tedesco, da schlegel a Novalis, vengono indicazioni nette sul rifiuto dell’indifferentismo religioso. "Se è vero che il crollo della religione ( e non dei valori religiosi in generale, ma del dominio del cristianesimo sull’intera Europa) è all’origine dell’ ‘anarchia’ del tempo presente, è compito urgente far rinascere non solo una religiosità, ma anche una presenza nel mondo della religione come chiesa organizzata – di cui l’unico modello è quella cattolica. E dal momento che il rapporto tra il divino e il terreno è per i romantici quanto mai stretto, quasi casualmente determinato, il potere religioso ed il potere mondano finiscono per doversi identificare".(28) Al contrario, per i più ferventi repubblicani la tolleranza religiosa è consustanziale all’idea di repubblica; per Samuel Przypkowski (1592-1670), autorevole esponente della chiesa antrinitaria polacca, la libertà di coscienza è una "libertà fondamentale della repubblica", senza distinzione di ceti, e in forza di tale convincimento, la garantì anche per i "plebei" sin dal 1627.(29)

Poi, come ben sappiamo, tale radicalismo giacobineggiante venne ben presto espulso dal seno della carboneria, e i suoi membri più influenti e prestigiosi si volsero ad annacquarlo, ed è rimarchevole il fatto che la risciacquatura statutaria fosse eseguita in acque territoriali inglesi. Stendhal, lo sappiamo dalle più svariate fonti, fu un repubblicano convinto, elegante salottiero e sapido frequentatore della Milano bene dell’età della Restaurazione. Qui venne a contatto con gli esponenti più in vista fra quanti erano legati al Conciliatore, dal Confalonieri a Porro allo stesso Pellico: "una colonia di carbonari", commentava secco il Foscolo.(30) In una nota, Stendhal ebbe a scrivere: « En Lombardie, le pires ennemis de la liberté sont les nobles pretendus libéraux, qui tendent à faire avorter la present révolution des esprits et veulent l'oligarchie. C'est la meme tendence qu'en Angleterre (Porro Confalonieri) ».(31) Stendhal era sulla stessa lunghezza d’onda di Buonarroti, per il quale il sistema inglese era pessimo per lo "spirito aristocratico, egoisticamente conservatore, delle caste dirigenti dell’isola",(32) e anche di Filippo Mazzei (1730-1816), il quale, dopo i primi entusiasmi, "capì che nelle leggi britanniche era presente in potenza il germe della tirannia e del governo oligarchico". (33)

Poi Stendhal si pentì, e tagliò con un deciso colpo di penna la notazione, sostituendola con un laconico "ils sont en prison et en fuite 1825". Stendhal si pentì quindi del giudizio aspro su Porro e Confalonieri: ma intanto, a caldo, aveva detto quel che pensava e solo un tardivo rimorso nei confronti di gente che era finita in esilio lo indusse a cancellare la primitiva impressione che lo aveva portato a considerare negativamente uomini che non mostravano particolari simpatie per l’ideale repubblicano, ma si volgevano verso il sistema "misto" all’inglese. Il "colpo di penna" mancato di Stendhal non sfuggì però all’occhio acuto di Alessandro D’Ancona, maestro di studi storici, alle cui doti di osservazione dobbiamo l’appunto sopra citato.(34) Resta il fatto che l’impressione di Stendhal era giusta e trova conforto anche in altre testimonianze. "Espropriata del riconoscimento di un proprio attivo spazio istituzionale – scrive M. Meriggi – l’aristocrazia locale (milanese) si arroccò alla difesa delle proprie tradizioni… Privati di una "lucrosa carriera", non pochi dei suoi rampolli rifluirono alla testa dell’opposizione liberale, secondo modalità, per altro, non prive di ambiguità". La gioventù di estrazione nobiliare dell’età della Restaurazione si muove entro un orizzonte "fortemente conservatore, per non dire regressivo". "Chi legga le memorie di Federico Gonfalonieri - continua Meriggi -, una delle figure chiave di questa parziale mutazione generazionale, dopo averne ripercorso analiticamente le ambigue tappe dell’attività politica, non può non rilevare come, accanto ai temi di progresso economico propugnati dal nobile milanese, sia presente in lui una concezione della società e del potere venata di motivi aristocratici".(35)

Dumas ci offre in successione un’altra testimonianza che in sé è abbastanza curiosa, ossia che i carbonari romagnoli elessero a loro "Gran Maestro" Luciano di Samosata.(36) Luciano, nonostante avesse prodotto, secondo la tradizione, più di ottanta opere, è ricordato soprattutto per essere l’autore della Storia Vera, che di vero però non ha proprio nulla, tanto da essere comunemente reputata come un pura opera di fantasia. In questi ultimi tempi, però, si sta via via accreditando a livello critico l’ipotesi opposta, secondo cui Luciano fosse stato tutt’altro che uno scrittore disimpegnato e puramente "fantastico", che puntava invece contro bersagli polemici ben precisi, presentando ai lettori la possibilità di mondi "altri" e comunque diversi da quello in cui si era costretti a vivere. Il mondo della luna, osserva Carini " è una varietà del mondo alla rovescia, la regione utopica con costumi e leggi totalmente difformi dalle usuali".(37) Ora, tra Sette e Ottocento, l’unico mondo "alla rovescia" realmente esperibile dai contemporanei era quello americano. Un mondo dove repubblicanesimo, libertà ed eguaglianza sembravano essersi radicati sulla terra con successo. Il mito dell’America fu tenace sin dal suo primo apparire ed ebbe una vasta eco anche in Italia, dove si assistette alla nascita di un intenso dibattito intorno all' "Americana Repubblica", che ridondava un fascino sottile su un’Europa all’affannosa ricerca dell’eguaglianza e della libertà. Per Filippo Mazzei il vero repubblicanesimo aveva la sua sede solo negli Stati Uniti. " Prima della rivoluzione americana – scrive -, non esistette mai una vera repubblica…I principi di una tale forma di governo nacquero in Inghilterra e sono maturati in America".(38) Se è vero che le opere di Filippo Mazzei non ebbero circolazione in Italia se non dal 1842, è altrettanto vero che da noi però si manifestò un entusiasmo senza precedenti per la repubblica americana, cui fu attribuito "un valore esemplare, una carica ideologica, che solitamente non era riconosciuta ad altri fenomeni analoghi".(39) A monte stava però sempre l’Inghilterra, anche se criticata per la sua involuzione oligarchica. Pur con tutti i suoi difetti, la costituzione britannica era "superiore a quanto finora è stato ideato per la libertà, eguaglianza e felicità di tutti noi".(40) Ma l’America sovrastava la madrepatria. In Italia l’entusiasmo per la "novella nazione" era eccitato dal Raynal, la cui opera fu "il più fortunato dei bestseller apparsi sul mercato librario internazionale degli anni Settanta e Ottanta del secolo diciottesimo".(41) In casa Beccaria, si ebbe una volta una discussione, cui partecipò anche il Botta, su quale potesse considerarsi l’evento contemporaneo maggiormente degno di essere cantato in un poema epico e, guarda caso, tutti si trovarono d’accordo nell’individuarlo nella rivoluzione americana che, anziché di poesia, fu oggetto dell’interesse storico del Botta. L’episodio si ricava da una lettera del Botta a G.W. Greene, Console degli Stati Uniti presso la Santa Sede. "…Ed ecco trattarvisi una sera la questione: qual tema moderno potesse riuscire soggetto atto a poema eroico. Chi ne disse una e chi un’altra; finalmente si accordavano tutti nel concludere, che uno solo dei casi moderni poteva servire all’uopo, e questo era il fatto dello sforzo americano, che condusse gli Stati Uniti all’indipendenza. Tornandomi io di là a casa, attraverso della piazza che allora si chiamava della Rivoluzione, ed ora della Concordia, andava fra me stesso ruminando così: Ma se quel fatto può essere soggetto conveniente di poema, perché non sarà di storia?"(42) Concepita intorno al 1806, all’epoca dei fatti narrati, la Storia d’America del Botta fu pubblicata a Parigi fra il 1808 e il 1809, suscitando gli entusiasmi del Manzoni, il quale, perorandone la pubblicazione anche in Italia, ne parlò come di un qualcosa di cui "nulla di eguale è mai apparso in Italia. Il soggetto è, come vedi ( l’espressione si riferisce a G. B. Pagani ), felicissimo, perché non consiste, come la più parte delle moderne storie nella narrazione di oscure operazioni diplomatiche…Ma le grandi azioni…e le generose passioni per la salute e la fondazione di un popolo".(43)

Benedetto Croce, recensendo La Giacobina, (44) romanzo di Giuseppe Marcotti ormai definitivamente consegnato agli archivi, trasceglieva alcuni passi davvero molto interessanti, che vanno a testimoniare dell’ardore carbonaro verso quel mondo americano, che Tiziano Bonazzi, con felice intuizione, definì proprio "mondo alla rovescia".(45) Allorché i due protagonisti del romanzo, dopo il fallimento dei moti, decidono di riparare all’estero, eleggono come nuova patria proprio l’ "Americana repubblica": "… C’era dunque sulla faccia della Terra un paese dove né governatori, né vescovi, né poliziotti, né preti, né birri, né carabinieri impedivano di vivere e costringevano a cospirare!". (46)

Lord Byron lo conoscono tutti. Byron, com’è universalmente noto, ebbe simpatie manifeste per i carbonari, e si narra che fosse iniziato alla Carboneria a Ravenna ( nella cui "magnifica pineta", come scriveva a John Murray, non si stancava "mai di cavalcare" ), da Ruggero e Pietro Gamba, rispettivamente padre e fratello di Teresa Guiccioli, "bella come l’alba, calda come il sole", "dittatora" del suo cuore, di cui egli era follemente innamorato.(47) Nel Journal del 18 febbraio 1821 annotava: "Oggi non ho avuto nessuna comunicazione con i miei amici carbonari; ma nel frattempo i miei appartamenti inferiori sono pieni delle loro baionette , fucili, cartucce e non so che altro. Credo che essi mi considerino come un deposito da essere sacrificato in caso di accidenti". Egli inoltre narrava che una volta, nella pineta di Ravenna, ebbe un incontro fuggitivo ma molto interessante con una loro "banda". I quell’occasione i carbonari lo elessero loro "capo" e si presentarono come "mericain", ovverossia "cacciatori americani" ( "The Mericain of whom they call me the capo" ).(48) Tale denominazione costituisce un’ulteriore testimonianza del fascino che la rivoluzione americana esercitò sui nostri rivoluzionari dell’Ottocento, che videro in quel mondo concretizzarsi quell’idea di repubblica cui essi agognavano.

Sì, la repubblica! Ma "quale repubblica"?

E’ ancora Croce a darci una mano. Un po’ prima del passo sopra citato, egli riporta un dialogo tra i carbonari:

"…- Giacché siamo in tema di propaganda, - disse lo scultore fisionomista, - se vogliamo conquistare il popolo alla causa della libertà, nel quadro simbolico bisogna far entrare gl'interessi del popolo: coll'Indipendenza e colla Costituzione ci vuole anche una buona legge agraria, che abolisca la proprietà, per metterla in comune. Lo studente romagnolo era dello stesso parere, e non esitò a formularlo in termini radicali e sonori come piace ai giovani: - La proprietà particolare è un attentato contro i diritti del genere umano…". Le proposte del focoso "studente romagnolo" ricordano molto da vicino le parole dello Statuto generale della carboneria, in cui sono evidentissimi i segnali di un repubblicanesimo radicale: lo attesta in modo particolare il riferimento chiaro alla "proprietà", elemento ritenuto "lesivo" della "civile eguaglianza". L’angolatura giacobina dell’espressione non lascia dubbi sul fatto che l’ "animus" carbonaro delle origini , la sottolineatura è doverosa tenuto conto di come andarono poi le cose, era costituito da un’ideologia repubblicana radicale ed estremista, che in Italia fu perdente su tutta la linea. Nessun giacobino italiano pensò mai di mettere in discussione il concetto di "proprietà", a parte alcune frange molto sparute, come il Ristori, o come quell’avvocato mezzo matto che era il Ranza, e fatta ovviamente eccezione per Buonarroti, che comunque intorno al 1796 era ancora relegato nella sua Corsica, dove scriveva su un giornale che nessuno nel continente lesse mai. La storia del giacobinismo radicale italiano è la storia di una sconfitta, talmente grande da far dire al Venturi che non vi furono giacobini in senso stretto in Italia, ma solo moderati. E infatti, nel romanzo, subito dopo l'intervento del "giovane", a rimettere le cose a posto ci pensa l' "avvocato": "…-Voialtri vorreste sconvolgere il mondo- oppose l'avvocato, - mentre si tratta di resuscitare l'Italia; vorreste proporre al popolo una legge agraria mentre il popolo non domanda che da mangiare a ufo e da guadagnare quattrini senza fatica…Intanto, con queste fisime la reverenda Carboneria andrebbe in fumo. Quasi tutti i cugini sono della classe benestante, e colla libertà sperano di stare anche meglio. Ma lo scultore: - Resuscitar l'Italia vuol dire un'insurrezione… - O una rivoluzione - rettificò lo studente. E l'avvocato: - La turba deve fare la sua parte, ma deve stare al suo posto di bassa forza… Reclutata fra gli artigiani, guidata dagli osti, non può avere un concetto direttivo; l'opinione pubblica che si forma colle chiacchiere, sulle pancacce e sui muricciuoli non può essere considerata…". (49)

Al di là degli stravolgimenti più o meno avvocateschi successivi, la carboneria fu, all’inizio, radicale nel suo repubblicanesimo. La cosa è sicuramente da addebitare al luogo d’origine della setta, quel regno di Napoli che forse fu l’unica "pars italica" che nutrì fin dalla metà del '600 ideali repubblicani fortemente connessi all’azione popolare, che ebbe nel popolo supporto e forza. Impossibile dimenticare la grande rivoluzione del 1648, né la figura ardente del repubblicano Giuseppe Donzelli, che vantò per Napoli una tradizione repubblicana "trimillenaria".(50) Il Sòriga, antesignano degli studi sulla carboneria, rilevava che essa si acclimatò facilmente nel Regno di Napoli, ove in breve tempo i carbonari divennero un esercito, e l’espressione è davvero azzeccata, perché era proprio tra i soldati che la Carboneria trovava il suo terreno di germinazione e di sviluppo.(51) Se la carboneria attecchì facilmente nel Regno fu perché esso era pronto, da anni, a ricevere il seme fecondatore del repubblicanesimo. Venturi scrisse che le idee repubblicane inglesi ebbero canali molto limitati verso il continente, e citava tra questi la Massoneria.(52) Il che è sicuramente vero. Però Venturi sembra dimenticare la storiografia e, perché no?, anche, come vedremo, una ridondante "mitologia" rivoluzionaria inglese, che inondò il continente a partire dal '600.(53) La rivoluzione inglese del 1647, quella dei "levellers", dei livellatori repubblicani, quella rivoluzione, dicevo, non solo fu conosciuta nel Regno di Napoli, ma venne apertamente discussa e indagata nelle sue componenti popolari e rivoluzionarie. Un evento che vedeva la "plebe" ribellarsi a uno dei sovrani più potenti d’Europa non poteva non cointeressare le menti più acute dell’epoca, né i governi potevano soprassedere a cuor leggero su eventi che avrebbero potuto riflettere sinistri bagliori sull’Europa delle aristocrazie e degli assolutismi, Chiesa compresa. Birago Avogadro, forse più acutamente di molti storici e quasi profeticamente, scrisse ": Sono le sollevazioni de’ popoli morbi contagiosi, de’ quali il pestifero veleno si trasfonde e passa da un sogetto [sic] in un altro, né per lontananza di luoghi, né per lunghezza di tempi, né per diversità di climi, né per varietà di costumi può facilmente impedirsi l’effetto di sì dannoso contagio".(54)

Quando Valsecchi, ancora in pieno Settecento, ricercava "i fonti dell’empietà" nel mondo contemporaneo non andava in Francia. Egli, a colpo sicuro e con occhio di geografo provetto, tracciava le coordinate precise dell’empietà, indicando il punto da colpire. Non la Francia, ma l’Inghilterra dei "Tolandi". "… Gli eroi principali di costoro - scrive Valsecchi -cioè gli Obbes, gli Spinoza, i Tolandi, i Bayli, i Collins, i Tyndali, i Woolstoni ed altri di simigliante valore e meriti hanno avuto per suolo natìo l'Inghilterra e l'Olanda ed ivi hanno tenuta, si può dire, scuola aperta contro la Religione Naturale e Rivelata…". Londra è " la piazza pubblica dell'irreligione e l'Olanda la fucina dei libri empi".(55) Toland non è nominato a caso fra i primi tre da Valsecchi, perché Toland non solo fu un fervido repubblicano ed esportatore dell’idea di Repubblica sul continente, ma fu anche il primo che aveva irriso spietatamente nei confronti dei dogmi e dei misteri del cattolicesimo, definendoli un blictri, ossia un "nulla senza senso".(56) Il termine testé citato compare per la prima volta in Inghilterra con Toland e nella sua opera più nota e osannata, il Christianity not mysterious. "Toland punta dritto sul ridicolo, la sua conclusione è drastica. Così come sarebbe assurdo che un giornalista raccontasse ai suoi lettori di un blictri che non sa bene cos’è, sarebbe assurdo che Dio cercasse di comunicare con gli uomini per mezzo di blictri concettuali quali sono i misteri. La Rivelazione non è ‘misteriosa’: i misteri sono stati introdotti fraudolentemente dalla tradizione cristiana da preti malvagi che se ne sono serviti per acquisire potere e ingannare il popolo, usando parole tanto difficili quanto prive di senso. Ciò vale anche per il venerando concetto di Trinità".(57) In Italia blictri è registrato, guarda caso, da quell’ateo assoluto di Leopardi, senza per altro che esso fosse accolto nel vocabolario della Crusca.(58) Il repubblicano Toland aveva quindi osato, mi si passi l’espressione, blictrificare i misteri cattolici e pertanto andava "terminato" insieme con la sua idea di repubblica.

"…Recomi in Francia – faceva dire Rosmini al suo Pio VII- a rimettervi il sacro fuoco smarrito, e porre con ciò insieme e sacrare, spero, la prima pietra d’un nuovo edifizio in Europa, di un nuovo tempio, in cui i cristiani adorino in pace il nome del Dio della pace…".(59) La Francia, dunque, agli occhi del papato, non era la maggior colpevole dell’incendio divampato in Europa in seguito alla rivoluzione del 1789, non era a essa cui si dovevano attribuire le colpe più gravi dell’empietà, che invece si annidava nelle Isole Britanniche, da dove erano partiti quegli ideali repubblicani che avevano messo in crisi irreversibile l’autorità dei prìncipi e della stessa Chiesa. Alla Francia era affidata la nuova missione redentrice. "La rivoluzione – scriveva il Padre G. Ventura -, che in quest’ultima età ha desolato la terra, il filosofismo inglese ed il fanatismo germanico ( leggi Lutero) poteron pensarla; ma la sola Francia poté compierla, ed ora essa sola può spogliarla delle sue tremende conquiste. Restituire adunque la Religione a questo popolo…era lo stesso che assicurarla all’Europa. Questa felice controrivoluzione di universale interesse dovette dunque fissare le sollecitudini, le cure, i pensieri del Capo della Religione universale". (60) Secondo Rosmini, "la matrice del dogma della sovranità popolare è ravvisabile nella violazione del principio d’autorità, operata, nella sfera religiosa, dai movimenti ereticali che costellano la storia della Chiesa, culminata nella riforma ed allargatasi inevitabilmente, dopo di questa, dal piano religioso a quello civile e politico. Alla Riforma…spetta la responsabilità d’aver posto fine al sistema della ‘monarchia temperata’ cristiana…".(61) Ma questo spirito di ribellione che agita gli animi e la "moderna" brama di scuotere ogni potere superiore in nome della libertà, non porta da nessuna parte: infatti, lo stesso fallimento dei moti rivoluzionari del 1820 è "conseguenza dello scarso valore militare degli italiani, frutto di un generale rilassamento morale".(62) Da questo momento, in un "climax" ascendente e parossistico, Inghilterra, protestantesimo, repubblicanesimo ed indifferentismo religioso sono oggetto di una condanna senza appello. Se pure la Francia s’è fatta ubriacare "da un vino di prostituzione",(63) scrive De Bonald, " l’Inghilterra è sempre il teatro di questa sorda agitazione".(64) Poiché la repubblica è "satanica", e fondata "sull’ateismo e il delitto"- rileva sade -,(65) " è con piena malafede che le chiese presbiteriane hanno preteso, a forza di parlare, di farci accettare, come un presupposto possibile,…[la] forma repubblicana…Si pretende che ogni paese abbia una sua Chiesa, repubblicana. Ma non esiste, e non può esistere, una ‘Chiesa cristiana repubblicana’…".(66) " Ci vogliono leggi fondamentali, è necessaria una costituzione! …Non risulta che i numerosi tentativi fatti per limitare il potere sovrano abbiano mai suscitato il desiderio di imitarli. Soltanto l’Inghilterra…è potuta riuscire in qualcosa di simile".(67) "Ovunque, l’indifferenza per la verità conduce al sistema della ‘libertà’ e dell’ ‘uguaglianza religiosa’. Questo sistema si sviluppa in parecchi paesi, ancor più rapidamente che in Inghilterra…[ove] si ammette, è vero, che una religione sia necessaria al popolo, ma una religione qualunque".(68) Montesquieu avrebbe del resto percepito, secondo De Bonald, la "segreta conformità tra religioni e governi", tanto da affermare che " la religione cattolica ‘si addice di più’ a una monarchia; e quella protestante ‘conviene’ maggiormente ad una repubblica".(69) Del resto i protestanti "non potrebbero mai rifiutare la tolleranza all’ateo, a meno di non abbandonare le loro stesse massime".(70) Dall’Inghilterra, faceva notare Ricuperati, erano partiti quei libri che avevano fatto il giro del mondo, e che erano tradotti prima ancora di essere stampati in lingua inglese. E non solo, continua Recuperati, ma è dall'Inghilterra che giungono nel continente quegli stereotipi linguistici che ossessivamente erano ripetuti, proiettando, "su un pubblico europeo i suoi stereotipi repubblicani...libertà, tirannia, patriota, bene pubblico,virtù...".(71) Per non parlare poi del dilagare di personaggi emblematici, come Catone e soprattutto Bruto. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il linguaggio carbonaro, sa che Catone e Bruto occupano un posto di primissimo piano nell'immaginario della setta. Si pensi, "e contrario" al tono del Bocchi, allorché, di fronte alle rimostranze di acuta sofferenza di Foresti, eclamava ironizzando: "Quale eroe! Che Bruto, quale Catone o Seneca di nuovo stampo!". Sottolineava poi Recuperati che " l’apologia della libertà rivestiva i panni non solo di Catone, ma soprattutto quelli di Bruto...". (72) Ora, la figura di Bruto ha un rilievo straordinario nella cultura inglese. Nel Ser Gawain and the Green Knight, romanzo arturiano di lingua inglese composto nel 1360, Bruto, anzi "Brutus" o "Felix Brutus" è " celebrato come capostipite dei britanni sia nella Historia di Geoffrey of Monmouth che in due successivi rifacimenti e adattamenti: il Roman de Brut (1155) del troviero anglonormanno Wace, e il Brut dell'inglese Layamon (ca. 1205). Nella storia mitologica dell'Inghilterra, divulgata da queste opere, l'immaginario eroe troiano Bruto, pronipote di Enea, era giunto nella maggiore isola d'oltre Manica e vi aveva fondato Troynovant ("la nuova Troia"), più tardi chiamata Londra...".(73) E ancora: la stella a cinque punte, uno dei più conosciuti simboli carbonari, era, nel Ser Gowain, il "nodo infinito degli inglesi". Ai vv. 625-630 si legge:

"...un segno che Salomone stabilì un tempo/ come pegno di lealtà, per la proprietà che possiede,/ poiché è una figura che ha cinque punte,/ e ogni linea si sovrappone e si concatena all'altra, e in nessun punto finisce, e gl'inglesi lo chiamano/ ovunque, come sento dire, il nodo infinito". (74)

Tale simbolo era impresso sullo scudo di Galvano, a designarne "con geometrica perfezione la qualità primaria dell'eroe, e il suo ideale caratteristico: la lealtà, intesa come virtù multipla, "quintuplice"...Il pentagramma tracciato in oro sullo scudo rimanda anche al nome di Cristo...".(75) La stessa vestizione di Galvano "sembra appartenere a un rito iniziatico,[che] culmina dunque con la consegna al giovane dei simboli sacri della "tribù".(76) Modello d'una lealtà cavalleresca che coincide con la più pura spiritualità cristiana, egli è il portatore dei valori più elevati della comunità di Camelot, il "salvatore" del suo popolo, a beneficio del quale ha deciso di sacrificarsi, mettendosi ora in viaggio quasi sicuramente verso la morte...".(77) Stella a cinque punte, simbolo di Cristo. Due motivi in uno, che della simbologia carbonara costituiscono l'elemento precipuo e al tempo stesso una delle concause della condanna espressa nell'enciclica contro i carbonari.

Secondo Noel Braisford, prima del '600 la Francia non conobbe sètte.(78) Ma l'Inghilterra sì! Anzi, le esportò proprio sul suolo francese. Quando il movimento inglese dei livellatori fu disperso, esso trovò il suo rifugio naturale nelle sètte, e un luogo ove radicarsi nella zona di Bordeaux, in cui prolificò dando vita a un "compagnonnage" di cui la Francia non ebbe il benché minimo sentore prima dell'arrivo delle frange disperse dei livellatori sul suo territorio. Infatti, le stesse rivolte contadine francesi non ebbero nulla di così radicale come quelle guidate dai livellatori in Inghilterra. Solo quando i livellatori fecero stanza a Bordeaux, "legata sin dal medioevo alla storia inglese",(79) cominciarono a circolare versi di questo tipo: La nazione bordolese ora si picca, nientemeno, che di erigersi in repubblica.(80) Nelle rivolte dei contadini francesi del ‘600 si nota la totale "assenza di coscienza riformatrice, di [un] programma sociale, paragonabile a quella dei livellatori inglesi della stessa epoca".(81) Il rilievo di Mandrou testé citato è rinforzato dalle pregnanti osservazioni di Mousnier: le rivolte popolari francesi furono guidate dalla nobiltà, e gli stessi "Croquants", nel 1636, facevano riunioni alle quali partecipavano nobili ed ecclesiastici. Si trattò di rivolte di cui spesso approfittavano briganti e vagabondi al solo scopo di saccheggio, che erano lontane da qualsiasi idea rivoluzionaria volta allo scardinamento dell'ordine feudale. Alle rivolte contadine francesi mancava un qualsiasi coerente programma politico, e il re non veniva mai messo in discussione: Viva il re senza gabelle, viva il re senza tailles.(82) Queste folle contadine altro non praticavano che "rivolte selvagge".(83) Se dunque la Francia del '600 non conobbe alcun movimento settario con un chiaro ed evidente programma politico, e se è vero che un serio programma politico radicalmente riformatore si intravide solo allorché in Francia fecero la loro comparsa i livellatori, è evidente che non tanto alla Francia si deve guardare se si vogliono individuare le matrici prime dei movimenti settari dell'Europa Occidentale, quanto all'Inghilterra. In Francia infatti le uniche confraternite esistenti, quelle dei "compagnons", non avevano un programma politico: erano, come rileva Braisford, società segrete di carattere meramente economico, con scopi puramente assistenziali, allorché qualche confratello si fosse trovato in difficoltà.(84) E l'ipotesi di Braisford possiede un suo fondamento, perché Armand Marquiset, studiando nel 1842 un'organizzazione carbonara della zona di Besançon, situata nella Forêt de la Serre, scriveva: « … Les charbonniers étant ceux qui se trouvaient le plus nécessairement en position de demander ou de donner des secours, devaient rechercher avec le plus d'ardeur les moyens d'apporter quelque diversion à leur vie d'isolament. Il est probable qu'ils furent les fondateurs de l'association, rappelant à leur aide l'attrait du mystère, irresistible dans tous les temps et dans tous les lieux, il empruntèrent à l'art de la carbonisation du bois, leur emblèmes, leur cérémonies et leur vocabulaire symbolique ». Ma un po' prima, Marquiset era ancora più esplicito, offrendo, sia pure latamente, informazioni sia sull'antichità sia sugli scopi della società segreta della forêt de la Serre. "…Celle-ci - scrive - n'a aucun but politique; elle est née dans les temps assez reculés, du besoin qu'ont éprouvé les hommes, contraints par position de vivre dans les bois, de se rapprocher et de se secourir mutuellement...".(85) Dunque, i carbonari della Serre, organizzatisi in tempi "assez reculés", molto antichi, avevano scopi sicuramente di mutuo soccorso, ma " aucun but politique", alcuno scopo politico. Le cose mutano totalmente aspetto verso la fine del '700. Edmond Guinchard, a proposito dell' Ermitage, che servì, tra il 1840 e il 1850, alle riunioni della Vente des Bons Cousins Charbonniers de la Serre, riporta un documento interessante relativo all'anno 1792, in cui al contrario del precedente si fa menzione chiara dello scopo politico: "…Le 1er novembre 1792. On trouve consigné dans les délibérations du Comité de surveillance de Lons-Le-Saunier que les divisions haineuses qui affligent cette commune sont attribués aux Bons Cousins Charbonniers. Selon leur institution, dit la délibération, les Bons Cousins ne devraient se rassemler que dans les bois et nous voyons pourtant qu'ils se reunissent dans la ville pour jouer, et qu'ils tiennent registre de leurs délibérations. Chez un peuple libre, tout corporation qui n'a pas pour objet le soutien de la république ne saurait être soufferte ».(86) Ovvio che all'altezza del 1792 siamo nel culmine della rivoluzione francese, ma è sintomatico il fatto che il documento si soffermi su un punto in particolare, ossia che lo Stato non avrebbe permesso fossero sorte società che non avessero per obiettivo primario "il sostegno alla Repubblica". Il che significa che spesso tali associazioni erano "apolitiche", e che nei loro statuti si rifacevano alle più antiche strutture del "compagnonnage", che sottolineavano, appunto, l'aspetto puramente economico-assistenziale di esso. Come dunque suggerisce Braisford, le confratenite dei "compagnons" erano società segrete di carattere puramente economico. Solo quando i livellatori fecero la loro comparsa a Bordeaux, nel programma dell' "Ormée" si individuano elementi repubblicani e decisamente riformisti. Quando i livellatori si insinuarono fra i "compagnons", nacque "il partito repubblicano di Bordeaux", con un programma molto vicino a quello dei livellatori, fino a prevedere " una rivoluzione repubblicana di tipo inglese".(87) Insinuatisi quindi nelle confraternite dei "compagnons" con un programma essenzialmente politico, gli "ormistes" sconvolsero le strutture della primitiva organizzazione, dandole un'impronta livellatrice e facendole superare gli antichi caratteri economicistici e vagamente religiosi. Questo in Francia.

E in Italia?...
E in Italia? Per Franco Venturi "resta il fatto che la rivoluzione inglese non suscitò quell’ondata ideologica che accompagna altre e posteriori rivoluzioni europee. Le idee dei "levellers" furono certo conosciute, ma non suscitarono movimenti politici di qualche portata al di là della Manica. Le idee nate dall’Inghilterra…erano destinate a passare sul continente soltanto in forma filosofica che diedero loro John Toland e Antony Collins, quando si presentarono cioè come deismo, come panteismo, come libero pensiero, come esaltazione della libertà inglese, magari come framassoneia. Soltanto così le idee dei levellers e dei repubblicani classici dell’Inghilterra seicentesca divennero cosmopolite e poterono attecchire in Francia, in Germania, in Italia…".(88) In realtà, possediamo prove che contraddicono Venturi, perché i "radicals" divennero noti anche per altri canali, ben più concreti del filone puramente "filosofico", specie in una zona "calda" come il Regno di Napoli. Qui gli avvenimenti inglesi vennero conosciuti pressoché subito, provocando un immediato interesse in storici molto attenti come Siri e Bisaccioni, i quali si resero subito conto di trovarsi di fronte a eventi politici di portata incalcolabile. Essi intuirono che il "popolo" inglese stava lottando per una "Repubblica popolare", per la "Democratia". Il popolo dunque, rilevava Bisaccioni, " con fierissima avversione alla Monarchia…anela a fabbricare su le rovine dello Stato Monarchico quello della Democratia". Una volta condannato a morte Carlo I, sia Siri sia Bisaccioni avvertono con stupore incredulo che in Europa è accaduto l’impensabile: "Fu tramutata la Monarchia in una Democratia"; "fu dunque introdotta la dominatione del popolo".(89) Siri e Bisaccioni scrivono di "storia contemporanea", di fatti recentemente accaduti, e lo fanno in forme squisitamente storiografiche, interpretando i fatti, e senza le velature di una qualsivoglia mediazione filosofica. Impossibile poi dimenticare la figura ardente del repubblicano Giuseppe Donzelli, che vantò per Napoli, già s’è notato, una tradizione repubblicana "trimillenaria". "Qual persona può trovarsi così temerariamente ignorante che…non sappia che la città di Napoli è stata Repubblica libera per lo spazio di tremila anni…?".(90) Così Donzelli, che, certo, si rifaceva a una "tradizione infondata, una sorta di mito intellettuale, ma ampiamente diffuso e accreditato, e che ora alimentava concrete prese di posizione politiche".(91) Donzelli guardava con "simpatia l’esplosione del moto popolare", voluto da "genti di humilissima conditione". Donzelli, insieme con Sebastiano Bartoli, Leonardo di Capua, apparteneva all’ "Accademia degli Investiganti", che sferrò un attacco senza precedenti contro il "potere", non solo in nome di un rinnovamento della scienza, ma anche della società civile, pagando alla fine con una sconfitta bruciante. Né si può sottacere che gli "Investiganti" ebbero contatti significativi con studiosi inglesi in quegli anni rivoluzionari, e sappiamo che Philiph Skippon e John Ray, futuri membri della "Royal Society", assistettero a Napoli ad alcune adunanze degli Accademici. " Nel palazzo del marchese di Arena – narra Skippon -, il 29 giugno, fummo introdotti nella sala dove gli Accademici Investiganti si incontrano ogni mercoledì pomeriggio, e notammo circa 60 persone presenti".(92) Ora, si tratta evidentemente di contatti importanti, con personaggi del mondo della cultura di una nazione, l’Inghilterra, appena uscita da una "rivoluzione" che non aveva precedenti nella storia, e che possono aver rinvigorito i sentimenti repubblicani che già erano presenti in molti "Investiganti". Nelle espressioni del Bartoli emergono insofferenza e volontà di lotta contro un potere che angustiava la vita dei cittadini, privandoli persino del necessario per vivere: " Nell’Università non meno ha luogo il viver sano, che l’aver con che vivere, come fu ben notato dal Bodino […] ecco che per istabilir in pace la Repubblica non solamente si richiede, ma è necessario, che si pensi come debbiamo vivere […] Non solamente è cara la vita agli uomini, ma si rende lor odiosissima, quando non hanno come sostentarla…".(93) E Donzelli: " Fra tanto lo specioso, e dolce suono della voce di Repubblica [sic], aveva penetrato gli orecchi ma molto più vivamente i cuori de i veri amatori della Libertà […]. Ed in vero è la Libertà una delle più nobili prerogative dell’huomo; et un cibo tanto soave e di così perfette sostanze, che col solamente odorarlo, ha facoltà di nutrire: onde non è meraviglia se viene così ardentemente desiderato…e tanto più da quei Popoli, che essendosene, per migliaia d’anni, quietamente pasciuti, ne sono poi stati, per molti secoli, amarissimamente digiuni".(94) Nel caso di Donzelli, sottolinea Messina, " l’esaltazione ideale di libertà…sfocia nella proposta politica di una repubblica indipendente".(95)

Nel Regno di Napoli, quindi, fu la politica viva proveniente dalle Isole Britanniche a essere ripensata in funzione di una iniziativa "nazionale", e in questa lettura degli eventi inglesi non agirono stereotipi filosofici, bensì immediate, contemporanee "emozioni politiche", e altrettanto simultanee concretizzazioni rivoluzionarie. Per converso, gli inglesi dimostrarono altrettanta attenzione agli avvenimenti di Napoli. Ben tre furono le edizioni londinesi della cronaca della rivoluzione di Alessandro Giraffi. A Londra e in Inghilterra "la conoscenza dei fatti fu tempestiva…Il tentativo di rovesciare un dominio monarchico che tutti i viaggiatori avevano giudicato solidissimo cadeva naturalmente su terreno fertile, coincidendo con la svolta repubblicana della rivoluzione inglese..".(96) Così, mentre Howell traduceva la storia del Giraffi, uscivano anonime la "collection of Proclamations and Edicts issued at the time of the rebellion of Masaniello" del 1647; la "True Relation of the reducing of the City of Naples", del 1648; la "Rebellion of Naples", del 1649; oltre la " An exact historie of the Late Revolution in Naples" dello stesso Howell del 1650.(97) Intorno al 1763 Walpole annotava che oltre 40000 erano stati gli inglesi che avevano visitato l’Italia, dando il via a un turismo di massa che gli italiani sapevano sfruttare a dovere, operando "un commercio di opere d’arte per i grandi collezionisti ed un altro di copie, di stampe o paccottiglia antiquaria per la massa".(98). Livorno, sin dal ‘600 fu un emporio inglese e a poco a poco anche il Regno di Napoli divenne un partner commerciale talmente importante "che la maggior parte dei tessuti inglesi che giungevano in Italia negli anni sessanta del XVII secolo [venivano] assorbiti dal mercato meridionale".(99) La stessa Sicilia subì influssi economici e culturali che coinvolsero tutta la gioventù e la società in genere, promuovendo nell’isola un costume fortemente ispirato allo stile inglese.I nobili isolani "si orientarono più decisamente verso il pensiero e la cultura inglese, che, come prodotto di una nazione considerata modello di libertà e di progresso, ben soddisfacevano il loro desiderio…Economisti e scrittori di diritto pubblico inglesi furono studiati con interesse e ardore crescenti, sino al punto che in Nicolò Palmeri ‘ crebbe sì forte – com’egli dice – l’affetto per L’Inghilterra e poi per le cose inglesi che volgeva in entusiasmo". I rapporti commerciali, già notevoli nei secoli precedenti, furono particolarmente vivaci durante l’età della Restaurazione.(100)

