Visualizza Versione Completa : Esoterismo dantesco
Tomás de Torquemada
20-03-02, 02:40
Dante e l’Islam
Giordano Berti - scrittore, saggista, direttore dell'Istituto di Ricerca sulle Arti e il Folclore A. GRAF" di Bologna
Il rapporto tra il “divino poeta” e la “gente turpa” ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, ma la questione delle fonti arabo-musulmane della Divina Commedia non è risolta. A ottant’anni dalle prime stupefacenti rivelazioni di Asín-Palacios è necessario fare il punto sulla situazione.
Nel 1919 un sacerdote spagnolo, Don Miguél Asín-Palacios, dotto islamista, docente all’Università di Madrid, pubblicò i risultati di una sua lunga ricerca: La Escatologia Musulmana en la Divina Comedia. In sintesi, lavorando su testi arabi fino ad allora quasi sconosciuti in Occidente, Asín-Palacios rilevò la somiglianza tra numerosi elementi simbolici presenti nella Commedia dantesca e certi racconti arabi sull’Aldilà, in particolare quello del miraj, l’ascensione al cielo di Maometto. Addirittura, lo studioso spagnolo arrivò ad affermare che lo spirito stesso della Commedia è di ispirazione musulmana.
In realtà, un possibile legame tra la Commedia e la letteratura araba era stato già ipotizzato dall’abate spagnolo J. Andrès (1782) le cui vaghe intuizioni furono poi raccolte dal letterato italo-francese A. F. Ozanam (1839) e riformulate dallo storico delle religioni E. Blochet (1901). Nessuno però, fino ad Asín-Palacios, aveva individuato precise concordanze del capolavoro dantesco con opere di origine musulmana. Troppo chiara la mentalità del poeta, ispirata alla Scolastica cristiana e in particolare a S. Tommaso d’Aquino; troppo netti i giudizi negativi riguardo al fondatore dell’islamismo espressi da Dante nell’Inferno (vedi Scheda 1). E poi bisogna considerare che il poeta si vantava di discendere da Cacciaguida (†1147 ca.) il quale, stando al resoconto dantesco, aveva combattuto per riaffermare il diritto cristiano alla Terrasanta ed era morto per mano di quella “gente turpa”, cioè i musulmani (Paradiso, XV, 139-148). Perciò l’opera del sacerdote spagnolo venne accolta con scetticismo dagli studiosi danteschi, a quell’epoca ancora fortemente condizionati da pregiudizi cristiano-centrici.
Comunque, le teorie di Asín-Palacios ebbero il merito di aprire le porte a un filone di ricerca fino a quel tempo trascurato. Tra i tanti studiosi va citato almeno l’orientalista G. Gabrieli che, pur essendo contrario alle nuove teorie, nel suo Dante e l’Oriente (1921) distrusse una serie di luoghi comuni sulla presunta incomunicabilità tra cristiani e musulmani in epoca medioevale. Negli anni seguenti, numerosi critici sottolinearono chi la debolezza, chi la forza probatoria del materiale raccolto in La escatologia musulmana, ma entrambe le posizioni sembravano equivalersi. Su un altro versante gli studiosi di esoterismo, in testa a tutti R. Guénon con un capitolo del suo L’esoterisme de Dante (1932), accolsero favorevolmente le tesi del sacerdote spagnolo in nome di una presunta iniziazione templare del poeta fiorentino, da cui sarebbero derivate conoscenze ermetiche, pitagoriche e gnostiche; ma queste precisazioni non hanno alcun peso storico. Solo nel secondo dopoguerra l’opera di Asín-Palacios cominciò a essere vista sotto una nuova luce allorché un altro orientalista spagnolo, J. Muñoz-Sendino, e un italiano, E. Cerulli, rivelarono l’esistenza due codici, conservati uno alla Biblioteca Bodleiana di Oxford e l’altro alla Nazionale di Parigi, contenenti una versione francese e una latina del miraj maomettano, rispettivamente intitolate Livre de l’Eschiele Mahomet e Liber Scalae Machometi. Ma a questo punto si rende necessario parlare del “viaggio ultraterreno” del Profeta dell’Islam.
Dal miraj al Libro della Scala di Maometto
Nel Corano esistono due riferimenti all’isra, il viaggio notturno di Maometto (Sura 17:1 e Sura 53: 5), che sulla base di alcuni “detti” e ai relativi commenti ispirarono la leggenda del miraj, l’ascensione al cielo del Profeta. La versione più antica risale al sec. IX: eccone un breve resoconto. Una notte Maometto viene svegliato dall’Angelo Jibrail e portato a Gerusalemme a cavallo della giumenta Buraq. Entra nel Tempio e vede una scala fatta con pietre preziose, vi sale sopra e durante l’ascesa incontra gli angeli guardiani dai quali riceve le prime rivelazioni sull’Aldilà. Poi attraversa i sette cieli e vede i Profeti che l’hanno preceduto: Giovanni e Gesù, Giuseppe, Enoc ed Elia, Aronne, Mosè, Abramo, Adamo. Quindi, assieme a Jibrail sale nell’Ottavo cielo ed entra in Paradiso dove ha modo di vedere le schiere dei Cherubini, il Trono divino sorretto dal Tetramorfo e la Tavola con i nomi degli esseri che nascono e muoiono. Quindi entra nei giardini delle delizie e incontra le Huri, splendide fanciulle promesse a coloro che in vita hanno rispettato la Legge divina; vede alberi carichi di frutta e fiumi; assieme all’Angelo Ridwan visita palazzi di cristallo adorni di pietre preziose; incontra la comunità dei beati e riceve rivelazioni sul Giudizio finale. Sono evidenti le molteplici somiglianze con le tappe celesti del viaggio dantesco.