Riposto, paesetto di verghiana memoria dove Bastianazzo era andato a vendere i suoi lupini, condivideva "con Marsala il primato nell’esportazione dei vini siciliani", particolarmente apprezzati da Nelson, duca di Bronte. "Nonostante l’accanita concorrenza, rileva Vecchiato, la Gran Bretagna era il miglior cliente della Sicilia", che inoltre esportava negli Stati Uniti e in Inghilterra rispettivamente 104.835 e 98240 casse di agrumi, cosa che faceva dire a un viaggiatore inglese: " the sicilian fruit is not only good in quality, but peculiarly adapted to long voyages".(101) Oltre ai viaggiatori, è necessario poi mettere in conto, già si è visto, gli intensi rapporti che legavano gli scienziati inglesi a quelli italiani, specie con Firenze e con il Regno di Napoli, rapporti che "furono molto più intensi e continuativi di quanto non lascino pensare [le] rapide annotazioni di viaggio" di alcuni di essi.(102) Dopo lo sterminio dei "levellers" e dei "diggers" (zappatori) nel 1649-’50, non vi fu, secondo Hill, una loro dissoluzione totale, le loro convinzioni politiche "sopravvissero come tradizioni sotterranee, clandestine", né di deve parlare di una "insignificanza numerica delle idee radicali".(103) Certamente, quando Hill suggerì l’ipotesi che la cultura "diggers" non si fosse dissolta, e anzi si fosse perpetuata in una sorta di tradizione "underground", vi fu una generale levata di scudi. Richard Schlatter, con pungente ironia, asserì che le idee dei "radicals" erano sì sopravvissute, ma solo nella mente di Hill.(104) Al di là degli slogan ad effetto, forse la cosa andrebbe ripensata. In tanta circolazione di uomini e di idee, oltre ai 40000 viaggiatori ricordati da Walpole e a numerose comunità di "mercanti inglesi" con sede stabile a Livorno,(105) non è da sottovalutare la presenza in Italia di numerosi marinai inglesi. I mari italiani erano infatti battuti dalla flotta inglese, e ai vertici di essa la Pagano De Divitiis ricorda un personaggio molto interessante, Sir John Lawson, "ammiraglio anabattista e repubblicano…[che] comandò la flotta del Mediterraneo dal 1661 al 1664 in varie riprese".(106) La tutt’altro che breve permanenza di Lawson ai vertici della flotta inglese nel Mediterraneo potrebbe portare molta acqua al mulino di Hill. Dopo la rivolta del 1649 e l’imminente quanto temuta rivalsa di Cromwell, molti marinai si posero sotto la protezione del vice ammiraglio Lawson, sotto il cui comando, già in passato, "erano stati ben organizzati", al punto che "il Lord Generale non osò intervenire". Lawson fu, tra l’altro, fu un autorevole esponente del movimento livellatore e nel 1665 "cospirò col colonnello Overton contro il protettorato".(107) I marinai costituirono quindi un altro canale potentissimo di diffusione delle idee radicali nel Mediterraneo, e proprio in anni cruciali. Fu infatti a partire dal 1649 che prese avvio la "dispora" dei marinai inglesi dalla flotta della madrepatria, con una dispersione di uomini senza precedenti nella storia della marina britannica. Data la loro perizia, anche nelle condizione più avverse, i marinai inglesi erano appetiti da tutti gli stati italiani, da Venezia a Napoli. " Da un’indagine svolta nel 1675 - scrive Pagano De Divitiis -, dal console inglese a Napoli, George Davies, presso il principe di Montesarchio, ammiraglio della flotta spagnola, risultava che cinquanta su sessanta marinai erano inglesi". Così, da Livorno a Napoli i regnanti italiani intendevano "valersi di vasseli [sic] e uomini di altre nazioni che si trovano sul loro territorio".(108) Molti marinai inglesi, o per costrizione o per il miraggio di paghe più alte, spesso fuggivano o, peggio, si ammutinavano, come nel caso dell’equipaggio della "Howness Adventure", attraccata a Napoli, che dopo aver bastonato a morte il capitano Broom, chiese asilo politico in città, "rifugiandosi in chiesa".(109) Nel Regno gli inglesi "scandivano non solo il tempo politico, ma anche quello del commercio". (110)

E fu appunto in Sicilia e a Napoli che prese piede, verso la fine del Settecento, una setta fieramente "avversa" alla Massoneria. Durante il suo viaggio in Italia teso ad auscultare lo stato di salute delle varie logge massoniche disperse per la Penisola, Münter ebbe notizia che nel 1786 tra Messina e Napoli era sorta una setta molto potente, che aveva messo in crisi l’intera rete della massoneria del Regno, e che anzi esponeva al ridicolo i suoi componenti. Era la setta degli Zappatori .(111) " Si tratta di una società sorta a Napoli ed in Sicilia, avversa alla libera muratoria. Il suo scopo era quello di tradire il nostro Ordine, di renderlo ovunque ridicolo e di svelare al pubblico i nostri segreti…Erano riusciti a infiltrarsi nella loggia del duca di San Demetrio ed in altre ancora. Erano molto temuti a Napoli e a Palermo…Hanno logge regolari con tutte le loro cariche. Il loro motto è, soprattutto nella corrispondenza epistolare: Fratello ricordati che spendere denaro è una coglioneria!’…".(112) Ora, è quasi impossibile non riconoscere in una setta di tal genere riflessi e influenze inglesi. "Fratello, ricordati che spendere denaro è una coglioneria". Il motto riprendeva gli "aforismi" di Benjemin Franklin persino nella struttura sintattica: "Ricordati che il tempo è denaro". E’ Franklin che "predica questi aforismi" – osservava Weber – e " nessuno vorrà porre in dubbio che da essi parli lo spirito del capitalismo".(113) Gli zappatori furono, in effetti, i più fieri avversari della Monarchia, gli unici tra gli stessi livellatori a mettere in discussione la proprietà privata e a propugnare il radicalismo repubblicano, volto a riformare "rooth and branch" (dalle radici) l’intera società.(114) In questa setta sono però ravvisabili anche influenze "americane", e probabilmente essa risentì delle riforme introdotte da Benjemin Franklin nel mondo settario degli Illuminati, che furono da lui coinvolti, secondo Kosellek, in un’ideologia repubblicana.(115) Il repubblicanesimo inglese, filtrato dagli americani, divenne infatti "un ideale…che si collocava fra l’etico e il politico ed era perciò particolarmente adatto alle condizioni americane. Per questo divenne la bandiera dei rivoluzionari che con esso, con il programma cioè di dar vita a una società nuova impossibile nelle condizioni presenti, diedero una giustificazione sostanziale alla lotta per l’indipendenza".(116) In Italia, e in particolar modo nel Veneto, pur inneggiando da più parti al Franklin, lo si considerava, più che un americano, un "inglese", e per tale ragione l’"Americana Repubblica" diventava come una propaggine delle idee maturate in Inghilterra. Così Franklin era "un inglese abitante in Filadelfia d’America", un "libraro inglese" e, infine, "un esprit propre de la Nation Anglaise".(117) La matrice anglo-americana della setta degli zappatori, con i suoi componenti contraddittori, misti di radicalismo democratico-repubblicano e di elementi capitalistici, pare ripetere "ante litteram" la situazione confusa della carboneria. Molti osservatori attenti del mondo settario carbonaro lo giudicarono infatti poco lineare, confuso, contraddittorio, poco chiaro: la carboneria fu paragonata a un grande fiume in cui confluivano acque molto diverse le une dalle altre. Il sintomo lo si vede chiaramente nello Statuto Generale, ove si notano, accanto a generici riferimenti all’eguaglianza, altri specifici riguardo alla "proprietà", ritenuta "lesiva" dell’eguaglianza. E ciò è probabilmente il frutto del compromesso cui la carboneria dovette assoggettarsi nel momento della sua rapida acclimatazione nel Regno di Napoli, ove appunto erano presenti componenti radicali, che premevano per un riconoscimento della loro presenza a livello statutario.

Ma al di là delle diversità ideologiche tra repubblicanesimo democratico livellator-giacobino e repubblicanesimo moderato, forte sia al Sud come al Nord, con spostamenti, come abbiamo già visto, verso soluzioni di tipo "misto", all’inglese, di un Porro e un Confalonieri, resta il fatto, fondamentale, che la carboneria fu repubblicana almeno nella sua sostanza programmatica originaria, e ciò non poté sfuggire all’occhio indagatore della Chiesa, che all’indomani della Restaurazione e memore degli incendi politico-religiosi che il repubblicanesimo aveva provocato nell’Europa cristiana, e che gli attacchi più virulenti sin dal profondo Settecento contro l’autorità del papa vennero dall’Inghilterra, voleva chiudere definitivamente i conti con un fenomeno perverso e "satanico". La Chiesa volle quindi, e qui ci si spiega la durezza dell’enciclica contro i Carbonari, più che colpire una setta che in fondo contava nel suo seno esponenti quasi tutti cattolico-romani di stretta osservanza, come testimonia la presenza di tanti ecclesiastici, chiudere per sempre i conti con quel "nido di vipere" protestante in cui, per De Maistre come per Rosmini, stavano le "radici" di ogni male politico e religioso che aveva minato la salute dell’antico regime. "…Il grande nemico dell'Europa, sentenziava inappellabile De Maistre, l'ulcera funesta che intacca tutte le sovranità…il padre dell'anarchia, l'universale dissolutore è il protestantesimo… E' nato ribelle, e il suo stato abituale è l'insurrezione…E' nato ribelle, e il suo stesso nome è un crimine, perché protesta contro tutto…".(118) Ecco quindi perché la Carboneria venne "terminata" e assimilata "tout court" alla prima, vera e sconvolgente eresia dei primi secoli cristiani, il priscillianismo. Ed eretici senza possibilità di appello furono appunto definiti gli aderenti alla setta, con tutte le conseguenze che comportava la condanna, fino al punto da spingere i "buoni cugini" a denunciare all’autorità ecclesiastica persino i familiari più prossimi.(119) Da qualunque parte si osservi la questione, che l’ideale carbonaro fosse repubblicano, sia pure con le sfumature più varie e diversificate, come sosteneva Mazzini, restava il fatto, certo, inequivocabile, chiarissimo agli occhi della Chiesa, che esso promanava dal mondo dei protestanti.Il canonico napoletano Arcucci protestava che fra i carbonari non v’era "ombra…di opposizione con le massime della religione", e la loro società aveva solo "un oggetto politico".(120) Senza sospettare che era appunto quell’ oggetto che condannava inesorabilmente lui e la setta cui aderiva. L’ingenuità di gran parte della "base" carbonara traspare chiaramente dalle fonti; un’ingenuità ideologica, un entusiasmo patriottico che fu strumentalizzato, e vedremo come, da uomini come Porro e Confalonieri, i quali nascondevano alla base un "grande segreto", oscurando con tecnica tutta massonica obiettivi molto meno nobili di quelli con cui manipolavano la "massa".

E’ un fatto che la Carboneria non godesse di buona fama nell’Europa contemporanea. Attorno ad essa v’era un "vuoto", che andava dall’irritazione, all’irrisione oppure all’indifferenza, o, per dir meglio, quella che ai carbonari (e a molti loro interpreti) poteva "sembrare" indifferenza, ma che in realtà era ben altra cosa. L’irritazione maggiore veniva, come abbiamo visto, dal mondo cattolico e dalla Francia, da sempre "cristianissima", secondo il Papato, che anzi vedeva in essa la forza propulsiva per scardinare l’ "empietà". L’irrisione proveniva invece dalle regioni tedesche, Germania e Austria. I tedeschi mostravano sia scarsa propensione per i movimenti rivoluzionari sia disprezzo per un popolo italiano ormai definitivamente decaduto e privo di qualsiasi virtù militare. L’avevano dimostrato i moti del 1821, domati con estrema facilità da Metternich, tanto che in Germania più d’un liberal-radicale deluso aveva messo il nome di "Pepe" al proprio cane.(121) " Ho avuto modo – scriveva Arndt – di vedere e sentire abbastanza ‘fuoriusciti’ italiani. Ci si spaventa e contemporaneamente ci si rattrista all’udire la vacuità delle aspettative e speranze di una Italia unita, grande e potente, con le quali essi si consolano e si cullano…".(122) E a Gentz la rivoluzione napoletana era parsa "talmente ridicola e disprezzabile da superare di gran lunga perfino l’opinione sfavorevole dei suoi più decisi oppositori".(123) Addirittura sarcastico Metternich: " I radicali si sono detti vicendevolmente tante menzogne che ora si dovranno alquanto vergognare".(124) L’Inghilterra, dal canto suo, stava alla finestra, certo sempre pronta a intervenire qualora un’improbabile vittoria dei carbonari avesse portato a un’espulsione dell’Austria e a un intervento francese. L’Inghilterra sembrava insomma "attendista" e senza alcuna voglia di sbilanciarsi più di tanto finché l’Austria avesse saputo mantenere le posizioni in Italia, e pertanto non si fosse incrinato quello "status" di "equilibrio" sul quale la "Perfida Albione" aveva fondato la sua politica secolare nel Mediterraneo. Una cosa è comunque certa: anche se ogni tanto correvano voci, allo scoppio dei moti del ’21, sempre smentite nei fatti, di un intervento inglese,(125) l’Inghilterra non sarebbe mai intervenuta militarmente in Italia. Gentz l’aveva pur manifestata la sua impressione a Metternich durante i lavori del Congresso di Vienna: l’Inghilterra mirava solo e soltanto alla "peace", pace comunque e a ogni costo ( "…England wished for peace, peace before everything, peace –I am sorry to say it—at any price and almost on any conditions…").(126) Lo stesso Castlereagh in una minuta del suo Gabinetto del 1820 si era espresso in termini tutt’altro che ambigui. Il pensiero di Lord Castlereagh era tutto votato alla prudenza e alla "peace". Né mai, asseriva Castlereagh, l’Inghilterra si sarebbe esposta con una nuova guerra per motivi "intellettualistici" o anche per semplici motivi precauzionali. L’Europa scaturita dal Congresso, afferma lord Castlereagh, sarà dominata "by the Peace under the Protection of the Alliance", né "this Country ( ossia l’Inghilterra) cannot and will not act upon abstract and speculative Principles of Precaution…".(127) La classe dirigente inglese degli anni ’20 si muoveva, dopo un venticinquennio di guerre, con una cautela che non conosceva confronti con la politica estera inglese precedente. Così, mentre i carbonari aspettavano ansiosi di veder apparire all’orizzonte la flotta inglese, nulla di concreto accadeva, né sarebbe potuto accadere, anche se gli inglesi, tutto sommato, avevano da sempre manifestato simpatie per l’Italia. E non ci si riferisce solo all’ospitalità concessa ai nostri patrioti e all’appoggio del circolo di Lord Holland, considerato da Metternich una vera spina nel fianco, ma anche ad altri comportamenti significativi.(128) Nel 1815, per esempio, furono lord Castlereagh e il suo sottosegretario agli affari esteri Sir William Richard Hamilton (1777 – 1859) a permettere al Canova il successo della sua missione tesa a richiedere la restituzione al papa delle opere d’arte trafugate da Napoleone.(129) Nello Rosselli commentava con toni aspri l’attività del "foreign office", che sembrava immerso nel più "alto sonno" e colpito da "subitanea miopia", nonostante gli allarmi che venivano dall’incaricato d’affari Percy nel regno Sabaudo.(130) Né Rosselli né tantomeno i carbonari prima avevano in effetti intuito che ormai le cose erano profondamente mutate e che il governo inglese aveva definitivamente acquisito un’ottica che avrebbe condannato i carbonari all’isolamento internazionale. Era ormai chiaro che il benessere interno dell’Inghilterra dipendeva dal buon andamento del commercio estero, né questo era obiettivo perseguibile in tempo di guerra, quando "i mari erano infestati dalle navi nemiche".(131) Sottoccupazione, disoccupazione, denutrizione avevano provocato durante le guerre napoleoniche una situazione insopportabile in Inghilterra, che fu costellata di numerose e pericolose rivolte destabilizzanti: 1811, 1816, 1817, 1819.(132) Di qui dunque si spiega l’estremo atteggiamento di prudenza di Lord Castlereagh e del suo Gabinetto sulla questione italiana, fatto non di "indifferenza", ma essenzialmente di attenta osservazione dell’evoluzione degli avvenimenti, di simpatetica ansia con Metternich, e mai di decise prese di posizione o, peggio, di impossibili interventi che avrebbero gettato l’Inghilterra in un probabile e tutt’altro che remoto caos interno, in una situazione economica ingovernabile.

Le ragioni del nuovo corso della politica estera inglese dei primi anni Venti dell’800 è stata ben spiegata da P. Deane, per la quale "il ruolo del governo del diciannovesimo secolo per la promozione del benessere nazionale doveva essere più attivo e meno casuale…". Al fine dunque di evitare crisi economiche e rivolte provocate da una "disoccupazione totale", "l’accresciuta importanza del commercio internazionale significava che sempre più spesso le cause dell’instabilità economica all’interno erano determinate da elementi che potevano essere modificati in base alla politica economica adottata dal governo…[che si rendeva conto] con maggiore responsabilità rispetto ai loro predecessori del secolo precedente, che l’adozione della politica economica più appropriata richiedeva ponderazione e la precisa definizione della linea d’azione da perseguire…".(133)

Tra l’altro il feeling che l’Inghilterra mostrava con L’Austria derivava sia da una visione sincrona con il pensiero di Metternich per quanto riguardava la presenza austriaca nel Regno di Napoli, in funzione antirussa e antifrancese, sia da un’ eguale attenzione al valore della "pace", che in quegli anni veniva maturando anche nel mondo tedesco e in ambienti culturali espressione del pensiero politico del principe di Metternich. Per essi la pace costituiva "il fine ultimo di uno "Staatenverein" costruito su un fondamento religioso".(134) A tutto ciò si deve poi aggiungere un contributo che non passò certamente inosservato, pubblicato proprio nel 1814, in concomitanza con l’apertura del Congresso di Vienna. Nell’ Esprit de conquêt, Constant scrisse: "Noi siamo nell’età che deve necessariamente sostituire l’epoca delle guerre…Poiché guerra e conquista non sono in grado di procurare i vantaggi e la tranquillità che ci danno invece commercio e industria, allora le guerre non hanno più nessuna utilità e la guerra vittoriosa è un cattivo affare anche per chi la vince".(135) Lord Castlereagh avrebbe sicuramente sottoscritto le parole di Constant, e del resto lo fece e lo disse a chiare lettere in un dispaccio a Liverpool del 1818 che l’alleanza scaturita dal Congresso di Vienna "costituiva il presupposto indispensabile della pace", poiché essa dava " aux conseils des grandes puissances l’efficacité et presque la simplicité des volontés d’un seul Etat".(136) Il concetto fu espresso quasi con le stesse parole da Metternich: "C’est que depuis longtemps l’Europe a pris pour moi la valeur d’une patrie".(137) E quanto alla presenza dell’Austria in funzione antirussa, vi fu nel nostro Parlamento, all’indomani dell’Unità, una strana quanto sorprendente ripresa di certi motivi "filoaustriaci" che ricordano molto da vicino la politica estera di Castlereagh. Felice Cavallotti, fiero "bardo della democrazia", forse dimentico di certe sue antiche convinzioni, faceva "alla Camera dichiarazioni che avrebbero anche potuto far strabiliare": " L’impero austriaco è una necessità per noi. Quell’impero e la Confederazione elvetica ci tengono a giusta distanza da altre nazioni che noi vogliamo amiche…ma il di cui territorio è bene non si trovi in immediato contatto con l’Italia".(138) L’allusione alla Russia è fin troppo scoperta. Infatti "solo l’Austria, inorientandosi, è in grado di opporre una valida barriera contro il minaccioso traboccar della Russia, contro il pericolo della unificazione zarista dei Balcani, da cui l’Italia sarebbe direttamente minacciata nel Mediterraneo e nell’Adriatico".(139) Così Cavallotti. Ma un conto è la reboante retorica patriottica, e altro la "realtà effettuale". Quello stesso realismo cui, appena fatta l’Unità, dovette assoggettarsi la Destra, permettendo cospicui, anche se non eccezionali, investimenti austriaci nella Penisola, investimenti che avvenivano surrettiziamente, quasi per una sorta di ritegno, attraverso banche che portavano nomi italiani e che "daL pubblico son credute italiane".(140) E mentre s’attendeva ansiosamente l’aiuto dell’Inghilterra che, come ha incisivamente osservato Hobsbawm non aveva la benché minima intenzione di intervenire militarmente per controllare l’Europa, poiché la sua supremazia era assoluta e da tutti riconosciuta,(141) Mazzini stigmatizzava il fatto che alcuni "capi" carbonari si dessero affannosamente da fare per aggregare a sé, vista anche la situazione internazionale, qualche sovrano "locale", pensando al Piemonte o al Regno di Napoli. Sbagliando, secondo Mazzini, perché essi, anziché cercare l’aiuto di infidi regnanti, avrebbero dovuto dare coesione programmatica al popolo, "principale operatore delle grandi rivoluzioni".(141)

Non costituisce però segreto cosa intendesse Mazzini per "popolo".

"Asino colossale ", "ridicolo", "somaro", "imbecille", "infame": questa scarica di pallettoni fu scagliata con vigore oratorio da Carlo Marx contro "Teopompo", Mazzini, il quale, a parere di Marx, non sapeva gestire la ribellione dei contadini italiani, "vessati fino alla stupidità".(142) Con ogni probabilità Mazzini non meritava di essere letteralmente lapidato con insulti da taverna, in quanto egli partiva da premesse di gran lunga diverse da quelle di Marx. E’ evidente che il "popolo" di Mazzini era quello "senziente" e mediamente "litterato", genericamente borghese e in grado di intuire il suo messaggio politico-religioso, tutt’altro che facile; ed è altrettanto indubbio che il popolo in senso stretto, quello contadino, rimaneva fuori dell’orbita mazziniana, almeno nell’immediato. Successivamente, allorché il popolo "senziente" avesse maturato quell’ideale moralità cui puntava l’azione educatrice mazziniana, solo allora, per azione "trascinatrice", anche il "popolo contadino" sarebbe stato oggetto di attenzioni, con l’eliminazione progressiva e graduale delle secolari ingiustizie che lo attanagliavano. Nell’ottica di Mazzini, dunque, quel popolo, che però per il momento era solo "plebe", poteva e anzi doveva essere riassorbito nel concetto di "popolo", ma solo più avanti, quando cioè il "popolo vero" avesse maturato quella coscienza del "dovere", del "fare per la patria", come ispirato da un profondo spirito di moralità patriottica e religiosa. Anche i fratelli Bandiera, annotava Gramsci, discepoli di Mazzini, allorché fondarono la loro società segreta, l’ "Esperia", raccomandarono caldamente di non acquisire la plebe ignorante.(143)

Tuttavia, la focosa, irriverente e ingiuriosa irruenza di Marx nei confronti di "Teopompo" era probabilmente, "sic et simpliciter", sbagliata. E lo era perché si fondava su idee generali di "rivoluzione contadina", senza tener conto della realtà italiana di quegli anni. Marx non si era reso conto del fatto che ben difficilmente Mazzini dopo e i carbonari prima di lui avrebbero potuto, quand’anche avessero voluto, coinvolgere il mondo contadino italiano in esperienze rivoluzionarie. E ciò, in primis, per la natura stessa del movimento settario, che fu un fenomeno prettamente urbano. La struttura latomica delle sètte implicava necessariamente un’impossibilità palese di una propaganda a largo spettro e di un coinvolgimento "popolare" in senso stretto, che abbisognava, oltre che di programmi chiaramente percepibili, anche di una "piazza" ove poter far circolare le idee, e quando si dice "piazza", si intende "esercito". In secondo luogo, se Mazzini non aveva voluto nell’immediato rivolgersi al popolo contadino, prospettando per esso miglioramenti a lungo termine, la Carboneria non avrebbe potuto, neppure se lo avesse voluto ( e i carbonari, come Mazzini, non volevano ), coinvolgere le masse contadine, perché, lo si voglia o no, il movimento settario carbonaro non fu, a ben vedere, e nonostante le reiterate profferte repubblicane, nient’altro che un fenomeno moderato-conservatore con scarsissima propensione all’attuazione di uno Stato repubblicano di qualsiasi tinta e colore e men che meno un movimento teso a responsabilizzare e a coinvolgere il mondo contadino . Al di là del fatto che un programma carbonaro "comune" non esisteva, e in ciò Mazzini aveva perfettamente ragione, perché la Carboneria era appunto quel "gran fiume" in cui affluivano i torrenti inquinati delle più diverse ideologie, da quella repubblicana a quella monarchico-temperata, venata di costituzionalismo, "a monte" c’era una difficoltà oggettiva, che sicuramente avrebbe impedito una qualsiasi possibilità di successo delle "avances" carbonare verso il popolo contadino, semplicemente perché esso, dopo l’età napoleonica, era diventato, mi si passi l’espressione, come quella famosa camera sotto Luigi XVIII in Francia: "introvabile". E la ragione di fondo di codesta "irreperibilità" del contadino stava nella composizione degli eserciti in Italia così come si vennero configurando nell’età della Restaurazione. L’esercito era infatti l’unico luogo deputato in cui la Carboneria avrebbe potuto, se però "avesse potuto", far leva sul contadino-soldato , ma la verità è che gli eserciti italici non erano più, né in Piemonte né nel Regno di Napoli, gli stessi degli "anni francesi", e le leve erano più che altro medio o piccolo borghesi, sia fra la truppa che tra i sottufficiali, mentre gli alti comandi avevano aderito alla Carboneria per fini che non potevano essere facilmente confessabili.

Nel Lombardo-Veneto
Nel Lombardo-Veneto il carbonarismo fu essenzialmente un sommovimento sotterraneo di "ceti" emergenti, che non intendevano tanto scardinare l’ordine costituito quanto aprirsi un varco verso il potere. Particolarmente visibile è che qui la lotta contro gli Austriaci si configurò essenzialmente come un tentativo da parte dell’antica nobiltà di riappropriarsi di quei ruoli dai quali era stata scalzata dalla politica efficientistica messa in atto dal governo austriaco, che cercava soprattutto "competenza amministrativa" nei suoi funzionari. "L’indipendenza dall’Austria" diventava per essi non tanto un "valore" trascinante verso una sorta di "indipendenza" della nazione "italiana" dallo straniero, quanto la "condicio sine qua non" di una vagheggiata e poi non realizzata "reconquista" di quegli apparati statali che lo Stato-burocratico austriaco aveva avviato tutto sommato con successo "contro" una nobiltà che pretendeva uffici senza averne le qualifiche culturali, sotto il segno dell’efficienza e dell’uguaglianza sostanziale dei propri funzionari, valorizzati dallo Stato in virtù del merito e non dei titoli. Ma era proprio questo che invece l’antica nobiltà voleva: il riconoscimento di un ruolo di prestigio, un ritorno all’antico. E fu con questi intento e con questi scopi che gran parte dell’antica nobiltà aderì alla Carboneria. Il Sardagna, intuì tutto questo e cercò di avvertire in tutti i modi Metternich a Vienna, osservando che dietro lo scontento generale c’erano le attese deluse della maggior parte dell’antica nobiltà e soprattutto del "clergé", che non aveva mai apprezzato gli anni francesi sotto napoleone (…[le] partie de la vieille noblesse…, la plus grand partie du clergé [vivono] dans l’espérance du retour des choses sur l’ancien pied…).(144) Questo ci si aspettava: un ritorno all’antico, un moto "à rébours", dove finalmente nobiltà e clero avessero di nuovo ripreso quel ruolo di comando che era sempre spettato loro nell’antico regime. Solo che l’Austria era ormai decollata, senza possibilità di ritorno, verso un nuovo concetto si Stato, e non voleva né poteva tornare indietro, lasciando però dietro di sé profondi strascichi di delusione e di odio, che poi si concretizzarono politicamente nell’adesione di gran parte della nobiltà più antica e prestigiosa (Porro e Confalonieri) nel movimento latomico della Carboneria. Adesso sì i carbonari lombardo-veneti volevano "l’indipendenza": ma prima, se l’Austria avesse accolto le loro istanze, essi sarebbero vissuti felicemente "dentro" l’impero, accontentandosi, e lo dissero a suo tempo, di una semplice "autonomia" dal potere centrale di Vienna, un’autonomia che permettesse ai rampolli della nobiltà milanese di accupare quegli spazi politici prestigiosi e lucrosi che erano sempre stati prerogativa della nobiltà. Non gradiva la nobiltà l’assioma per cui " lo spirito di fratellanza non ammette distinzione e differenza tra i soggetti che utilmente s’impiegano nell’amministrazione dello stato. Tutti a questo riguardo sono fratelli in una monarchia".(145) Il Conte Federico Gonfalonieri, che tanto commosse le coscienze dei patrioti che ne conobbero i tormenti inflittigli allo Spielberg, sarebbero stati per lo meno costernati se avessero avuto almeno un sunto dell’incontro men famoso, ma che a onor del vero fu fatto circolare, sia pure in ambienti ristretti, a Milano dal Foscolo, dello stesso Conte Gonfalonieri con Lord Castlereagh, nel maggio del 1814, allorché il conte richiedeva per l’Italia un sovrano, uno qualunque, anche…austriaco: " Il migliore interesse della nostra Nazione esige e domanda un Re: e questo re sia anche Austriaco, i nostri voti saranno universalmente compiti, purché noi possiamo ottenere un’esistenza indipendente dagli altri Stati, e una costituzione, o vogliamo dire Rappresentanza Nazionale". Il che costituisce un modo molto elegante per promuovere il proprio ceto a classe dirigente atta a ricoprire il ruolo di "rappresentanza nazionale". (146) Infatti Il conte Odescalchi, ormai prossimo alla pensione, si scandalizzava del fatto che "…lui ritirandosi", il suo posto potesse venir affidato "a uno degli attuali vice-visitatori, niente più che un ex Cancelliere Registratore presso la Cancelleria di governo".(147) Dove si sarebbe arrivati di questo passo? E qui si spiega anche la sostanziale differenza esistente tra le aspettative dei programmi della Carboneria lombarda da quella meridionale. Nel Lombardo-Veneto, mentori Porro, Santarosa, Gonfalonieri, si puntava alla "monarchia temperata", nemmai a simili personaggi sarebbe venuto in mente di proporre una "repubblica", di qualunque colore fosse. Nel Mezzogiorno invece, il modello repubblicano resisteva meglio, anche in virtù della gloriosa, ma non riuscita, esperienza della repubblica partenopea del 1799; anzi, fra quanti promossero il successo iniziale del moto del ’20 troviamo il Pepe, che aveva giocato un ruolo importante nella Repubblica partenopea del ’99 e non aveva dimenticato certi suoi ideali.(148) Ideali che però, per la maggior parte degli ufficiali aderenti alla Carboneria non erano poi così fermi nell’idea di repubblica.

Infatti anche nel Regno i capi militari che guidarono il moto rivoluzionario erano, come al Nord, favorevoli a una monarchia costituzionale, e perciò le pressioni su Ferdinando furono appunto orientate in questo senso.(149) E’ tuttavia da sottolineare che, come ricordava Blanc, nell’esercito v’erano però molte ragioni di scontento, in particolare per la politica militare dei sovrani borbonici, che già dal Settecento si erano impegnati, senza successo, per aprire le carriere anche ai militi di estrazione non nobiliare.(150) Eccezione di un certo rilievo fu costitituita dal generale Vito Nunziante, sergente e "capomassa" nel 1799, assurto sotto i Borboni al titolo di marchese dopo Murat, diventando uno dei più fieri avversari della Carboneria.(151) Fu lui, insieme al Carascosa a essere mandato contro l’esercito "carbonaro" guidato dal Pepe, ma rifiutandosi al momento buono di combattere, anche perché in caso contrario e in quei frangenti significava mettersi contro quasi tutto l’esercito borbonico, dove la carboneria era penetrata profondamente.(152) Nunziante costituì tuttavia un esempio emblematico di soldato, di origini non nobili, che riuscì in quegli anni di mutamenti politici a emergere sino al punto di nobilitarsi, diventando il "marchese" Vito Nunziante.(153) Anche nel Regno quindi dietro una nobiltà "avvilita" nelle sue tensioni, stavano i soldati e specie quei gruppi non nobili, i quali si ripromettevano brillanti carriere e "aperture" senza precedenti in un esercito variamente democratizzato e pronto a premiare i soldati non nobili, ma meritevoli per capacità variamente dimostrate specie in epoca napoleonica. E dietro di loro, specie al Nord, stava tutto quel mondo borghese degli "affari", quei "bottegai", come diceva Metternich, che si ripromettevano ulteriori profitti in uno stato "indipendente", ed è per questo che, incalzava Metternich, essi sostenevano con tanto ardore l’idea del "tricolore italiano".(154) E l’impressione del principe di Metternich non era poi così peregrina, se si guarda a certi eventi sviluppatesi nell’imminenza dei moti del ’48, e se si pensa che ad andare a svegliare l’avvocato Manin quasi nel cuore della notte perché prendesse in mano la situazione e desse il via all’avventura "repubblicana" di Venezia fu un eminente esponente della Camera di Commercio, Antonio Faccanoni, commerciante di grano che ormai credeva pochino alle possibilità dell’Austria di saper rispondere alle richieste del ceto imprenditoriale.(155) Anzi, l’amministrazione austriaca, "proprio nella diffusa percezione della precarietà estrema della sua permanenza in Italia…aveva progressivamente isolato la regione. Sul piano fiscale l’Austria non guardò tanto per il sottile, raddoppiando il carico della prediale nell’arco di qualche lustro con la comoda scusa dei conflitti reali o potenziali prima con il Piemonte sabaudo e, quindi, con l’Italia unificata".(156)

A ciò si aggiunga il "proibizionismo austriaco", accentatosi dopo le carestie del 1816-’17, che appunto danneggiava proprio gli affari dei mercanti di grano veneziani, che si dettero al più deciso e sfrenato contrabbando.(157) Che poi Faccanoni, il quale urlava ai quattro venti "Viva la Repubblica! Viva Manin Presidente!", credesse veramente alla "repubblica", non ci si potrebbe scommettere a cuor leggero, anche perché il Faccanoni ricopriva la carica di console presso il Regno di Sardegna, il che è tutto dire.(158) A prescindere dallo scontento della nobiltà e del clero, a Milano come a Venezia, anche, o forse bisognerebbe dire "per fortuna" per le future sorti indipendentistiche, la ricca borghesia imprenditoriale era variamente insoddisfatta del governo austriaco. A Milano, "la capacità di credito dei banchieri milanesi doveva infatti risultare di norma assai…modesta dati i vincoli e le restrizioni alle loro attività imposte dalla politica monetaria seguita dalle autorità austriache".(159) Più scontenti ancora i commercianti veneziani, specie quelli del grano, impediti nelle loro esportazioni dai divieti austriaci, nonostante le proteste vibrate: purtroppo per loro "l’aulica autorità…era il sepolcro delle petizioni e delle rappresentanze". Di qui le manifestazioni di giubilo e i banchetti offerti a Richard Cobden a Venezia, "Cobden campione del libero scambio. Cobden benefattore dell’umanità". La camera di commercio si riprometteva ottimi affari con gli inglesi. Così come se li ripromettevano Cavour, Ricasoli, Minghetti e D’azeglio, Bastogi e Pasquale Stanislao Mancini, che offrirono altrettanti banchetti a Cobden durante il suo viaggio in Italia: un viaggio ovviamente molto interessante e interessato, dato che è "in coincidenza con l’abolizione delle Corn Laws, che l’Inghilterra comincia a dipendere in misura sempre crescente dall’importazione di derrate estere".(160) Al di là di ciò, che pure costituisce elemento non secondario per un’interpretazione non agiografica del Risorgimento, e per tornare all’argomento, la tensione della componente militare, rilevantissima nella Carboneria al Nord come al Sud, verso una "democratizzazione" dell’esercito è più evidente ancora nel Regno di Napoli, dove già al tempo dei Borboni il soldato non nobile si vedeva sopravanzare da cadetti sicuramente inferiori per capacità, ma destinati a essere "ufficiali" solo in virtù del titolo nobiliare. Nel Regno si era quindi creata una pletora di scontenti nell’esercito, un numerosissimo gruppo che premeva per cogliere l’occasione di un rimescolamento delle carte che portasse gran parte di loro verso quegli alti gradi militari da cui erano esclusi in una società bloccata e ancora attardatasi sulle strutture "restaurate" dell’antico regime.(161) Quanto ai sacerdoti, mentre nel Lombardo Veneto essi non gradivano che l’Austria persistesse in una legislazione di matrice francese fortemente penalizzante delle prerogative del clero, al Sud il clero era letteralmente sovraccarico di impegni "civili" che lo allontanavano sempre più dalla propria funzione.(162) Infine su tutto e su tutti, specie in Sicilia, incombeva una "pesante situazione monetaria", caratterizzata dalla presenza di una " ‘cattiva’ moneta siciliana, tosata e viziata, coesistente nell’isola con le buone monete spagnole e napoletane; da abbondante moneta falsa circolante; da scarsità di moneta minuta per i commerci interni". Tale pesantissima situazione monetaria "si inserì come elemento determinante di scontento nel processo rivoluzionario che condusse l’isola all’unificazione".(163) Nemmeno al Sud, nonostante la predisposizione maggiore della Carboneria per istanze "repubblicane" tendenzialmente più sensibili verso il "popolo", fu possibile una effettiva saldatura tra la sètta e mondo contadino. I contadini meridionali si tennero su posizioni d’attesa forse "fiduciosa", in virtù di quell’elemento repubblicano sempre presente nella carboneria e da cui forse si attendevano sviluppi utili anche per una trasformazione in senso "democratico" nelle campagne. La mancata adesione del mondo contadino alla carboneria, specie al Sud, ove per altro esistevano le premesse sufficienti per una loro partecipazione, dato un plurisecolare "ribellismo" che aveva sempre interessato le campagne meridionali d’antico regime, non si compì e non poteva in effetti attuarsi sia per le ragioni già dette, relative a una strutturazione sostanzialmente borghese del movimento carbonaro, timoroso di rivolte popolari incontrollabili, sia perché il moto innescato dalla Carboneria non solo non volle, ma per certi versi, neppure poté coinvolgere i contadini. Sembrerebbe a una prima analisi che considerazioni di carattere meramente "politico-istituzionale" tenessero discoste le masse contadine da un ribellismo brigantesco di massa come si era registrato nel corso degli "anni francesi". Sembrerebbe, pertanto che, non avendo i carbonari affrontato adeguatamente la questione della proprietà contadina e di un suo recupero sociale, le masse rurali dimostrassero "indifferenza" verso quei fermenti sociali che si stavano sviluppando intorno a esse. La questione potrebbe invece essere un po’ più complessa.

Osservava Pacifici che "offende la verità e la storia" asserire che il brigantaggio si fosse sviluppato nel Mezzogiorno in forza e in ragione dell’Unità. Il brigantaggio nel Sud possedeva radici "millenarie": e non gli si può davvero dar torto.(165) Ma una cosa è parlare di brigantaggio, per così dire, "frizionale", e dai caratteri più o meno delinquenziali, e altra cosa è il brigantaggio "di massa". Ora, un brigantaggio nella seconda accezione è particolarmente visibile nel Regno di Napoli in particolari contesti storici, e intendo riferirmi agli anni "francesi" del Regno, dalla rivoluzione del ’99 fino al termine del regno di Murat. I Francesi, nel reclutamento della truppa, si rifacevano al concetto democratico del "popolo in armi", e pertanto effettuavano leve di massa che andavano a colpire soprattutto i contadini. Il risultato era la "diserzione di massa". Il Della Peruta ha valutato in più di 40000 i disertori dell’esercito italico durante gli anni francesi.(166) Gran parte dei disertori andava quindi ad alimentare il brigantaggio e la formazione di bande formidabili per numero di appartenenti.

Dopo l’avventura di Murat e il trattato di Casalanza (20 maggio 1815) che riportò Ferdinando IV sul trono, l’ex esercito murattiano venne "riformato" dal Nugent, il quale, pur mantenendo gli effettivi intorno ai 90000 uomini, tanti quanti costituivano il nerbo dell’esercito borbonico ai tempi dell’avventura garibaldina dei "Mille", reclutò i "militi", come dice Pieri, "dalla piccola e media borghesia", facendo così letteralmente dilagare il carbonarismo nell’esercito.(167) Ma le scelte del Nugent non potevano non essere condivise a Corte. Il che potrebbe significare che i Borboni avevano intuito il rapporto stretto che esisteva tra leva in massa attivata tra i contadini e il brigantaggio, tanto è vero che il mondo contadino non venne "disturbato" e "distratto" più di tanto dalle campagne, ove era necessario un impegno immane di forza-lavoro per mettere a frutto le terre e per bonificarne altre per far fronte alle pesanti carestie che avevano colpito il Regno di Napoli dal 1816. La carestia del 1816 portò lo Stato appena restaurato dei Borboni a tenere ben presenti le necessità alimentari, e poiché il lavoro nelle campagne era scarsamente supportato anche da animali, si faceva affidamento sull’impiego capillare di tutto il tessuto familiare contadino, compresi i bambini e le donne. Dopo il "decennio", rileva acutamente A. Massafra, e dopo la crisi del 1816-’17, per sconfiggere l’ "incombente spettro della fame", più che a una difficile espansione delle superfici coltivate " si impone una risposta di tipo diverso, che punti ad un aumento della produttività e ad una più intensa…utilizzazione dei fattori produttivi. Nelle zone più densamente popolate…il fattore produttivo più importante, quello che, comunque, più agevolmente può essere mobilitato è la forza lavoro, nella più intensa utilizzazione del lavoro umano, [e] la possibilità per i piccoli produttori, sprovvisti di forza lavoro animale, ma con notevole disponibilità di mano d’opera femminile e infantile, di ottenere un consistente aumento della produzione".(168) Si trattò di un fenomeno, a onor del vero, non solo italiano, ma europeo. Fatta eccezione per l’Inghilterra, tutti gli stati dell’Europa continentale risentirono di una fortissima carenza di manodopera nelle campagne, tanto che in Austria "i mietitori erano così scarsi, che nel 1811 da una grossa tenuta vennero inviate circolari ai villaggi circostanti per cercare aiuti…mentre nel 1819 le proprietà confinanti tra loro si riunirono in cooperative…".(169) Le necessità alimentari, specie in un momento di crescita demografica, comportarono quindi per il governo borbonico un’attenzione particolare verso i contadini, che non furono inseriti nell’esercito, ma lasciati a casa a lavorare. I Borboni si ingraziarono in tal modo la "plebe"; infatti, spiega Pieri, "venne abolita la coscrizione invisa ad essa".(170) La conseguenza più evidente è l’assenza, negli anni ’20 dell’Ottocento, di un brigantaggio "di massa" nel Regno di Napoli. A rigor di logica, non si può neppure parlare di "fallimento" della Carboneria riguardo alla questione contadina, in primo luogo perché i vertici carbonari, al Sud, non si posero neppure il problema e secondariamente perché, anche se se lo fossero posto, il risultato non sarebbe cambiato, poiché, come abbiamo visto, i contadini dopo l’esperienza murattiana, che essi odiarono profondamente e alla quale si negarono con tutte le loro forze, furono sottratti all’esercito, luogo privilegiato della propaganda carbonara. Al Nord, in Piemonte, la riforma dell’esercito non poté impedire l’inquadramento in esso di elementi piccolo-borghesi particolarmente sensibili alla propaganda carbonara, ma è rimarchevole il fatto, sottolineato da varie fonti, anche inglesi, che la popolazione del Piemonte rimanesse assolutamente "indifferente",(171) e a detta di un esperto quale Piero Pieri, il contadino-soldato piemontese piuttosto "freddo" nei confronti di essa. Non per nulla il sovrano, molto sagacemente, suggerì l’arruolamento soprattutto nelle campagne. "Carlo Felice, annota Pieri, incaricava un’apposita giunta di studiare il problema della fanteria, nerbo dell’esercito…In verità i contadini riservisti s’erano nell’insieme mostrati assai freddi nei confronti della rivoluzione… [e sembrava non potessero essere] inquinati…dalle idee sovversive…Insomma, conclude Pieri, il nerbo dell’esercito si dovrà cercare più che mai nelle campagne, non ancora avvelenate come le città dalla lotta politica e dalle fazioni’… ".(172) Anche al Nord, quindi, l’accesso della Carboneria dentro la truppa di estrazione rurale fu bloccata dall’astuta mossa politica di Carlo Felice, e proprio nell’età aurea dello sviluppo e della incidenza massima della setta sul tessuto sociale.

La distanza del mondo contadino dai movimenti settari come quelli mazziniani non diminuì con il passare degli anni, a parte forse l’esperienza del milanese Giovanni Cantoni, il quale propugnava una "repubblica democraticamente atteggiata" e che non risparmiò critiche violente nei confronti di quanti non sapevano dare alle popolazioni rurali "motivazioni e incentivi capaci di portarle alla lotta contro la dominazione straniera". Cantoni, invece, tali motivazioni seppe trovarle e infatti fu l’unico che nel 1848, "nei preparativi delle ‘Cinque Giornate’…al momento dell’insurrezione [riuscì] in Brianza ad organizzare i contadini…".(173) I carbonari italiani degli anni ’20, isolati, come abbiamo visto a livello internazionale, guardati con sufficienza anche da autorevoli esponenti del mondo della cultura, come Giordani, per esempio, il quale, pur essendo perseguitato dalla polizia austriaca perché sospettato di essere un aderente alla setta, manifestò apertamente la sua sfiducia verso di essa, definendola una "bogiarata": " Neppure l’onnipotenza divina può fare che io sia mai stato o carbonaro o massone, o alta qualunque di coteste bogiarate".(174) Chiusi verso il basso da un’invalicabile diffidenza verso la partecipazione contadina ai moti, dimostrarono tutta la parzialità e tutti i limiti di un movimento, sì "apparentemente" confuso, ma che, a ben guardare, si mostrò per quello che era: ossia un mero sommovimento di "ceti", ognuno tendente o a riprendersi un ruolo ormai perduto come la nobiltà nel Lombardo Veneto, o a tentare l’ascesa sociale, attraverso l’esercito, al Sud. Nella "Chiamata dei contingenti" del sette di marzo del 1821 il Santarosa si rivolgeva ai soldati con una promessa, neanche tanto coperta, a ufficiali e sottufficiali: " Giovani soldati, prendete con letizia e con fiducia quelle armi consegnatevi dalla patria. Neppur uno di voi mancherà nel giorno degli onorati pericoli. Avrete prodi ufiziali e sottoufiziali ad ammaestrarvi; li vedrete progredire negli onori militari secondo i loro meriti non secondo favore". (175) Nel Regno di Napoli, dopo primi e timidi tentativi di aprire " la strada a’ Soldati di fortuna pel loro avanzamento, [che] servirebbero con amore con esattezza e con coraggio per la certa speranza di poter ascendere al grado onorevolissimo di Ufiziale […] concedendosi a tutt’i ceti di servire il Padrone, e a ciascuno l’adito di far la sua fortuna",(176) le cose non procedettero com’era nei voti, specie per la resistenza di molte frange dell’antica nobiltà, che voleva tener per i propri rampolli il privilegio d’essere "Ufiziali". Così, l’incaricato d’affari francese a Napoli annotava: " Il existe à Naples un partie lié de jeunes gens disposés à profiter de la première occasion d’operer une revolution. La jeunesse des régimens et du Corps de la marine est liée à ce parti […] ».(177)

Un movimento settario, in conclusione, tutt’altro che "rivoluzionario", guidato da membri strutturalmente legati ai vertici politici e soprattutto militari che guidarono la rivolta, ognuno "pro domo sua". Santarosa e Confalonieri erano tutti militari e ai più alti vertici, i quali tutti, come diceva Mazzini, non parlavano, quando ne parlavano, tanto di unità, quanto di unione. " La parola unione fu…sostituita alla parola unità e il campo lasciato aperto ad ogni possibile ipotesi".(178) Si comprende chiaramente che, anche per la maggioranza dei "buoni cugini", come per quasi tutti gli osservatori stranieri, almeno in quegli anni di primo Ottocento, l’unità era un’utopia di sparute frange che pure, nella confusione e nella quasi nulla conoscenza degli adepti dei reali progetti dei capi, circolava, con fastidio di molti, assieme e accanto all’idea giacobina di repubblica. Con simili premesse fu quindi impossibile avvicinare all’idea nazionale i ceti rurali, ossia, rileva acutamente Cofrancesco, "coloro che vivono ai livelli più bassi della piramide sociale". I quali, più che altro erano anazionali, "per diverse ragioni. ‘Gente meccanica e di piccolo affare’, lo stato non ha bisogno di loro, che, tranne le braccia e la vita, non hanno molto da offrire. Essi subiscono le conseguenze delle decisioni politiche, ma non hanno il modo di orientarle e di influenzarle…La costruzione dello stato nazionale si realizza al di sopra e al di fuori del loro vissuto quotidiano. I benefici dell’impresa non ricadono…su di loro e anzi…per loro ‘si stava meglio, quando si stava peggio’, non essendovi in precedenza né tasse né servizio di leva obbligatorio". Essendo quindi lo Stato nazionale la costruzione di ceti e classi lontani se non ostili al "popolo", nessuno accorse "sotto le bandiere nazionali per difendere, in definitiva, la ‘patria di lorsignori’…".(179)

Se quindi, verso l’esterno, la Carboneria fu letteralmente "ghettizzata" dalle potenze europee, all’interno le cose andarono anche peggio, perché la setta non solo mancava di qualsiasi base popolare, ma si trovò a dover affrontare una lotta impari con un mondo cattolico più che mai deciso a "terminare" una volta per tutte ogni repubblicanesimo che in sé aveva profondi i germi dell’empietà. I carbonari furono gli ultimi grandi settari dell’Ottocento, e si trovarono ad agire in un momento in cui la Chiesa si mostrò decisa a chiudere per sempre i conti, " ab imis", con il mondo degli "empi". I carbonari pagarono per tutti perché sostennero non una, ma la soluzione perdente del nostro Risorgimento: l’idea di Repubblica. Forse le cose sarebbero potute andare altrimenti, ma errore vi fu, e il democratico e repubblicano Foresti lo intuì chiaramente, allorché scrisse nelle Memorie: Fu errore reclutare soltanto nella classe agiata ed educata, e non anche nel volgo, che fu nemmeno istruito. (180)

tratto da http://www.polesinestoria.info/web/

nuvolarossa
15-07-06, 08:49
Casadei, Thomas (a cura di), Repubblicanesimo, Democrazia, Socialismo delle Libertà. “Incroci” per una rinnovata cultura politica.
Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 246, € 18,00
Recensione di Salvatore Lucchese – 29/01/2006
Filosofia politica, Filosofia del diritto

La caduta del Muro di Berlino non solo ha determinato cambiamenti epocali nell’ambito degli scenari geoeconomici e geopolitici, ma ha avuto anche conseguenze profonde in ambito culturale. Di fatto, lo sgretolamento del blocco di potere dei socialismi reali nell’Europa orientale e la crisi delle sinistre comuniste e socialdemocratiche in quella Occidentale sono stati accompagnati da una ripresa degli studi su quella vasta e variegata area di pensiero politico compresa tra le culture del repubblicanesimo, della democrazia e del socialismo delle libertà, che sino ad allora erano state oggetto di studi rimasti marginali o di critiche stroncatorie da parte sia dell’area marxista che di quella liberale. Negli ultimi anni, invece, c’è stata una fioritura di studi e di ricerche di carattere storiografico, filosofico-politico e filosofico-giuridico che sta progressivamente rivalutando l’apporto analitico, teorico e pratico di quella tradizione di pensiero, con l’intento di fornire “gli assi su cui sviluppare ragionamenti che ponendosi all’‘incrocio’ tra le culture politiche suddette possono, a nostro avviso, offrire un rilevante contributo ad una rinnovata tradizione politica” (p. 7).
Il convegno di studi su Repubblicanesimo, democrazia, socialismo delle libertà, organizzato dalla Cooperativa culturale e ricreativa “Pensiero e Azione”, e i relativi atti pubblicati da Franco Angeli a cura di Thomas Casadei, si inseriscono all’interno di questo nuovo filone di ricerca, caratterizzandosi per un approccio critico, che pur nel rispetto del rigore metodologico, filologico e storiografico, si mostra parimenti attento ad attualizzare criticamente il pensiero dei fratelli Rosselli e di Guido Calogero.
Gli atti sono divisi in tre sezioni: 1. Carlo e Nello Rosselli tra culture politiche e contesti; 2. Guido Calogero: la filosofia della democrazia; 3. Tradizioni delle libertà e Repubblica democratica: le radici e l’oggi.

La prima sezione si apre con un intervento di Paolo Bagnoli, il quale subito prende le distanze da letture politiche strumentali dell’opera dei Rosselli, tese a mascherare la crisi politico-culturale che abbraccia i partiti di sinistra, per affermare a chiare lettere l’esigenza di un’interpretazione critica del pensiero dei due fratelli antifascisti, che sia capace di incidere fattivamente sul piano politico, attraverso la ripresa dei problemi di fondo da loro affrontati, riassumibili nel giudizio sul modo in cui è stata realizzata l’unità del nostro paese da un lato, e nell’esigenza di una riforma morale e politica delle nostre istituzioni nel segno della democrazia, della libertà e della giustizia dall’altro. Con ciò, lo studioso sottolinea l’importanza di rimarcare l’intenzione del pensiero rosselliano, ossia di cogliere criticamente il nesso tra la storia e le idee, la realtà e le sua rappresentazioni. Infatti, secondo Di Napoli, al rigore dell’elaborazione di una nuova cultura politica legata ai problemi di fondo del nostro paese deve corrispondere il rigore dell’analisi, che non può prescindere da una chiara e precisa distinzione storica, culturale e concettuale tra socialismo liberale e liberalsocialismo, individuata nella genesi prettamente filosofico-culturale del liberalsocialismo, frutto di una conquista etico-civile maturata da giovani intellettuali nel pieno del regime fascista, di contro alla genesi precipuamente socialista del socialismo delle libertà, che ne ha declinato la tradizione in chiave morale a fronte dell’allora imperante impostazione economicistica.
L’intervento di Mario Di Napoli analizza la formazione dei Rosselli, evidenziandone il rapporto familiare, personale e politico con la tradizione risorgimentale rappresentata da Giuseppe Mazzini, “che è […] un tassello costitutivo del loro pensiero” (p. 32). Grazie al confronto con Mazzini, Carlo Rosseli - sottolinea Di Napoli - trae la connotazione etica del suo socialismo, ponendo l’esigenza di conciliare l’emancipazione del lavoro con quella politica, rivalutando, così, il sentimento nazionale, tralasciato dalle istanze internazionaliste del socialismo e strumentalizzato dal fascismo.
Zeffiro Ciuffoletti insiste sul rapporto tra Nello Rosselli e la tradizione repubblicana e mazziniana, segnalandone le fonti culturali nelle figure di Gaetano Salvemini e Alessandro Levi, che all’inizio del Novecento furono tra i maggiori studiosi del pensiero e della vita dell’“apostolo del Risorgimento”, avviando Nello Rosselli alle ricerche dei rapporti tra Mazzini e Bakunin. Con ciò
Ciuffoletti intende rimarcare il livello di consapevolezza critica con cui i fratelli Rosselli recepirono la lezione mazziniana, che non fu il frutto di una semplice infatuazione. Carlo e Nello Rosselli - sostiene Ciuffoletti - attraverso il recupero della tradizione repubblicana evidenziano il limite dell’approccio economicistico del socialismo italiano, nel tentativo di richiamarne l’attenzione alla politica istituzionale.
Ed è proprio sul contributo offerto da Carlo Rosselli alla cultura politico-istituzionale che si incentra l’intervento di Corrado Malandrino. Lo storico torinese, infatti, indica in Rosselli uno dei più originali assertori dell’idea di unificazione sociale e politica dell’Europa negli anni Trenta, la cui forza e acutezza di analisi ed elaborazione teorica sarà ripresa solo negli anni Quaranta da Ernesto Rossi e Alterio Spinelli. Il contributo offerto da Carlo Rosselli al tema del federalismo matura sullo sfondo di un’originali sincresi critica tra le istanze proudhoniane, bakuniane, marxiane e cattaneane, rielaborate alla luce di un serrato confronto con gli avvenimenti storici di cui fu un lucido protagonista. “In sostanza, negli anni dell’aggressione del fascismo all’Etiopia e della rimilitarizzazione della Germania a opera del nazismo, si delineò nella mente di Rosselli un grande disegno europeista e rivoluzionario, altrettanto lontano dalle strategie diplomatiche e verticistiche alla Coudenhove Kalergi e dal pacifismo gradualista” (p. 90).
La profonda cultura europea e non solo europeistica di Carlo e Nello Rosselli viene sottolineata negli interventi di Carmelo Calabrò e Claudio Palazzolo, i quali si sono rispettivamente soffermati sulle affinità e le differenze tra socialismo liberale rosselliano e liberalismo sociale inglese, e i rapporti tra Carlo Rosselli e il socialismo inglese. Ne emerge ancora una volta un’immagine dei fratelli Rosselli profondamente calati nel dibattito politico-culturale del loro tempo e del carattere sperimentale e pragmatico del loro pensiero, delle loro proposte e delle loro azioni.
Partendo dalla comparazone critica tra il pensiero di John Stuart Mill, Leonard T. Hobhouse e le riflessioni di Carlo Rosselli, Calabrò perviene alla conclusione che la proposta di Carlo Rosselli prospetta un rapporto di continuazione tra liberalismo e socialismo, in quanto quest’ultimo viene da lui concepito come la forza teorica e politica capace di portare a compimento il percorso degli uomini verso la libertà, che, tuttavia, differentemente dal liberalismo classico, non è considerata un dato assoluto, ma una tensione dinamica verso la ricerca di una piena autonomia materiale ed etica. L’autonomia a sua volta si deve concretizzare nella partecipazione. Da ciò l’apertura di Rosselli al socialismo associativo e federativo, che declina il tema della giustizia sociale sul piano della produzione, differentemente dalle istanze di redistribuzione della ricchezza, del prodotto, fatte valere da Hobhouse. La diffidenza di Carlo Rosselli nei confronti dei pericoli insiti nel socialismo statalistico, sia in chiave bolscevica che in chiave socialdemocratica, è evidenziata anche da Claudio Palazzolo, che rimarca la ripresa rosseliana dei temi principali del socialismo gildista di Cole.

Nella seconda parte degli atti, l’area del pensiero politico liberalsocialista è approfondita attraverso la disamina critica della figura, dell’opera e del pensiero di Claudio Calogero. Gennaro Sasso e Stefano Zappoli ne delineano la biografia intellettuale, sottolineando la robusta formazione classica e il confronto prima filiale e poi sempre più critico nei confronti del neoidealismo, sia nella versione crociana che in quella gentiliana, e la successiva apertura ai temi del pragmatismo americano e dell’empirismo anglosassone, nonché il confronto personale, civile e politico con Aldo Capitini.
I principali snodi filosofico-politici, filosofico-giuridici e pedagogici dell’opera di Calogero sono affrontati negli interventi successivi. Margaret Durst coglie le linee di continuità tra la riflessione teoretica dello studioso e il suo impegno politico, che si sostanzia nel riconoscimento dell’unità e della distinzione tra etica e politica, che lo conducono a riconoscere nella prima lo sfondo di riferimento nella seconda. Da ciò l’importanza del dialogo e del concretizzarsi di principi morali nell’azione.
Le implicazioni pedagogiche del pensiero politico di Calogero, sono evidenziate da Aldo Visalberghi, che partendo dai suoi ricordi afferma la centralità del rapporto tra l’opera di John Dewey e quella di Calogero, entrambe accomunate da istanze antidogmatiche e antifideistiche, che a partire dalla centralità degli individui li conducono al riconoscimento dell’importanza del dialogo, della discussione e della comunicazione sia in ambito educativo che in ambito pubblico.
L’intervento di Thomas Casadei evidenzia la fonte metapolitica del liberalsocialismo di Calogero: l’idea di un soggetto irriducibile a qualsiasi entità collettiva, teso al riconoscimento e alla valorizzazione degli altri come persone, da ciò una concezione della libertà fondata sulla relazione, sulla giustizia e sull’eguaglianza. Su questi valori - conclude Casadei -, che si stagliano su una grammatica incentrata sulla consapevolezza del limite, si fonda la concezione di una città aperta, ricca di spazi pubblici da contrapporre alle architetture delle città moderne, sempre più caratterizzate dalla forma delle caserme e delle prigioni.
Sul rapporto tra diritti e doveri si sofferma l’intervento di Tommaso Greco, che sullo sfondo della comparazione critica tra prospettive diverse - quelle di Mazzini, Levi, Ghandi e Weil - sottolinea la centralità del dovere rispetto ai diritti, che vengono fondati su di essi. Inoltre, il compimento del dovere conduce anche all’attivazione di un legame positivo. In chiave moderna, ciò potrebbe far declinare il diritto di sicurezza non in termini negativi ed egoistici, ma in termini positivi e propositivi: “La sicurezza risulta dal concorso di tutti pere assicurare i diritti di ciascuno” (p. 150).
Nell’intervento di chiusura della seconda parte degli atti, Stefano Petrucciani sostiene che Calogero ha rielaborato originalmente i concetti fondamentali della modernità politica - liberalismo, socialismo e democrazia - radicandoli sulla sua visione etica incentrata sul dovere del dialogo tra gli uomini e sulla reciprocità tra democrazia politica e giustizia sociale che, anche se non priva di contraddizioni, ha prospettato una direzione di ricerca ancora oggi attuale.

Nella terza e ultima parte degli atti del convegno si pone l’accento sull’attualità delle posizioni del repubblicanesimo, del liberalsocialismo e del socialismo liberale, a partire dalle quali viene elaborata una serrata critica teorico-politico-istituzionale alle forme degenerate della democrazia.
Nel mostrare come le diverse culture politiche del liberalismo, del repubblicanesimo e del socialismo condividano la concezione della libertà come assenza di dominio, Maurizio Viroli giunge a individuare in esse una comune teoria dell’emancipazione, intesa sia come lotta contro ogni forma di tirannide che come continua conquista dell’indipendenza e della maturità degli individui attraverso le buone istituzioni, le buone leggi e la buona educazione, di contro alla schiavitù della mente che caratterizza le nostre democrazie.
Nel ricostruire storicamente e nell’interpretare teoricamente le posizioni del liberalismo sociale, e in netta polemica contro l’elusione delle regole del gioco democratico da parte dei poteri forti, Franco Sbarberi giunge a individuare nella conflittualità permanente, anorché regolata, non solo una dimensione costitutiva della politica, ma anche una valore costitutivo della vita civile, in quanto consente la libera espressione delle individualità, educa alla partecipazione politica dal basso, stimola alla ricerca di proposte politiche alternative ed evidenzia le disuguaglianze sociali.
Di contro alle tensioni autoritarie e alle derive plebiscitarie degli attuali regimi democratici, Nicola Tranfaglia evidenzia il contributo storico-cultuale e giuridico-politico offerto dalle tradizioni del socialismo liberale e del liberalsocialismo per l’edificazione di uno spazio pubblico pluralistico ispirato al principio del dialogo.

E facendo leva sul modello calogeriano della democrazia del dialogo, elevata a modello della democrazia ideale, Michelangelo Bovero, infine, inasprisce i toni critici nei confronti della democrazia reale e della sua attuale classe dirigente, che stanno progressivamente sostituendo a un spazio politico circolare - simmetrico ed equidistante, caratterizzato dal dialogo e dalla partecipazione - uno spazio politico a forma di cono tronco, in cui il dibattito procede in modo asimettrico e verticale relegando la base, i cittadini comuni, gli attuali teleutenti, a semplici ascoltatori passivi, a elettori che anziché scegliere vengono scelti, creati e plasmati secondo logiche di potere, che rischiano di trasformare le istituzioni democratiche in meri riti di legittimazione.

tratto da ReF (Recensioni Filosofiche) 15 luglio 2006

nuvolarossa
15-07-06, 09:02
Dopo il Consiglio Nazionale/Qualche riflessione per definire le prospettive dell'Edera
Oltre gli schieramenti, ritrovare le radici repubblicane

di Giancarlo Tartaglia

Impossibilitato a partecipare all'ultima riunione del Consiglio nazionale che ha dovuto assumere decisioni difficili, vorrei poter esprimere alcune brevi puntualizzazioni, suggerite dagli ultimi avvenimenti e a corollario di quanto ho già scritto sulla "Voce" e precisato in due riunioni di direzione, sulla fase politica che stiamo attraversando e sul ruolo che, a mio giudizio, dovrebbe svolgere il partito.

Innanzitutto vorrei ribadire che continuo a ritenere giusta e seriamente motivata la scelta di schierare il partito ufficialmente dalla parte del "sì" nel referendum sulle modifiche costituzionali. Sia nel merito, perché le norme costituzionali e gli assetti istituzionali voluti nell'ormai lontanissimo '47 mostrano tutti i segni del tempo trascorso e la loro inadeguatezza a rappresentare un'Italia lontana ormai sessant'anni dal fascismo e dall'antifascismo. Sia nella legittimità, perché proprio un partito come il nostro, che ha nella sua stessa denominazione un preciso richiamo istituzionale, non può e non deve estraniarsi dall'analisi e dalle proposte di adeguamento costituzionale, come se si trattasse di un fastidioso argomento marginale da archiviare il prima possibile. Anzi, ritengo che, al contrario, il Pri debba fare delle modifiche costituzionali uno dei suoi punti di forza programmatici e di impegno primario e sono lieto che il Consiglio nazionale abbia voluto ribadire la volontà dei repubblicani di favorire il dialogo tra gli schieramenti "sui temi delle riforme costituzionali".

In quest'ottica, la vittoria referendaria del "no" deve essere letta come il sintomo evidente che le forze della conservazione sono purtroppo prevalenti nel nostro paese e che ogni seria battaglia di modernizzazione, quando non sia pura demagogia, incontra ostacoli insormontabili. Che questa sia la deprecabile situazione italiana lo dimostra, dopo la vittoria del "no", la smodata agitazione dei tassisti a seguito del tiepido decreto Bersani che, stando alla monopolistica propaganda mediatica che sostiene il governo di oggi, come sosteneva l'opposizione di ieri, sarebbe un inizio di liberalizzazione, ma che in realtà, è cosa molto, ma molto, modesta. Peraltro, a ben leggere il testo di quel decreto si scopre che dietro gli specchietti (tassisti, notai e farmacisti) per le allodole liberali si nasconde una complessa e devastante normativa fiscale che se dovesse essere approvata dal Parlamento rischierebbe di risolversi in una stangata mortale per l'intera economia italiana. Già il crollo borsistico delle aziende immobiliari ha indotto il viceministro Visco a dichiarare che le norme sulla retroattività fiscale saranno eliminate. Ma non basta. Tutto l'impianto normativo sembra ispirato a creare un occhiuto stato di polizia piuttosto che a garantire le condizioni per una ripresa economica.

E' però prevedibile che anche le buone modeste intenzioni di Bersani troveranno nella ineludibile concertazione con le categorie interessate (come si può negare il confronto sindacale?) tutti quei necessari aggiustamenti destinati a "recepirne le istanze", garantire la "pace sociale" e, quindi, a lasciare le cose sostanzialmente immutate.

Il male italiano, come dimostrano il "no" referendario e le agitazioni corporative in corso, è tutto qui, nella carenza d una cultura politica realmente liberale. Lo Stato repubblicano, dominato sin dalle sue origini dalle culture cattolica e comunista, si è costruito, da questo punto di vista, senza soluzione di continuità rispetto ai fondamenti etici dello stato fascista: lo statalismo, l'assistenzialismo, il corporativismo.

Occorre, allora, una vera e propria rivoluzione liberale capace di rompere questo circolo vizioso. Abbiamo alle spalle un decennio di bipolarismo, nel quale hanno potuto governare alternativamente due coalizioni, una di centro-sinistra e l'altra di centro-destra. Quale è stata la differenza? Io non sono riuscito a coglierla, se non nell'aspetto, non marginale, della politica estera, che ha più che giustificato la nostra scelta di schieramento. Ma sulla politica economica e sociale abbiamo dovuto registrare una sostanziale uniformità di scelte, perché i due schieramenti sono entrambi pervasi da quell'unica cultura assistenzialistica e statalistica che domina incontrastata da ottant'anni e che abbraccia la stragrande maggioranza delle forze politiche.

Ne consegue che l'obiettivo dei repubblicani deve essere quello di porsi con forza e in termini non equivoci come punto di riferimento per quanti intendono costruire un'area genuinamente liberale e, in quanto tale, antistalistica, antiassistenzialistica e anticorporativa.

In questa prospettiva, tutta di contenuti, le questioni di schieramento non esistono e sarebbe, perciò, negativo per il partito riavvitarsi in una sterile discussione tra centro-sinistra e centro-destra o, peggio, ipotizzare un cambio di schieramento che non avrebbe alcun minimo senso, se non quello di distruggere quel poco che siamo riusciti a costruire.

Si tratta quasi certamente di una strada in salita, di un percorso difficile, ma tentare di essere gli alfieri di una rivoluzione liberale è forse l'unica prospettiva per la quale valga la pena impegnarsi, aggregando nuove energie, che pure esistono, ancorché sparse e minoritarie, e partendo dal confronto senza pregiudiziali fra tutti coloro che, pur allontanatisi dal partito, continuano a definirsi repubblicani.

Il Consiglio nazionale del partito si è mosso in questa direzione, impegnando la segreteria a creare una "piattaforma d'incontro con tutti i repubblicani, anche se non più militanti del Pri, e con le altre componenti laiche e riformatrici".

Occorre, adesso, andare avanti con scelte operative precise, una dirigenza capace di ricercare il dialogo e di riannodare i fili lacerati della nostra storia, e, soprattutto con segni inequivoci e visibili.

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tratto dal sito del Partito Repubblicano
http://www.pri.it

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nuvolarossa
18-07-06, 14:51
DE FRANCESCO ANALIZZA IL PESO DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE NELLA CULTURA ITALIANA DEL ‘900
La Bastiglia: l’alba di una nuova era

Al Museo Carnavalet di Parigi è conservata una tempera a olio di J.P. Houel che raffigura lo sforzo tenace e determinato di migliaia di uomini, impegnati nella demolizione della Bastiglia, a cui si diede avvio l’indomani del 14 luglio 1789 con la precisa volontà di cancellare ogni simbolo di potere dispotico e inaugurare una nuova era. La finezza dei tratti non sarà michelangiolesca, ma la scena suscita emozioni nella sua espressività, nell’operosità di quegli uomini minuscoli in cima alla fortezza che si stagliano nel cielo turbinoso, ognuno col proprio piccone, mentre furiosamente radono al suolo la Bastiglia. Dabbasso, una folla eterogenea assiste allo spettacolo con la composta consapevolezza di chi sa di vivere un evento memorabile che cambierà per sempre la storia del mondo. In questa folla, alcuni uomini messi in primo piano dall’artista parlottano con altri e sembrano spiegare loro le ragioni della scena cui assistono, ne catturano il significato, ne svelano il mito che coincide con la rigenerazione della società; con la fine dell’antico regime simboleggiato da quella vecchia fortezza che pietra per pietra sta ineluttabilmente rovinando. A dare nuova luce a quelle tinte, a ridare parole per spiegare la Rivoluzione ed il suo mito provvede ora Antonino De Francesco con il suo saggio su “Mito e storiografia della Grande rivoluzione. La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ‘900”, Guida editore, euro 26,80. Il lavoro è senza dubbio pregevole e originale nell’offrire una rilettura della storia del ‘900 italiano attraverso la lente particolare del confronto con la Francia e con la sua tradizione rivoluzionaria che è equivalso spesso ad un sofferto modo di declinare la difficile modernità della nostra società. De Francesco si mostra consapevole che la riflessione sulla storia e sul mito dell’89 è stata sovente piegata alle necessità politico-ideologiche che dal Risorgimento al secondo dopoguerra, fino ad arrivare ad oggi, hanno attraversato, lacerandola, la storia d’Italia. Scivolando sul piano inclinato del contesto ideologico novecentesco, gli interpreti della Rivoluzione hanno privilegiato lo studio di un particolare frangente sulla base di un criterio non sempre dettato da rigore storico. Ecco allora che Gaetano Salvemini nel 1905 arresta la storia della Rivoluzione all’eversione del sistema feudale e alla nascita della Repubblica nel 1792, nel tentativo di proporre un terreno comune alla tradizione federalista, a quella più radicale e massimalista e alle correnti critiche della deriva cesarista di Napoleone, che evitasse all’Italia la scelta insurrezionale e terrorista. Fra le due guerre, l’eredità della Rivoluzione viene invece volta, come già aveva fatto la storiografia sabauda nel Risorgimento, in chiave antifrancese; si pensa cioè che lo sbandierato universalismo dei principi rivoluzionari fosse in realtà un pretesto per imporre il giogo francese, sulla falsa riga di quanto era successo nel Triennio repubblicano (1796-1799) e che su quel terreno l’Italia mai avrebbe portato a compimento il proprio processo unitario. Un giovane Benedetto Croce diede voce a questo sentimento, rivendicando una più congrua scelta nazionale, mentre altri, riscontrando l’incapacità del regime liberale a dar voce e rappresentanza adeguata alle classi popolari, si riallacciavano alla Rivoluzione francese per proporre l’esempio giacobino quale unica soluzione per spazzare via il dispotismo di una classe dirigente senza eroi. L’esempio vicino della rivoluzione leninista acuì questa tensione ideale, rintracciando, sulle orme storiografiche di Albert Mathiez, il parallelismo fra 1793 e 1917 come gli unici e veri momenti rivoluzionari. Il richiamo a Robespierre fu un riferimento obbligato per coloro che attorno ad Antonio Gramsci diedero vita al partito comunista, criticando l’appiattimento della dirigenza turatiana su posizioni di socialismo riformista che nulla aveva della matrice rivoluzionaria. Un’altra opzione era legata al nome di Gioacchino Volpe e alla sua proposta nazional-liberale che pure non negava la nascita dell’Italia moderna nell’89, anche se si concentrava sull’ascesa economica della borghesia, legando lo sviluppo dello spirito di indipendenza, la via italiana alla nazione, alle rivolte antifrancesi. Non privo di importanza è la disamina di come il mito della rivoluzione agì la storiografia di impronta fascista e prima di tutto sullo stesso duce. I giovanili ardori rivoluzionari e babuvisti che Mussolini si peritò di divulgare dalle colonne dell’Avanti!, nell’incostanza dell’uomo, vennero abbandonati dopo San Sepolcro per mettere al centro della propria azione politica Mazzini e Pisacane, più spendibili nel tentativo di intercettare la marea montante del nazionalismo reduce dalla guerra e deluso dagli accordi di pace. Senza tuttavia rimuoverli completamente, piuttosto optando per il più pagante cesarismo napoleonico e senza mai paragonare il suo fascismo alla controrivoluzione, come sembrano aver dimenticato i suoi esegeti di oggi. Con lui tennero ferma l’opzione sociale della rivoluzione Bottai e Ugo Spirito secondo cui il fascismo portava a compimento la rivoluzione operando la vittoria del lavoro sul capitale, e con loro due tutti coloro che, come il primo Cantimori, nell’ordine corporativo individuavano la ricomposizione unitaria e non classista della società. La stagione repubblicana che si apriva nel netto rifiuto del nazionalismo, spinse ad indagare con nuovi strumenti l’89, ma ancora una volta, denuncia De Francesco, sulla spinta di una precisa opzione politica. È “l’ombra di Buonarroti”, vale a dire una storiografia dominata dalla centralità del rivoluzionario pisano quale elemento di congiunzione fra robespierrismo e Risorgimento unitario. Attraverso la sopravalutazione di questo dato, sostiene De Francesco, gli storici di impronta marxista (Armando Saitta su tutti, ma in parte lo stesso Cantimori) col supporto delle categorie gramsciane hanno finito con l’imporre nel dibattito culturale il giacobinismo montagnardo quale momento eroico della rivoluzione e, attraverso la sua ineliminabilità, fissato la propria egemonia sugli studi storici. Al di là del mito e del suo uso pubblico la Rivoluzione conferma la sua forza.