In una seconda versione del miraj, che Asín-Palacios ritenne coeva alla precedente, si aggiunge l’episodio dell’incontro di Maometto, nel Terzo cielo, con un angelo gigantesco e terrificante, divino vendicatore delle offese umane e guardiano dell’abisso infernale. L’angelo mostra al Profeta i sette piani dell’Inferno elencando minuziosamente le categorie dei dannati e i diversi supplizi a cui sono destinati. Questi piani, e la stessa forma ad imbuto dell’Inferno che si inabissa fino al centro della Terra, così come la legge di contrappasso che determina la punizione dei peccatori in base ai loro delitti, sono visti da Asín-Palacios come modelli per l’Inferno dantesco.
Una terza versione, oltre a essere la più complessa e articolata è anche quella che mostra le maggiori analogie con la Commedia dantesca non solo per l’itinerario celeste e infernale, ma ancor più per certe immagini simboliche. Per esempio il gigantesco gallo incontrato dal Profeta, paragonato da Asín-Palacios all’aquila vista da Dante nel cielo di Giove. E poi i cerchi concentrici degli angeli che, ordinati gerarchicamente, roteano attorno al Trono divino come nella visione dantesca. Ma le analogie più sorprendenti, secondo Asín-Palacios, si ritrovano nei fenomeni psicologici dell’itinerario celeste; per esempio, sia Maometto che Dante, trovandosi dinanzi alla luce divina, sentono la vista offuscata e temono di diventare ciechi; come Dante, anche il Profeta si sente incapace di descrivere quella visione e in seguito ricorda solo una specie di “sospensione” dell’animo.
http://www.itinerariafvg.it/images/dante_divinacommedia2.jpg
Particolare da Dante, Divina Commedia codice guarneriano 200, fine XIV secolo, c. 2r - Biblioteca Guarneriana, San Daniele del Friuli (UD) - Immagine tratta dal sito http://www.itinerariafvg.it/
Stante la somiglianza strutturale e per certi versi contenutistica tra la Commedia e questi racconti, occorre venire al capitolo “prove”. In che modo Dante arrivò a conoscere l’opera musulmana? .
Secondo Asín-Palacios, il poeta fiorentino avrebbe potuto sentirne parlare da qualche viaggiatore o addirittura dal suo maestro Brunetto Latini (†1294), ambasciatore per alcuni mesi in Spagna nel 1260, poi esiliato in Francia fino al 1265. L’ipotesi non è del tutto inverosimile tenendo conto dell’importanza della tradizione orale come veicolo di trasmissione interculturale. D’altra parte, e questo è un fatto assodato, nei secoli XII-XIII l’Europa è presa da una vera e propria “moda musulmana” che spaziava dalla favolistica all’abbigliamento, dalle armi ai profumi, dai giochi alle ricette gastronomiche, per non parlare degli apporti arabi alle scienze e alla filosofia, specie con Avicenna e Averroè, posti dallo stesso Dante nel Limbo assieme a altri grandi personaggi della storia (Scheda 2)
Nuove prove a favore di Asín-Palacios
A dare nuovo slancio alle teorie di Asín-Palacios giunsero, come si è accennato più sopra, gli studi di Muñoz-Sendino e Cerulli, entrambi pubblicati nel 1949 e basati sulla scoperta di due versioni del Libro della Scala di Maometto. I due manoscritti furono eseguiti, com’è scritto in entrambi sul primo foglio, da un certo Bonaventura da Siena il quale tradusse la versione castigliana eseguita nel 1264 da Abraham Alfaquim, un medico ebreo, per volontà di re Alfonso X “il Saggio” (†1284). Il testo latino, tra l’altro, è anche inserito in una miscellanea filosofico-scientifica conservata alla Biblioteca Vaticana. Le due versioni, francese e latina, giunsero probabilmente in Italia prima della fine del Duecento. Tra l’altro, si trova una espressa citazione del Libro della Scala in un poemetto enciclopedico, Il Dittamondo, scritto tra il 1350-60 dal poeta toscano Fazio degli Uberti.
Sulla base di queste scoperte, Muñoz-Sendino non esitò a affermare che la Commedia prese come modello il Libro della Scala di Maometto. D’altra parte Cerulli, dopo avere rilevato analogie puntuali o strutturali tra le due opere, riaffermò giustamente la confluenza nel testo dantesco di fonti diverse, non solo musulmane, ma anche miti greci, vicende bibliche, narrazioni apocrife, testi agiografici, visioni di monaci; ma su questo argomento occorrerebbe un articolo a se stante. Comunque, Cerulli arrivò ad ammettere uno degli elementi d’imitazione più rilevanti notati a suo tempo da Asín-Palacios, e cioè “il concetto di ascesa dell’anima individuale nei regni ultraterreni, come allegoria della purificazione graduale dell’uomo”; un elemento, questo, che fin dal sec. VIII costituisce il motivo di fondo di numerosi racconti mistici ispirati al miraj di Maometto (vedi Scheda 3). A uno di questi racconti si ispirò certamente un’opera cristiana redatta in Spagna, o forse in Sicilia, alla fine del sec. XII, e resa nota da M. T. D’Alverny in Les pérégrinations de l’âme dans l’autre monde (1940-42). L’anonimo redattore, che aveva molta familiarità con la filosofia neo-platonica e con i commenti avicenniani ad Aristotele, prospettava un’ascensione al Paradiso dell’anima, dopo la morte, e una discesa all’Inferno. L’ascensione consiste in due stazioni di dieci gradi ciascuna che rappresentano una progressiva purificazione interiore e poi la visione dei dieci cori angelici, corrispondenti allo schema avicenniano delle Dieci Intelligenze. Anche la discesa all’Inferno è divisa in dieci gradi, cioè le consuete dieci sfere astronomiche, che però sono rette da spiriti malefici.
Questa informazione servì a Cerulli per dimostrare ulteriormente che nel primo Duecento si era giunti, anche nel mondo cristiano, “alla concezione di un viaggio filosofico dell’anima nell’Oltretomba del tutto diverso dalle modeste trovate dei cantori popolari che sogliono essere indicati come precursori di Dante”.
È quindi possibile che Dante avesse letto una versione del Libro della Scala, tra le tante che circolavano in Europa alla sua epoca, o quantomeno che ne avesse conosciuto un sunto o una rielaborazione cristianeggiante.
Qualche precisazione necessaria
In seguito alle nuove ricerche svolte da Cerulli e pubblicate nel 1972, la confluenza nel testo dantesco di elementi tratti dalla letteratura musulmana non è più un’ipotesi ma un fatto accettato, con le dovute precisazioni, da quasi tutti gli studiosi di Dante. Da qui ad affermare che la Commedia dantesca sia una rielaborazione del Libro della Scala ce ne passa.
In effetti, come ho appena accennato, esistevano nel Medioevo altre narrazioni simili al Libro della Scala, in certi casi precedenti e comunque da esso indipendenti. Basti pensare all’Apocalisse di Paolo (scritta intorno al 431 e conosciuta anche come Visione di San Paulo), alla Visione di Alberico dei Settefrati (1130 ca.), alla Navigazione di San Brandano (sec. vii), alla Visione di Tugdalo (sec. xii), oltre a vari poemetti in volgare composti ai tempi di Dante, come La Gerusalemme celeste e Babilonia, città infernale di Giacomino da Verona, o come Il Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva, o anche il Libro dei Vizi e delle Virtù di Bono Giamboni. Anche queste opere vanno messe nel novero delle fonti certe della Commedia, senza tentare di fornire giudizi sulla priorità di questa o dell’altra in quanto, ed è bene precisarlo, l’opera di Dante dimostra conoscenze molto più vaste, oltre a un “respiro poetico” non riscontrabile nel testo musulmano e neppure nelle pie visioni dei monaci cristiani.
Dal sito Dal sito http://www.airesis.net/index.htm
Mi permetto di suggerire i seguenti testi:
Dante templare - 1987 - John R. L. - Hoepli - € 20,66
Dante templare e alchimista. La pietra filosofale nella Divina Commedia, Inferno - 1998 - Contro Primo - Bastogi Editrice - € 12,91
Exoterismo ed esoterismo nell'opera dantesca - 2001 - Bartolozzi Gabriella - Firenze Libri Atheneum - € 8,26
L'esoterismo di Dante - 2001 - Guénon René - Adelphi - € 7,23. Oppure lo stesso titolo della Atanòr - € 6,71
e infine non posso fare a meno di suggerire i capitoli III e V del volume La tentazione gnostica - Sear Edizioni - rispettivamente dal titolo "Dante tra il Tigri e l'Eufrate" e "Dante e l'Anima mundi".
Tomás de Torquemada
07-07-02, 00:34
Dante e i Templari
Una comune ricerca del Divino
Molto è stato detto sui contenuti velati di interesse politico ed esoterico sapienziale delle opere di Dante Alighieri. Per nominare i più importanti basterà citare i lavori di Rossetti e Aroux, di Valli e Guénon. Dante, come appartenente alla cerchia dei Fedeli d’Amore, ghibellino convinto e critico del papato dei suoi tempi, incorse nelle note vicende politiche fiorentine tanto che il suo impegno politico gli valse anche una condanna a morte, che fortunatamente i fiorentini non riuscirono a eseguire.