Alessandro Guerra

tratto da
http://www.avanti.it/article.php?art_id=14899

nuvolarossa
27-08-06, 22:40
Repubblicanesimo, primato di virtù civili e utopie

Il dibattito scaturito in Inghilterra sui confini con il liberalismo sta generando confusioni dannose.
La differenza tra i due modelli sta nella diversa concezione del rapporto tra individuo e istituzioni.
La tradizione recupera l'enfasi alla partecipazione politica.

di SEBASTIANO MAFFETTONE

http://ludism.free.fr/images/ResPublicaRomana.jpg

Il dibattito filosofico sulla teoria politica contemporanea è spesso falsato da un'assunzione condivisa quanto erronea. L'assunzione è quella secondo cui vivremmo in una fase politica di crisi delle ideologie. Ora, posto che sulle parole bisogna intendersi, se con ideologia noi intendiamo, come da consuetudine, un sistema integrato di idee politiche che si propone come risposta ai grandi quesiti del proprio tempo storico, allora non è per niente vero che noi viviamo un periodo di assenza o vuoto ideologici. Al contrario, perlomeno al livello accademico e più in generale delle istituzioni culturali più importanti del mondo industriale avanzato, esiste un predominio forte e marcato di un'ideologia specifica, il liberalismo progressista ed egualitario.
E' difficile proporre dati statistici per un fatto del genere, ma in ogni modo una simile evidenza è accettata da tanti studiosi della politica che è difficile dubitarne. Naturalmente, una volta compreso questo, ciò non vuol dire che sotto l'ombrello liberal (per dirla all'inglese) si viva felici o, più modestamente, che non ci siano problemi teorici di grande spessore. Si tratta spesso di problemi che riguardano l'impatto di un modello universalistico, come quello liberale, con la particolarità delle culture e delle tradizioni, oppure con la specificità delle motivazioni e la ricchezza delle differenze, con cui deve necessariamente confrontarsi. Da questo complicato confronto, vengono le critiche comunitariste, femministe e tradizionaliste al liberalismo. E adesso anche le critiche cosiddette repubblicane.
La prima conseguenza di un quadro teorico-politico del genere consiste nel fatto che - se il nostro scopo è quello di valutarne la portata e il senso - non è facile tenere conto di tutta la ricchezza storica e teorica del paradigma repubblicano. La tradizione repubblicana si richiama fondamentalmente a una visione garantista del diritto, a una concezione essenzialistica del bene comune, all'appello ai valori di indipendenza del cives. In ambito anglosassone, da cui proviene molto dell'attuale dibattito sul repubblicanesimo anche in Europa continentale, non esisterebbe poi una sola concezione repubblicana, ma almeno due, di cui una più aristotelica e l'altra più pluralista. La prima grosso modo potrebbe farsi risalire a una linea Arendt- Pocock, e la seconda a una linea Skinner-Pettit, per citare solo alcuni degli autori più significativi. Nella misura in cui le due tradizioni possono considerarsi insieme sotto l'etichetta "repubblicanesimo", diritti e bene comune evocano una versione forte della cittadinanza e un'enfasi spiccata sull'anti-autoritarismo.
Se poi ci accontentiamo di una versione mista tra le due, allora abbiamo il vantaggio di poter includere in parte anche la versione francese di repubblicanesimo filosofico, che è notoriamente assai nazionalista e ispirata ai principi del 1789, e anche quella italiana, divisa tra chi si rifà a un rinnovato paradigma, di ispirazione rousseauviana, basato sull'idea di "religione civile" (come Gian Enrico Rusconi) e chi riprende invece Machiavelli e Skinner (come Maurizio Viroli).E forse anche quella germanica, che è del resto discutibile assimilare al repubblicanesimo in maniera così diretta, e che fa capo alla scuola della storia dei concetti politici (a cominciare da Kosellek) e al neoaristotelismo.
La differenza centrale tra repubblicanesimo e liberalismo - così sostengono a esempio Skinner e Pettit - consiste in una concezione diversa della libertà e del rapporto tra individuo e istituzioni. Da questo punto di vista, l'idea dell'uomo repubblicano come libero in quanto opposto al servus viene fatta risalire ad almeno due fonti diverse. Autori classici, come Polibio, Livio e soprattutto Cicerone avrebbero fornito la prima idea di una virtù civile come elemento essenziale della partecipazione alla res pubblica, che proprio per questo diviene, per Cicerone, res populi. Mentre l'idea garantista ed egualitaria del diritto, l'idea cioè di un governo della legge, risalirebbe ai moderni, come Montesquieu e soprattutto il Rousseau del Contratto sociale. Insieme, queste due formulazioni originarie darebbero luogo a un impianto teorico fortemente orientato al conflitto contro il potere politico assoluto in nome di una libertà repubblicana basata sulla virtù civile.
Questa impostazione sarebbe a sua volta evidente nel Machiavelli dei Discorsi e in genere nella tradizione politica italiana del Cinquecento, nel pensiero britannico del periodo rivoluzionario a cominciare da Harrington, nella teoria politica americana dei padri fondatori della Repubblica a partire da Madison.
Come spesso capita, è difficile distinguere il recupero di una tradizione più o meno sommersa, come questa repubblicana, da una costruzione contemporanea originale alla ricerca di plausibili predecessori. Da questo punto di vista, la tradizione repubblicana viene di solito letta anche alla luce di interessi teorici e politici polemici verso il liberalismo filosofico-politico. Così, c'è una forte enfasi anti-teoretica nel quadro ricostruttivo del repubblicanesimo. Alla teoria, viene contrapposta ora la storia (Kosellek), ora la retorica (Skinner) ora la politica e di conseguenza si preferisce recuperare Polibio, Aristotele e Cicerone oppure Machiavelli, secondo quale di queste prospettive critiche si prediliga.
Per quanto mi riguarda, e per le ragioni già esposte, in un Forum pubblicato nell'ultimo numero della rivista "Filosofia e questioni pubbliche" e dedicato al repubblicanesimo ho evitato di considerare il paradigma repubblicano nel suo complesso, ma solo alcuni suoi aspetti che riguardano essenzialmente la polemica che esso muove nei confronti del liberalismo filosofico. Con quest'ultima dizione. intendo il liberalismo teorico-politico, soprattutto quello influenzato dal pensiero di Rawls. Non c'è ragione particolare per una scelta siffatta, se non la grande diffusione delle tesi rawlsiane tra i filosofi politici e insieme l'interesse a delimitare il campo onde evitare confusioni. Proprio nell'ottica di evitare confusioni dannose, bisogna anche ricordare che liberalismo e repubblicanesimo sono paradigmi filosofico-politici in parte notevole sovrapponentesi, indipendentemente dal fatto che si desideri considerare il primo come una variante storica del secondo oppure il secondo come un risultato critico del primo.
In quest'ottica, il repubblicanesimo critica il liberalismo non solo in nome di un primato della virtù civile, ma anche in nome di un recupero della partecipazione politica. L'appello di virtù civile appare però più legato alla retorica che alla teoria politica, e non c'è dubbio che qualsiasi filosofia presuppone una propria visione della virtù civile, potenzialmente in conflitto con quelle altrui. Per quanto riguarda la seconda obiezione, invece, il liberalismo filosofico si presenta soprattutto come una teoria della giustizia, tesa a stabilire i fini ultimi di un sistema istituzionale nonché le ragioni per cui gli individui dovrebbero accettare proprio quei fini. Da questo punto di vista. si dice talvolta da parte repubblicana, la partecipazione e la passione politica non sono adeguatamente considerate. Può essere. Ma il nostro secolo ci ha dimostrato che spesso e volentieri la partecipazione politica è al servizio di regimi autocratici. e certamente noi non possiamo auspicare qualcosa del genere. Da queste considerazioni, deriva la mia impressione conclusiva, secondo cui se il repubblicanesimo si pone come una terapia al capezzale di un malato, proprio il liberalismo, allora ci sono forti rischi che il rimedio sia peggiore del male.

tratto da
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000223g.htm

nuvolarossa
10-09-06, 09:50
Régis Blanchet
IL CARBONARISMO ITALIANO
(Dalla prefazione al volume: M. Saint-Edme,"Constitutions et Organisation des Carbonari, ou Documents exacts sur tout ce qui concerne l'existence, l'origine et le but de cette Société Secrète", 1821.Ristampa in fac-simile di Les Editions du Prieuré 1997)

Ci è sembrato impossibile presentare il carbonarismo senza aver preliminarmente evocato le sue sorgenti e i movimenti che gli hanno permesso di far nascere questo ramo così specifico e politicizzato dalle tradizioni forestali dell'Occidente. Adesso, rischiando di maltrattare qualche idea preconcetta dei nostri amici italiani, bisogna dire che il Carbonarismo è proprio uscito dai riti forestali francesi della seconda metà del XVIII secolo. Non parliamo qui del contenuto dell'impegno politico - sebbene...- ma della struttura rituale di questa società segreta.

http://www.carboneria.it/vendita.jpg

I PRESUPPOSTI

Il Carbonarismo si forma sotto l'influsso di diverse filosofie "impegnate" della fine del XVIII secolo, e la Massoneria di Besançon e della Franca Contea nel periodo pre-rivoluzionario degli anni 1780 fu uno dei centri più attivi di questa "preparazione". Numerosi furono i Massoni di questa regione che incarnarono una massoneria progressista impregnata dei valori del Secolo dei Lumi. Relativamente delusi dal poco discernimento ed impegno delle Logge, essi crearono molto spesso durante questo decennio dei gruppi annessi e segretissimi deputati a mettere in pratica in una maniera più operativa quei valori progressisti. Queste "logge" politicizzate prenderanno diversi nomi: Il Palladio, gli Adelfi, i Filadelfi oppure ancora la Società della Rigenerazione Europea. Joseph Briot, il generale Oudet (Philopoemen), il generale Moreau (Fabius), dei quali parleremo ulteriormente, saranno i membri attivi di questi gruppi molto occulti che assumeranno come linea politica un repubblicanesimo rivoluzionario contrario a tutti gli imperialismi francesi di diritto divino, ma anche ai loro alter ego europei. Sul piano tradizionale, esse sono largamente impregnate da diverse forme di illuminismo, alla maniera di quelle di Avignone o di Baviera. Numerosi furono i loro membri che presero una parte attiva nella Rivoluzione Francese. Quando Bonaparte fece il suo colpo di stato del 18 Brumaio, questi gruppi entrarono nell'opposizione repubblicana, senza tuttavia cessare di far parte dell'amministrazione dello Stato francese, allora in piena espansione. Le armate di Bonaparte erano già avanzate in Italia, fondando successivamente delle repubbliche indipendenti ma soggette agli interessi della Francia (1797, Repubblica Cisalpina; 1798, Repubblica Romana; 1799, le fondamenta repubblicane a Napoli). Nelle emanazioni amministrative e militari sottoprodotto di queste vittorie, si veicolarono allo stesso tempo sia le tesi favorevoli a Bonaparte, sia quelle della sua opposizione repubblicana e liberale. La diffusione del progetto carbonaro si farà tanto nel seno dei reggimenti d'occupazione che nel seno della pletora di funzionari civili, e si svilupperà in maniera fulminea in tutti gli ambienti nazionalisti italiani, per i quali l'opzione repubblicana forniva l'alternativa politica ideale. Si può dire perciò che, al di fuori degli aspetti massonici del movimento, la sua diffusione sarà ampiamente facilitata dall'espansionismo militare francese, così come da quello della sua potente logistica e amministrazione. Le tre "repubbliche" italiane sopra citate furono di conseguenza dei focolai carbonari estremamente attivi. Se, è evidente, la massoneria del tipo Grande Oriente di Francia si diffuse anch'essa in Italia, giocoforza è constatare che Napoleone l'aveva fortemente vassallizzata per farne un vettore dei valori bonapartisti. E' dunque logico che la sua opposizione politica abbia scelto un vettore analogo, ma differente, per veicolare i valori repubblicani. E' così che i pacifici "Buoni Cugini" del XVIII secolo francese videro la loro tradizione rurale trasformarsi in un attivismo politico pre-repubblicano in seno ad una "internazionale rivoluzionaria", utilizzante occultamente la logistica dell'Impero al fine di ristabilire gli ideali della Rivoluzione francese apparentemente traditi dal Consolato e poi dall'Impero. La prevedibile fine di detto Impero dopo la catastrofica campagna di Russia del 1812, il possibile ritorno dei Borboni sui troni di Francia e di Napoli, le pressioni austriache e l'instaurazione della Santa Alleanza (1815) furono certamente i dati politici europei che provocarono l'internazionalizzazione dei movimenti repubblicani, fra i quali i Carbonari. Diventa qui necessario citare l'altro movimento massonico che fu il rito di Misraim, impregnato anch'esso di illuminismo e di repubblicanesimo, che si vede apparire a Venezia dal 1788. Un rapporto di polizia dell'ufficiale Simon Duplay del 1822 sulle iniziative politiche delle Logge Misraimitiche, citato da Pierre Mariel e da Gérard Galtier, fa luce su questo punto:"Tutte le carte che formano gli archivi dell'associazione sono stati sequestrati negli ultimi mesi del 1822, tanto a Parigi che nelle Logge stabilite in Provincia [...]. Si devono attribuire i suoi progressi alla dottrina anti-monarchica e antireligiosa che professa [...]. Salendo di grado in grado l'adepto impara che lo scopo di questi settari è di stabilire l'ateismo e una repubblica universale [...]. Delle numerose Logge formate in Provincia, non ce n'è una che non risultasse composta da uomini più o meno conosciuti per le loro disposizioni ostili. Infine, si sono trovati negli archivi della Loggia di Montpellier parecchi quaderni consacrati allo studio della dottrina di questa cospirazione. Gli apostoli più violenti dell'ateismo e della demagogia non hanno scritto mai niente di più audace". La fondazione ufficiale di questo Rito in Francia risale al 19 Maggio 1815 (caduta dell'Impero), quando fu creata a Parigi la Loggia Arc-en-Ciel della quale facevano parte dei bonapartisti e dei membri della Carboneria, tutti in disaccordo con gli orientamenti realisti della Massoneria ufficiale. Bisogna ricondursi alla storia dei fratelli Bédarride (grandi responsabili del rito di Mirsaim fino alla scissione del rito di Memphis nel 1838), e all'eccellente opera di Gérard Galtier, Maçonnerie égiptienne, Rese-Croix er Néo-Chevalerie, (éditions du Rocher,1989), per ottenere una seria immagine della storia di questa sensibilità massonica, così vicina al Carbonarismo italiano da sembrarne a volte una copertura.

PIERRE-JOSEPH BRIOT

Questo avvocato della Franca-Contea, nato nel 1771, fu un personaggio politico importante. Fu Massone nelle Logge di Bésançon, ma anche Buon Cugino Carbonaro del rito di Alexandre-la Confiance, molto strutturato nell'est della Francia, dal Giura alla Foresta Nera. Impregnato dei valori della Rivoluzione Francese, cominciò la sua carriera da volontario del 1792. Diventò in seguito membro del Consiglio dei Cinquecento nel 1798, quando era già conosciuto per le sue prese di posizione in favore di una Repubblica in Italia. Profondamente colpito dal colpo di stato del 18 Brumaio (9 Novembre 1799), entrò nei ranghi dell'opposizione repubblicana che mirava a frenare la formazione di un potere personale fondato su Napoleone Bonaparte. Dal 1800 al 1801, profittando di certe alte protezioni, fu nominato segretario generale della prefettura del Doubs a Bésançon, la sua città natale, nella quale il suo attivismo politico si amplificò. Divenuto fastidioso, fu "diplomaticamente esiliato" conferendogli la nomina di "commissario generale del governo" all'isola d'Elba fra il 1802 e il 1803. A Portoferraio fondò la Loggia degli "Amici dell'Onore Francese". Dal 1804 al 1806 si perdono le sue tracce, in una maniera tale che diversi autori suggeriscono che Briot proprio in questo periodo abbia cominciato certe attività clandestine. Altri avanzano l'ipotesi, per la verità molto fondata, che egli abbia avuto allora dei contatti serrati con Filippo Buonarroti, allora esiliato a Sospello, a nord di Nizza, che preparava molto discretamente la formazione di una società segreta italiana con finalità rivoluzionarie. Quest'ultimo disse d'altronde: "Per quanto fossi sorvegliato dalla polizia, non persi mai di vista lo scopo sacro che mi ero posto abbandonando Firenze. Profittando dunque della vicinanza del Piemonte, lavoravo più che mai a stabilire delle comunicazioni sicure ed attive fra i repubblicani delle differenti province di Francia e di quelle d'Italia. I miei sforzi furono coronati da successo; la nostra società segreta si estese, si propagò in tutte le classi della nazione e perfino nell'Esercito, dove noi contavamo ancora un gran numero di partigiani della Costituzione del '93, delusi dell'usurpazione di Bonaparte" . (A.Andriane, Souvenirs de Genève, vol.II, p.206) Il progetto del Carbonarismo sembra proprio esser stato messo in piedi in quei momenti, ed è probabile che una sinergia "Buonarroti - Briot" ne sia stata uno dei fattori determinanti fra il 1804 e il 1806: col Buonarroti teorico in esilio che lo adattava alle specificità del problema italiano, e col Briot operatore sul campo grazie alle larghe protezioni di cui godeva. Non è che nel 1806 che il Briot compare di nuovo in Italia, e precisamente a Chieti, in qualità di intendente della provincia degli Abruzzi, sotto la brevissima autorità di Giuseppe Bonaparte. Un Carbonarismo rivoluzionario ed a priori repubblicano si sviluppò in una maniera a tal punto fulminea che Briot ne perse il controllo, malgrado la simpatia che la sua persona suscitava fra le popolazioni rurali, delle quali si occupava con bontà e competenza. Nel 1807 è destinato a Cosenza, in Calabria, ed immediatamente un nuovo focolaio Carbonaro si forma, con lo stesso successo. La coincidenza fra i movimenti di Briot e la nascita di focolai Carbonari nell'Italia del Sud sembra poter dimostrare la sua incondizionata partecipazione alla diffusione internazionale di un Carbonarismo repubblicano. Nel 1809, è nominato Consigliere di Stato di Gioacchino Murat a Napoli. Questa alleanza "Briot-Murat" pone un problema. In effetti Murat, verosimilmente informato su Briot, non poteva ignorarne le tendenze repubblicane poco favorevoli ai Buonaparte. Ma conosceva pure il suo ruolo di fondatore della Carboneria italiana, che il re avrebbe perseguitato severamente? D'altra parte Briot, da quel buon Carbonaro occulto che era, accettò questo incarico che gli permetteva l'accesso a numerose informazioni sensibili, e sembra aver giocato un ruolo importante nella diffusione del Carbonarismo fra le armate napoletane nel 1812, durante l'assenza di Murat impegnato nella campagna di Russia. Comunque Briot, quando il re ritornò a Napoli nel 1813, gli rassegnò le sue dimissioni, a motivo della politica opportunista di Murat che lasciava insoddisfatte le legittime aspirazioni popolari. Briot gettò dunque le fondamenta del Carbonarismo italiano, e fu aiutato dal fatto che questo tipo di Massoneria non ricadeva sotto i colpi precisi delle scomuniche romane del 1738 e del 1751, le quali non si riferivano che alle "conventicole" urbane. Questo movimento prese immediatamente una colorazione politica molto netta, battendosi apertamente contro ogni tentativo di restaurazione dei Borboni a Napoli, ed esprimendo una opposizione altrettanto netta all'espansionismo austriaco. Ma era anche intrisa altrettanto profondamente di repubblicanesimo anti bonapartista. Tutto ciò che impediva l'unità nazionale degli Stati italiani era combattuto dai Carbonari, che coniugavano allegramente le posizioni politiche più disparate: tutte subordinate ad un desiderio incoercibile di buttar fuori d'Italia le potenze straniere. Murat preferì impiantare a Napoli la Massoneria del tipo del Grande Oriente di Francia, a detrimento delle Vendite Carbonare che vietò e perseguitò, come se avesse paura del nazionalismo locale. Il risentimento "anti-francese" fra i Carbonari Napoletani fu dunque legittimo. Frattanto Briot aveva aderito nel 1810 alla Massoneria Egiziana di Misraim, alla quale restò fedele fino al termine della sua vita. Egli ne divenne rapidamente "Gran Maestro ad vitam 90°". All'epoca del declino dell'Impero napoleonico (1813-1814), e della perdita del trono di Napoli da parte di Gioacchino Murat (1815), Briot ritornò in Francia, a Bésançon, dove fondò la Loggia misraimitica dei "Settatori della Verità". Nel 1820 diventò direttore della compagnia di assicurazioni "La Phénix", gli impiegati della quale erano praticamente tutti partigiani fedeli dell'imperatore Napoleone, oppure repubblicani occulti. Nel 1817 era diventato il consigliere segreto del ministro di Polizia, il duca Decazes, anch'egli membro del Misraim, e mantenne l'incarico fino al 1822, quando fu indirettamente coinvolto nel processo per attività carbonare dei "quattro sergenti" della Rochelle. Un rapporto confidenziale del 1825 attesta la situazione: "Il signor Briot è un uomo pericolosissimo, per l'estremismo delle sue opinioni e per l'influenza che la sua posizione gli permette di esercitare. Da molto tempo non cessa di dedicarsi a macchinare intrighi rivoluzionari, e nel 1822 aveva fatto dei principali commessi de "La Phoénix" altrettanti agenti d'insurrezione. Ogni ispettore di questa compagnia era incaricato di diffondere nei diversi dipartimenti che gli erano assegnati le dottrine liberali, e di organizzarvi delle Vendite di Carbonari". Malgrado questa sorveglianza di polizia Briot fu capace di non prestare il fianco ad attacchi diretti, e morì senza aver mai subito grossi problemi il 18 Marzo 1827 ad Auteuil. Briot ebbe un successore, Carlo Antonio Testa (1782 - 1848), membro del Misraim e Carbonaro napoletano al suo fianco da prima del 1814. Libraio a Parigi fra il 1824 e il 1830, animò il "salotto" rivoluzionario "La piccola giacobiniera". Il suo scopo era di cacciare i Borboni, Carlo X, e di sostituirli con gli Orléans. Fu implicato nella rivoluzione del 1830. Avendo nel frattempo fondato l'associazione rivoluzionaria "Aiutati, che il Ciel ti Aiuterà", creò nel 1833 la "Carboneria Democratica Universale", attraverso una fusione tardiva coi rivoluzionari del Buonarroti. Questo movimento senza un progetto politico serio si sgonfiò presto, non senza creare le basi del contingente repubblicano che prese il suo slancio a partire dal 1848, dopo aver lasciato l'abito Carbonaro alla storia.

LE CAUSE DELLA CRESCITA DEL CARBONARISMO ITALIANO DAL 1815 AL 1830

Alcuni autori avanzano la cifra colossale di 642.000 (seicentoquarantaduemila) affiliati alla Carboneria italiana nel 1819. Quale fenomeno sociale italiano di primaria importanza avrebbe potuto provocare un tale movimento di massa? Anche se questa cifra ci sembra essere poco verificabile, saremmo comunque inclini a considerarla con rispetto, perché a quella data il Carbonarismo italiano può essere considerato una società segreta nella quale si raggruppavano e riunivano tutti i malcontenti di tutti gli Stati italiani, e l'insieme delle correnti nazionaliste della Penisola e del Piemonte: dunque gli anti-austriaci, gli anti-bonapartisti, gli anti-inglesi e gli anti-papisti. Così, i membri di questa società si reclutavano tanto nel popolo che fra i borghesi e i nobili. C'era addirittura un certo numero di preti e qualche vescovo in rotta col Vaticano e la sua politica filo austriaca poggiante sulla Santa Alleanza. Il tentativo di Murat di riprendersi il trono napoletano nel 1815 fallì. Il Borbone di Napoli, Ferdinando, dopo l'esilio in Sicilia ritornò al potere sotto l'alta protezione della flotta inglese. L'Austria faceva pesare un vero e proprio giogo militare su tutti i regni italiani alleati, o troppo deboli per tentare di stabilire o mantenere delle posizioni più autonome: Napoli, Venezia, Torino, Genova erano cadute sotto la sua influenza. Malgrado gli errori di Gioacchino Murat nei confronti delle Vendite Carbonare, si rimpiangevano "gli altri Francesi" ed i loro valori rivoluzionari e repubblicani. L'Arciduca Ereditario d'Austria era stato fatto cardinale: gli italiani temevano che volesse diventare manu militari il futuro Pontefice, e che consolidato definitivamente l'imperialismo austriaco gli Stati Pontifici e il Vaticano corressero il pericolo di cadere in mani straniere. L'Italia si ritrovava frammentata, divisa, spogliata ed asservita da una potenza reazionaria, l'Austria, la quale cancellava tutte le legittime speranze di libertà delle popolazioni che assistevano silenziose ai progressi pre-democratici dei paesi più a nord. Da questo stato di fatto nacquero, o si rinforzarono, numerosi movimenti nazionalisti tanto nel nord che nel sud della penisola italiana. Napoli, Torino, Genova, Venezia, ma anche Roma ne furono le culle principali. Il Carbonarismo italiano come movimento politico, progressista e rivoluzionario, è uscito da questo contesto: e i 642.000 affiliati del 1819, non sono più allora un dato incomprensibile o dubbio, ma il riflesso popolare della federazione di detti nazionalismi nel seno della Carboneria. In effetti, non bisogna dimenticare che i Carbonari, quali che fossero i mezzi diplomatici o rivoluzionari - talvolta terroristici - che impiegavano, e le loro appartenenze regionali, avevano tutti in comune il desiderio dichiarato di fare l'unità d'Italia in un quadro di solito repubblicano. E' questa la pietra angolare del loro edificio comune.

LA POSIZIONE RELIGIOSA DELLA CARBONERIA ITALIANA

I Carbonari, riprendendo a loro volta la struttura cristianissima del rito di "Alexandre - la - Confiance" importato a Napoli dal Briot, esprimono bene il loro particolarismo religioso in questo passo: "E' impossibile che in Italia le affezioni religiose restino interamente straniere ad una istituzione tale è la Carboneria. Altrove, l'incredulità si è qualche volta associata all'amore della libertà e all'odio per l'oppressione. I Carbonari al contrario mostrano una fede sincera nella religione di Gesù quale si trova nell'Evangelo, e liberata di tutti gli elementi estranei che i teologi vi hanno introdotto in diciotto secoli. Essi sono a una volta riformatori politici e religiosi". Questo credo Carbonaro porta in sé tutti i segni delle eresie spirituali medievali che si proponevano un ritorno ai valori di base della cristianità primitiva - umiltà, povertà volontaria e libertà di coscienza - puntando il dito contro l'arrogante ricchezza del Vaticano e il suo imperialismo politico. Ma nel XIX secolo divulgare una tale posizione significa anche partecipare alle primizie del laicismo, pur restando fedeli alla secolare tradizione italiana. Ai nostri giorni, i pochi paesi laici europei sono tutti delle repubbliche. e i Carbonari furono dei repubblicani che non videro mai i frutti dei loro sforzi e sacrifici. La riunificazione dell'Italia passava anche attraverso l'opposizione al particolare statuto degli Stati Pontifici che separavano i regni del Sud da quelli del Nord: questa opposizione si estendeva per via di conseguenza al Papato stesso, con tutto quel che ciò comportava sul piano dogmatico e religioso oltre che su quello politico. A differenza dell'autore del brano citato, (che apparve su un numero della Bibliotheque Historique del 1820, ed è forse di mano dello stesso Briot -n.d.t.-) noi non pensiamo che questa volontà di ritornare ai valori originari della cristianità pre-nicena (325 d.C.) avesse una reale capacità di proposta innovatrice nel campo religioso. Ci sembra piuttosto che andasse di pari passo, sul terreno rivoluzionario, con tutte le altre proposte dei Carbonari. Essendo il Vaticano un imperialismo locale assimilabile a quello globale dell'Austria, questa dichiarazione sembra rivendicare la libertà di coscienza, più che formulare che una proposta coerente o un'innovazione strutturata, spiritualmente e teologicamente parlando. Non si tratta che di una rimessa in causa unilaterale e dichiarata di una autorità dogmatica. L'immensa maggioranza dei Carbonari non intravide, né desiderò, una alternativa al cristianesimo. Notiamo comunque , tenuto conto del loro numero e delle loro diverse origini, che certuni hanno potuto pensarci. In effetti, è proprio in Italia, a Venezia, che il Rito massonico di Misraim, alter ego del Misraim francese del 1785 (archivi della biblioteca di Alençon), apparve nel 1788, presentandosi allo studio come un tentativo di ripresa etica della religione antica: esso avrebbe dunque potuto rappresentare una tipologia religiosa alternativa. La presenza di Garibaldi tanto fra i Carbonari che nel Rito più tardivo di Memphis, la sua azione massonica che approdò alla federazione di questi due Riti egiziani, le relazioni strette che conosciamo fra i membri del Misraim e certi Carbonari nel periodo del Terrore bianco, ci obbligano ad accettare l'ipotesi che una qualche componente della Carboneria vedeva in una ripresa etica del paganesimo una soluzione ancora più radicale nello scontro con l'imperialismo romano. Questa doppia appartenenza massonica fu anche quella del Briot e del Testa. In ogni caso, le origini francesi e neo-celtiche dei Riti Forestali, così come il panteismo deista del Toland, sono stati totalmente occultati e ignorati dal Carbonarismo italiano, che preferirà, all'estrema, gettarsi nelle tradizioni mediterranee greco-egiziane (fra le quali è da comprendere il neo-pitagorismo), maggiormente in corrispondenza con l'etnologia delle popolazioni interessate. Resta tuttavia assodato che i nemici della Massoneria in generale, e dei Carbonari in particolare - come l'abate Gyr -, non cessarono di formulare nei loro confronti sospetti di ateismo, ma soprattutto di panteismo, la grande eresia libertaria. E proprio questo panteismo si ritrova tanto nei clan celtici antichi che in certe eresie medievali maggiori e impenitenti, nella vita di Giordano Bruno, nelle proposizioni di John Toland basate su quelle di Spinoza e, in una certa misura, in tutta la corrente libertaria massonica del Secolo dei Lumi. Basta rilevare e sovrapporre, come abbiamo già fatto in precedenza, le grandi date delle azioni progressiste della Massoneria con le date delle scomuniche e dei Sillabi scagliati dal Vaticano fra il XVIII e il XX secolo per comprendere che si tratta di una dialettica, di un vero rapporto fra forze contrarie, fra le proposizioni liberali in movimento e il mantenimento di un teocratico ordine costituito. Riteniamo allora, avuto conto della magmaticità inclassificabile delle proposizioni emancipatrici formulate durante questo lungo e molteplice periodo, che la prima mossa dei Carbonari in campo religioso - quali ne siano state le forme e le espressioni - sia riconducibile alla rivendicazione della libertà di coscienza, sinonimo perfetto dell'eresia prima che contiene in sé tutte le altre nel diritto canonico di quest'epoca, ancora dipendente dal quadro dogmatico del Concilio di Trento. In effetti, l'eresia prima com'è descritta ne "L'Etat en abregé de la Justice ecclésiastique et séculiére du pays de Savoie", di A.Chambert (1674), si atrova a monte di tutte le eresie particolari, e porta il nome di "LIBERTA'". Ecco il testo che la definiva agli occhi del Vaticano: "Tuttavia, come non c'è dipinto senza ombre, così occorreva la difformità e la notte dell'eresia per riconfermare le bellezze della Chiesa romana e le le luci che emanano dalle sue verità. Oportet hareses esse, e come non ci sono nazioni sì barbare che non abbiano adorato una qualche divinità, così come non esiste religione che non abbia avuto dei profanatori i quali abbiano fondato sulla rovina del culto divino una libertà sregolata: Ovidio li ha meravigliosamente rappresentati nella favola dei Mineidi, dove sono trasformati in pipistrelli, che non sono né topi né uccelli e cje non cercano che l'oscurità e le tenebre. Gli eretici hanno sempre seguito questi movimenti nella loro rivolta impudente: l'inclinazione alla libertà di fare ogni cosa, con arroganza, secondo la loro opinione, e l'amore cieco del personale sentire sono le principali loro credenze; essi acquistano la qualità di aggressori senza nulla provare, e volgono al ridicolo la Religione dei loro padri; vogliono che la fede e la natura siano sottoposte allo stesso genere di dimostrazione; e insomma non tendono che al rilassamento, e sotto pretesti simili suppongono errori ed abusi della Chiesa per separarsi da essa e fabbricarsene una a modo loro, e non secondo la volontà di Dio: e come se fosse buono accoppare il corpo che ha qualche membro malato, attaccano quello della Chiesa, a motivo dei cattivi che essa ha avuto in sé". Dopo ever fustigato tutti i grandi eretici come Cerinto, Ebione, gli gnostici, Marcione, Mani, Ario, Pelagio, Berengario d'Angers, Giovanni Huss, Lutero, Calvino, Giansenio, e tutti gli scismatici dei Patriarcati di Gerusalemme, di Costantinopoli, di Alessandria e di Antiochia - comincia ad essere parecchia gente - cade la sanzione: "La pena dell'eretico è la scomunica, quanto alla Chiesa, e secondo le leggi canoniche, la privazione della sepoltura, se resta ostinato. Essa condanna l'apostata alla prigione perpetua. Il magistrato secolare punisce non la morte l'apostata e colui che infrange i dogmi, e sovente il fuoco consuma i loro libri insieme ai corpi". Non avendo potuto fin'ora toccare che gli scismatici cristiani, le condanne continuano e si estendono al mondo intero: "Oltre agli eretici e agli scismatici, ci sono nazioni che non hanno alcuna credenza in Gesù Cristo, quali i Giudei, i Pagani e i Maomettani, ma la Chiesa non le punisce, perché da essa son fuori, se non con la scomunica generale che ciascun anno si fulmina da Roma." Viene infine un inciso sull'ateismo, che dal XVII secolo cominciava a metter fuori il naso: "Si sono visti ancora degli infelici ridottisi a non credere a nulla dell'altro mondo, e che chiamiamo atei. Essi danno tutto al capriccio della natura e non vedono nulla al di sopra di essa. Affermano che l'anima muore col corpo, come quella dei bruti, e che Dio è una supposizione immaginaria e favolosa. Che infine non ci sono paradiso od inferno, né speranza d'altra vita. Tale fu il detestabile Lucilio che morì in mezzo alle fiamme[...]." Questo testo parla da sé, e mette in evidenza parecchie cose: La definizione che la prima di tutte le eresie è la messa in pratica della libertà dicoscienza; * L'imposizione della "normalizzazione" in ogni dominio della vita individuale è pretesa sotto pena di morte; * Il valore dell'individuo è negato a profitto di quello del gruppo, e meglio se cattolico romano; * Ai pagani (paganus = abitante del pagus, della campagna), dunque alle popolazioni rurali, è intimato di sottomettersi alla normalizzazione urbana. * Coloro che non rientrano nei codici stabiliti sono fisicamente soppressi, e chi si trova fuori dalla portata di una giustizia secolare compiacente e asservita sono marginalizzati e rigettati preventivamente dalla "famiglia" religiosa considerata. Essi diventano "fuori legge" senza nemmeno saperlo, e sono ipso facto condannabili non appena pongono piede in una contrada dipendente secolarmente dal diritto canonico. Questo testo, alla base di molti razzismi ancora vigorosi ai nostri giorni, era ancora valido all'epoca che studiamo. Esso certamente è illuminante sulle posizioni del Vaticano nei riguardi della Massoneria progresista, e ancor più sugli anatemi che furono scagliati sui Carbonari e accompagnati da severe repressioni di polizia.

LA CARBONERIA FU UNA MASSONERIA IN SENSO STRETTO?

Tutte le informazioni su questo punto ci sembrano coerenti, ma sarebbe forse meglio domandarsi se i Carbonari si consideravano Massoni. Anche qui la risposta sarebbe: dipende dai tempi e dai luoghi. E' certo che i sentimenti dei Carbonari di Venezia, ancuni dei quali si fusero letteralmente colRito di Misraim, non poterono essere gli stessi dei Carbonari Napoletani fra il 1810 e il 1815 che, sotto l'azione di Murat, videro le loro Vendite proscritte nel momento in cui una Massoneria di tipo francese veniva stabilita. Sappiamo che Massoni e Carbonari si riconoscevano fra loro, e che venivano affiliati nei gradi che possedevano quando i membri dell'una si presentavano a farsi ricevere dall'altra parte. Il problema è identico a quello che si presenta studiando i riti forestali francesi del '700 (rito Beauchesne del 1747 e rito "Alexandre la Confiance" del 1760) nei loro rapporti con le Obbedienze massoniche. Da ciò siamo condotti ad interrogarci sulla definizione stessa di quello che è la Massoneria, ed il dibattito alla vigilia del 2000 è ancora aperto, alimentato da punti di vista divergenti a seconda che siano il frutto della scuola simbolista o della scuola storica. Bisogna dunque distinguere il fondo dalla forma, il contenitore dal contenuto.

IL CONTENITORE E LA FORMA

I riti forestali francesi che servirono da trama rituale alla Carboneria sono senza dubbio usciti in epoca tarda da trasmissioni corporative dei mestieri della foresta - tagliatori, carbonai, forgiatori - ed hanno dato luogo ad estensioni di carattere speculativo. In questo senso, essi sono ETICAMENTE massonici, perché contengono dei Landmarks etici molto ben definiti ed analoghi a quelli dei riti detti "della pietra": fratellanza, solidarietà, ospitalità, beneficenza, buoni costumi. Per il poco che conosciamo della vita normale delle Vendite francesi del '700, ci sembra nondimeno che i "Buoni Cugini" si siano sempre considerati come "massoni del legno", che essi abbiano generalmente mantenuto una doppia appartenenza nelle Logge urbane "della pietra", e che nessuna incompatibilità storica si possa rilevare. Briot da questo punto di vista è esemplare. Lo stesso si può affermare per una buona parte dei Carbonari italiani, con delle varianti notevoli a seconda dei Regni considerati. Fu questo il caso anche dei Carbonari francesi dell'inizio del XIX secolo, quando numerosi furono i reggimenti bonapartisti che avevano in attività una Loggia "della pietra" e una Vendita "del legno". Le stesse persone erano Carbonari e Massoni, e ci sembra che occorra considerare un tale stato di fatto e raffrontarlo, nella nostra contemporaneità, alla "massonicità" di coloro che praticano Riti diversi, e magari in seno ad Obbedienze diverse. IL FONDO E IL CONTENUTO Ma a parte l'etica di questi riti "del legno" perfettamente analoga a quella dei riti "della pietra", i Landmarks caratteristici delle Vendite ne fanno una Massoneria a tutti gli effetti. Questa conclusione non è possibile se non si relativizzano le prese di posizione diplomatiche che frammentano la Massoneria mondiale in "regolare" e "irregolare". In effetti, se le Costituzioni di Anderson furono giustamente la pietra angolare della Massoneria speculativa nel 1723, e se ebbero la loro sorgente nei Landmarks corporativi, come sembra chiaramente suggerito, allora bisogna ammettere l'universalismo come cemento federatore di tutte le forme rituali massoniche, sia che queste siano rurali o urbane, inglesi, francesi, tedesche o italiane. L'opera antimassonica del 1859, scritta dall'abate Gyr, "La Franc-Maçonnerie en elle même et dans ses rapports avec lea autres societés secrètes de 'Europe, notamment avec la Carbonarie italienne" fonde Massoneria e Carboneria: "Insistiamo su questo punto: la Carboneria non è altro che la Massoneria mascherata. Acerellos, scrittore di una ortodossia massonica al dis opra di ogni sospetto, lo dichiara in termini formali (Die Freimaurerie in ihren Zusammenhang, t.III, p.281): - I Massoni e i Carbonari, uniti da legami di stretta amicizia, non formavano, per così dire, che un solo corpo [...]. Quando un Massone vuol essere ricevuto nel novero dei Buoni Cugini (Carbonari), è dispensato dalle prove ordinarie; se ha ricevuto un grado superiore ai tre gradi simbolici, diventa immediatamente Maestro Carbonaro e il suo nome è iscritto nel Libro d'Oro. Nei suoi diplomi e certificati i gradi massonici che riveste sono menzionati.-".

LE CONTRADDIZIONI DELL'OPERA SULL'ORIGINE DEI RITUALI CARBONARI

L'opera che vi invitiamo a leggere con la più grande attenzione contiene delle contraddizioni flagranti su questo punto, e bisogna che le evochiamo. Sain-Edme si inventa un racconto da far dormire in piedi per liberarsi da ogni responsabilità nella diffusione non solo della Carboneria italiana, ma anche della Charbonnerie francese. La sorveglianza poliziesca molto stretta, e la pesantezza delle pene inflitte ne sono senza dubbio la causa. La storia di questo vecchio monaco italiano di Verona che, si pretende, sarebbe stato un vecchi Carbonaro, ildepositario del Rito e dei suoi rituali e l'iniziatore di Briot, non si regge. In effetti, noi sappiamo che Briot, bem prima delle missioni italiane, era membro importante di una Vendita di "Alexandre-la-Confiance" della Franca Contea, e che fu lui ad introdurre quei rituali in Italia. Una conferma dell'origine francese dei rituali è data dalla giustapposizione, anche superficiale, dei rituali del 1747, del 1760 e di quelli che appaiono in quest'opera come Carbonari in senso stretto (e non latamente "forestali"): da considerare in particolare i riferimenti a Francesco I° e a San Tebaldo. La contraddizione continua quando consideriamo l'attualità di questa opera in francese del 1821, della quale la vocazione evidente è quella di aiutare la Carboneria francese a strutturarsi e a farsi conoscere nei suoi scopi. Bourg non solamente utilizza uno pseudonimo, ma fa anche intervenire pesantemente l'editore con una severa messa in guardia. L'origine italiana dei rituali è così ufficialmente mantenuta. Ora, nella V lettera del 12 luglio 1819 ritrascritta alla fine dell'opera, lo scrivente sottolinea a questo proposito: "Questa società (la Carboneria) ha una origine francese." In queste contraddizioni dobbiamo vedere l'atteggiamento prudente di Briot-Bourg? Si deve forse intendere che dopo l'aggressione di Murat ai Carbonari italiani, gli adepti del carbonarismo presero l'abitudine di negare ufficialmente la loro responsabilità in questo affare? Avrebbero creato la Carboneria italiana senza mantenerne la tutela amministrativa? Avrebbero lanciato ilmovimento carbonaro prima delle missioni al fianco di Murat? In ogni caso, sembra ragionevole considerare come ipotesi migliore sull'origine dei rituali in questione la trasmissione in Italia dei rituali della Franca-Contea di "Alexandre-la-Confiance", essi stessi usciti da quelli più pagani del 1747, operata dal Briot in persona verso il 1804.