Va subito detto che contrariamente a quanto dice Rossetti, Dante rimane sempre il cristiano cattolico immerso nello spirito del suo tempo. Anche se non ebbe sempre un rapporto facile con la chiesa, mostra una costante ricerca della ortodossia. Questo venne riconosciuto con l’enciclica "In praeclara" del 30 aprile 1921 di papa Benedetto XV, in cui per la prima volta una persona non elevata all’onore degli altari ebbe il riconoscimento di una enciclica.
Dante esprime notevole rispetto per San Tommaso come anche per il suo antagonista intellettuale Sigieri di Brabante, la cui dottrina fu influenzata da concetti avverroistici e che ebbe grande influenza sui giovani adepti Templari. Dante attacca il papato non in quanto tale, ma in quanto istituzione degenerata, espressione di nepotismo e simonia, immersa nella lotta politica territoriale che ne fuorvia le intenzioni. Per Dante l’armonia universale richiede la coesistenza delle due forze complementari del papato e dell’impero, della vita contemplativa e attiva, simboleggiati dalla Croce e dall’aquila. Ogni male del mondo deriva dalla confusione dei ruoli di queste due entità, entrambe direttamente ricondotte ed istituite dalla grazia divina.
Così Dante vede l’origine della degenerazione della chiesa, della istituzione della Ecclesia Carnalis nella Donazione Costantiniana, fonte della sete di potere temporale della chiesa, e vi si oppone proprio perché sostenitore della chiesa vera, di quella Ecclesia Spiritualis cara ai gioachimiti ed ai francescani spirituali. Dante subisce in questo le influenze spirituali di Gioacchino da Fiore, abate Cistercense morto nel 1202, nella sua visione della chiesa corrotta. La lotta contro la chiesa decadente e simoniaca aveva del resto già trovato un sostenitore illustre in Bernardo da Chiaravalle, fondatore dei cistercensi e grande sostenitore dei Templari, ai quali trasmise la sua regola monastica.
In questo contesto il suo pensiero è pervaso da questo fervore purificatore che è in attesa del papa angelico, restauratore di una chiesa spirituale, in comunione con l’imperatore, guida materiale del mondo. A iniziare con le crociate del 1100, con i contatti della cristianità con il mondo musulmano e con la sapienza greca di cui era rimasto tutore, con il neoplatonismo e la gnosi, specialmente attraverso la corte palermitana dello svevo Federico II, imperatore illuminato, un fervore nuovo scuote l’Europa, per nulla immersa in un amorfo medioevo buio come vuole l’opinione corrente. Nasce alla corte palermitana la "poesia d’amore", allegoria per la devozione alla sapienza intesa in modo gnostico, e si estende poi verso la Toscana e l’Italia in toto.
Contemporaneamente gli studi filosofici nel mondo musulmano in Spagna raggiungono la Provenza, ove da tempo albergava una certa insofferenza al papato, e anche qui il canto per la Sophia, la Shekinah, prende le forme della canzone trobadorica d’amore. I Templari furono un anello di legame privilegiato tra le culture gnostiche cristiane, ebraiche e musulmane, data la loro posizione geografica ed i contatti che poterono tenere nel cuore spirituale delle tre religioni monoteiste, la sacra Gerusalemme. La spiritualità templare finì per coincidere in larga misura con la devozione all’amore sapienziale, e Dante non poteva rimanerne estraneo.
La sua massima attività come poeta coincide poi con avvenimenti drammatici della chiesa e dell’impero, scatenati dalla coincidenza di papati prettamente volti ai valori terreni come quello di Bonifacio VIII e Clemente V, alle aspirazioni alla corona imperiale della casa regnante di Francia nella persona di Filippo il Bello, ed alla crisi della istituzione della corona imperiale. Cade in quel periodo, come culmine di questa lotta, la celebrazione del concilio di Vienne con la seguente soppressione dell’Ordine dei Cavalieri del Tempio.
Anche se rimane incerto se Dante fu adepto laico dell’Ordine o ne fu simpatizzante esterno, è certo che tali avvenimenti non potevano non stimolare precise prese di posizione in un uomo come Dante. È comunque questa appartenenza almeno ideale di Dante all’ordine dei Templari la chiave dell’intera sua opera letteraria e soprattutto della Divina Commedia. Il poema ci si svelerà come dottrina prettamente templare della felicità. La gnosi templare di Dante è la vera "donna" del suo spirito fin dagli anni della giovinezza. Dante si rivela come adepto templare anche nelle sue ingeniose simmetrie Croce-Aquila.
Non solo in quanto per lui la Chiesa simboleggiata dalla croce è la chiesa ideale, nel senso templare, ed è un impero ideale quello raffigurato dall’Aquila, ma già la scelta stessa di questi due simboli e la loro congiunzione in un tutto inscindibile è patrimonio spirituale templare: infatti l’aquila congiunta con la croce non era altro che l’insegna raffigurata nel sigillo del gran maestro dei Templari dopo il 1200, in forma di un’aquila sormontata da una croce e da due stelle, poggiata su una roccia. Va comunque sottolineato che i lavori di Dante formano un insieme e senza la conoscenza delle opere minori è impossibile un giudizio complessivo sul contenuto della dottrina di Dante. È impossibile separare Dante poeta da Dante teologo, filosofo, teorico della società e dell’Impero.
I due fini voluti da Dio e che l’umanità ha il dovere di perseguire sono la beatitudo temporalis (felicità terrena) e la beatitudo aeterna (felicità celeste). La prima è intesa da Dante come un ordinamento in terra delle condizioni di vita che assicuri ad ogni individuo la Libertà di formare e sviluppare la propria vita secondo le sue personali capacità e disposizioni.
Brevi cenni di storia dei Templari
S’impone a questo punto un breve riassunto di alcuni fatti storici concernenti l’ordine dei Cavalieri del Tempio. Quest’ordine cavalleresco nacque sull’onda delle prime crociate insieme ai giovanniti, formati da mercanti e deputati all’assistenza ai malati, ed ai teutonici, formati da nobili di orgine germanica. Vennero fondati da sette cavalieri nobili francesi, raccolti intorno ad Ugo di Payens il 1109 sotto il nome di "Pauperes Commilitones Christi". Ebbero poi un sito sulla piana del tempio di Salomone e assunsero il nome di "Pauperes Commilitones Christi Templique Salomonici".
Come chiesa madre edificarono un edificio ottagonale nell’angolo sudoccidentale della piana. Nel concilio di Troyes del 1128 ricevono la regola dall’abate Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei Cistercensi, e come insegna il mantello bianco con croce rossa ad otto punte sul lato sinistro. Il 29 marzo 1139 con la bolla Omne datum optimum Innocenzo II sottrae l’Ordine alla giurisdizione vescovile sottoponendolo direttamente alla sua potestà. L’ordine giunse rapidamente a posizioni di potere e ricchezza notevoli, attirando sospetti e gelosie. In più i suoi contatti intimi con il mondo musulmano fecero sì che gli adepti venissero a conoscenza della cultura mistica e gnostica dell’islam, come della mistica ebraica e cristiana. Nei fermenti spirituali del ’200 e ’300, che si opposero al decadimento della chiesa, essi finirono per occupare una posizione vicina ai gioachimiti e francescani spirituali, impregnandosi di idee neoplatoniche e gnostiche con la creazione di un insieme dottrinale che è chiamato generalmente gnosi templare.
La ricchezza, il potere e le posizioni politiche dell’ordine gli attirarono l’odio del re di Francia Filippo il Bello, che nella sua corsa per assicurare la corona imperiale al re di Francia, era disposto a tutto. Utile strumento nelle sue mani per la distruzione dell’ordine furono il suo vicecancelliere Guglielmo Nogaret, che schiaffeggiò Bonifacio VIII ad Anagni per contrastare e quindi impedire la scomunica del suo padrone, ed un certo Noffo Dei, rappresentante in Francia di banchieri Fiorentini e noto malvivente. Questo Noffo Dei, che morirà impiccato proprio in Francia ancor prima del rogo di de Molay, viene posto da Dante nella Tolomea, luogo di pena dei traditori, e il drago Gerione ne prenderà le sembianze tra il tradimento e la morte. Ugo Capeto allude nel purgatorio (XX,33) al trasferimento del suo discendente nella roccaforte dei Templari a Parigi quando parla del "portar nel tempio le cupide vele", e Dante motiva il colpo inferto ai Templari con la insaziabile avidità del re di Francia. Sempre Ugo Capeto (Purg.XX,86-90) stigmatizza il Nogaret come vile ladrone parlando dei fatti d’Anagni, senza ovviamente nominarlo per nome.
Le vicende del concilio di Vienne
Il concilio di Vienne venne convocato non solo per discutere delle presunte eresie Templari, ma anche di tre tesi dell’Olivi, condannate. Si discuteva se Cristo era già morto al momento del colpo di lancia al costato, se l’anima umana era già completa dal momento del concepimento o se derivava da una evoluzione da anima vegetativa e sensitiva fino a quella intellettuale, acquisita con le facoltà del pensiero, e infine, come conseguenza, se il battesimo fosse efficace contro il peccato originale già nei bambini in tenera età o se acquistasse tale efficacia solo al momento del raggiungimento dell’età della ragione.
Dante sostiene velatamente tutte le tesi dell’Olivi, specialmente il terzo punto. Nel "Nobile castello" (Inf. IV,36) troviamo oltre alle anime di pagani vissuti in modo moralmente ineccepibile, moltissimi bambini, appunto tutti quelli morti prima della età della ragione, anche se battezzati. Comunque i punti delle tesi dell’Olivi, sui quali il Concilio di Vienne tace, sono indifferenti al poeta. Dante segue le tesi del francescano spirituale solo quanto lo esige il suo Templarismo.
Egli contesta la legittimità del concilio di Vienne e in questo modo salva la propria ortodossia cattolica senza dover riconoscere il processo dei Templari e il loro scioglimento. Il concilio di Vienne fu il 15° concilio ecumenico e venne convocato per il 1310 il 12 agosto 1308. Data la situazione politica di un papa soggetto alla volontà del re di Francia Filippo il Bello, dei 231 metropoliti e prelati convocati se ne presentarono solo 123 e dei 14 re solo uno, appunto Filippo, non essendo sicuri della propria incolumità fisica. Dante non era il solo a mettere in dubbio la ecumenicità del Concilio e già nel ’300 un cronista inglese ebbe a scrivere: "Questa assemblea non si può nemmeno chiamare un concilio, perché il papa faceva tutto di testa sua, sì che il Concilio non poteva nè rispondere né approvare".