IMPEGNO POLITICO E IMPEGNO MASSONICO

Le specificità della Carboneria italiana le hanno dato una vocazione politica molto particolare e molto militante. La Carboneria può essere considerata il prodotto dell'impegno massonico? Bisogna qui rispondere con prudenza, perché in quel periodo abbiamo a che fare con una pluralità di Massonerie, e lo scontro fra Moderni ed Antichi era ancora accesissimo appena pochi anni prima della vittoria degli Antichi, nel 1813. L'impegno politico dei Carbonari, malgrado numerose diversità locali, si fondava su due punti. Il primo era l'unità nazionale, del quale fa prova la loro opposizione alla Casa d'Austria, alla restaurazione dei Borboni a Napoli, al Vaticano come potere temporale. Essi manifestarono così uno spirito pre-repubblicano imperfettamente definito nella rivendicazione al diritto all'autodeterminazione dei popoli. Il secondo punto è conseguenza del primo, e prese forma in una opposizione filosofica ai diritti divini, agli imperialismi dogmatici e all'ingiustizia sociale sotto tutte le forme. I Carbonari possono essere così considerati come attivisti della libertà di coscienza e della promozione di ogni idea progressista. Essi parlano di emancipazione: della loro patria, certamente, ma anche degli individui. Questo schema di evoluzione molto impegnato non può non ricordare le proposizioni innovative della prima generazione dei Massoni detti "Moderni" fra il 1710 e il 1750. John Toland, senza alcun dubbio, sarebbe stato fiero di vedere questi Carbonari, usciti alla lontana dalla tradizioni della Foresta, che furono anche le sue, affrontare tutti i dogmatismi politici e religiosi post medioevali ancora vigorosi che continuavano a vessare l'autonomia dei popoli e degli individui. Basta "italianizzare" il suo Pantheisticon del 1720 per evocare l'ipotesi che se Toland fu il teorico di una libertà di coscienza attiva, i Carbonari ne furono altrettanto attivi praticanti. In questo senso, possiamo assimilare l'iniziativa della Carboneria ai progetti di alcuni fra i Massoni "Moderni" del primo periodo andersoniano (1723). In contropartita, i Carbonari sono in opposizione perfetta rispetto alle tesi molto più realiste e reazionarie degli "Antichi", che pacificarono i rapporti fra la Massoneria e il potere, nel mentre che canalizzavano la sua crescita con l'erezione di una "regolarità" che è un tradimento vero e proprio delle Costituzioni di Anderson del 1723. Nel 1813 in effetti la libertà di coscienza fu sostituita dall'obbligo di credere al Dio rivelato della Bibbia. A una Massoneria "della pietra" che nel periodo fra il 1810 e il 1840 fu sul piano europeo legittimista, si oppose una massoneria "del legno" progressista e insurrezionalista perfettamente impermeabile ad ogni forma di normalizzazione.

IL CARBONARISMO NAPOLETANO DAL 1815

Gioacchino Murat fu giustiziato, per sentenza di una corte marziale sul campo, a seguito del suo fallito tentativo di sbarco del 13 ottobre 1815. Ferdinando IV di Borbone aveva ripreso il trono di Napoli dal mese di maggio e immediatamente vietato Logge massoniche e Vendite carbonare. Una cappa controrivoluzionaria soffocava il regno. Per perfezionare la sua campagna contro i Carbonari, Ferdinando autorizzò e sostenne un'altra setta a lui fedele, i Calderai, che precipitarono il paese in una serie senza fine di regolamenti di conti. Il sangue colava con o senza l'avallo dei tribunali, e la delazione era diventata un'impresa lucrativa. Malgrado queste pressioni la Carboneria napoletana continuò a crescere e fu sostenuta da tutti gli altri gruppi analoghi degli altri stati italiani. Il movimento si estese a tutta la penisola, e nessua polizia o esercito riuscirono ad estinguerlo. L'unità d'Italia era a portata di mano.

Traduzione di A...L...C... (1998)

tratto da http://www.carboneria.it/

nuvolarossa
12-09-06, 09:59
Giuseppe Mazzini a 200 anni dalla nascita

di Enrico Panini

Tutte le nostre città dedicano un monumento a Giuseppe Mazzini, ma al di fuori delle poche pagine studiate a scuola sulla sua figura non c’è una grande attenzione. Si sa che è stato un padre della patria, ma di certo egli non ha avuto la stessa fortuna di Garibaldi e di Cavour.
Giuseppe Mazzini è stato però a torto dimenticato. Ecco perché abbiamo voluto dedicargli questo numero della nostra rivista nell’anno in cui ricorre il bicentenario della sua nascita.
Troverete in queste pagine interventi autorevoli che ci aiutano a capire di più di una figura complessa come quella di Mazzini sia in rapporto con il suo tempo ed i suoi contemporanei, sia per quanto del suo lavoro e del suo pensiero può essere considerato attuale e ancora stimolante nella nostra vita e nel nostro lavoro. Infine troverete un repertorio scelto di alcuni suoi scritti, dai quali trabocca quella passione civile, morale e (laicamente) religiosa che permeò i protagonisti del nostro Risorgimento nazionale.
Mazzini è stato un rivoluzionario, una rivoluzione repubblicana era per lui, infatti, la lotta per l’indipendenza nazionale. Ma non è solo questo il lato che affascina un sindacalista. Mazzini per primo, tra gli italiani, si occupò delle condizioni dei lavoratori e degli immigrati, denunciò con forza la tratta dei piccoli schiavi italiani che chiedevano l’elemosina nelle vie di Londra. Si preoccupò delle ingiustizie e delle disuguaglianze che il nascente sistema capitalistico andava consolidando. In questo non fu solo profetico, ma lavorò sistematicamente per forme di difesa e di emancipazione della classe lavoratrice con grande sensibilità sociale e pedagogica. SÏ, pedagogica: come non ricordare, infatti, l’importanza che egli attribuiva all’educazione e alla formazione del popolo affinché acquisisse coscienza di sé e identità? Le righe che seguono offrono uno spaccato chiaro del pensiero di Mazzini al riguardo.

L’educazione, pane dell’anima

“ (…) Voi dunque avete dovere di educarvi per quanto è in voi, e diritto a che la società alla quale appartenete non vi impedisca nella vostra opera educatrice, vi aiuti in essa e vi supplisca quando i mezzi di educazione vi manchino.
La vostra libertà, i vostri diritti, la vostra emancipazione da condizioni sociali ingiuste, la missione che ciascun di voi deve compiere qui sulla terra, dipendono dal grado di educazione che vi è dato raggiungere. Senza educazione voi non potete scegliere giustamente fra il bene e il male; non potete acquistar coscienza dei vostri diritti; non potete ottenere quella partecipazione nella vita politica senza la quale non riuscirete ad emanciparvi; non potete definire a voi stessi la vostra missione.
L’educazione è il pane delle anime vostre. Senza essa, le vostre facoltà dormono assiderate, infeconde, come la potenza di vita che cova nel germe dorme isterilita, se esso è cacciato in terreno non dissodato, senza benefizio d’irrigazione e cure dell’assiduo coltivatore.
Oggi voi o non avete educazione o l’avete da uomini e da poteri che nulla rappresentano fuorché se stessi e, non servendo a un principio regolatore, sono condannati essenzialmente a mutilarla o falsarla. (…)” (G.Mazzini, L’educazione in Doveri dell’uomo, 23 aprile 1860).
Una importante novità è stata rappresentata nel pensiero mazziniano dal concetto di “associazione”, peraltro, inteso come l’unico mezzo dato all’umanità per conoscere e realizzare la sua legge di vita e attuare il “progresso continuo”, che è anche alla base dei principi costitutivi la “Giovine Europa”, per la quale il patriota ligure aveva redatto non solo l’Atto di fratellanza, ma anche lo Statuto.

Alle origini del movimento operaio

Non poca influenza esercita nel suo pensiero, negli anni di esilio londinese, la conoscenza del cartismo e del movimento associativo degli operai inglesi. Ne è una sicura riprova la vera e propria “svolta” attuata da Mazzini negli anni 1838-‘39 nei confronti del mondo del lavoro, quando promuove un’opera sistematica di iniziazione in seno all’emigrazione artigiana italiana dell’Inghilterra e della Francia, cosÏ da educare in senso nazionale e democratico gli uomini del lavoro. Sulla base di queste idee, egli fondò l’Unione degli operai italiani (1840), sostenuta dalla pubblicazione dell’“Apostolato popolare”, un periodico destinato soprattutto ai lavoratori.
Questo lavoro darà i suoi frutti dopo il 1848 quando associazioni e gruppi a base operaia, che si ispiravano alle dottrine mazziniane, cominceranno a prendere piede, sia in forma pubblica (negli Stati sardi) che clandestinamente (Milano, Parma, Livorno). Anche se l’Unione avrà vita grama e stentata, “la sua fondazione - come scrive Franco Della Peruta (Scrittori politici dell’Ottocento, tomo I, Giuseppe Mazzini e i democratici, a cura di F. Della Peruta, Ricciardi, Milano-Napoli 1969) - segna pur sempre un momento di rilievo nella storia delle classi lavoratrici italiane; essa fu infatti la prima associazione di lavoratori che, allargando i suoi orizzonti al di là della previdenza e del mutuo soccorso, fece dell’attività politica, orientata in senso democratico e nazionale, una delle sue ragioni di vita, prefigurando cosÏ le tendenze lungo le quali si sarebbe sviluppato, soprattutto negli anni tra il 1860 ed il 1871, un settore cospicuo del movimento operaio del nostro paese”.

Repubblicanesimo e associazionismo

Io vengo da una regione, l’Emilia Romagna, di antiche tradizioni repubblicane, dove è sempre stato particolarmente forte il principio di associazionismo. Basti pensare - come scrive M. Ridolfi in Il partito della repubblica. I repubblicani in Romagna e le origini del Pri nell’Italia liberale (1872-1895), Milano 1989 - che nella seconda metà dell’Ottocento ben trenta associazioni facevano capo alla consociazione di ForlÏ. Non a caso questa, roccaforte delle forze repubblicane in Romagna, fu la città dove operò Aurelio Saffi - triumviro con Mazzini della Repubblica Romana -, eletto nel consiglio comunale della città fin dal 1867 insieme con Alessandro Fortis. Sotto la presidenza di Saffi, i repubblicani avevano dato vita, nel 1872, anche ad una banca popolare a struttura cooperativa. Certo, essi non furono i primi, ma è diffusa la convinzione che il movimento cooperativo affondi le sue radici nel repubblicanesimo mazziniano. Ne fu convinto assertore Giovanni Spadolini che scrisse: “E’ dal tronco del repubblicanesimo che sorgerà anni più tardi, nel 1886, la Lega nazionale delle cooperative”.

L’emancipazione delle donne

Ma c’è un altro aspetto dell’associazionismo mazziniano che mi piace sottolineare e che ci fa sentire Mazzini più vicino: esso fu contrassegnato, fin dalle origini, da una forte attenzione alla condizione delle donne. Ad esempio, nel numero del 25 febbraio 1873 de “La donna” (una rivista nata a Padova nel 1868 e diretta da Gualberta Beccari, mazziniana convinta ed antesignana del movimento di emancipazione femminile in Italia) compare un articolo di Giorgina Crauford Saffi sulla Società artigiana femminile, nel quale educazione popolare e ruolo della donna vengono fatti dipendere da una più generale riforma della vita della nazione. L’idea di far nascere una società femminile autonoma era sicuramente innovativa: la presenza delle donne nelle società di mutuo soccorso, fondate da uomini, veniva infatti a tal punto osteggiata “… che quelle che le ammettevano, le cosiddette società promiscue o miste, non esitavano a far pagare loro quote associative superiori a quelle pagate dagli uomini, con una logi perciò attenta soprattutto all’equilibrio finanziario tra rischi ed entrate, in una prospettiva più assicurativa che solidaristica” (A. Gigli Marchetti, Associazionismo operaio e associazionismo femminile alle origini delle ideologie cooperative.1854-1886, cit. in Liviana Gazzetta, Giorgina Saffi, Angeli, Milano 2003).
Noi non amiamo le celebrazioni fini a se stesse, ma in un momento cosÏ grave di calo dei valori forti e identitari della nostra storia ci è piaciuto ricordare Giuseppe Mazzini per il suo contributo di idee e di fatti alla cultura politica e civile del nostro paese. Quelle idee e quei fatti di cui gli italiani e gli europei gli sono debitori.

tratto da http://www.valorescuola.it/mioweb/

nuvolarossa
15-11-06, 19:42
SEMINARIO DI FORMAZIONE POLITICA

FIUGGI, 19 - 24 novembre 2006

Il Partito Repubblicano Italiano, insieme alla Federazione Giovanile Repubblicana, organizza, nelle giornate dal 19 al 24 p.v., un corso di formazione per giovani aderenti e simpatizzanti del PRI.
Crediamo fermamente nell'importanza di iniziative come queste, in grado di coinvolgere i giovani, di stimolarli a ragionare sui problemi del nostro Paese laicamente, cioè senza pregiudizi, senza barriere ideologiche.
Il processo che il PRI, da qualche tempo, ha intrapreso è quello di un compiuto quanto improcrastinabile ricambio generazionale. Tuttavia siamo convinti che per essere efficace il ricambio generazionale deve condursi nel modo meno improvvisato possibile e deve essere guidato da una strategia complessiva che miri ad un rilancio dell'azione politica del nostro partito.
Per queste motivazioni quell'iniziativa che tanto successo aveva riscosso due anni fa a Chianciano si rinnova quest'anno. Stavolta però l'appuntamento è a Fiuggi, domenica 19 nel tardo pomeriggio, presso l'Hotel Oxford.
Di seguito pubblichiamo il programma delle giornate di studio.

Domenica 19

Ore 18,00 - Accoglienza dei partecipanti da parte del Segretario Nazionale della Federazione Giovanile Repubblicana, dott. Giovanni Postorino

Redazione breve scheda di presentazione personale

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Lunedì 20

Ore 8,30 - Saluto ViceSegretario Nazionale del PRI, dott. Corrado Saponaro De Rinaldis

Ore 9,00 - Quadro istituzionale ed organizzazione dello Stato. Il nuovo ruolo delle autonomie locali. La riforma dell'ordinamento statale. dott. Michele Eramo

Ore 11,00 - La giustizia nell'amministrazione: la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini. prof. Emidio Frascione

ore 14,00 - La politica energetica e la tutela ambientale. prof. Franco Battaglia

Ore 16,00 - Partiti politici, sindacati e gruppi di pressione (il fenomeno delle lobbies): il loro ruolo nelle moderne democrazie. sen. Antonio Del Pennino

Tavola rotonda sugli argomenti della giornata. Redazione documento di sintesi

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Martedì 21

Ore 9,00 - Strategie di comunicazione politica. dott. Giuliano Torlontano

Ore 11,00 - Principi ispiratori repubblicanesimo. on. Oscar Mammì

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Ore 15,00 - L'unione europea e la tutela della concorrenza dei mercati. avv. Alessandro Nucara

Ore 17,00 - Amministrazione ed organizzazione del Partito repubblicano. Le liste elettorali. Interverranno il dott. Giancarlo Camerucci (Amministratore PRI), il dott. Franco Torchia (responsabile del tesseramento PRI) e Sergio Ferretti (funzionario PRI)

Tavola rotonda sugli argomenti della giornata. Redazione documento di sintesi

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Mercoledì 22

Ore 9,00 - Politica industriale: le condizioni per crescere. prof. Riccardo Gallo

Ore 11,00 - Finanziaria e conti dello Stato. prof. Gianfranco Polillo

Ore 16,00 - Il declino del Sud. sen. Luigi Compagna

Tavola rotonda sugli argomenti della giornata. Redazione documento di sintesi

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Giovedì 23

Ore 9,00 - Politica e finanza. dott. Oscar Giannino

Ore 10,30 - L'Europa ed i Fondi comunitari. prof.ssa Laura Montana

Ore 12,30 - La politica economica nell'età della globalizzazione. prof. Bruno Trezza

Ore 16,00 - Analisi del quadro politico internazionale. Il nuovo ruolo dell'Oriente (Cina e India). Il mondo occidentale e la lotta contro il terrorismo. La globalizzazione e le sfide per lo sviluppo dei "Paesi poveri". Il ruolo dell'Italia. on. Giorgio La Malfa

Tavola rotonda sugli argomenti della giornata. Redazione documento di sintesi

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Venerdì 24

Ore 10,00 - Faccia a faccia con il Segretario del PRI, on. Francesco Nucara

Chiusura del Seminario: analisi e dibattito libero su tematiche d'attualità e su quanto discusso nel corso del Seminario.

Redazione scheda personale conclusiva

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tratto dal sito del Partito Repubblicano
http://www.pri.it

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JohnMill
25-11-06, 19:47
Può un libertario, credente nello stato minimo, sostenitore di Robert Nozick, aderire fedelmente al Partito Repubblicano e condividerne gli ideali di base? Può un Repubblicano legato ai valori della patria e dell’ateismo essere contemporaneamente libertario? Può cercare di creare all’interno del partito stesso una corrente libertaria, o il partito condivide per molti versi il credo libertario? Nucara può considerarsi ideologicamente libertario o è in tutto e per tutto fondamentalmente solo Repubblicano? Ci sono libertari nel PRI? Può il PRI farsi portavoce anche della bandiera Libertaria? Può venirsi a creare un Internazionale Repubblicana legata ai movimenti Libertari e Liberisti? Può il PRI farsi artefice della creazione dell'Internazionale Repubblicana?

Sono nuovo di questo forum, ho scritto solo due messaggi, uno quà e uno sul forum dei Libertari. Sono iscritto al PRI e queste domande mi assillano. Cosa ne pensate?

lele15
26-11-06, 10:20
suppongo che se sei libertario ed iscritto al PRI ti sei già dato una risposta in senso positivo!

JohnMill
26-11-06, 12:36
Potrebbe anche essere, ma vorrei tanto sapere cosa ne pensate, e soprattutto non capisco perchè il più vecchio dei partiti in italia, uno dei pocchi a non aver mutato nome e simbolo, uno dei pocchissimi a definirsi realmente partito, partito italiano per altro, non riesca ad intercettare le aspirazioni di chi sta con liberali, laici, liberisti e libertari, per non dire di quelli che hanno rivolto le loro attenzioni a forza italia. Sappiamo tutti la storia della bandiera repubblicana regalata a Berlusconi. Berlusconi ha avuto il merito di farsi portavoce di quell'elettorato che potrebbe stare felicemente dentro un vero partito, quello Repubblicano. Stimo tantissimo sia Nucara che La Malfa e non metto in discussione il loro valore e le loro enormi capacità, credo però che non basti il loro operato. Non credo sia neccessario un cambiamento della dirigenza, credo invece in un ampliamento della dirigenza, invitando a far parte del partito personaggi della cultura e dell'imprenditoria, un po' come si fece nei confronti di Spadolini. Cosa ne pensate?

Pedro78
27-11-06, 00:50
Potrebbe anche essere, ma vorrei tanto sapere cosa ne pensate, e soprattutto non capisco perchè il più vecchio dei partiti in italia, uno dei pocchi a non aver mutato nome e simbolo, uno dei pocchissimi a definirsi realmente partito, partito italiano per altro, non riesca ad intercettare le aspirazioni di chi sta con liberali, laici, liberisti e libertari, per non dire di quelli che hanno rivolto le loro attenzioni a forza italia. Sappiamo tutti la storia della bandiera repubblicana regalata a Berlusconi. Berlusconi ha avuto il merito di farsi portavoce di quell'elettorato che potrebbe stare felicemente dentro un vero partito, quello Repubblicano. Stimo tantissimo sia Nucara che La Malfa e non metto in discussione il loro valore e le loro enormi capacità, credo però che non basti il loro operato. Non credo sia neccessario un cambiamento della dirigenza, credo invece in un ampliamento della dirigenza, invitando a far parte del partito personaggi della cultura e dell'imprenditoria, un po' come si fece nei confronti di Spadolini. Cosa ne pensate?


Secondo me riguardo al mancato consenso credo che sia in parte addebitabile ad una democratizzazione della sinistra moderata che ha fatto propri valori del repubblicanesimo (almeno sulla carta)

per quanto riguarda la scarsa visibilità del partito sono pienamente d'accordo con te...in ogni caso il riavvicinamento di certi personaggi pubblici come Oscar Giannino e Franco Battaglia faccia ben sperare per il futuro!

JohnMill
27-11-06, 19:16
Quando andavo a scuola i professori non ci parlavano di Mazzini, dei Repubblicani, della libertà individuale e del liberismo, delle lotte risorgimentali, dello straniero, delle pene del nostro paese, ne del federalismo di Cattaneo. Ci parlavano di Marx e Gramsci, dei partigiani, della rivoluzione russa, e ci insegnavano "bella ciao" all'ora di musica. All'ora di religione ci facevano due palle con Mosè, la croce, la chiesa e con il perdono. Come se non bastasse la domenica erano chiesa e catechismo. Mai nessuno che ci parlasse dei filosofi greci o del credo illuminista, liberalista e repubblicano. Fascismo, comunismo e clericalismo hanno dominato.

Sarà mica per questo che il PRI "non tira"?

LIBERAMENTE
27-11-06, 21:22
Può un libertario, credente nello stato minimo, sostenitore di Robert Nozick, aderire fedelmente al Partito Repubblicano e condividerne gli ideali di base? Può un Repubblicano legato ai valori della patria e dell’ateismo essere contemporaneamente libertario? Può cercare di creare all’interno del partito stesso una corrente libertaria, o il partito condivide per molti versi il credo libertario? Nucara può considerarsi ideologicamente libertario o è in tutto e per tutto fondamentalmente solo Repubblicano? Ci sono libertari nel PRI? Può il PRI farsi portavoce anche della bandiera Libertaria? Può venirsi a creare un Internazionale Repubblicana legata ai movimenti Libertari e Liberisti? Può il PRI farsi artefice della creazione dell'Internazionale Repubblicana?

Sono nuovo di questo forum, ho scritto solo due messaggi, uno quà e uno sul forum dei Libertari. Sono iscritto al PRI e queste domande mi assillano. Cosa ne pensate?

Non ho mai avuto una tessera di partito, sono un libertarian (anarcocapitalista), ma il PRI l'ho votato in diverse occasioni e volentieri. Non so se possa farsi portatore della Bandiera Libertaria ma tra i movimenti che mi sono ritrovato sulla scheda elettorale era senza dubbio il più vicino alle mie idee, nonchè uno dei pochissimi partiti che parla di privatizzazioni serie, di tagli alla spesa pubblica, di liberismo.
Oggi voterei Riformatori Liberali, ma non essendo essi presenti dalle mie parti l'Edera resta una validissima alternativa anche per un Libertarian come me.

lele15
27-11-06, 22:18
Caro John il problema che tu sollevi è tristemente vero a scuola si spiegano Marx (& Co.) o la bibbia e la filosofia cattolica.

Di contro ogggi + ke mai con le nuove tecnologie si hanno gli strumenti per diffondere e presentare un'altro tipo di cultura:quella liberale!

JohnMill
03-12-06, 12:47
Anche per questo motivo sono convinto della neccessità di un Internazionale Repubblicano, che porti a valori universali la profondità dell'ideale antimonarchico e antioligarcico che ancora nel mondo miete migliaia di vittime. Un ideale che incorpori in se i sentimenti e le ragioni di chi crede in un mondo di patrie e non di nazionalismi e semplici comunità, un mondo globale di democrazie repubblicane parlamentari in cui liberalismo, liberismo e libertarismo infondano la strada giusta per il miglioramento sociale, culturale, istituzionale, economico dell'umanità.
Un Internazionale Repubblicano che possa tracciare le guide ideali in alternativa alle destre nazionali, clericali e monarchiche che umiliano l'individuo, alla sinistre marxiste e socialista che umiliano le masse, ma anche ai semplici organismi liberali internazionali che con tropa pazienza accolgono dentro di se organi nazionali in realtà ancora legati a concetti statalisti e mercantilisti, sistemi occulti e antiquati che pocco hanno da offrire al lungo miglioramento della civiltà umana.

kid
04-12-06, 19:48
finalmente leggo qualcuno che invece di chiederci di aderire all'internazionale liberale o a quella socialista, propone un'internazionale repubblicana! Mill non so chi sei ma ti meriteresti un monumento. Il punto è che le internazionali sono strutture politiche ottocentesche che non so davvero che senso hanno più oggi. C'era l'internazionale socialista, a cui contrapposero un'internazionale liberale. Poi con la rivoluzione d'ottobre è nata la terza internazionale e dopo il fascismo l'internazionale democristiana che mediava fra internazionale liberale ed internazionale socialista contro l'internazionale comunista. Ora la terza internazionale s'è dissolta. L'internazionale democristiana non so di che si occupa l'ultima volta venne a dire al ppe che non si poteva collaborare con i comunisti e quelli sono usciti dall'internazionale. In quella socialista vi sono forze che fanno politiche liberali, il new labour, in quello liberale, vi sono partiti che collaborano con i socialiste insieme a partiti che vi fanno la guerra armi in pugno, in Costa d'Avorio. Insomma a me sembra difficile creare un internazionale repubblicana anche solo pensando alle condizioni di diversità dei vari paesi da un continente all'altro e dalle evoluzioni venute nel nostro. L'internazionale dettava una linea su scala mondiale noi

nuvolarossa
04-12-06, 20:25
Calvin ... dopo "L'internazionale dettava una linea su scala mondiale noi" ... cosa veniva ?

jmimmo82
04-12-06, 20:26
Caro John Stuart Mill, hai avuto un'idea bella e suggestiva. Un'idea che metterebbe d'accordo tutti i repubblicani d'Italia e non solo.

JohnMill
04-12-06, 21:55
Sono un Repubblicano di Cagliari, e come ho già spiegato sono molto influenzato dal Libertarismo e dallo stato minimo. Il Libertarismo è affascinante ma non ha una base culturale storica per il momento. I Repubblicani si, e nonostante i mille rimuginamenti, mi sento ora più che mai un Repubblicano, che per me significa qualcosa che va oltre il PRI. Credo che essere Repubblicano oggi significhi difondere nel mondo i principi appunto Repubblicani, Democratici, Liberali.

Ma in che modo Democratici e in che modo Liberali? Credo che la risposta sia "in modo Repubblicano". Inutile che nei paesi anglossassoni vi siano principi Liberali, o addiritura SocialiDemocratici come nei paesi Scandinavi se poi dietro hanno istituzionalmente un monarca. Oggi più che mai le monarchie non dovrebbero esistere, sono un offesa alla dignità umana, anche se costituzionali. Mi dite che l' Internazionale Repubblicano è qualcosa di ottocentesco, ma le Monarchie cosa sono? Al pari delle ditature populiste o militari, al pari delle ditature clericali, socialiste o comuniste, sono un un pugno chiuso sullo stomaco, un filo di ferro che stringe il cuore. Si vantano di essere costituzionali, certo, ma se a un monarca gli gira la costituzione la leva e a i liberi diranno che ne hanno il diritto per spirito divino. Sono istituzioni medioevali.

Ecco, l' Internazionale Repubblicano dovrebbe farsi portavoce di saldi principi Repubblicani, democratici e liberali, contro ogni forma di statalismo eccessivo, contro ogni forma oligarchica, contro ogni forma feudale e imperialista di esercitare il potere, sia che si chiami forma comunista, sia che si chiami vaticanista, sia che si chiami forma fascista, sia che si chiami forma monarchica.

Credo che il PRI, uno dei pocchi veri partiti rimasti in italia, come dimostrano sia i fatti che le parole scritte e dette, possa farsi trascinatore di tali principi in nome della cultura che ha dietro. In nome delle battaglie fatte sia nell'ottocento, sia nel novecento. Contro i Savoia, contro il fascismo, contro il clericalismo e il comunismo, contro l'ignoranza, contro i pregiudizi di ogni colore, di ogni tipo.

:-00w09d

jmimmo82
04-12-06, 22:08
Per la prima volta nella mia vita, trovo qualcuno che la pensa come mé praticamente su tutte le grandi questioni politiche! Credevo di essere solo ma mi sbagliavo.

Benvenuto tra noi JohnMill



PS
sei sicuro di non essere mé?

JohnMill
11-12-06, 20:56
Credo siano in molti a pensarla come noi, il problema è che non abbiamo la visibilità adata e leaders fortemente carismatici che si facciano portavoce di fette consistenti e libere del popolo italiano. Molti la pensano come noi ma non sanno di essere Repubblicani. Ricoradate quando la bandiera Repubblicana fu messa sulle spalle di Berlusconi e gli fu detto che anche se non lo sapeva anche lui era un Repubblicano?

jmimmo82
11-12-06, 21:29
JohnMill, hai letto il messaggio privato che ti ho mandato qualche giorno fa? Ad ogni modo, ti avevo chiesto di iscriverti a Lista Repubblicana che è l'equivalente "virtuale" del PRI su Politica On Line. Sai, su questo sito si gioca ad emulare la politica reale con tanto di partiti, elettori, camera e senato e la costituzione di Pol. Sul seguente link si parla di Lista Repubblicana - Laici per Pol. http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=122818&page=29

Puoi intervenire e dire la tua su tutto ciò che riguarda la nostra lista. Io, calvin, nuvolarossa, pergolesi ed emoned facciamo parte del direttivo e prendiamo in considerazione ogni suggerimento proveniente da altri iscritti ad LR.

Emoned
11-12-06, 22:49
nn può leggere i ptv xke x farlo deve avere almeno 50 posts.
cmq lo invito caldamente ad aderire

JohnMill
13-12-06, 21:00
http://img175.imageshack.us/img175/4991/prilogodp2.jpg


:-00w09d :-00w09d :

jmimmo82
13-12-06, 21:14
Ecco, l' Internazionale Repubblicano dovrebbe farsi portavoce di saldi principi Repubblicani, democratici e liberali, contro ogni forma di statalismo eccessivo, contro ogni forma oligarchica, contro ogni forma feudale e imperialista di esercitare il potere, sia che si chiami forma comunista, sia che si chiami vaticanista, sia che si chiami forma fascista, sia che si chiami forma monarchica.

Credo che il PRI, uno dei pocchi veri partiti rimasti in italia, come dimostrano sia i fatti che le parole scritte e dette, possa farsi trascinatore di tali principi in nome della cultura che ha dietro. In nome delle battaglie fatte sia nell'ottocento, sia nel novecento. Contro i Savoia, contro il fascismo, contro il clericalismo e il comunismo, contro l'ignoranza, contro i pregiudizi di ogni colore, di ogni tipo. Alcune di queste battaglie non sono ancora state vinte. La questione "laicità dello Stato" almeno per ora, l'abbiamo persa. La visita di Giovanni Paolo II in Parlamento con quasi tutti gli anticlericali in ginocchio ne è la prova lampante. Attualmente abbiamo il problema dei PACS che faticano ad essere riconosciuti, l'eutanasia, la fecondazione assistita, l'otto per mille. Su queste cose non si può sorvolare. I repubblicani vogliono dare sovranità al popolo. Ebbene, il popolo (ache cattolico) vuole il cambiamento, vuole una ventata di progresso.

jmimmo82
16-12-06, 16:28
I Savoia si sono dati il colpo di grazia con l'ultimo scandalo...

Diverso è il discorso per i facismi e i comunismi d'Italia. Forse non li potrai eliminare ma puoi ridurli ai minimi termini con una sola arma: il buon governo.

nuvolarossa
22-12-06, 10:56
Battesimo civile: una tradizione molto radicata in Francia, non da noi/Cerimonia laica che ha suscitato l'interesse di alcuni ambienti culturali. Qual è il suo significato
Quando la Repubblica dà il benvenuto ai suoi figli

Poniamo alla vostra attenzione il contributo di un responsabile romano dell'Fgr Emanuele Vaccaro, dedicato ad una particolare usanza risalente alla tradizione repubblicana francese: il battesimo civile. Questa celebrazione, intesa a segnare l'ingresso di un individuo nel consesso civile della sua Nazione, è già diffusa in buona parte dei Paesi dell'Europa del Nord e ha suscitato l'interesse di alcuni ambienti della cultura laica italiana.

Impegnarsi per una sua introduzione anche da noi può rappresentare non solo una buona occasione per rilanciare il dibattito sulla difesa dei valori civili della società ma anche, più semplicemente, per caratterizzare in maniera significativa l'azione dei giovani repubblicani italiani.

Un tema forse un po' singolare e curioso, tuttavia senz'altro interessante.

Fgr

Questo nostro Paese ha bisogno di una forte rieducazione patriottica ai valori della nostra amata Repubblica, perché allora non cominciare proprio dagli italiani appena arrivati tra noi, cioè i neonati?

Quando mi sono imbattuto nel battesimo civile francese leggendo il bel racconto sul sito dell'UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalisti) ho subito pensato: portiamolo qui in Italia!

L'UAAR (di cui fanno parte illustri scienziati ed intellettuali come Piergiorgio Oddifreddi, Margerita Hack, Pietro Omodeo, Valerio Pocar), costantemente impegnata in battaglie per la laicità dello Stato, non ha però avuto modo di intraprendere anche questa sfida (tranne un tentativo a vuoto qualche anno fa di portarlo a Bologna stroncato dal sindaco Cofferati).

Prima di tutto vediamo di cosa stiamo parlando.

Per battesimo civile s'intende il baptême civil oppure républicain, nato in Francia durante la Révolution nel 1794. Durante l'ondata di Illuminismo e laicismo di quel periodo, si volle dare un significato civile alla nascita della vita umana seguendo la dottrina di Rousseau. Secondo il filosofo, infatti, l'uomo nasce naturalmente buono (solo la società e l'educazione possono rendere un individuo cattivo), e quindi in nessun caso macchiato da un preteso peccato originale che deve cancellare a tutti i costi.E' per questo che il battesimo cristiano ha lo scopo di "lavare" questo peccato originale del neonato (il termine battesimo viene dal latino immergere).

Va innanzitutto chiarito che il battesimo – inteso come festa solenne in onore del piccolo – non è un pratica esclusivamente cristiana ma è una pratica che esisteva diffusamente nel mondo greco-romano. I greci invitavano a casa o al tempio tutti gli amici e parenti per presentare il nuovo nato, ponendolo in una cesta di vimini e portandolo in processione con gioia in onore di Dionisio (Bacco per i romani).

I francesi ripresero quello che il battesimo di fatto rappresenta: una festa in onore del piccolo appena nato che deve essere salutato dai sorrisi dei parenti e degli amici dei genitori, una festa solenne in un bellissimo ambiente come può essere una chiesa.

Il battesimo repubblicano viene tutt'ora celebrato da tanti francesi con lo scopo di festeggiare il neonato con l'augurio di crescere nei valori e nello spirito della Repubblica.

Come avviene? La cerimonia ha luogo di solito nelle stanze del Comune o nelle sale predisposte per matrimoni civili, alla presenza del sindaco o di un funzionario apposito; questi, dopo aver illustrato le origini rivoluzionarie del rito ed aver detto qualche parola per l'occasione, deve leggere un testo appositamente predisposto (riportiamo qui il testo preso dal sito UAAR): "Il giorno X, davanti a me Tizio, sindaco di Parigi, sono comparsi pubblicamente nella casa comune il signor e la signora XX, i quali hanno dichiarato di presentare il loro bebé, Caio, nato il 12 novembre 2006 a Parigi, con la volontà di metterlo sotto l'egida e la protezione dell'autorità civile repubblicana, e nel caso essi vengano a mancargli, di dargli come padrino e madrina il signor XY. e la signora YX. Il padrino e la madrina accettano questa alta missione e prendono l'impegno solenne di supplire ai genitori secondo le proprie facoltà morali ed i mezzi materiali. Essi affermano, inoltre, che nel caso di una tale eventualità e come avrebbero fatto gli stessi genitori, essi perseguiranno l'educazione di Caio al di fuori di tutti i pregiudizi d'ordine sociale e filosofico e nel culto della ragione, dell'onore, della solidarietà e della difesa degli interessi del popolo francese. Data lettura, i genitori e padrino e madrina hanno con me firmato".

Nel corso dello svolgimento della cerimonia un posto importante è lasciato ai "riti" personali: il padre o chi vuole può leggere una poesia, un testo, in onore del piccolo; i parenti e gli amici possono scrivere auguri e messaggi speciali su un libro che un giorno il neonato potrà leggere. Ruolo affettuoso ma solenne dei padrini e\o madrine è contribuire all'educazione civile del figlioccio.

Oggi il battesimo soprattutto nel nostro Paese rappresenta l'unico modo per fare una festa solenne per un neoanato, con la conseguenza che l'aspetto religioso viene spesso messo in secondo piano. Il battesimo civile, o repubblicano, è invece un augurio spirituale e scevro da qualsiasi carattere religioso. In più è un augurio fortemente morale ed istituzionale col quale i genitori possono fissare simbolicamente le basi dell'educazione repubblicana e democratica del loro figlio.

A mio giudizio questa cerimonia, così ricca di significato, potrebbe essere introdotta anche in Italia.

E qui entra in campo la nostra Fgr: visti i ben noti problemi di visibilità e la necessità per noi tutti di misurarci con nuove sfide politiche e – perché no – anche ideologiche, questa potrebbe essere una buona occasione per scegliere un campo di battaglia sul quale possiamo mettere pienamente a frutto le nostre potenzialità.

Il battesimo civile c'è in Francia, in Belgio, nei paesi Scandinavi: la Federazione Giovanile Repubblicana può dunque impegnarsi a portarlo anche in Italia.

Così da poter celebrare, magari in un domani non troppo lontano, il battesimo repubblicano dei nostri figli, sapendo di aver contribuito in prima persona al raggiungimento di questo significativo traguardo civile.

Emanuele Vaccaro, segretario organizzativo - Federazione Giovanile Repubblicana Roma

tratto da http://www.pri.it

nuvolarossa
07-01-07, 20:22
Caro Lucrezio, ogni ideale è un insieme di POCHE regole logiche. Ci sono diverse concezioni di repubblicanesimo e liberalismo.

Ti dico la mia per quanto rigurarda il concetto di Libertà

Liberalismo:

La libertà individuale è intesa come limitazione di interferenze da parte dello Stato.

La libertà di ogni individuo finisce dove inizia la libertà degli altri individui.

Gli uomini sono uguali dinanzi alla legge.


Repubblicanesimo:

La libertà individuale è intesa come limitazione di interferenze da parte dello Stato e come libertà dal dominio arbitrario di uno o più individui.

La libertà dev'essere essenziale (effettiva) oltre che formale

La libertà di ogni individuo finisce dove inizia la libertà degli altri individui.

Gli uomini sono uguali dinanzi alla legge.


In quest'ottica, è chiaro che il compito di vigilanza dello Stato Repubblicano è più complesso di quello Liberale, ma la differenza è sottile poiché io col tempo ho maturato l'idea che se degli uomini viene esaltata la componente creativa ed organizzativa per mezzo di forme produttive associazioniste o liberalcapitaliste (in base alle circostanze), i risultati sono migliori.