La chiesa asservita alla volontà del re di Francia appariva come la massima espressione della Ecclesia Carnalis. Ubertino da Casale aveva visto in Clemente V il continuatore dell’"Antichristus Mysticus", Bonifacio VIII. Da un punto di vista dottrinale il problema venne risolto più tardi, quando la chiesa stilò un elenco dei concili ecumenici, e perciò dottrinari, includendovi quello di Vienne. Il concilio di Vienne comunque non dispose la soppressione dell’ordine dei Templari, non potendovi trovare sufficienti elementi di eresia; la soppressione venne decretata per via amministrativa diretta da Clemente V il 22 Marzo 1312 con apposita bolla.
Se il pontificato di Bonifacio VIII gettò le basi, fu quello di Clemente V a rappresentare il culmine dello sviluppo detestabile in seno alla chiesa. Beatrice annuncia con le ultime sue parole nel Paradiso (XXX,147) la dannazione di questo papa. Analoga profezia fecero papa Nicolo III (Inf. XIX, 52) e San Pietro (Par XXVII, 22 e 58). Il Cardinale Napoleone Orsini ebbe a dire che sotto il papato di Clemente V i maggiori benefici ecclesiastici erano caduti quasi tutti, per compenso o per vendita, in mano agli usurpatori. Clemente V entrò nella storia come uomo di sfrenato nepotismo e simonia. È pertanto singolare l’esistenza di due lettere scritte da Dante, una indirizzata ai re d’Italia ed ai senatori di Roma, una all’imperatore Arrigo VII, ove parla ancora benevolmente del papa. Le lettere sono del 1310.
Il cambio di opinione di Dante sul papa, che nella commedia viene posto all’inferno, coincide con le prese di posizione del papa negative per l’Ordine. Dante è meno adirato contro il papa in quanto simoniaco e corrotto, qualità ben diffuse nella chiesa di allora, ma in quanto nemico dell’Ordine e fautore della sua soppressione. Beatrice, che rappresenta la sapienza, lo condanna in quanto "prefetto del foro divino", e cioè giudice nel tribunale contro i Templari. Dante nega al papa la legittimità, paragonandolo per bocca di Nicolò III (Inf. XIX, 85-87) al sommo sacerdote Giasone.
Nel 4° libro dei Maccabei si narra come Giasone giunse alla carica corrompendo il re Antioco Epifane, Dante allude pertanto ad un sospetto che Bertrand de Got, futuro Clemente V, avesse incontrato nella foresta di Saint Jean d’Angeli Filippo il Bello, che in cambio del suo appoggio avesse chiesto, tra altro, la distruzione dell’Ordine del Tempio. Dante cambiò idea sul papa in relazione al suo comportamento verso i Templari.
Il 13 ottobre 1307 Filippo il bello fa arrestare motu proprio i Templari in Francia, confiscandone i beni, come già aveva fatto con quelli degli ebrei nel 1306. Ancora in uno scritto del 29 maggio 1308 il papa dichiara comunque l’innocenza dei Templari. Clemente V costrinse anche il re a consegnargli i beni dei Templari. Si ricordi che ancora nel 1303 Clemente V aveva convocato il Gran Maestro Templare a Roma, pensando di potersi servire dell’Ordine per vendicare lo schiaffo del Nogaret a Bonifacio VIII ad Anagni. Numerosi re comunque si opposero alla caccia ai Templari, il fratello di Arrigo VII e principe elettore di Treviri, Baldovino, convinto della non colpevolezza dei Templari concluse nel 1310 per la loro assoluzione, come fece il re d’Aragona a Salamanca, dopo comunque avere confiscato prima i loro possedimenti. Arrigo VII stesso fu uno strenuo difensore dei Templari, come del resto dei francescani spirituali che trovarono rifugio nella sua cerchia, guadagnandosi la sconfinata ammirazione di Dante. Il 13 marzo 1311 il papa, per non correre il rischio di ulteriori assoluzioni da parte di concili periferici non direttamente controllati da Filippo il Bello, ordina di usare la tortura contro i Templari. Da questo momento in poi non potevano più esserci dubbi sulle reali intenzioni del papa, e da allora egli diventa l’anticristo per Dante.
Del resto un simile cambiamento di opinione è visibile in Dante verso i fratelli Giacomo II e Federico II d’Aragona, rispettivamente re di Sicilia e di Aragona. Dante li elogia per bocca di Manfredi nel purgatorio (III,116), ma nel Paradiso rimprovera a Federico la viltà, nel Convivio il dare ascolto a cattivi consiglieri. Cosa era successo? Un certo Araldo da Villanova, consigliere del re e acerrimo nemico dei Templari, indusse il re ad aprire un procedimento contro l’Ordine. Questo scagionò i Templari ma fu sufficiente per scatenare l’ira di DAnte, anche in virtù della fedeltà che i cavalieri avevano dimostrato agli Aragonesi dopo i vespri siciliani.