Da buona persona razionale, ritengo che oggi come oggi lo Stato sia indispensabile. Mazzini diceva che nella Patria le nostre libertà naturali sono al sicuro. Però, il fatto che dica Patria e non Stato dovrebbe far riflettere parecchio. La Patria è il luogo dove le persone che vi risiedono sono accomunate da un comune senso di appartenenza a culture, lingue e tradizioni.

E pur ritenendo Mazzini un repubblicano di sinistra guarda un pò che dice qui:

tratto da "I Doveri dell'Uomo"

DOVERI VERSO LA FAMIGLIA
....................OMISSIS......................
La Famiglia è concetto di Dio, non vostro. La Potenza umana non può sopprimerla. Come la Patria, più assai che la Patria, la Famiglia è un elemento della vita.

Ho detto più assai che la Patria. La Patria sacra oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell' Umanità: la Famiglia durerà quanto l'uomo. Essa è la culla dell' Umanità. Come ogni elemento della vita umana, essa deve essere aperta al Progresso, migliorare d'epoca in epoca le sue tendenze, le sue aspirazioni; ma nessuno potrà cancellarla.
....................OMISSIS......................

Giuseppe Mazzini

Perfino Mazzini non è tanto convinto dell'immortalità della Patria quindi neanche della sua burocratica forma: lo Stato.

Vedi caro Lucrezio, io sono un relativista che oggi crede nello Stato, ma se un giorno gli uomini, grazie all'educazione, dovessero progredire al punto da avere una coscienza morale ed un senso civico tale da poter far a meno delle istituzioni DIFENSORI DELLA LIBERTA' INDIVIDUALE, da repubblicano non potrei oppormi al cambiamento....

nuvolarossa
05-04-07, 17:03
“IL SENSO DELLA REPUBBLICA”, QUATTORDICI SAGGI IN UN VOLUME CURATO DA SAURO MATTERELLI
L’attualità del repubblicanesimo

Il volume “Il senso della repubblica”, edito da Franco Angeli (288 pp., 23,00 euro) con l’attenta cura di un valido studioso quale è Sauro Mattarelli, reca opportunamente come sottotitolo un efficace “Frontiere del repubblicanesimo” che ha se non altro il merito di andare subito al cuore della questione. Perché di frontiere vere e proprie dobbiamo parlare a proposito delle tematiche prese a oggetto dai quattordici saggi qui raccolti, tutti scritti di autori che per diverse vie sono legati a quella riflessione che ruota attorno al socialismo e che ora svela echi mazziniani, ora apre alle esigenze e alle istanze fondamentali del liberalismo ed ora ridiscute vivacemente la cifra di ciò che intendiamo per democrazia.
Proviamo a vedere insieme come una pubblicazione simile, nata per volontà della Cooperativa culturale ricreativa “Pensiero e Azione” di Ravenna, possa offrire un significativo ausilio per “leggere” anche quello che è il male dei nostri giorni, la carenza di partecipazione. Un male, questo, che forse può essere contrastato in virtù di quella fiducia negli anticorpi dell’Istituzione che nutre un Paul Ricoeur, per come ce lo presenta Marco Goldoni, e proprio a partire dal nucleo di fondo di quella democrazia sociale di cui, tra mazzinianesimo e socialismo, parla in uno dei contributi Maurizio Ridolfi. Potremmo anche fare riferimento, a tale proposito, a quello che, citando autori come Sheldon Wolin e G.A. Pocock (che parla di “repubblicanesimo civico”), Joan C. Tronto denuncia come declino della vita e della partecipazione politica (cfr. il suo “Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura”, a cura di A. Facchi, Diabasis, Reggio Emilia 2006, p. 42). “Il senso della repubblica” propone diversi punti di vista che, se da una parte testimoniano della multidisciplinarietà di una tematica così “aperta” come quella dell’identità socio-politica del repubblicanesimo - appunto con le sue multiformi implicazioni di carattere morale-pratico oltre che più squisitamente teorico -, dall’altra offrono una ricchezza d’indagine che alla fine premia l’attenzione del lettore che voglia misurarsi con questi temi. Una pubblicazione impegnativa, non c’è dubbio, e a tratti anche calibrata sull’esigenza di un approfondimento specialistico per studiosi e storici del pensiero politico, ma allo stesso tempo anche “disposta” ad essere letta da non addetti ai lavori. Perché, sostanzialmente, quando Thomas Casadei esamina, tra storia e teoria del diritto, la versione conflittualista del repubblicanesimo, non fa che parlarci anche di quelle più urgenti questioni del nostro tempo che riguardano da vicino la dialettica pace/guerra, il rapporto sociale tra gli uomini, gli assetti di politica internazionale, la difesa dei diritti e le responsabilità che sono strettamente connesse ai doveri. Ciò fino ad avanzare una versione decisamente “attiva” del diritto e a declinare la stessa idea di identità come “identità plurale”: è interessante a tale proposito, tra l’altro, la corrispondenza di quest’ultimo concetto con quello di “storia al plurale” di cui parla Lino Prenna in un altro bel volume di saggi di autori vari dedicato a “Pluralità delle culture e pluralismo religioso” (l’altrapagina, Città di Catello 2006, cfr. in particolare p. 126). E così, proprio sui doveri si pronuncia il curatore de “Il senso della repubblica” quando mette in evidenza il fatto che la lotta di opposizione è in questo caso da portare avanti contro l’egoismo e l’individualismo: qui dovere è innanzitutto sinonimo di impegno per la tutela delle libertà, la mia e la tua: è cioè un valore kantiano-mazziniano di affermazione del diritto degli individui, di tutti gli individui. Anzi, con l’occasione, parallelamente a questo ci si ricordi del fatto che Kant dichiara esplicitamente di non pretendere di definire quale sia la felicità per gli uomini, bensì di voler rintracciare le condizioni che rendano possibile la dignità di ciascuno a farsi felice. Solo in questi termini, marcatamente kantiani appunto, mi sembra si possa intuire l’autentico messaggio di un Mazzini secondo il quale (e anche grazie al quale), con le parole di Mattarelli, “il principio di unione primeggia rispetto alle tentazioni egoistico-disgreganti” (p. 67). Poi c’è tutta un’altra serie di questioni che, per un verso o per l’altro, riportano l’attenzione sulle frontiere del repubblicanesimo di cui dicevamo in apertura: dalle visioni del mondo di Tocqueville, di Stuart Mill, persino del grande Yeats, alla ridiscussione critica del tema della giustizia, del sentimento religioso, del lavoro di ricerca storiografica. All’interno del mondo socio-politico-culturale dell’Occidente contemporaneo si agitano ancora senza sosta questioni aperte come quella dell’identità dell’Europea, del rapporto della politica con le tradizioni religiose, del pensare globale, delle modalità di organizzazione sociale, della stessa democrazia da rivedere continuamente alla luce delle nuove considerazioni emerse dal dibattito sulla complessa materia costituzionale. Su questi aspetti, letti proprio attraverso la lente di una determinata cultura politica, i diversi studiosi si interrogano e si mettono in dialogo proponendo così delle chiavi interpretative che non abbandonano mai la piena consapevolezza che nel pluralismo la conoscenza trova il suo più fertile terreno.

Giuseppe Moscati
05/04/2007

tratto da http://www.avanti.it/index.php?c_id=0

nuvolarossa
04-01-08, 21:40
Riceviamo da Renato Traquandi

Ideario Repubblicano

Ho aspettato due settimane dal convegno di Milano della Voce Repubblicana, egregiamente tenuto alla fine del mese di ottobre del corrente anno, con lusinghieri risultati, prima di mettermi al computer e buttar giù quanto nei miei pensieri si andava arroccando da mesi.
In altri ambienti e in circostanze analoghe, persone alquanto a noi affini sovente si interrogano sui quesiti dell’esistenza, fornendo, ciascuno a suo modo, risposte variegate sul “ chi siamo, da dove veniamo, dove vogliamo andare?”
In questo tempo il Partito Repubblicano Italiano, pur mai stato un partito così detto “ di massa”, è pressoché ridotto ai minimi termini, e non soltanto rispetto al consenso elettorale, ma per le esigue risorse e la scarsa presa che ancora riesce ad ottenere sul fronte della agorà culturale, nazionale e non solo.
Sono passati oltre dodici decadi dai patti di fratellanza, dalla scapigliatura repubblicana, dall’economia associazionista, ed oggi ancora il nostro Partito può fregiarsi, senza peraltro essere smentito da chicchessia, di essere il più antico tra le formazioni politiche italiane.
Certo che si, dal 1885 ad oggi, la società italiana è profondamente mutata, ed anche il P.R.I. non è più quello che aveva posto al primo punto del suo programma la forma repubblicana dello Stato.
Nato come partito formato da piccoli coltivatori, mezzadri, artigiani e piccoli funzionari statali, in alcune regioni particolarmente ostili al potere papale e regio, come la Romagna, le Marche, il Lazio e la Sicilia, presto divenne un partito di respiro nazionale, in cui militavano anche operai, impiegati, imprenditori ed intellettuali, assieme a qualche, se pur minima, presenza di militari di carriera.
La crescita delle attenzioni verso le tematiche mazziniane e risorgimentali è sempre stata vivace e penetrante, nelle variegate categorie che nel corso dei decenni si sono andate formando nella società italiana. Se, dal 1831 al 1848, l’esigenza primaria era l’Italia una, libera, repubblicana, dalla prima guerra di indipendenza alla prima guerra mondiale l’impegno dei molti “progressisti” si incentrò sullo stato sociale delle classi e sulle rivendicazioni operaie, le quali, sì, erano state ben messe in evidenza da Giuseppe Mazzini, ma che non avevano ne il tempo ne la voglia di evolversi attraverso la cultura e le buone azioni prospettate dalla democrazia.
Questo determinò situazioni di autentico disagio tra militanti formatisi al repubblicanesimo per eredità familiare o frequentazioni di ambienti a loro compatibili e i nuovi aderenti, attratti da generica simpatia o solidarietà per gli atteggiamenti di attenzione ai problemi politici, economici e sociali, ma privi di maturazione ideologica.
Durante tutto il periodo dello stato monarchico, pervicacemente tenuto dalla famiglia francese dei Savoia, poco amata dalla quasi totalità degli italiani, capitava spesso di sentire militanti del partito repubblicano che sostenevano tesi classiste o liberiste, alcuni si dichiaravano libertari, incentrando la principale ed accanita loro lotta sul problema dei rapporti stato – chiesa.
E’ in quei decenni che nascono gli antagonismi e le contraddizioni; i sudditi giustamente reclamano diritti, riconoscendo alla dinastia sovrana il tributo dei doveri cui si assoggettano, e quasi non si accorgono di assumere posizioni in netto contrasto con la dottrina storica del P.R.I. , che non ha dogma univoci, come la presa del potere da parte delle masse operaiste predicata dal marxismo, ne la fede necessaria a credere in redenzioni ultraterrene, come il clero asserisce.. Il P.R.I. non ha schemi prefissati, manifesti da divulgare, testi sacri da esporre a laudazione, non presuppone schemi prefissati, regolamentazioni utopistiche, meccanicismi deterministici: sotto questo aspetto il P.R.I. è il vero erede della grande polemica tra Mazzini e Bakunin e prende le distanze dai tanti seguaci di Marx e Engels.
Ovviamente il P.R.I. una sua dottrina ce l’ha, eccome! Non si tratta comunque di utopia solitaria e agguerrita come quella social comunista, ne tanto meno della rassegnata vocazione al martirio di chi crede che la sofferenza terrena sia il viatico per il futuro celestiale della post mortem, bensì del maturato convincimento che una preparazione culturale, impermeata sulla conoscenza ed il progresso scientifico, costituisca la base, in un ambito storico geografico quale quello italiano, per il benessere di una comunità integrata.
E’ divenuto luogo comune tra gli storici definire la prima guerra mondiale combattuta sul fronte del Carso, sull’Isonzo e sul Piave, come “ quarta guerra di indipendenza”, tagliando corto, con questa lapidaria definizione, ai disagi delle popolazioni della Corsica, dell’Istria, e delle altre numerose zone dove forte è l’identità italiana.
I carbonari, gli aderenti alla Giovine Italia, i Martiri di Belfiore, i fratelli Bandiera, Mazzini e il giovane Garibaldi si erano fatti tutti un’idea diversa di come dell’Italia, una, libera e quindi repubblicana e nel 1919 ancora non c’era ne il tempo ne la voglia di prospettare ai più, e quindi raggiungere democraticamente questo obiettivo.
Scrisse Giuseppe Tramarollo, mitico e ineguagliabile presidente, nel periodo tra il 1970 e il 1980 della Associazione Mazziniana Italiana, che per tal motivo era componente d’onore del Consiglio Nazionale del Partito che quella distinzione faceva del partito fondato da Giuseppe Mazzini “… una formazione che può trovare similarità, ma non identità fuori della penisola. Per il P.R.I. non ci sono possibilità di adesioni dottrinarie e disciplinari come la internazionale socialista o quella liberale o quella cristiana, per non parlare del rapporto internazionalista dei partiti comunisti. Al Parlamento Europeo di Strasburgo i deputati repubblicani, dopo aver aderito, per necessità di collocazione, al partito socialista, hanno potuto benissimo aderire a quello liberale, trovandosi, però, parimenti a disagio.
Questo fa del P.R.I. una formazione storica, e non storicista, estremamente diffidente delle ricette universali valide per tutti i tempi e per tutti i paesi; viene da qui la critica mazziniana al socialismo utopistico anglo tedesco francese che è ben sintetizzata nell’avvertimento ai delegati del Congresso di Roma del 1871 delle Società Operaie , da cui uscì il celebre Patto di Fratellanza, che è la prima organizzazione nazionale del lavoro italiano:….. ^^ Se l’emancipazione operaia è universale, le diverse condizioni dei popoli fanno diversi i modi e a ciascun popolo appartiene essenzialmente il segreto della scelta di quei modi^^.
Riconosce però che solo nella fase della trasformazione dei sistemi, utili alla perdita dei poteri monarchici e clericali, con l’avvento della democrazia e della tecnologia, che sono prodotti della cultura e della ricerca scientifica, la pregiudiziale del territorio e della popolazione ivi cresciuta resti valida.
Bisogna diffonderlo a chiare lettere che fu Giuseppe Mazzini ad intuire che solo per un determinato lasso di tempo la storia umana sarebbe stata determinata dal concetto etico politico delle nazionalità., cioè in volontà politiche definite linguisticamente, etnicamente, territorialmente….
“ La Patria sacra, oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni individuo rispecchierà in se la coscienza dell’umanità”.
Ancor oggi, in piena globalizzazione, e lo dimostrano le recenti vicende della decolonizzazione e de il sorgere dei paesi denominati “terzo mondo”, la nazionalità dei popoli è ancora viva e vitale, con le sue degenerazioni come nazionalismo, imperialismo, razzismo.
Nella disgregazione dell’imperialismo sovietico forte è stato il ruolo, quasi sempre vincente, della nazionalità, che mai era stata domata dal bolscevismo russo, che in settant’anni di potere assoluto aveva praticato un vero e proprio genocidio linguistico, oltre che umano.
Mazzini, dunque, aveva disconosciuto il potere in mano alla chiesa, senza mai rinnegare Dio, cui soleva coniugare i termini Patria e Famiglia, ed ancora non accettava i fermenti internazionalisti, riconoscendo al contempo con l’intuizione della Terza Roma e La Giovine Europa, i cui postulati già presagivano l’abbattimento dei confini.
Terzo carattere del repubblicanesimo è il “laicismo”, che non significa affatto anti clericalismo, divieto a svolgere e divulgare gli insegnamenti religiosi, ma presa di distanza tra i problemi dello spirito e la gestione della società civile; il Campanile per nutrire l’anima e la Torre Civica per custodire al meglio la persona fisica, secondo la tradizione umanistica classica.
All’opposto della concezione laica dello stato c’è il modello confessionale.
Confessionali sono l’attuale stato italiano, come quello spagnolo, confessionali sono gli stati arabi, che fondano la società civile sul diritto cranico, confessionali sono i paesi marxisti, che hanno una pedagogia, una estetica, una morale, prettamente di stato.
L’ideale repubblicano laico è quello dell’articolo 7 della Costituzione Repubblicana Romana del 1849 che recita: “ Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”.
Anche il 1° emendamento della Costituzione U.S.A. è per noi positivo: “ Il Congresso mai potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, tanto meno proibirne il libero culto”.
Pertanto ribadiamo con fermezza che il laicismo professato dal P.R.I. non è indifferenza di fronte alla esigenza religiosa dello spirito umano; questo atteggiamento nasce invece da una concezione religiosa della vita umana, che rispetta la personalità nei suoi diritti individuali ( libertà civili) e nelle formazioni sociali ( famiglia, partito, associazione, chiesa).
Dalle cose dette fin qui, allora, il P.R.I. è un partito mazziniano? Solo al Vate si ispirano tutti coloro i quali in questo partito operano?
Certo, nella cultura repubblicana in alta considerazione sono tenuti gli insegnamenti mazziniani, ma come ben sanno i tanti che in questo partito militano, nel P.R.I. è ben presente l’illuminismo di Cattaneo, così come non sono mai stati cestinati i contributi di Bovio con il suo idealismo, il positivismo di Ghisleri e Conti, il patriottismo militaresco di Pacciardi. Se si riconosce la funzione portante del Mazzini per l’unità d’Italia, e si è laici e democraticamente portati al confronto culturale delle idee, oltre che favorevoli alla divulgazione ed allo sviluppo della ricerca scientifica, si può benissimo essere repubblicani.
Non è invece possibile essere repubblicani del P.R.I. e marxisti, repubblicani e anarchici, come invece è possibile essere repubblicani e credenti, facendo fare al cervello un sano lavoro di selezione con il sale del ragionamento.
Un altro concetto respinto dal repubblicanesimo italiano è quello di sovrastruttura: diritto, morale, arte non sono sovrastrutture dell’unica determinazione economica, ma categorie universali e permanenti, anche se i contenuti variano secondo una precisa evoluzione storica. Nell’ambito di questa concezione antimaterialistica, antideterministica, antimeccanicistica c’è ampio spazio per il liberalismo economico di Cattaneo, come per molti postulati del socialismo democratico nord europeo. Contro il concetto totalitario : “Tutto nello stato, tutto per lo stato, nulla contro lo stato”, il repubblicano contrappone il motto mazziniano: “ Tutto per l’associazione nella libertà”.
Secondo l’etica repubblicana non è l’economia la forza trasformatrice del mondo ma l’educazione e la conoscenza, entrambe incentrate nel sistema scolastico prima e nelle forme associative ( circolo, partito, sindacato) e istituzionali ( enti locali, legislazione statale, pubblica e privata gestione delle risorse. L’educazione scolastica resta fondamentale e spetta allo stato, almeno nella fascia dell’obbligo, per formare i futuri cittadini ed abituarli a capire il mondo che li circonda.
Possiamo dunque concludere che il P.R.I. è l’opportunità della cultura laica per il senso dello stato e garanzia primordiale, perché senza repubblica non c’è piena democrazia, non c’è piena libertà, non c’è progresso sociale, non si risolvono i disagi civili e le problematiche di sviluppo del mezzogiorno.
Quale funzione può avere oggi il P.R.I.?
Esiste una continuità di comportamenti dei partiti politici italiani sul proscenio partitico; tuttora il consenso viene ricercato secondo il principio del voto di scambio. Il cittadino elettore domanda soddisfazioni: la promozione nel posto di lavoro, l’aumento di stipendio, la pensione, l’occupazione dei rampolli, la licenza edilizia, la pratica di condono, il posto al ricovero per l’anziano genitore, e le mille e mille altre soluzioni ai problemi di tutti i giorni. E le segreterie politiche si organizzano e promettono l’interesse e la probabile soluzione.
Il P.R.I. offre agli elettori la possibilità del “ voto della ragione” come Giovanni Spadolini definiva il consenso che al P.R.I. arrivò nel primo lustro degli anni “80”, quando venne superata la vetta altissima del 5%.
Già Ghisleri Conti Pacciardi e La Malfa avevano identificato per il P.R.I. una funzione illuministica, contro ogni genere di fanatismo e ogni minaccia all’unità nazionale.
Ghisleri diceva che “…il P.R.I. è depositario di una dottrina più culturalmente avanzata perciò liberatrice ed antagonista di quella marxista e di quella cattolica”, ponendolo in prima linea contro il male maggiore di oggi, che è quel modo di agire reso celebre dal principe di Lampedusa e dal recente film Il Vicerè. Ricordate? Cambiare tutto per non cambiare nulla.
Brigare così, parlando di voler procedere a fare riforme, per poi partorire sgangherate soluzioni a vantaggio dei soliti noti, non porterà alcun vantaggio al Paese.
Dall’una e dall’altra parte delle sponde del bipartitismo si continua a parlare e a discutere dell’aria fritta e del sesso degli angeli.
Sta al Partito repubblicano Italiano rompere ogni indugio e porre all’elettorato risoluzioni al modello di società, di economia, di organizzazione dello stato per l’energia, l’ambiente, il sociale, il diritto al lavoro e ad una vecchiaia serena.
Oltre che un patrimonio da salvaguardare abbiamo una reputazione da difendere!

Renato Traquandi

Quest'articolo, che Renato Traquandi ci ha inviato, e' stato pubblicato anche sulla Voce Repubblicana di Mercoledi 2 e Giovedi 3 gennaio 2008
tratto da http://it.groups.yahoo.com/group/Repubblicani/message/14656

nuvolarossa
02-05-08, 17:17
Il bipartitismo e noi
E' presto per ritenere conclusa una storia lunga più di un secolo

L'opinione pubblica - indipendentemente dalla sua collocazione politica - nel complesso ha salutato il risultato elettorale come una fortunata semplificazione avvenuta in Italia. L'esclusione di molti gruppi parlamentari dalle nuove Camere comporta un bel risparmio di risorse e, allo stesso tempo, uno o due soli partiti al governo consentono una semplicità decisionale ritenuta indispensabile. In un solo colpo si è preso atto, con il voto, che è fallita la prima Repubblica con i suoi protagonisti. Ed è terminata la lunga fase di transizione.

http://www.erbaviola.com/wp-content/uploads/edera.jpg

L'esito è il naturale bipartitismo che si è instaurato, così come il riconoscimento di un leader affermato al governo. In questo modo si sarebbe anche mutata di fatto la Costituzione del paese, ma l'entusiasmo è tale che quasi non ci si accorge dei problemi che questo può comportare. Ma è davvero così? Se è così, un Partito come quello repubblicano, forte di due soli deputati, deve prepararsi all'estinzione o a entrare nuovamente in clandestinità.

E' vero che la legge elettorale è spietata, ma non è così sicuro che la legge elettorale determini i fondamenti della vita politica, per lo meno in maniera tanto radicale. Ad esempio, è molto difficile pensare che i socialisti, oggi esclusi dalla vita parlamentare italiana, non abbiano modo di organizzarsi per rispondere agli standard degli altri paesi europei, dove invece hanno una piena rappresentanza. Anche perché, senza una forza socialista democratica, l'Italia rappresenterebbe una nuova anomalia continentale (il Pd a tutti gli effetti non sembrerebbe una forza socialista), tanto che su questo fronte un chiarimento potrebbe avvenire presto.

Senza contare che, dalle prime avvisaglie parlamentari, fra Partito democratico e Italia dei Valori non si registra quella piena sintonia che pure si era promessa e che parrebbe necessaria per far sì che la formazione di Di Pietro si sciolga in quella di Veltroni. Al contrario, sembra che si sviluppi una ben diversa storia: per non parlare della componente radicale, che altresì non sembra molto disposta a conformarsi al promesso soggetto unico democratico. Anche perché tante sconfitte elettorali, politiche, comunali - e con tali margini di scarto - non incoraggiano le fusioni a freddo.

Il punto è che, nel Popolo della Libertà, dove pure si è vinto e dove la comune desinenza del popolarismo europeo è più salda, le cose non sono molto diverse, anche se appaiono gestite con più garbo. All'indomani della vittoria su Roma, Gianfranco Fini ha salutato il grande successo di An, che non solo è viva e vegeta, ma rivendica ministeri per i suoi uomini. Lo stesso fa la Dc di Rotondi, mentre Lombardo tiene stretti i suoi. E poi c'è la Lega, che ha avuto un tale successo di consensi che certo non si smobiliterà in fretta e furia.

Ecco allora che i soggetti politici dell'Italia bipartitica - senza aver contato l'Udc di Casini forte di trentasei parlamentari - sono almeno tre a sinistra, e cinque o sei a destra; dove sinistra e destra, per intenderci, sono solo una rappresentazione della suddivisione dello spazio del Parlamento. Devono stare molto attenti, i repubblicani, a dare per scontato l'esito della vicenda politica che si è aperta il 13 aprile scorso. E anche nel dare per conclusa la vicenda lunghissima della loro storia.

Roma, 2 maggio 2008

tratto da http://www.pri.it/html/Home%20pri.html

Monsieur
13-05-08, 18:57
.

nuvolarossa
13-05-08, 19:18
Che cos'è il repubblicanesimo ?Sei sul thread giusto per informarti ... puoi leggere e documentarti partendo dai post piu' recenti ... http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?p=7846046#post7846046 ... oppure partendo direttamente dall'inizio del thread che risale al 2002 .... http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=2088

Nullo
14-05-08, 10:46
.
Poichè molti amici non hanno capito il tuo messaggio, mi permetto di esplicitarlo:
Il repubblicanesimo è un punto fermo.

nuvolarossa
19-05-08, 17:36
Rousseau e il repubblicanesimo

di Luca Alici*

Premessa

In questo testo tenterò di cogliere sviluppi e alcuni esiti della teoria repubblicana dell’ordine politico e della libertà, per fornirne una reinterpretazione alla luce della riflessione di Jean-Jacques Rousseau, in tre momenti:

1) Innanzitutto affronterò il dibattito attuale sul repubblicanesimo, cercando di illustrare i temi principali attorno ai quali si articola.

2) In secondo luogo cercherò di focalizzare l’attenzione sugli aspetti che, a mio avviso, collegano la riflessione di Rousseau alla prospettiva repubblicana: emergerà un Rousseau lettore di Aristotele e Machiavelli, la cui antropologia sarà fondamentale per inquadrare nozioni centrali nell’ambito del nostro itinerario, come quelle di libertà, legge e virtù civile.

3) Infine proverò a offrire un’interpretazione in chiave non individualistica del repubblicanesimo, che ruota attorno alle idee russoiane di comunità ed identità e che non dovrebbe prestarsi, per la sua interna morfologia, all’accusa di organicismo, mentre risultà vicina ad alcuni concetti portanti del comunitarismo.

Il repubblicanesimo

“Repubblicanesimo è un concetto politico di recente formazione. Elaborato dapprima dalla ricerca storica, è passato a occupare un ruolo sempre più importante nei testi di politica solo negli ultimi vent’anni”1. Questo concetto ha conquistato, notoriamente, una porzione importante del dibattito politico contemporaneo, grazie soprattutto a Pocock, Skinner e Pettit.

Pocock, nel suo Il momento machiavelliano, espone, agli inizi degli anni Ottanta, un’ipotesi interpretativa, fondata sull’idea che sia possibile innanzitutto riscontrare una continuità teorica tra l’umanesimo fiorentino, e in particolare Machiavelli, gli anni dell’Interregno (e più in specifico Harrington) e le riflessioni dei rivoluzionari americani; in secondo luogo, Pocock propone una lettura secondo cui le idee cardine che animano tale tradizione repubblicana sono da considerarsi riformulazioni di idee chiave aristoteliche: il cittadino di Machiavelli e dei repubblicani inglesi non è altro che la reincarnazione dello zoon politikon di aristotelica memoria; la vita politica da loro concepita è pensata come la piena realizzazione dell’individuo; si parla nuovamente di una nozione condivisa del bene comune. Il repubblicanesimo nasce quindi come una forma di aristotelismo politico, in cui divengono fondamentali le idee di partecipazione al potere politico e di realizzazione della natura umana nel contesto pubblico: “Il repubblicanesimo classico […] altro non fu in sostanza che una riformulazione della scienza politica esposta da Aristotele nella sua Politica e proprio tale scienza si dimostrò quanto mai flessibile e idonea a rendere ragione dei fenomeni sociali dei secoli decimosettimo e decimottavo”2. Secondo Pocock, infatti, “le idee proprie della tradizione dell’umanesimo civile (quella mescolanza di aristotelismo e di machiavellismo sulla natura dello zoon politikon) forniscono una chiave per capire i paradossi delle tensioni moderne tra la consapevolezza che l’individuo ha della propria personalità, da un lato, e, dall’altro, la coscienza della società, della proprietà, della storia”3. Infatti identificano “l’uomo onesto e probo nel cittadino (civis), [trasportano] la virtù nella sfera politica […], rendendo poi dipendente la virtù del singolo dalla virtù degli altri suoi concittadini. Se la virtus poteva esistere solo quando c’erano dei cittadini associati per realizzare una res publica, allora la politeia ossia la costituzione e l’organizzazione della comunità politica (vale a dire: la struttura funzionalmente differenziata che Aristotele aveva teorizzato per consentire la partecipazione alla cosa pubblica) in pratica veniva ad identificarsi proprio con la virtù”4.

Skinner propone una interpretazione diversa sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia sul piano teoretico. Innanzitutto mette in luce il legame tra repubblicanesimo e tradizione romana, piuttosto che nei confronti della grecità, e quindi svincola il repubblicanesimo da ogni matrice aristotelica. Vi è a suo avviso una ideologia repubblicana abbastanza definita già dal XIII secolo in Italia, la quale si ispira al pensiero romano – Cicerone, Livio, Sallustio – e si radica prima dell’arrivo della filosofia pratica aristotelica in Occidente: se “analizziamo la teoria repubblicana della libertà politica, - scrive Skinner - possiamo vedere che la libertà individuale è connessa con la virtù civile senza ricorrere a nessuna dottrina della realizzazione umana”5; egli non presenta l’uomo “come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla ‘corruzione’, un essere che tende a trascurare i propri doveri verso la collettività; nella res publica […] gli individui perseguono fini diversi gli uni dagli altri, non si può assumere l’esistenza di fini necessariamente condivisi da tutti”6. In questo modo il repubblicanesimo perde ogni vincolo metafisico e si presenta come terza via tra l’individualismo liberale e il comunitarismo di matrice aristotelica.

Argomento del contendere è dunque la possibilità di una concezione condivisa di bene comune e di una idea della comunità politica come luogo di realizzazione dell’uomo, che Pocock accetta, mentre Skinner respinge. Così scrive proprio quest’ultimo: “Questi scrittori [gli scrittori repubblicani] non sono affatto dei pensatori aristotelici e non si richiamano in alcun modo a una visione ‘positiva’ della libertà sociale. Essi, cioè, non sostengono mai che siamo esseri morali dotati di certi fini determinati e che quindi siamo liberi nel senso più proprio solo quando questi fini vengono attuati […], essi usano un concetto puramente negativo di libertà inteso come assenza di impedimenti nella realizzazione dei fini che ci si è dati”7

John Rawls preciserà questa distinzione parlando di classical republicanism e civic republicanism per designare rispettivamente l’interpretazione alla Pocock o alla Skinner del repubblicanesimo. 8

La discussione si fa ancora più articolata se l’attenzione si sposta sul concetto di libertà. Non si tratta infatti semplicemente di ripresentare la distinzione tra libertà positiva (Pocock) e libertà negativa (Skinner), ma, all’interno del concetto di libertà come immunità da interferenze altrui e assenza di dipendenze, è necessario aggiungere una nuova figura. Il confronto coinvolge a questo proposito Skinner e Pettit: quest’ultimo arriva infatti a sostenere che la libertà repubblicana costituisca una terza famiglia all’interno delle concezioni della libertà. Se “la libertà negativa si configura come assenza di interferenza, la libertà dei repubblicani si presenta piuttosto come assenza di dominio da parte di altri” 9. Quale in concreto allora la differenza?

“Si è sottoposti a dominio quando si è soggetti alla volontà arbitraria di un altro, alla sua interferenza arbitraria; l’altro, però, può decidere per lunghi periodi di non interferire di fatto: si può così essere sottoposti a forme di dominio senza subire interferenze dirette. La concezione repubblicana della libertà come assenza di dominio tiene conto non solo delle interferenze attuali, ma anche delle interferenze potenziali. L’ideale repubblicano della libertà non si propone semplicemente di eliminare ogni interferenza attuale, ma intende mettere al bando tutte le potenziali interferenze di carattere arbitrario”10. Ciò comporta, secondo Pettit, maggiori garanzie e sicurezze per l’individuo e un’idea di libertà che “avrebbe un elemento concettuale in comune con la concezione negativa – il privilegiare l’assenza, non la presenza – e un elemento in comune con quella positiva: il privilegiamento della padronanza, non dell’interferenza”11. Pettit parla dunque per primo della concezione repubblicana della libertà come di una terza famiglia, di una terza via tra l’idea di libertà negativa, come concetto che richiama l’opportunità, e l’idea positiva di libertà, come concetto che rinvia all’esercizio12.

Skinner, in seguito a questo confronto, opera una revisione della sua idea negativa della libertà, secondo cui la libertà non è autodeterminazione collettiva. Privilegiando il debito nei confronti del pensiero e delle istituzioni della repubblica romana, elabora quella che definisce la “teoria neo-romana della libertà”. Se infatti nei “saggi degli anni ’80 Skinner sosteneva che la divergenza tra repubblicani e liberali non verteva sul significato della libertà, ma essenzialmente sui mezzi necessari a conservare e garantire la libertà stessa”13, respingendo meccanismi impersonali di garanzia e tutela, il confronto con Pettit porta l’attenzione sul significato della costrizione. E’ lo stesso Pettit a sottolineare queste differenze: “Mentre io sostengo che per i repubblicani la libertà equivaleva al non dominio – la non dipendenza dalla volontà altrui – egli [Skinner] ritiene che i romani e i neoromani ripudiassero in egual misura tutte le forme di dominio e tutte le forme d’interferenza, compresa l’interferenza non arbitraria, esercitata da un governo della legge degno di questo nome […]. Skinner propone un antonimo della nozione di libertà orizzontalmente complesso: dominio e interferenza: per quanto mi riguarda invece privilegio un antonimo verticalmente complesso: in primo luogo, dominio; in secondo, subordinato luogo, fattori condizionanti che includono l’interferenza”14.

Ne consegue che per Pettit può “darsi dominio senza interferenza perché, in quanto tale, esso richiede semplicemente che qualcuno abbia la capacità di interferire arbitrariamente nei tuoi affari; non c’è bisogno che qualcuno interferisca effettivamente. Può darsi poi interferenza senza dominio in quanto l’interferenza non comporta di necessità l’esercizio nella capacità di interferire in maniera arbitraria, ma solo l’esercizio di una facoltà assai più limitata”15.

Emerge, dunque, un percorso articolato, talvolta contraddittorio, che apre importanti questioni su cui riflettere, relativamente alle quali l’opera di Rousseau può offrire spunti interessanti.

Rousseau, Aristotele e Machiavelli

Per introdurre il pensiero di Rousseau nel dibattito relativo al repubblicanesimo mi soffermo sul Rousseau lettore di Aristotele e di Machiavelli e interprete di un clima politico che vede il diffondersi del sentimento repubblicano nella Francia illuminista del Settecento; il recupero di questi elementi rappresenta una base utile di riferimento per capire l’antropologia filosofica e la teoria politica del filosofo ginevrino.

a) Una premessa: l’idea di repubblica nella Francia del ‘700

I “philosophes” sono impegnati in una riflessione che tocca un problema di fondo, “quello del modo di governare gli uomini senza snaturarli, […] nell’eterna difficoltà di conciliare il massimo di giustizia distributiva con il minimo di sacrificio in termini di libertà individuale […] problema che, nel Settecento, fu del ‘radicale’ Rousseau come del ‘riformista’ Mably e del ‘borghese’ Quesnay”16. Il clima della Francia del Settecento, però, sullo sfondo del quale tali problematiche vengono affrontate, è influenzato dall’eco del pensiero dei repubblicani inglesi: eco che, da Montesquieu alla Rivoluzione, dà vita ad un entusiasmo per la repubblica e la virtù civica, che si sviluppa all’interno, prima, e in opposizione, poi, ad ogni potere assoluto. Montesquieu e Rousseau, insieme ad altre voci ed esperienze, forniscono forse le coordinate più adatte per cogliere questa progressiva diffusione del sentimento repubblicano.

Nell’Esprit des lois Montesquieu parla della complicata situazione di una Francia di repubbliche e stati assoluti; nelle sue pagine vengono presentati i problemi connessi a una simile compresenza, come, per esempio, quelli legati alle dimensioni e allo spirito delle repubbliche, o al ruolo della virtù e dei mœurs; si sottolinea, però, che “il problema storico posto dalle repubbliche moderne è solubile soltanto all’interno delle monarchie, in un compromesso, sempre difficile ma pur fecondo, tra le strutture nobiliari, cittadine, giudiziarie e il sovrano, che caratterizza gli stati moderni”17.

Rousseau entra in questo dibattito da una prospettiva nuova: “Pubblicando il suo Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, - scrive Venturi - Jean-Jacques Rousseau poneva un nuovo rapporto tra le nuove idee e la tradizione repubblicana. Sembra aver ritrovato la patria perduta [Ginevra] […]. Quel che egli cercava era un paese in cui società civile e governo si confondono e in cui governanti e governati facciano tutt’uno, in cui ‘le peuple et le souverain ne soient qu’une même personne’. ‘Un gouvernement démocratique, sagement tempéré’ dunque, in cui domina la legge e non la volontà dei singoli governanti, in cui la tradizione è tutto e nulla l’arbitrio […]. Così, per pagine e pagine, continua quella che un contemporaneo ginevrino chiamò ‘l’inestimable épître’ di Rousseau, e che era in realtà uno dei più curiosi e paradossali documenti della volontà d’inserire la tradizione repubblicana al cuore stesso del pensiero politico illuminista”18.

Le pagine di Venturi ci permettono di cogliere come Rousseau viva il progressivo “contatto e contrasto tra le idee politiche dell’illuminismo e le istituzioni repubblicane esistenti ancora nel secondo Settecento […]. Le idee di contratto, di eguaglianza, di democrazia trovarono nella tradizione repubblicana, nella realtà ginevrina, messe in movimento dai contrasti fra i patrizi e la borghesia, un primo elemento concreto, una prima soluzione politica. E’ utile leggere il Contrat social – continua Venturi - in chiave ginevrina, non, evidentemente, per identificare la visione politica di Rousseau con la realtà della città di Calvino, ma per vedere appunto come si venga stabilendo un rapporto sempre più stretto fra gli ideali e i fatti, tra le speranze e il movimento reale”19.

Su questo sfondo, rappresentato dal clima repubblicano della Francia in lotta con l’assolutismo, si inseriscono i riferimenti ad Aristotele e a Machiavelli.

b) Rousseau e la tradizione aristotelica

“Non in depravatis, sed in his quae bene secundum natura se habent, considerandum est quid sit naturale”20. Questa epigrafe, tratta dalla Politica di Aristotele, con cui Rousseau apre il suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, costituisce forse lo spunto migliore per cercare di cogliere la radice aristotelica, secondo cui ogni cosa tende ad un suo proprio compimento e sviluppo, in relazione all’idea russoiana di un telos della natura umana e di una sua perfettibilità.