E questo anche se Federico rimase sempre strenuo sostenitore di Arrigo VII e della causa imperiale. Un’analoga trasformazione da lode in biasimo si trova a carico di Giacomo, biasimato nel purgatorio (VII) e nel paradiso (XIX). Giacomo aveva ordinato, dopo il ricevimento della bolla papale "Pastoralis Praeeminentiae solio" del 12 novembre 1307, l’assalto ai castelli Templari di Minaret, Monçon, Castaviega e Castello, con l’arresto dei cavalieri. A Salamanca fece assolvere l’Ordine, da cui una minore severità del poeta nei suoi confronti. Del resto per il semplice fatto di avere partecipato al concilio di Vienne, anche se aveva sempre rifiutato di usare la tortura contro i Templari e preseguitarli, procurò l’anatema di Dante all’arcivescovo di Ravenna.
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/0f/Pur_30_beatrie.jpg/401px-Pur_30_beatrie.jpg
Gustave Doré, Apparizione di Beatrice - Immagine tratta dal sito http://upload.wikimedia.org/
Riferimenti ai Templari e alla loro dottrina nella Divina Commedia
Passiamo ora a parlare più direttamente dei riferimenti d’interesse templare contenuti nella Divina Commedia. Naturalmente non dobbiamo cercare riferimenti espliciti; dopo il concilio di Vienne e lo scioglimento dell’Ordine nel 1312, i poeti della cerchia dei Fedeli d’Amore dovevano esprimersi in modo cifrato per non essere accusati di eresia e perseguitati. Tentativi di esegesi cabalistica e numerologica della Divina Commedia sono stati fatti in abbondanza, e qui ci limiteremo ad accennare alla ricorrenza di un numero interessante sotto il punto di vista del Templarismo. Il numero 13, numero dei componenti un capitolo templare e numero dei grandi elettori del gran maestro, come anche numero neccessario per fondare un nuovo monastero cistercense, è usato frequentemente nella commedia.
Dante raggruppa le persone in cerchie di 13 nell’ inferno: 13 si fanno riconoscere per il loro nome, 13 per i segni che danno e 13 per essere conosciuti direttamente dal poeta. Nel purgatorio sono 13 gli angeli nominati, 13 anime sono nominate nell’antipurgatorio, 13 nella valletta amena. Dante incontra 2 volte 13 persone tra la valletta ed il Paradiso. Nella valletta si noti poi che si canta il Salve Regina, liturgicamente in uso tra Prentecoste e l’Avvento, al posto del "Regina Coeli Laetere", tipico della Pasqua. Ma la regola cistercense prevede il Salve Regina tutto l’anno, e così lo prevedeva anche la regola dei cavalieri cistercensi, cioè dei Templari. I preganti si rivolgono ad Oriente come era uso degli adepti Templari.
Una figura allegorica di particolare interesse è costituita dal Veglio di Creta. Questa è una delle più importanti simmetrie croce-aquila nella commedia dantesca. Lo sguardo della statua è rivolto verso Roma, come lo è del resto quello di Satana. La statua è lacerata, divisa, simboleggiando la separazione tra chiesa ed impero, tra croce ed aquila. Come la statua si regge sul piede di terracotta più che su quello di ferro, così Roma crede di poter fare a meno della ferrea disciplina dell’Impero. Come ha sottolineato il Valli, la statua che simboleggia la miseria umana si trova a Creta, isola dove fecero naufragio Enea, fondatore dell’impero ancora privo della croce e San Paolo, uomo di chiesa non ancora conciliato con l’impero.
Il fiume di lacrime che origina dalla spaccatura del veglio in ultima analisi confluisce a formare il lago di ghiaccio, dimora di Lucifero, causa prima della spaccatura stessa e punito pertanto dagli esiti della sua stessa azione. La statua volge le spalle a Damietta, luogo dove fecero naufragio impero e chiesa nella conquista della Terra Santa, ma anche per respingere l’iniqua accusa che allora venne mossa ai Templari come corresponsabili della disfatta. Non per nulla poi la statua imita qualla apparsa in sogno a Nabucodonosor. Come infatti quel re aveva distrutto il tempio di Salomone, così la spaccata statua di Creta ricorda la distruzione dell’Ordine dei Templari da parte del Nabucodonosor infernale. La sua testa aurea è però intatta -non solo per la purezza dei dignitari dei principi Templari, ma anche per la speranza nella sua restaurazione. Non aveva forse Zorobabel riedificato il tempio di Salomone? La statua del Veglio sarà restaurata quando si incontreranno a Roma il Veltro di Virgilio ed il DXV di Beatrice, la Ecclesia spiritualis e l’impero.