Rousseau è lettore di Aristotele, e dell’influenza del secondo sul primo qui interessano principalmente due aspetti: l’idea di natura umana, che emerge principalmente nei due Discorsi, e la convinzione secondo cui si è uomini solo dopo essere stati cittadini, come viene sottolineato nel libro I del Manoscritto di Ginevra. Tutto l’itinerario teorico di Rousseau, dai primi discorsi al Contratto sociale, è infatti animato dalla persuasione che il passaggio dall’”uomo naturale” all’”uomo civile” comporti la perdita dell’”innocenza” originaria, ma soprattutto la piena realizzazione delle potenzialità umane in società. L’ingresso nel “corpo politico” costituisce l’attuazione e il compimento della “perfettibilità” che contraddistingue la “constitution humaine”.

Ci troviamo perciò di fronte ad un autore per il quale il concetto di “natura” è più ricco e al tempo stesso ambivalente rispetto alla tradizione giusnaturalistica, cui comunque Rousseau fa riferimento, ma dalla quale per molti aspetti prende le distanze. La natura infatti non è solo l’origine, il principio originario a livello ontogenetico e filogenetico, ma anche l’insieme delle facoltà di cui l’uomo è dotato, lo stadio di queste facoltà in potenza, il loro primo embrione: l’uomo selvaggio “avoit dans le seul instinct tout ce qu’il lui falloit pour vivre dans l’état de Nature, il n’a dans une raion cultivée que ce qu’il lui faut pour vivre en société”21. L’uomo selvaggio vive isolato, non può essere “méchant” perché non sa cosa vuol dire “être bon”22, possiede la libertà del volere e la perfettibilità “en puissance”23, l’istinto di conservazione e la “pietà”, entrambi pre-morali e quindi anteriori alla ragione, come istinti fondamentali24: l’uomo naturale dunque si distingue per la sua “capacità di perfezionarsi”, per la sua ripugnanza nei confronti della sofferenza dei propri simili e per un sentimento naturale che non ha nulla di sociale, ma che nella dimensione politica troverà, grazie a ragione e coscienza, il luogo della propria evoluzione in senso morale.

Questa ambivalenza del concetto di natura, come origine e sviluppo, che pone anche una differenza essenziale tra Rousseau, da un lato, e Hobbes e Locke 25, dall’altro, avvicina Rousseau ad Aristotele: basti pensare al concetto di natura come “sostanza delle cose”26 e all’idea di una potenzialità e quindi di un teleologismo interno alla natura umana27

Ecco allora che studiare l’uomo originario, come Rousseau fa nei suoi due Discorsi, vuole essere il primo passo per cogliere nella politica lo spazio atto al compimento delle potenzialità umane. Il Contratto sociale, riferendosi al passaggio dallo “stato di natura” allo “stato civile”, afferma quanto segue: “C’est alors seulement que la voix du devoir succédant à l’impulsion physique et le droit à l’appetit, l’homme, qui jusques là n’avoit regardé que lui-même, se voit forcé d’agir sur d’autres principes, et de consulter sa raion avantd’écouter ses penchans. Quoiqu’il se prive dans cet état de plusieurs avantages qu’il tient de la nature, il en regagne de si grands, ses facultés s’exercent et se dévesent, ses idées s’étendent, ses sentimene s’ennoblissent, son ame toute entiere s’éleve à tel point, que si les abus de cette nouvelle condition ne le dégradoient souvent au dessous de celle dont il est sorti, il devroit bénir sans cesse l’instant heureux qui l’en arracha pour jamais, et qui, d’un animale stupid et borné, fit un être intelligent et un homme”28. La socievolezza dunque non è facoltà già data all’origine, ma è, in ogni caso, potenziale e connaturata all’uomo; grazie a questa avviene il passaggio da una dimensione istintuale ed irriflessa ad una “morale”, legata alla ragione e alla coscienza. E’ in questo senso forte, e non meramente strumentale, che l’uomo “ne peut plus se passer de ses semblables”29.

Prima di arrivare però a definire meglio l’idea di una compiuta e realizzata natura umana entro la società politica, è bene, per motivi di chiarezza e completezza, soffermarsi sul rapporto decisivo tra “ragione” e “coscienza”, coordinate centrali dell’impianto dualistico dell’antropologia filosofica russoiana: solo partendo da qui si può infatti spiegare il senso del passaggio allo “stato civile”.

Accolgo l’interpretazione di Iring Fetscher: “In contrasto con la concezione dei giusnaturalisti, la coscienza non è, per Rousseau, né identica alla ragione, né un ‘giudizio’ (jugement): essa è un sentimento e più precisamente il sentimento dell’amore per l’ordine, un ordine entro il quale il singolo si ordina in rapporto al centro comune”30. La relazione tra “ragione” e “coscienza” è dunque strettamente legata alla dimensione sostantiva e la loro cooperazione permette lo sviluppo della moralità e della socievolezza. La ragione non è sufficiente, da sola, per agire secondo moralità: è strumento idoneo a fornire indicazioni, senza offrire un efficace movente. Subentra, a colmare questo vuoto, la coscienza, “espressione della ‘sensibilità attiva’ del soggetto, contrapposta alla sensibilità ‘passiva’, circoscritta all’esistenza materiale”31. Ma la stessa coscienza “come puro istinto morale non ha la forza sufficiente per imporsi alle passioni né per chiarire il significato e il fondamento della legge morale”32.

Perciò, solo la ragione e la coscienza, insieme, possono indirizzare all’esercizio della virtù e consentire il sorgere di una condotta morale: “E’ solo in questo momento che l’uomo è in grado di compiere una scelta morale, che sarà negativa se opporrà individuo a individuo, condizionando la felicità del singolo all’infelicità degli altri, nella trasformazione dell’amore di sé in amor proprio, e sarà invece positiva, se sarà ispirata appunto dalla coscienza come amore dell’ordine, della giustizia nei rapporti dell’uomo con i propri simili nel quadro dell’ordine dell’universo”33.

Il rapporto tra “ragione” e “coscienza” risulta perciò decisivo. Il dualismo antropologico (“ragione” e “coscienza” come espressione della componente “métaphysique et morale” e “passioni” come manifestazioni della componente fisico-materiale34) fa sì che l’uscita dallo stato di natura si configuri prioritariamente come un compito morale. Si afferma dunque una sorta di circolo virtuoso per cui “ragione” e “coscienza” consentono e fondano il passaggio all’”uomo morale” e ad uno stato politico ben ordinato; la société bien ordonnée, a sua volta, fa sì che “l’individuo sia posto in condizioni istituzionali tali da favorire lo sviluppo e l’espressione delle sue proprietà distintive”35.

Si giustifica anche in tal modo la trascrizione politica delle premesse antropologiche sinteticamente ricostruite. Si ricordi Rousseau: “Ce passage de l’état de nature à l’état civil produit dans l’homme un changement très rémarquable, en substituant dans sa condite la justice à l’instinct, et donnant à ses actions la moralité qui leur manquoit auparavant”36. E ancora poco più avanti: “On pourroit sur ce qui précede ajouter à l’acquis de l’état civil la liberté morale, qui seule rend l’homme vraiment maitre de lui”37.

Il passaggio delineato è quello da uno stato pre-umano alla piena realizzazione dell’individuo attraverso la scoperta della propria identità e la propria educazione morale:38 non si può parlare di comunità nello stato di natura perché esso è uno stato pre-umano, fatto di isolamento, indipendenza e autosufficienza, mentre Rousseau parla di comunità al di fuori dello stato di natura, perché è qui che prende corpo l’apertura all’altro e si intrecciano le relazioni morali39, essenziali per la costituzione dell’identità dell’individuo40. Chapman sostiene, giustamente, che l’“uomo si sviluppa nella società piuttosto che essere modellato dalla società. Qui è l’originalità della concezione roussoiana della natura umana”41 “Per Rousseau l’uomo dipende dalla società per ciò che egli è, nel senso che solo nella società le sue potenzialità possono essere realizzate o violate […]. Per Rousseau, la società è essenziale alla vera esistenza dell’uomo dal momento che egli è veramente tale solo in un ambiente sociale”42.

c) Rousseau e la tradizione machiavelliana

L’influenza di Machiavelli su Rousseau non è sistematica, ma la relazione tra i due è significativa per l’argomento qui trattato: si pensi, per esempio, al rapporto tra libertà dell’individuo e libertà della città, alla figura del Legislatore, al tema della dittatura.

Scrive Viroli riferendosi a Rousseau: “L’uomo, come la Città, è libero quando non dipende da un altro. L’analogia fra la libertà della Città e la libertà degli individui, si trova già in Machiavelli”43. E qualche pagina dopo: “La costituzione repubblicana di Rousseau rivela un’affinità sostanziale con il ‘vivere libero’ di Machiavelli. Come la repubblica di Rousseau il ‘vivere libero’ di Machiavelli si fonda sul prevalere dell’interesse comune sugli interessi particolari”44. Sia Rousseau che Machiavelli parlano dunque dei rischi della perdita di libertà, in riferimento alla quale si richiamano entrambi all’esempio della Roma uscita dall’oppressione dei Tarquini45, e Rousseau apprezza in Machiavelli il valore riconosciuto alla libertà, alla indipendenza dalla tirannide e dall’aggressione esterna, nonché il riconoscimento dell’importanza di un legame profondo tra la libertà pubblica della città e la libertà dell’individuo, costruito attorno alla virtù civica.

In secondo luogo la vicinanza tra i due autori riguarda, almeno per certi aspetti, la figura del Legislatore: “Tanto il Legislatore di Rousseau quanto quello di Machiavelli sono ‘ordinatori’. Il primo trasforma una moltitudine di individui in una ‘società bene ordinata’; il secondo instaura una ‘repubblica bene ordinata’. Entrambi si ispirano al principio del bene comune e meritano gloria imperitura in quanto fondatori della libertà. Tra il ‘prudente ordinatore’ di Machiavelli e il grande Legislatore di Rousseau c’è tuttavia una differenza di rilievo: il primo deve avere un’autorità assoluta, il secondo non ha alcun potere”46. Aveva sottolineato tale vicinanza anche Aldo Maffey: “Machiavelli penetra nel Settecento trasformando il principe in legislatore, attraverso una mediazione tra la tradizione corrente cinquecentesca empirico-realistica e quella seicentesca giusnaturalistico-razionale […]. Rousseau, accettando la pratica machiavelliana, si preoccupa di dare una giustificazione morale anche all’operato dell’autore del Principe, ponendosi come anello di congiunzione tra Alberico Gentili, Francesco Bacone e la tesi romantico-liberale che troverà espressione poetica nei Sepolcri di Ugo Foscolo”47. In questa ottica si legge in primo luogo la considerazione della dittatura da parte di questi due autori 48 e, quindi, il riferimento a Numa, che Rousseau condivide, al di là del mito, con Machiavelli, quasi negli stessi identici termini: ”Ceux qui n’ont vu dans Numa qu’un instituteur de rites et de ceremonies religieuses ont bien mal jugé ce grand homme. Numa fut le vrai fondateur de Rome […]. Ce fut Numa qui le rendit solide et durable”49. A Numa viene riconosciuto ciò che Rousseau definisce “le même esprit [qui] guida tous les anciens Législateurs dans leurs institutions. Tous chercherent des liens qui attachassent les Citoyens à la patrie et les uns aux autres, et ils les trouvérent dans des usages particuliers, dans des ceremonies religieuses qui par leur nature étoient toujouts exclusives et nationales [...], dans des jeux qui tenoient beaucoup les citoyens rassemblés, dans des exercices qui augmentoient avec leur vigueur et leurs forces leur fierté et l’estime d’eux-mêmes, dans des spectacles qui, leur rappellane l’histoire de leurs ancêtres, leurs malheurs, leurs vertus, leurs victoires, interessoient leurs cœurs, les enflamoient d’une vive émulation, et les attachoient fortement à cette patrie dont on ne cessoit de les occuper”50.

Simili e altri riferimenti, presenti nell’opera di Rousseau, consentono di mettere in luce il fatto che il filosofo francese consideri Machiavelli esponente importante della tradizione repubblicana, attento non più alla virtù del singolo principe, legata alla contingenza delle situazioni, ma alla possibilità che la virtù stessa riguardi il corpo cittadino nel suo complesso: “Machiavelli era un ‘honnête homme et un bon citoyen’, che, costretto dalle circostanze a ‘deguiser son amour pour la liberté’, aveva tuttavia manifestato la sua ‘intention secrète’ nei Discorsi e nelle Storie fiorentine e che per secoli era stato frainteso da ‘lecteurs superficiels et corrompus’. In quanto al Principe, Rousseau faceva propria la sua interpretazione in chiave obliqua sino a definirlo ‘le livre des républicains’ […]. Ormai l’immagine (e il mito) del Machiavelli repubblicano aveva definitivamente soppiantato quella del consigliere dei principi e del teorico della ‘ragion di Stato’”51. Sono note le parole di Rousseau nel Contratto sociale: “En feignant de donner des leçons aux Rois il en a donné de grandes aux peuples. Le Prince de Machiavel est le livre des républicains”52. Emerge quindi, da parte di Rousseau, un’interpretazione di Machiavelli in chiave repubblicana, che fa riferimento più al Machiavelli dei Discorsi che al Machiavelli del Principe.

“Machiavelli e Rousseau – scrive a tal proposito Viroli - parlano il medesimo linguaggio repubblicano. Tuttavia anche se l’immagine di una repubblica bene ordinata presenta nell’uno e nell’altro i medesimi caratteri, l’approccio resta diverso: Machiavelli si pone il problema di realizzare in concreto, non di giustificare razionalmente, la repubblica; Rousseau dedica la sua opera politica principale al problema della giustificazione razionale della repubblica e solo occasionalmente si interroga sui modi concreti di instaurare una costituzione politica repubblicana. Machiavelli e Rousseau appartengono entrambi alla tradizione repubblicana moderna e furono sostenitori dell’idea repubblicana della politica come l’arte di fondare e preservare una repubblica. Furono tuttavia repubblicani in modi diversi e le loro idee sul significato e sulla possibilità di una repubblica rivelano slittamenti importanti all’interno della tradizione repubblicana”53.

Una versione “comunitaria” del repubblicanesimo

Secondo Maffettone, “La concezione, tipica del repubblicanesimo, della libertà come assenza di dominio non può essere scissa dall’idea di virtuosa partecipazione alla vita pubblica, dato che è proprio quest’ultima ad assicurare che il cittadino non sia un suddito”54. E’ da questa osservazione che vorrei ripartire per sottolineare come in Rousseau si possano conciliare le discordanze interne alla tradizione repubblicana, nella prospettiva di un recupero comunitario del repubblicanesimo, organizzato appunto attorno all’idea di libertà come assenza di dominio e virtuosa partecipazione alla vita pubblica.

a) L’idea di libertà

Come scrive Derathé, “il fine principale, per non dire l’unico, di Rousseau, è la libertà [...]. L’originalità di Rousseau consiste proprio nell’avere posto il problema in questi termini. Tutti i suoi predecessori si chiedevano in quali condizioni potesse essere istituita un’autorità politica e rispondevano invariabilmente: con l’alienazione della libertà naturale. Per loro, l’istituzione del governo civile avveniva a spese della libertà, quasi che ognuno fosse stato disposto a sacrificare una porzione di libertà per garantirsi la sicurezza formando, insieme a tutti gli altri, un’unione di forze e di volontà. Per Rousseau, la sicurezza comune non deve comportare la sottomissione, e il problema è appunto far sì che gli uomini possano unirsi in un corpo politico senza per questo rinunciare alla libertà, che è un diritto inalienabile” 55.

Per Rousseau la libertà non è un prezzo da pagare nel passaggio alla “società civile”, è anzi una conquista morale dell’individuo che in società forma il proprio ”être moral”.

Da questo punto di vista l’originalità della sua posizione è notevole: l’idea che l’ordine politico non deve nascere a discapito della libertà lo separa infatti, in generale e in primis, dalla tradizione giusnaturalistica 56, dalle posizioni di Hobbes 57, e infine dall’individualismo atomistico del liberalismo. La chiave di lettura è rappresentata dai concetti di “contratto sociale” e “volontà generale”, condizioni trascendentali dell’ordine politico, che consentono a Rousseau di assegnare un senso nuovo a nozioni quali quelle di “perdita della libertà” e “alienazione dei diritti personali”. L’originalità sta nel fatto che egli prende in considerazione “l’atto in virtù del quale un popolo è un popolo” 58, grazie al quale cioè si crea la società politica come “corpo” e compare il “bene pubblico”: il suo artificio non accosta singoli individui monadologicamente strutturati e non crea un semplice vincolo formale, ma permette la costruzione di un legame in base al quale “les bras, et la vie même de tous ses membres” 59 sono comunitariamente intrecciate.

Il contratto sociale deve legare e obbligare senza assoggettare: anzi la cessione della libertà “naturale” e l’acquisizione della facoltà di partecipazione equivalgono all’acquisizione della “libertà morale”. L’ingresso nella società politica creata dal patto, infatti, consente la realizzazione delle condizioni per una condotta non improntata all’arbitrio e condizionata dalla passionalità. Rousseau esclude il patto di sottomissione e parla solo di patto di “associazione” da parte di un uomo libero in quanto, contemporaneamente, souverain e sujet. Osserva a tal proposito Derathé come per “Rousseau […] non sono gli individui a impegnarsi gli uni con gli altri, perché ‘l’atto di associazione comporta un impegno reciproco del pubblico con i singoli’. Questi contraggono un impegno reciproco con il corpo di cui diventano membri [...]. Si tratta dunque di una vera promessa reciproca fra il corpo del popolo, considerato come una persona morale, e i singoli” 60. Si realizza così un contratto in cui l’impegno è della “comunità” intesa come una sola “persona morale”: si parla di una obbligazione etica che è personale61, bilaterale62e incondizionata63 e di un impegno morale che è indirizzato al governo delle passioni 64.

La “volonté générale” è invece “regle du juste et de l’injuste”65: deve partire da tutti e dirigersi a tutti in quanto costituisce contemporaneamente la volontà di tutto il popolo e “di ognuno degli associati non in quanto individuo, bensì in quanto membro della comunità o del corpo sovrano”66 “On doit - argomenta Rousseau – concevoir par là, que ce qui généralise la volontà est moins le nombre des voix, que l’intérêt comun qui les unit: car dans cette institution chacun se soumet nécessairement aux conditions qu’il impose aux autres”67.

Quindi “l’essence du corps politique est dans l’accord de l’obéissance et de la liberté, et que ces mots de sujet et de souverain sont des corrélations identiques dont l’idée se réunit sous le seul mot de Citoyen” 68.

Si comprende perciò il significato della contrapposizione russoiana tra “liberté naturelle” e “liberté civile”, effetto del patto secondo giustizia: “Il faut bien distinguer la liberté naturelle qui n’a pour bornes que les forces de l’individu, - scrive Rousseau – de la liberté civile qui est limite par la volontà générale […]. On pourroit sur ce qui précede ajouter à l’acquis de l’état civil la liberté morale, qui seule rend l’homme vraiment maitre de lui; car l’impulsion du seul appetit est esclavage, et l’obéissance à la loi qu’on s’est prescritte est liberté” 69.

Viroli sottolinea ulteriormente questi aspetti: “Ritengo che i concetti di libertà positiva e libertà negativa non colgano il significato della teoria rousseauiana della libertà politica. Rousseau non è infatti il teorico della libertà positiva, ma della libertà nel senso repubblicano, ovvero della libertà di cui gli individui godono in virtù della buona costituzione politica che li mette al riparo dalla dipendenza dalla volontà di altri individui. E’ libertà ‘positiva’ in quanto consiste nell’obbedienza alle leggi che gli individui stessi si sono dati; è ‘negativa’ in quanto la sovranità della legge protegge ogni cittadino dai torti, dalle offese e dalle interferenze arbitrarie degli altri, si tratti di magistrati o di cittadini. La libertà che si fonda sulla sovranità della volontà generale e sulla forza delle leggi è per Rousseau il massimo bene di cui possono godere i cittadini di una ‘società bene ordinata’”70.

Rousseau è dunque vicino all’idea repubblicana di libertà come “condizione in cui una persona è nella sostanza immune, e immune nelle questioni cruciali, rispetto ad atti d’interferenza basati sull’arbitrio”71. Rousseau si rifà qui alle origini antiche della tradizione repubblicana, legate all’idea di libertà come opposto della servitù e alla relazione tra libertà e intersoggettività.

Non solo: a mio avviso, egli consente di considerare meno confuse alcune affermazioni tradizionalmente considerate “repubblicane” e che invece Skinner, ad esempio, non considera tali. “La prima – scrive lo stesso Skinner – mette in rapporto la libertà con l’auto-governo e, di conseguenza, collega l’idea di libertà individuale, in modo apparentemente paradossale, con l’idea di impegno civico (public service)”72. Rousseau, da par suo, sottolinea invece fortemente l’imprescindibilità del legame tra libertà individuale e impegno civico, non vedendovi alcuna incongruenza. Chapman sostiene, a buon diritto, che, “limitando la legislazione a questioni di interesse comune, Rousseau costringe ognuno a cercare il proprio bene personale senza invadere l’ambito dei beni personali degli altri. Così il dovere e l’aspirazione, la giustizia e l’interesse sono fatti coincidere”73.

“L’altra tesi, – continua Skinner – correlata alla prima, stabilisce che possiamo essere obbligati a essere liberi; essa, quindi, lega l’idea di libertà individuale, in modo anche più platealmente paradossale, con il concetto di coercizione e costrizione” 74. Questa seconda critica tocca una questione centrale, che riguarda la compatibilità tra costrizione, legge e libertà. Prima di soffermarci allora sul valore della legge in Rousseau vorrei sottolineare come egli associ la costrizione alla libertà esclusivamente all’idea di assenza di potere arbitrario di qualcuno su altri: “Dal punto di vista di Rousseau impedire ad una persona di ottenere il potere è costringerla ad essere libera. La mancanza di potere sugli altri è la condizione della sua libertà, dello sviluppo della sua ragione e della sua coscienza, della sua vita in una società fondata sulla legge”75. Lo si può dire anche in altro modo: “Se ‘essere liberi’ significa non essere sottomessi alla volontà particolare di un individuo né sottomettere altri alla nostra volontà particolare, non è contraddittorio dire che chi è costretto ad obbedire alla volontà generale è in effetti ‘costretto a essere libero’” 76.

Il testo di Rousseau è quanto mai chiaro: “Quiconque refusera d’obéir à la volontà générale y sera contrain par tou le corps: ce qui ne signifie autre chose sinon qu’on le forcera d’être libre; car telle est la condition qui donnant claque Citoyen à la Patrie le garantit de toute dépendance personelle; condition qui fait l’artifice et le jeu de la machine politique, et qui seule rend légitimes les engagemens civils, lesquels sans cela seroient absurdes, tyranniques, et sujets aux plus énormes abus”77.

L’idea di un obbligo che viene imposto in nome di una “volontà generale” ha però spesso costituito terreno fertile per l’accusa di populismo nei confronti di Rousseau. Osserva Maffettone: “I repubblicani, infatti, non vogliono essere scambiati per populisti e neppure passare per rousseauiani dell’ultim’ora, e anzi tendono a criticare qualsiasi identificazione di questo genere”78.

Questa affermazione consente di affrontare uno dei limiti che hanno relegato Rousseau lontano dai riferimenti importanti all’interno del dibattito sul repubblicanesimo: l’accusa di “populismo” e l’idea che la sua nozione di libertà conduca ad un paradosso: “Infatti, benché una legge non arbitraria possa non dominare gli individui né compromettere la loro libertà, ne condiziona comunque inevitabilmente la libertà, restringendo la gamma delle scelte non dominate accessibili a coloro che sono soggetti alla legge; può darsi che non li privi della libertà ma, si potrebbe dire, li rende in ogni caso meno liberi”79.

L’accusa mossa a Rousseau è in sostanza quella di ridurre il popolo, nel suo essere “corpo collettivo”, a padrone e lo stato a servo, per cui la libertà si riduce all’autogoverno: “Per quanto possano apparire per altri aspetti repubblicani affascinanti le sue posizioni […], Rousseau ha probabilmente le maggiori responsabilità per la diffusione di questa concezione populista. La sua svolta populista ha rappresentato l’inizio di un nuovo corso che ha raggiunto il suo punto culminante solo allorché si è giunti a considerare l’ideale dell’autogoverno democratico come la principale alternativa, o quantomeno la principale alternativa tra le concezioni della libertà esistenti, all’ideale negativo della non interferenza. Ritenere populista la tradizione repubblicana significa proprio favorire quella dicotomia che ha reso invisibile l’ideale repubblicano” 80.

In realtà Rousseau condivide con i repubblicani lo stesso fondamentale interrogativo e problema, ma vede nella legge il fondamento della libertà stessa. Queste le sue parole nel Discorso sull’economia politica: “Comment se peut-il faire qu’ils obéissent et que personne ne commande, qu’ils servent et n’ayent point de maître; d’autant plus libres en effet que sous une apparente sujétion, nul ne perd de sa liberté que ce qui peut nuire à celle d’un autre? Ces prodiges sont l’ouvrage de la loi. C’est à la loi seule que les hommes doivent la justice et la liberté. C’est cet organe salutaire de la volontà de tous, qui rétablit dans le droit l’égalité naturelle entre les hommes. C’est cette voix céleste qui dicte à cheque citoyen les préceptes de la raison publique, et lui apprend à agir selon les maximes de son propre jugement, et à n’être pas en contradiction avec lui-même. C’est elle seule aussi que les chefs doivent faire parler quand ils commandent”81.
Risulta lampante la comunanza di spirito di questo scritto di Skinner in La libertà prima del liberalismo: “Come possono dei cittadini naturalmente auto-interessati essere persuasi ad agire virtuosamente, in modo tale che essi possano sperare di massimizzare una libertà che, se lasciati a se stessi, getterebbero senz’altro via? La risposta, di primo acchito, suona familiare: gli scrittori repubblicani ripongono tutta la loro fiducia nel potere coercitivo della legge […]. La principale giustificazione della legge è che, obbligando le persone ad agire in maniera tale da preservare le istituzioni di uno stato libero, essa crea e preserva un grado di libertà individuale che, in sua assenza, verrebbe rapidamente meno, aprendo le porte a una condizione di assoluta servitù”82.

A nostro avviso quindi è possibile rintracciare in Rousseau alcuni dei nodi concettuali più ricorrenti in Pettit e Skinner: è in sintonia con il primo, il quale afferma che, “come le leggi creano l’autorità di cui fruisce chi governa, così le leggi creano la libertà che i cittadini possiedono in comune” 83, e parla delle leggi come di qualcosa che interferisce senza dominare84. E’ vicino a Skinner non soltanto nella considerazione che ogni cittadino può “esercitare un uguale diritto di partecipazione alla creazione delle leggi”85, ma anche nella convinzione che “se uno stato o una repubblica deve essere considerata libera, le leggi che la governano – le regole che determinano i movimenti del suo corpo – devono essere approvate con il consenso di tutti i suoi cittadini, dei membri del corpo politico nel suo insieme. Nella misura in cui questo non accade, il corpo politico sarà spinto ad agire da una volontà diversa da quella propria, e sarà di conseguenza privato della sua libertà"86.

In secondo luogo, egli evita la deriva del “populismo” nel momento in cui, concependo la libertà stessa come il prodotto della legge, sostiene che essere completamente liberi significa essere pienamente cittadini in una società organizzata attorno alla legge: “J’aurois voulu vivre et mourir libre, c’est-à-dire tellement soumis aux lois que ni moi ni persone n’en pût secouer l’honorable joug; Ce joug salutare et doux, que les têtes les plus fiéres portent d’autant plus docilement qu’elles sont faites pour n’en porter aucun autre”87

Rousseau afferma quindi il fondamento della libertà nella legge e sostiene che, in una società in cui ciascuno è chiamato ad obbedire solo a se stesso proprio perché obbedisce alla “volontà generale”, espressione della raison publique, cioè di una deliberazione alla quale ogni cittadino partecipa in quanto membro dell’assemblea sovrana, il potere di dare leggi è lo strumento per vivere liberi e non sottomessi ad una volontà arbitraria. Il principio di fondo è quello enunciato nei Frammenti politici, e cioè che “nul ne peut se dire asservi quand il n’obeit qu’à sa volonté” 88.

Rousseau vede per questo motivo nelle leggi la condizione di conservazione del patto: “On est libre quoique soumis aux loix, et non quand on obeit à un homme, parce qu’en ce dernier cas j’obéis à la volontà d’autrui mais en obeissant à la Loy je n’obéis qu’à la volonté publique qui est autant la bienne que celle de qui que ce soit” 89. E quindi la seconda caratterizzazione essenziale della “volontà generale”, oltre il fatto di essere la volontà che esprime la raison publique, frutto della discussione comune nell’ambito del “corpo sovrano”, consiste nel “poter agire solo attraverso le leggi, mentre è contrario alla sua essenza statuire su un oggetto individuale” 90.

La legge è dunque garanzia ed espressione della libertà, in quanto, da un lato, tutela contro l’arbitrio dei singoli e, dall’altro, è il prodotto di volontà razionali singole impegnate a risolvere, attraverso il confronto dialogico, i problemi inerenti alla deliberazione sulle norme della convivenza. “La reciproca dipendenza dalla legge è il solo fondamento moralmente legittimo dell’associazione. Attraverso la dipendenza dalla legge gli uomini sono messi in grado di associarsi senza alcuna dipendenza personale che li renderebbe stolti moralmente. Attraverso la legge ognuno è messo in condizione di annullare le sue tendenze edonistiche. La legge infine libera e soddisfa le potenzialità morali dell’uomo” 91.

b) La virtù

“La legge insomma mette in grado gli uomini non soltanto di vivere insieme nella libertà, ma anche di conquistare la virtù” 92. Da questo punto di vista, centrale è proprio il concetto di “vertu”, strettamente collegato alla legge: è la vertu publique infatti che garantisce l’unità politica e i diritti dell’individuo. Così Rousseau: “Dans tout païs où le Luxe et la corruption ne regnent pas, le témoignage public de la vertu d’un homme est le plus doux prix qu’il en puisse recevoir, et tutte bonne action n’a besoin pour sa recompense que d’être denoncée publiquement comme telle […]. Quel étoit le mobile de la vertu des Lacedemoniens si ce n’estoit d’être estimé[s] vertueux? Qu’est-ce qui àpres avoir conduit ces triomphateurs au Capitole les ramenoit à leur charue? Voilà une source d’intérest plu sure et moins dangereuse que les Tresors, car la gloire d’avoir bien fait n’est pas sujette aux mêmes inconveniens que celle d’être riche et donne une satisfaction beaucoup plus vive à ceux qui ont appris à la gouter”93.

Rousseau segue quindi una strada che, mentre lo separa dal costituzionalismo come strategia per il controllo istituzionale dei poteri (Locke e Montesquieu), lo pone in continuità con la tradizione del repubblicanesimo classico (vedi, ad esempio, i suoi richiami costanti a Roma), nella quale è proprio il “tono morale” (Taylor 94) della comunità a garantire l’equità delle decisioni. Naturalmente l’aver messo da parte il bagaglio del costituzionalismo liberale crea non pochi problemi 95, ma non è il caso di affrontarli in questa sede, altro essendo lo scopo di questo saggio.

Il rapporto stabilito tra virtù e ordine politico ci permette di qualificare Rousseau come critico del liberalismo individualistico e della scissione tra etica e politica. Scrive Fetscher, proprio su a questi aspetti: “La relazione tra etica e politica è dunque bilaterale. L’uomo morale (virtuoso) è il cittadino ideale perché non cura mai il proprio interesse privato di uomo fisico, ma sempre soltanto l’interesse superiore del proprio ‘Sé’ etico, che non può entrare in conflitto con l’altrui interesse privato e ancor meno con quello della comunità etico-giuridica poiché mira a beni la cui quantità è illimitata, né può mai essere esaurita per quanti se ne godano. Ma lo stato costituito offre pur nella sua forma deteriore l’idea di un ordine che la ragione può riconoscere per farlo amare dalla coscienza e aiutare così la virtù a signoreggiare le passioni”96.

Virtù e libertà sono quindi viste in un rapporto di reciproco sostegno, “l’insieme delle qualità che ognuno di noi, in quanto cittadino, deve possedere: qualità che ci consentono di servire di buon grado il bene comune e di difendere così la libertà della nostra comunità, qualità che ci permettono, di conseguenza, di garantire sia la sua grandezza sia la nostra libertà individuale”97.

Conclusioni

Gli elementi messi in luce vorrebbero essere dei sintetici richiami ad aspetti che possono servire per giustificare l’idea che Rousseau, forse troppo frettolosamente escluso dalla considerazione di quanti hanno affrontato il tema della comunità e del repubblicanesimo, costituisce invece una voce importante e un tornante storico decisivo.

Non solo infatti egli affronta molte delle questioni riprese ai giorni nostri dalla riflessione repubblicana, ma si dimostra attento ad alcuni importanti sviluppi interni a tale riflessione, cercando di argomentarli e fornendo soluzioni teoricamente rilevanti a problemi e contraddizioni: svolge l’apparente paradosso che lega libertà, legge e costrizione98; rafforza attorno al concetto di virtù civile l’idea di una sottomissione dell’interesse privato al bene pubblico99; sottolinea il valore dell’ordine per il mantenimento e il rafforzamento della libertà; ripresenta l’ideale classico della giusta proporzione della virtus100.

Rousseau recupera quindi il repubblicanesimo come istanza della cittadinanza attiva101. Egli, che critica allo stesso tempo il despotisme di Hobbes e il liberalismo proprietario di Locke, guarda al rapporto politico come ad una relazione connotata dal consenso e innestata sulla “voce del dovere”102. Ma il repubblicanesimo di Rousseau non si risolve soltanto “nell’adesione all’ideale della repubblica intesa come antitesi della tirannide o nell’adesione al governo popolare in antitesi al governo monarchico”103. Non siamo cioè di fronte semplicemente ad una teoria della buona costituzione politica legata ad una idea di libertà ridotta al semplice non “equiparare il modo in cui la legge restringe la libertà a quello proprio dei prepotenti o dei ladri”104.

Le riflessioni che ho proposto possono essere spunti per concentrare l’attenzione, in fase conclusiva, sull’idea russoiana di “comunità” (communauté), fondata sul concetto di indipendenza da ogni autorità o potere personale e intesa come autodeterminazione collettiva; il tutto sullo sfondo rappresentato dal problema del rapporto costitutivo tra comunità e identità. E’ proprio questa relazione di Rousseau la coordinata attorno alla quale si può tentare un recupero comunitario, lontano da ogni contaminazione organicistica.

La “comunità”, infatti, così come la progetta Rousseau, permette la nascita dell’uomo alla sua vera umanità: comporta la scoperta e l’affermazione dell’ identità umana, la realizzazione della vera natura dell’uomo, della libertà e dell’uguaglianza politica dei cittadini, innestate sulla legge e sulla virtù. La “società ben ordinata” è una communauté che realizza la “libertà morale” dei suoi membri105.

Rousseau è l’assertore di un legame forte tra formazione morale dell’identità e comunità. Si è avuto modo di sottolineare che la costituzione della comunità sia considerata come la scoperta e la realizzazione delle potenzialità umane e dell’identità morale dell’individuo: “Soit qu’un penchant naturel ait porté les hommes à s’unir en società, soit qu’ils y aient été forcés par leurs besoins mutuels, il est certain que c’est de ce commerci que sont nés leurs vertus et leurs vices et en quelque maniére tout leur être moral”106 E’ stato giustamente osservato che “la ricerca di un’identità personale poteva essere soddisfatta dalla creazione di una comunità solidale, un moi commune, in cui contemporaneamente ciascuno scoprisse se stesso nella massima solidarietà verso gli altri”107.

A dar vita e consistenza al patto sociale e quindi alla comunità politica è il preferire in ogni cosa il maggior bene di tutti, ideale che si incarna in una legislazione giusta, espressione della “volontà generale”, mirante al bene e alla conservazione dell’intera comunità, e in una “virtù pubblica” che concorre alla conservazione del “tout”. All’interno della comunità “i soggetti non trovano un principio di identificazione - e neanche un recinto asettico entro cui stabilire una comunicazione trasparente o, magari il contenuto da comunicare. Essi non trovano altro che quel vuoto, quella distanza, quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi: ‘donanti a’, in quanto essi stessi ‘donati da’ un circuito di donazione reciproca che trova la propria peculiarità appunto nella sua obliquità rispetto alla frontalità del rapporto soggetto-oggetto, o alla pienezza ontologica della persona”108. Il riscontro in questo passo dell’Emilio: “C’est la foiblesse de l’homme qui le rend sociable: ce sont nos miséres communes qui portent nos cœurs à l’humanité, nous ne lui devrions rien si nous n’étions pas hommes. Tout attachement est un signe d’insuffisance : si chacun de nous n’avoit nul besoin des autres il ne songeroit guéres à s’unir à eux. Ainsi de nôtre infirmité même nait nôtre frêle bonheur. Un être vraiment heureux est un être solitaire: Dieu seul joüit d’un bonheur absolu ; mais qui de nous en a l’idée ? Si quelque être imparfait pouvoit se suffire àlui- même , dequoi joüiroit-il selon nous ? Il seroit seul, il seroi misérable. Je ne conçois pas que celui qui n’an besoin de rien puisse aimer quelque chose : je ne conçois pas que celui qui n’aime rien puisse être heureux”109..

Nasce così una comunità politica omogenea la cui forza collettiva è la condizione che rende possibile la sopravvivenza dei singoli, in cui ciascuno è debitore nei confronti della comunità: lo scopo dell’association è quello di una vita buona, classicamente intesa come vita virtuosa; la realtà del “cittadino” è quella di colui che antepone l’”interesse comune” all’interesse “privato”; l’interesse preminente, ma niente affatto unico, diviene la conservazione della comunità stessa.

La chiave di lettura di una simile posizione sta nell’antropologia di fondo relazionale di Rousseau che, come abbiamo avuto modo di sottolineare, richiama esplicitamente la propria derivazione aristotelica riguardo all’idea di natura e di perfettibilità e relativamente alla “relazione tra ciò che [...] preoccupa come individuo e ciò che la società persegue in termini di obiettivi e scopi generali”: “Questa percezione della connessione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico, tra un’opinione ‘particolare’ e un’opinione ‘pubblica’, rappresenta il primo difficile passo verso la coscienza politica, poiché si richiede che colui che appartiene alla comunità esprima bisogni, rivendicazioni e aspirazioni private in modo pubblico”110.

Rousseau fornisce dunque un contributo, non sempre adeguatamente valutato, alla definizione della comunità politica, “ribadendo più volte il grande valore della solidarietà sociale, della necessaria subordinazione dell’individuo al gruppo, dell’importanza della dipendenza impersonale, della vocazione redentrice dell’appartenenza e dei benefici che scaturiscono da una stretta identificazione tra individuo e gruppo”111 e sottolineando che le istituzioni di cui ha descritto fondamenta e strutture “rassemblent tout ce qui peut contribüer à former dans les mêmes hommes des amis, des citoyens, des soldats, et par consequent tout ce qui convient le mieux à un peuple libre”112.

Ciò avviene comunque all’interno di un percorso intellettuale che, partendo dalla critica della società del suo tempo, è indirizzato a progettare una comunità politica che, in nome del perseguimento del “bene comune”, consegua la libertà e l’uguaglianza politica dei cittadini e diventi luogo di realizzazione della vera natura dell’uomo. L’esito lo ha però condotto a scontrarsi con le concrete difficoltà della società moderna delle maschere e ha causato il finale ripiegamento su se stesso, che però non sa di abbandono dei propri ideali, quanto piuttosto di una loro personalissima difesa e conservazione, in attesa che un mondo esterno migliore li possa accogliere e rendere storicamente fecondi. Rousseau è “un filosofo che ‘sente’ prima di ‘pensare’, e pensa per immagini; un teorico della società assorto nell’osservazione del proprio io, lacerato da contraddizioni esistenziali delle quali ricercherà una soluzione razionale. In certo senso, tutta l’opera sua può essere letta come la trascrizione simbolica di una rivolta emotiva, come una proiezione dei suoi conflitti o del suo difficile rapporto con se stesso e con il mondo reale. Rousseau stesso ne fu ben consapevole. Riferì, appunto, alla singolarità del proprio io l’autenticità dell’esempio morale e civile che propose”113.

Il tentativo russoiano di realizzare il compimento dell’individuo nella comunità e quindi di formare in maniera interrelazionale l’identità trova infatti un esito segnato dal distacco netto tra piano speculativo e piano esistenziale della sua riflessione. Non “si tratta - però - […] di suggerire una ‘vita da anacoreta’, ma di indicare la maniera per trarsi fuori momentaneamente ‘dalla calca’ e per chiudere così ‘l’accesso alle passioni’ attraverso quella che si potrebbe definire una strategia del recupero finalizzata a ricostituire l’armonia interna del soggetto per poter poi tornare nell’insidioso labirinto della società” 114. In questa prospettiva si apre la possibilità di una realizzazione storica delle idee russoiane sulla comunità e si lascia aperto lo spazio per riflettere ancora sull’idea di una comunità politica. Solo in un’ottica simile si può cogliere il valore della sua riflessione su identità, autenticità e politica 115: egli ha per lo meno intravisto, nell’ambito delle coordinate filosofiche e storiche della modernità, lontano però dall’organicismo aristotelico e dall’individualismo moderno, l’importanza del ruolo della politica nella formulazione e nella realizzazione delle identità individuali e ha parlato di una identità che entra a far parte della richiesta politica, ammettendo la pertinenza antropologica della dinamica politica.

* Università di Perugia
[I]
Note

1 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, tr. it. M. Geuna, Einaudi, Torino 2001, p. V.

2 J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, tr. it. A. Prandi, Il Mulino, Bologna 1980, p. 559.

3 Ivi, p. 781.

4 Ivi, pp. 320-321.

5 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, a cura di M. Viroli, tr. it. G. Ceccarelli, Il Mulino, Bologna 1989, p. 29.

6 M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, «Filosofia politica», XII, 1, (1998), p. 108.

7 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 97.

8 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, a cura di S. Veca, tr.it. G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano 1994, pp. 177-178.

9 M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, cit., p. 109.

10 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XVIII-XIX.

11 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, tr. it. P. Costa, Feltrinelli, Milano 2000, p. 32.

12 Per la distinzione tra libertà positiva e libertà negativa mi limito a rinviare a I. Berlin, Due concetti di libertà, in Quattro saggi sulla libertà, tr. it. M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989; la riflessione sull’idea di libertà come concetto di esercizio o di opportunità si trova invece in Ch. Taylor, Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in AA.VV., L’idea di libertà, a cura di Ian Carter e Mario Ricciardi, Feltrinelli, Milano 1996.

13 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XXII-XXIII.

14 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., pp. 353-354.

15 Ivi, p. 34.

16 A. Maffey, L’idea di stato nell’illuminismo francese, Studium, Roma 1975, p. 23.

17 F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970,p. 58.

18 Ivi, pp. 96-97.

19 Ivi, pp. 104-105.

20“ dei de skopein en tois kata phusin echousi mallon to phusei, kai mê en tois diephtharmenois” (Aristotele, Politica, 1, 5, 1254a 35-37 cit. in J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, in Oeuvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Éditions Gallimard, Paris 1964, III, p. 109).

21 Ivi, p. 152.

22 Cfr. Ivi, p. 154.

23 Cfr. Ivi, p. 162.

24 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, tr. it. L. Derla, Feltrinelli, Milano 1972, p. 28.

25 L’idea di una natura intesa non esclusivamente come principio originario, ma come progressivo sviluppo, tramite la “perfettibilità” di “facoltà potenziali” contenute già in origine nella “constitution humaine”, pone infatti Rousseau su di un piano radicalmente differente sia rispetto a Hobbes che a Locke. Mentre questi due ultimi autori hanno in comune l’idea che l’ingresso nel body politics non aggiunga né tolga nulla all’identità dell’individuo, che è quindi già un tutto di per sé e non ha alcun bisogno di legami interpersonali per realizzarsi, Rousseau, in virtù dell’idea di una natura dotata di un telos, ancora incompiuto nello “stato di natura puro” (cioè nell’isolamento),può guardare alla progressiva evoluzione della comunità come alla realizzazione della natura stessa dell’uomo.

26 “La sostanza è un principio ed una causa […] e questa è, in alcuni casi, causa finale […]; in alcuni altri casi, invece, essa è causa motrice prossima […]. La causa motrice si ricerca quando si tratti di spiegare il generarsi e il corrompersi delle cose, mentre l’altra causa si ricerca anche quando si tratti di spiegare l’essere delle cose” (Aristotele, Metafisica, VII, 17, 1041a 10-30 a cura di G. Reale, tr. it. G. Reale, Rusconi, Milano 1978, p. 350-351).

27 “Abbiamo trattato dell’essere che è primo e al quale si riferiscono tutte le altre categorie dell’essere, ossia della sostanza […]. E […] l’essere viene inteso nel significato di essenza, o di qualità, o di quantità e, in un altro senso, l’essere viene inteso secondo la potenza e l’atto” (Ivi, IX, 1, 1045b 25-35, p. 378).

28 J.J. Rousseau, Du contract social, in Oeuvres complètes, cit., p. 364.

29 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’état de nature”], in Oeuvres complètes, cit., p. 479.

30I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 73.

31 R. Gatti, Una fragile libertà. Esercizio di lettura su Rousseau, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 17.

32 A. Bonetti, Antropologia e teologia in Rousseau. La professione di fede del Vicario Savoiardo, Vita e Pensiero, Milano 1976, p. 171.

33 Ivi, p. 164.

34 Rinvio all’Emilio per una considerazione più sistematica dell’idea russoiana di passioni e del rapporto tra componente morale e fisico-materiale. Mi limito qui a far cenno a due passi: “Nos passions – scrive Rousseau – sont les principaux instrumens de notre conservation; c’est donc une enterprise aussi vaine que ridicule de vouloir les détruire; c’est controller la nature, c’est réformer l’ouvrage de Dieu” (J.J. Rousseau, Emile, in Oeuvres complètes, cit., pp. 490-491). E ancora: “Tout sentiment de peine est inséparable du desir de s’en délivrer; toute idée de plaisir est inséparable du desir d’en joüir ; tout desir suppose privation, et toutes les privations qu’on sent sont pénibles ; c’est donc dans la disproportion de nos desirs et de nos facultés que consiste nôtre misére. Un être sensible dont les facultés égaleroient les desirs seroit un être absolument heureux.
En quoi donc consiste la sagesse humaine ou la route du vrai bonheur ? Ce n’est pas précisement à diminüer nos desirs ; car s’ils étoient au dessous de nôtre puissance, une partie de nos facultés resteroit oisive, et nous ne jouirions pas de tout nôtre être. Ce n’est pas non plus à étendre nos facultés, car si nos desirs s’étendoient à la fois en plus grand raport, nous n’en deviendrions que plus misérables : main c’est à diminuer l’excés des desirs sur les facultés, et à mettre en égalité parfaite la puissance et la volonté. C’est alors seulement que toutes les forces étant en action l’ame cependant restera paisible, et que l’homme se trouvera bien ordoné” (Ivi, pp. 303-304).

35 R. Gatti, Una fragile libertà. Esercizio di lettura su Rousseau, cit., p. 30.

36 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 364.

37 Ivi, pp. 365.

38 Anche Ch. Taylor sottolinea questo aspetto parlando di Montesquieu e Rousseau: “La vita politica […] è in un senso importante prioritaria rispetto agli individui. La vita politica fonda la loro identità, rappresenta la matrice in virtù della quale essi possono diventare i tipi di esseri umani che sono” (Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it. R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 248).

39 Proprio riguardo l’idea di “indipendenza” nello stato di natura si può cogliere un’ulteriore differenza di piani tra Rousseau, Hobbes e Locke. Il filosofo francese concorda con Hobbes e Locke nel ritenere che l’indipendenza originaria significhi libertà da qualsiasi potere personale o autorità, ma la giudica una condizione difettiva, un’assenza di relazione, una mancanza di rapporto.
E’ qui che s’incentra innanzitutto la differenza prospettica nei confronti del modello hobbesiano: il non-rapporto, l’irrelatività, fatta in Hobbes di timore e conflitto, non è, per Rousseau, il prodotto di una stato civile distruttivo del legame sociale, ma ciò che precede l’uno e l’altro. In secondo luogo una tale impostazione è lontana dall’egoismo razionale dell’atomismo liberale, che vede in una presuntuosa indipendenza, paradossalmente incapace di sussistere senza ricorrere alla creazione contrattuale di un governo e di un sovrano, una condizione paradigmatica e ideale.

40 E’ bene qui sottolineare però un aspetto, che non ho modo di sviluppare, ma che è necessario tenere presente per una lettura completa e problematica delle idee di Rousseau che sto illustrando: Rousseau parla, relativamente alla comunità, di una formazione dell’identità umana e non di una identità propria e singolare. Non si prende in considerazione, cioè, quella che Derrida, in un testo molto chiaro nel definire i problemi dell’amicizia politica intitolato Politiche dell’amicizia, definisce la “quantificazione della singolarità”. Derrida non fa mai esplicito riferimento a Rousseau, ma qualche suo spunto coglie indirettamente alcuni dei limiti dell’idea russoiana di “comunità”. Il rischio in sostanza è quello di sfociare verso l’impersonalità e l’indifferenza, di dimenticare l’infinita singolarità che l’umanità dell’uomo introduce nella proporzionalità del tout (Cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1995).

41 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, tr. it. A. Prontera e N. D’Elia, Edizioni Micella, Lecce 1974, p. 137.

42 Ivi, p. 153.

43 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, Il Mulino, Bologna 1993, p. 152.

44 Ivi, p. 168.

45 “S’ils tentent de secoueur le joug, ils s’éloignent d’autant plus de la liberté; que prenant pour elle une licente effrenée qui lui est opposée, leurs revolutions les livrent presque toûjours à des séducteurs qui ne font qu’aggraver leurs chaînes. Le Peuple Romani lui-même, ce modale de tous les Peuples libres, ne fut point en état de se gouverner en sortant de l’oppression des Tarquins” (J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 269). Cfr. Machiavelli: “E debbesi presupporre per cosa verissima che una città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera […]. Ma non si vede il più forte exemplo che quello di Roma; la quale, cacciati i Tarquini, poté subito prendere e mantenere quella libertà; ma morto Cesare, morto Gaio Gallicola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette mai, non solamente mantenere, ma pure dar principio alla libertà” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 17, in Opere, a cura di R. Rinaldi, Utet, Torino 1999, pp. 528-529).

46 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 186.

47 A. Maffey, L’idea di stato nell’illuminismo francese, cit., pp. 61-62.

48 Tutto il capitolo sesto del libro quarto del Contratto sociale, com’è noto, riprende motivi espressi nei capitoli trentaquattro e trentacinque del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

49 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée, in Oeuvres complètes, cit., p. 957. Queste le parole di Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: “[Numa], trovando uno popolo ferocissimo e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a voler mantenere una civiltà; e la costituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella repubblica; il che facilitò qualunque inpresa che il senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare […]. Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1, 11, in Opere, cit., pp. 493-497).

50 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée, in Oeuvres complètes, cit., p. 958.

51 G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 294-295.

52 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 409.

53 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 20.

54 S. Maffettone, Repubblicanesimo, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 5, 1/2000, p. 53.

55 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, tr. it. R. Ferrara, Il Mulino, Bologna 1993, p. 279.

56 Cfr. J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., pp. 183-184.

57 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 93.

58 Ivi, p. 730.

59 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, in Oeuvres complètes, cit., p. 248.

60 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 274.

61 Emblematiche le parole di Rousseau: “Les engagemens qui nous lient au corps social ne sont obligatoires que parce qu’ils sont mutuels, et leur nature est telle qu’en les remplissant on ne peut travailler pour altrui sans travailler aussi pour soi” (J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 373).

62 Afferma chiaramente a tal proposito Rousseau: “On voit par cette formule que l’acte d’association renferme un engagement réciproque du public avec les particuliers, et que chanque individu, contractant, pour ainsi dire, avec lui-même, se trouve engagé sous un double rapport; savoir, comme membre du Souverain envers les particuliers, et comme membre de l’Etat envers le Souverain” (Ivi, p. 362).

63 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 96.

64 Torna a farsi evidente la centralità del dualismo dell’antropologia di Rousseau: saranno infatti ragione e coscienza che, insieme, indirizzeranno all’esercizio della virtù e al controllo delle passioni, rappresentando rispettivamente la fonte delle indicazioni e il loro movente.

65 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 245.

66 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 284.

67 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 374.

68 Ivi, p. 427.

69 Ivi, pp. 364-365.

70 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 19.

71 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 4.

72 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 81.

73 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 66.

74 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 81.

75 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 66.

76 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 150.

77 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 364.

78 S. Maffettone, Repubblicanesimo, in “Filosofia e questioni pubbliche”, cit., p. 61.

79 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 355.

80 Ivi, p. 42.

81 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 248-249.

82 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. 95-96.

83 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 49.

84 Cfr. Ivi, p. 48.

85 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 25

86 Ivi, pp. 23-24.

87 J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 112.

88 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“Du pacte social”], cit., p. 484.

89 J.J. Rousseau, Ivi, [“Des loix”], cit., p. 492.

90 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 446.

91 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 53.

92 Ivi, p. 56.

93 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’honneur et de la vertu”], cit., p. 501.

94 In questo senso Taylor parla di Rousseau “come uno dei progenitori del discorso sul e del riconoscimento […], perché comincia a riflettere seriamente sull’importanza dell’uguale rispetto e anzi lo considera indispensabile per la libertà” (J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it. L. Ceppa e G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1999, p. 31). A suo avviso infatti il filosofo francese rappresenta in primo luogo colui che ha contribuito decisivamente allo “spostamento dell’accento morale” verso la “voce interiore” e il “contatto coi propri sentimenti”, favorendo in tal modo la nascita della nozione di autenticità: “Rousseau presenta ripetutamente la moralità come il seguire una voce naturale che è dentro di noi; spesso questa voce è sommersa dalle passioni indotte dalla nostra dipendenza dagli altri, la principale delle quali è l’orgoglio o amour propre. La salvezza morale viene dal recupero di un contatto morale autentico con se stessi; Rousseau dà addirittura un nome a quel contatto intimo con sé, più fondamentale di qualsiasi idea morale, che è la fonte di una gioia e di una appagamento così grandi: ‘le sentiment de l’existence’” (Ivi, p. 14). Su questo contatto morale autentico con se stessi, lontano dall’orgoglio egli può costruire “una reciprocità perfettamente equilibrata [che] rende innocua la nostra dipendenza dall’opinione e la fa essere compatibile con la libertà” (Ivi, p. 34).

95 Il problema consiste nell’individuare gli strumenti adeguati per affermare una sovranità che garantisca il rispetto dei diritti individuali senza ricorrere alla strategia del costituzionalismo, quella strategia che, dividendo i poteri, rende impossibile, per Rousseau l’istituzione di una vera sovranità. Si viene però a creare in Rousseau una sorta di circolo vizioso: egli parla infatti di una autolegislazione da parte del popolo sovrano, ma si accorge della difficoltà di pensare un popolo sempre sufficientemente “illuminato” e “saggio”. Se bisogna prendere “gli uomini come sono” è chiaramente controfattuale pensare che la garanzia del rispetto dei diritti individuali e in generale l’attuazione di decisioni che non cadano mai nell’arbitrio possa essere affidata soltanto alla “virtù pubblica” di un sovrano che è fatto, come Rousseau stesso riconosce, non di “dei”, ma di “esseri umani”, fragili, fallibili, soggetti alle passioni.

96I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 81.

97 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 93.

98 Cfr. Ivi, pp. 86-87.

99 Cfr. M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 21.

100 Ivi, p.13.

101 “Chacun de nous met en commun sa personne et toute sa puissance sous la suprême direction de la volonté générale; et nous recevons en corps claque membre comme partie indivisibile du tout. A l’instant, au lieu de la personne particuliere de chaque contractant, cet acte d’association produit un corps moral et collectif composé d’autant de membres que l’assemblée a de voix, lequel reçoit de ce même acte son unité, son moi commun, sa vie et sa volonté. Cette personne publique qui se forme ainsi par l’union de toutes les autres prenoit autrefois le nom de Cité, et prend maintenant celui de Republique ou de corps politique” (J.J. Rousseau, Du contract social, cit., pp. 361-362).

102 “Mais quand les citoyens aiment leur devoir, et que les dépositaires de l’autorité publique s’appliquent sincérement à nourrir cet amour par leur exemple et par leurs soins, toutes les difficultés s’évanouissent” (J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 253-254).

103 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 167.

104 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 355.

105 A questo tema è dedicato l’ottavo capitolo del libro primo del Contratto soiciale.

106 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’honneur et de la vertu”], cit, p. 504-505.

107 S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, tr. it. R. Giannetti, Il Mulino, Bologna 1996, p. 540.

108 R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. XVI-XVII.

109 J.J. Rousseau, Emile, cit., p. 503.

110 S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, cit., pp. 92-93.

111 Ivi, p. 547.

112 J.J. Rousseau, Lettre à D'Alembert, in Oeuvres complètes, cit., p. 96.

113 P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 9.

114 R. Gatti, L'enigma del male. Un'interpretazione di Rousseau, Studium, Roma 1996, pp. 73-74.

115 Interessante proprio riguardo al legame tra passioni, identità e autenticità il testo di Elena Pulcini, L’individuo senza passioni, che, proprio relativamente a Rousseau, così si esprime: “Rousseau mostra […] che le passioni acquisitive e competitive generano, in virtù della coazione all’appropriazione alimentata dal bisogno di distinzione e di riconoscimento, la nascita di una falsa identità, di un’identità distorta e inautentica. A questa, Rousseau oppone l’immagine di un Io autentico, che è capace di dar vita a un legame sociale fondato su uguaglianza e giustizia, uscendo dalla dinamica delle passioni acquisitive e riattivando quelle che si propone qui di chiamare passioni comunitarie” (E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 13).

tratto da http://bfp.sp.unipi.it/art/alici.html

nuvolarossa
19-05-08, 17:58
Repubblicanesimo tra teoria, storia e prassi

Riprendiamo insieme la lettura di alcuni brani del libro di Philip Pettit, Repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, recentemente tradotto in italiano per i tipi della Feltrinelli, unitamente all’intervento che appare su queste stesse pagine. Si tratta di testi che, insieme con i lavori di Maurizio Viroli, Quentin Skinner, Robert Dahl, John G. A. Pocock (solo per citare alcuni nomi), sembrano collocare a pieno titolo il repubblicanesimo come autentica “terza via” fra liberalismo e comunitarismo, dove per “terza via” non intendiamo affatto la strada sfumata del compromesso, ma, piuttosto, un’alternativa: diversa sia dal socialismo “classico”, sia dal capitalismo senza regole.

Abbiamo del resto già avuto occasione di riaffermare in altra occasione (sul n. 4/99 del “Pensiero mazziniano”), riferendoci a un saggio di Marcello Veneziani, come nel panorama italiano e in quello occidentale non sembri pienamente soddisfacente una semplice alternativa impostata sul binomio Comunitari o liberal. Intanto, perché questa diade taglia in modo piuttosto ambiguo gli schieramenti politici europei, incentrati ancora sulla contrapposizione destra/sinistra, attraversata da influssi non secondari di tipo religioso, nonché dal retaggio socialista e post-comunista. In secondo luogo perché a noi pare che la contrapposizione tra comunitarismo e liberalismo non risolva il tema della complessità delle nostre società tecnologicamente avanzate se non con un’ansia di semplificazione che sembra almeno paradossale nell’epoca di internet, della comunicazione globale, delle nuove, possibili, forme di partecipazione.

Il lavoro di Pettit, da questo punto di vista, pone questioni ineludibili per tutti i teorici della politica e lo fa partendo da quella concezione della libertà, intesa come assenza di dominio (e non solo di interferenza), che tanto ha fatto discutere e tante critiche in Italia ha portato al Repubblicanesimo di Viroli. Un tema quindi su cui ci siamo abbondantemente soffermati e che i nostri lettori hanno già acquisito, così come hanno ben chiara la necessità di unire a questo concetto basilare quello di uguaglianza, di virtù civica, di partecipazione alla vita comunitaria; con la democrazia non solo ferma al consenso (che può assumere connotazioni “di passività”) ma anche in grado di prevedere la contestabilità, nel continuo gioco dialettico del controllo tra rappresentati e rappresentanti.

Ci sentiamo dunque di ripetere, con maggior forza, alla luce delle considerazioni di Pettit, la domanda che andiamo da tempo proponendo: perché ostinarsi a non attingere, se non per motivi di “immagine”, dall’immenso patrimonio socio-culturale incarnato dal repubblicanesimo? Il nostro appello deriva dalla convinzione intima che la caduta del muro di Berlino non abbia affatto automaticamente eliminato le contraddizioni che il repubblicanesimo storico ha denunciato negli ultimi due secoli, insieme, e spesso in polemica, col socialismo. Ma è proprio da queste analisi retrospettive, nel contempo vivificate dal continuo confronto con gli avvenimenti, che l’Occidente può ritrovare l’etica e gli strumenti per seguire una crescita economica, scientifica e sociale che si presenta foriera di tensioni, rischi di disgregazioni, cadute di valori e di professionalità, mancanza di progettualità a medio-lungo termine, incremento della violenza e della criminalità, forte divaricazione tra possessori di conoscenze tecniche e “nuovi analfabeti” che non possono accedere alle tecnologie imperanti e “potentissime”. Risultano così incrementati i dislivelli sociali e alle difficoltà nell’usufruire razionalmente delle scoperte scientifiche consegue il rischio di ricadere nelle fauci del rigetto oscurantista, sotto la spinta congiunta di religioni ufficiali, sette, movimenti millenaristi, “irrazionalismi” di ritorno. Molte novità, nel campo delle scienze e delle tecniche vengono metabolizzate con estrema lentezza e sovente comunque male, anche perché, non si è finora costituito un fronte di opposizione alla predominante “cultura della paura”, retaggio di secoli e secoli di pratiche di dominio, incluso quello religioso, che si sono alimentate e conservate instillando quotidianamente nel nostro d.n.a. dosi massicce di terrori vari, a cominciare proprio dalla paura della conoscenza e dell’applicazione delle conoscenze, considerata talvolta come “contronaturale”.

Non vi può essere libertà laddove esiste la paura. Perché la paura, qualunque sia la sua causa, rende gli uomini dipendenti da coloro che, per un motivo o per un altro, posseggono, o mostrano di possedere, gli strumenti atti ad esorcizzarla: maggiori informazioni in tema di religione, organizzazione sociale, scienza, ecc. Il repubblicanesimo da questo punto di vista ha offerto e offre validi antidoti: distingue il processo educativo (a cui tutti dovremmo tendere), frutto di un atto individuale e libero, dall’istruzione che è lo strumento di base per potere educarsi; auspica una politica economica che lasci spazio alle libertà individuali garantendo nello stesso tempo ai meno fortunati il minimo indispensabile per poter esercitare la libertà; si propone da sempre come strumento di partecipazione per antonomasia, mezzo atto a favorire la diffusione capillare e interattiva delle informazioni. Per questa ragione i repubblicani sono a favore dell’istruzione pubblica, che non ha pretese di assurgere a mezzo esclusivo di educazione e nemmeno dovrebbe scadere al rango del mero addestramento; si battono contro le varie forme monopolistiche, incluse quelle statali; grazie alle analisi svolte a suo tempo dai vari Tocqueville, Mazzini, Cattaneo hanno offerto contributi essenziali per superare la confusione concettuale tra federalismo, confederalismo, autonomismo, regionalismo, individualismo oggi ancora imperante.

Alla luce di quanto premesso, soffermiamoci ora su un altro punto della vasta analisi pettitiana e precisamente laddove lo studioso propone una netta precisazione secondo cui “i pensatori repubblicani hanno giudicato la partecipazione o la rappresentanza democratica non come il suo nucleo essenziale, ma come uno strumento di salvaguardia della libertà” (p. 42). Espressione corretta formalmente, ma che a nostro avviso merita una interpretazione diacronica, in quanto, se lasciata isolata (errore che peraltro l’autore non commette), rischia di trovare contraddizioni insormontabili nell’atto della definizione-coniugazione delle virtù civiche, dell’uguaglianza sociale, del ruolo della legge. Il concetto di partecipazione è infatti strettamente connesso a quello di responsabilità, a sua volta indissolubilmente legato a quello di non dipendenza, poiché si è indipendenti se si è responsabili socialmente; la qual cosa implica necessariamente il diritto dovere di partecipare. D’altronde lo stesso Pettit, di fronte al cruciale problema di stabilire se un interesse o un’idea sia o meno patrimonio comune di una comunità, chiarisce molto bene che il test operativo suggerito dalla tradizione consiste nello stabilire se questi interessi e se queste idee sono di carattere “particolaristico o fazioso”. In che modo? Col “ricorso a una discussione pubblica in cui le persone possano parlare per sé e per i gruppi cui appartengono” (p. 73). Cioè con la partecipazione, che assume quindi il ruolo fondamentale di vestale della libertà. Nell’epoca moderna una tal forma di partecipazione non sarebbe ovviamente nemmeno immaginabile se qualcuno detenesse il monopolio dei mezzi di informazione.

A latere di questo aspetto cogliamo la palla al balzo per riproporre a Pettit un interrogativo che abbiamo ascoltato nel corso di alcune discussioni svoltesi in Italia: perché in un libro sul repubblicanesimo non compare il nome di Giuseppe Mazzini? Né, aggiungiamo noi, quello di Carlo Cattaneo? Una semplice dimenticanza spiegabile col “gioco” delle citazioni indirette? Viroli, ad esempio, abbondantemente menzionato in questo volume, si è avvalso efficacemente di alcune opere importanti di questi repubblicani che a nostro parere contribuirebbero in maniera determinante a chiarire (e, in altri casi, a rafforzare) alcune delle tesi sostenute da Pettit, a cominciare dallo stimolante dialogo a distanza con Skinner sulla teorica dei diritti (pp.356ss).

Un altro punto degno di riflessione, riconducibile al nostro ragionamento, è la possibile convivenza tra repubblicanesimo e istituto monarchico. Facendo riferimento alla tradizione del commonwealth, Pettit si dimostra possibilista, una volta che il monarca sia “costituzionalmente limitato”.

Ma è possibile sancire una condizione di non dominio e istituzionalizzare nel contempo un privilegio ereditabile? E poi, nel migliore dei casi, a cosa servirebbe la forma monarchica per le finalità repubblicane?

In Italia è in corso una curiosa polemica, sull’opportunità o meno di consentire ai Savoia di far ritorno in Italia. Il punto di vista repubblicano, in prospettiva, potrebbe anche essere possibilista, poiché le eventuali colpe dei padri non dovrebbero comunque ricadere sui figli, in base a un codice di civiltà ormai comunemente accettato. La repubblica forte, inoltre, può essere generosa e dar voce anche a coloro che ne contestano la legittimità. Ma, a parte le considerazioni di opportunità e di legittimità costituzionale (che in questa sede non possiamo esaminare e sulle quali rimandiamo al comunicato congiunto, redatto da Maurizio Viroli e da Roberto Balzani, pubblicato in questo stesso numero), non pare per lo meno curioso che a formulare la richiesta siano proprio i fautori della dinastia? Secondo il codice di queste persone sarebbero forse trasmissibili di generazione in generazione solo i privilegi e non gli oneri e le colpe che, nel caso dei Savoia, riguardano le responsabilità nella promulgazione delle leggi razziali, i rapporti col fascismo, la dichiarazione di guerra a fianco della Germania nazista, ecc. Quale diritto e quali leggi possono derivare alla collettività partendo da simili presupposti?

Ci rendiamo perfettamente conto che queste ultime tematiche non costituiscono il fulcro centrale del dibattito sul repubblicanesimo e l’impianto del libro di Philip Pettit, teniamo a ribadirlo, è ben solido e da noi largamente condiviso, ma occorre pure sottolineare come qualche ambiguità o alcuni “equivoci”, come quelli appena sottolineati, possano contrassegnare in qualche modo una sorta di distanza tra teoria e prassi, fra principi dichiarati e azione politica quotidiana conseguente. Uno iato che, alla lunga, può relegare il repubblicanesimo al rango di più o meno obsoleta teoria politica (le affermazioni di Michael Walzer su questo argomento devono far meditare) anziché al ruolo cui giustamente ambisce: quello di configurarsi come teoria di libertà e di governo atta a fornire la base per una teoria costituzionale dello stato. Sul piano concettuale, e da questo punto di vista condividiamo la tesi esposta da Luca Baccelli in Che fare del repubblicanesimo? (“Filosofia e questioni pubbliche”, vol. V, n. 1/2000, p. 98), ci pare importante al proposito affiancare sistematicamente alla storia dell’idea repubblicana la storia dell’azione repubblicana, anch’essa dalle profonde radici, atta a fugare dubbi interpretativi, ad esorcizzare i fantasmi totalitari e soprattutto a fornire l’idea di un repubblicanesimo capace di proporre strumenti pratici. Una storia che, almeno per quanto concerne la parte italiana, e contrariamente a quanto vanno affermando alcuni nostalgici dei tempi del papa re, rappresenta una valida base etica e di riferimento per gli stati di questo inquieto Occidente e per la costruzione dell’Europa.

Sauro Mattarelli

tratto da http://www.domusmazziniana.it/ami/pm/zero3/mattar.htm

kid
20-05-08, 10:12
trovo sempre formidabili questi studiosi che leggono Russeau non come il battistrada dell'autoritarismo e della dittatura, ma come alfiere di libertà e repubblicanesimo. Anche quella sovietica era una repubblica e a rousseau sta benissimo. Hobbes almeno non contrabbanda il totalitarismo come una conquista morale dell'umanita come fece invece il signor rousseau. Trovo formidabile l'Alici come esempio di uno che ha studiato un sacco di cose e non ne ha capito niente.

nuvolarossa
31-05-08, 14:15
Repubblicanesimo, primato di virtù civili e utopie
Il dibattito scaturito in Inghilterra sui confini con il liberalismo sta generando confusioni dannose
La differenza tra i due modelli sta nella diversa concezione del rapporto tra individuo e istituzioni
La tradizione recupera l'enfasi alla partecipazione politica

Il dibattito filosofico sulla teoria politica contemporanea è spesso falsato da un'assunzione condivisa quanto erronea. L'assunzione è quella secondo cui vivremmo in una fase politica di crisi delle ideologie. Ora, posto che sulle parole bisogna intendersi, se con ideologia noi intendiamo, come da consuetudine, un sistema integrato di idee politiche che si propone come risposta ai grandi quesiti del proprio tempo storico, allora non è per niente vero che noi viviamo un periodo di assenza o vuoto ideologici. Al contrario, perlomeno al livello accademico e più in generale delle istituzioni culturali più importanti del mondo industriale avanzato, esiste un predominio forte e marcato di un'ideologia specifica, il liberalismo progressista ed egualitario.
E' difficile proporre dati statistici per un fatto del genere, ma in ogni modo una simile evidenza è accettata da tanti studiosi della politica che è difficile dubitarne. Naturalmente, una volta compreso questo, ciò non vuol dire che sotto l'ombrello liberal (per dirla all'inglese) si viva felici o, più modestamente, che non ci siano problemi teorici di grande spessore. Si tratta spesso di problemi che riguardano l'impatto di un modello universalistico, come quello liberale, con la particolarità delle culture e delle tradizioni, oppure con la specificità delle motivazioni e la ricchezza delle differenze, con cui deve necessariamente confrontarsi. Da questo complicato confronto, vengono le critiche comunitariste, femministe e tradizionaliste al liberalismo. E adesso anche le critiche cosiddette repubblicane.
La prima conseguenza di un quadro teorico-politico del genere consiste nel fatto che - se il nostro scopo è quello di valutarne la portata e il senso - non è facile tenere conto di tutta la ricchezza storica e teorica del paradigma repubblicano. La tradizione repubblicana si richiama fondamentalmente a una visione garantista del diritto, a una concezione essenzialistica del bene comune, all'appello ai valori di indipendenza del cives. In ambito anglosassone, da cui proviene molto dell'attuale dibattito sul repubblicanesimo anche in Europa continentale, non esisterebbe poi una sola concezione repubblicana, ma almeno due, di cui una più aristotelica e l'altra più pluralista. La prima grosso modo potrebbe farsi risalire a una linea Arendt- Pocock, e la seconda a una linea Skinner-Pettit, per citare solo alcuni degli autori più significativi. Nella misura in cui le due tradizioni possono considerarsi insieme sotto l'etichetta "repubblicanesimo", diritti e bene comune evocano una versione forte della cittadinanza e un'enfasi spiccata sull'anti-autoritarismo.
Se poi ci accontentiamo di una versione mista tra le due, allora abbiamo il vantaggio di poter includere in parte anche la versione francese di repubblicanesimo filosofico, che è notoriamente assai nazionalista e ispirata ai principi del 1789, e anche quella italiana, divisa tra chi si rifà a un rinnovato paradigma, di ispirazione rousseauviana, basato sull'idea di "religione civile" (come Gian Enrico Rusconi) e chi riprende invece Machiavelli e Skinner (come Maurizio Viroli).E forse anche quella germanica, che è del resto discutibile assimilare al repubblicanesimo in maniera così diretta, e che fa capo alla scuola della storia dei concetti politici (a cominciare da Kosellek) e al neoaristotelismo.
La differenza centrale tra repubblicanesimo e liberalismo - così sostengono a esempio Skinner e Pettit - consiste in una concezione diversa della libertà e del rapporto tra individuo e istituzioni. Da questo punto di vista, l'idea dell'uomo repubblicano come libero in quanto opposto al servus viene fatta risalire ad almeno due fonti diverse. Autori classici, come Polibio, Livio e soprattutto Cicerone avrebbero fornito la prima idea di una virtù civile come elemento essenziale della partecipazione alla res pubblica, che proprio per questo diviene, per Cicerone, res populi. Mentre l'idea garantista ed egualitaria del diritto, l'idea cioè di un governo della legge, risalirebbe ai moderni, come Montesquieu e soprattutto il Rousseau del Contratto sociale. Insieme, queste due formulazioni originarie darebbero luogo a un impianto teorico fortemente orientato al conflitto contro il potere politico assoluto in nome di una libertà repubblicana basata sulla virtù civile.
Questa impostazione sarebbe a sua volta evidente nel Machiavelli dei Discorsi e in genere nella tradizione politica italiana del Cinquecento, nel pensiero britannico del periodo rivoluzionario a cominciare da Harrington, nella teoria politica americana dei padri fondatori della Repubblica a partire da Madison.
Come spesso capita, è difficile distinguere il recupero di una tradizione più o meno sommersa, come questa repubblicana, da una costruzione contemporanea originale alla ricerca di plausibili predecessori. Da questo punto di vista, la tradizione repubblicana viene di solito letta anche alla luce di interessi teorici e politici polemici verso il liberalismo filosofico-politico. Così, c'è una forte enfasi anti-teoretica nel quadro ricostruttivo del repubblicanesimo. Alla teoria, viene contrapposta ora la storia (Kosellek), ora la retorica (Skinner) ora la politica e di conseguenza si preferisce recuperare Polibio, Aristotele e Cicerone oppure Machiavelli, secondo quale di queste prospettive critiche si prediliga.
Per quanto mi riguarda, e per le ragioni già esposte, in un Forum pubblicato nell'ultimo numero della rivista "Filosofia e questioni pubbliche" e dedicato al repubblicanesimo ho evitato di considerare il paradigma repubblicano nel suo complesso, ma solo alcuni suoi aspetti che riguardano essenzialmente la polemica che esso muove nei confronti del liberalismo filosofico. Con quest'ultima dizione. intendo il liberalismo teorico-politico, soprattutto quello influenzato dal pensiero di Rawls. Non c'è ragione particolare per una scelta siffatta, se non la grande diffusione delle tesi rawlsiane tra i filosofi politici e insieme l'interesse a delimitare il campo onde evitare confusioni. Proprio nell'ottica di evitare confusioni dannose, bisogna anche ricordare che liberalismo e repubblicanesimo sono paradigmi filosofico-politici in parte notevole sovrapponentesi, indipendentemente dal fatto che si desideri considerare il primo come una variante storica del secondo oppure il secondo come un risultato critico del primo.
In quest'ottica, il repubblicanesimo critica il liberalismo non solo in nome di un primato della virtù civile, ma anche in nome di un recupero della partecipazione politica. L'appello di virtù civile appare però più legato alla retorica che alla teoria politica, e non c'è dubbio che qualsiasi filosofia presuppone una propria visione della virtù civile, potenzialmente in conflitto con quelle altrui. Per quanto riguarda la seconda obiezione, invece, il liberalismo filosofico si presenta soprattutto come una teoria della giustizia, tesa a stabilire i fini ultimi di un sistema istituzionale nonché le ragioni per cui gli individui dovrebbero accettare proprio quei fini. Da questo punto di vista. si dice talvolta da parte repubblicana, la partecipazione e la passione politica non sono adeguatamente considerate. Può essere. Ma il nostro secolo ci ha dimostrato che spesso e volentieri la partecipazione politica è al servizio di regimi autocratici. e certamente noi non possiamo auspicare qualcosa del genere. Da queste considerazioni, deriva la mia impressione conclusiva, secondo cui se il repubblicanesimo si pone come una terapia al capezzale di un malato, proprio il liberalismo, allora ci sono forti rischi che il rimedio sia peggiore del male.

SEBASTIANO MAFFETTONE

tratto da http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/000223g.htm

jmimmo82
03-06-08, 12:07
Da questo punto di vista. si dice talvolta da parte repubblicana, la partecipazione e la passione politica non sono adeguatamente considerate. Può essere. Ma il nostro secolo ci ha dimostrato che spesso e volentieri la partecipazione politica è al servizio di regimi autocratici.
Forse Maffettone ignora che l'alta considerazione della partecipazione alla vita politica, nei repubblicani, fa il paio con la critica durissima al potere "arbitrario" ed assolutista dei governanti. Io credo ne sia l'antidoto, poiché responsabilizza il cittadino e lo istruisce ai valori della repubblica inculcandogli gli strumenti percettivi necessari ad avvertire il puzzo incombente dell'assolutismo ed a rigettarlo via in tempo con maggiore decisione di quanta ne possa avere il liberale apatico con la politica, materialista e superficiale.