La casa madre dei Templari era sita sulla piana del tempio a Gerusalemme, punto d’incontro della spiritualità cristiana, musulmana ed ebraica. Per Dante la felicità terrena e quella celeste sono indissolubilmente legate. Dante incontra Beatrice, La donna del suo spirito, nel Paradiso terrestre, sito in cima al monte del purgatorio, e da lì Beatrice lo eleva al Paradiso celeste. Al centro del manto terrestre che copre l’imbuto infernale, sta Gerusalemme. L’idea del purgatorio come monte e del paradiso come sua cima è del resto tipico dell’Islam.
Il Paradiso, posto agli esatti antipodi, come immagine speculare, della città di Gerusalemme è un tipico pensiero templare. Dante nel suo viaggio intende se stesso come la rappresentazione allegorica dell’Umanità che si eleva verso la perfezione. Sulla soglia del Paradiso Virgilio gli conferisce tiara e corona imperiale come simbolo dei due poteri che solo uniti possono ne possono aprire la porta. Per Dante il Paradiso terrestre è il sito simbolico del tempio. In esso egli incontra Matelda che raccoglie fiori gialli e rossi, i colori dello stemma di Gerusalemme. Procedendo incontra i fiumi Lete ed Eunoè, che delimitano l’angolo Nord est, angolo in cui incontrerà Beatrice. Come antipodo esatto di Gerusalemme, questo angolo Nord-Est corrisponde all’angolo della città ove si trovano i resti del tempio di Salomone. Il punto in cui incontrerà il carro trionfale di Beatrice corrisponde al sito della chiesa ottagonale dei Templari e che aveva il nome di Templum Salomonis. Salomone nel Paradiso saluta Beatrice, donna allegorica, con il canto "Vieni sposa dal Libano", che nel medioevo indicava la Chiesa Spirituale. Dante segue poi il carro trionfale verso Oriente per tre tiri di freccia, circa 210-240 metri, raggiungendo l’albero del bene e del male, luogo ove Satana fu vittorioso sulla coppia umana. Agli antipodi, sul piazzale del tempio, dopo un analogo tragitto, si raggiunge l’angolo sud-est, detto pinnacolo del tempio, ove secondo la tradizione avvenne la tentazione di Cristo da parte del maligno.
Il 33° canto del purgatorio inizia con le parole del salmo 79: "Deus, venerunt gentes", che prosegue poi con "polluerunt templum sacrum tuum". L’allusione alle "genti che hanno invaso e profanato il tempio del signore" è ovvia. Beatrice risponde con le parole del Vangelo di Giovanni (16,16):" Ancora un poco, e non mi vedrete più, e un altro poco e mi vedrete di nuovo", alludendo alla speranza nella resurrezione dell’Ordine. Beatrice, parafrasando le parole dell’Apocalisse (17,8) dice "Sappi che ’l vaso che il serpente ruppe fu e non è" (Purg. XXX, 34), negando con tale espressione la legittimità del Concilio di Vienne. Come salvatore viene indicato il DXV inviato da Dio (Purg. XXX,43). Con questo non può essere inteso altri che il ricostruttore del Tempio, auspicata da Beatrice, allegoria della gnosi templare, e da Dante, in quanto adepto. La ricostruzione del tempio di Salomone, distrutto nell’anno 588 a.c. da Nabucodonosor II, avvenne da parte di Zorobabel nel 515 a.c. come generalmente accettato nella storiografia ebraica (Herzfeld, Dressaire). Il DXV-515 sta per l’annuncio di una seconda ricostruzione, di un secondo Zorobabele, e come tale dell’imperatore gioachimita. E con la ricostruzione del tempio si combina la purificazione della chiesa operata dal Papa Angelicus, l’annunciato Veltro di Virgilio, con la ricostruzione della unità di croce ed aquila, essenziale per la salvezza umana.
I concetti della dottrina dantesca
Beatrice fa parte di quella schiera di donne allegoriche care ai poeti del dolce stil nuovo e come tali continuazione della tradizionale raffigurazione della sapienza come femminile (sophia, shekinah). Il culto della donna allegorica proveniva dalla Persia. Lì nacquero tutti i grandi luminari dell’Islam, e lì si formò la scuola mistica dei sufi. Molte poesie sufiche esprimono un netto indifferentismo religioso, attaccato di panteismo da fonte cristiana, ma mai apertamente sconfessato dalla gerarchia ortodossa islamica, come lo furono invece analoghi movimenti gnostici cristiani influenzati da tale pensiero. I manichei per esempio professavano uno gnosticismo dualista secondo influenze dello zoroastrismo persiano. Nel loro linguaggio segreto usavano chiamarsi i "Figli della Vedova", forse per influenza egiziana del culto di Iside. I trovatori del sud della Francia, spesso opposti a Roma, furono fonte di trasmissione del sapere della cultura araba consolidatasi in Spagna.
Gli albigesi ripresero alcune teorie, singolare è l’importanza data al vangelo di Giovanni, letto come "Consolamentum" all’imminenza della morte naturale. Affiora in essi la dottrina della purificazione delle anime tramite la trasmigrazione, concetto di origine indoeuropea, giunto in provenza attraverso la Persia ed i mistici arabi della Spagna. È singolare comunque che la lotta dei poeti amorosi provenzali, così vicini alla eresia albigese, contro la curia romana conosce una eccezione - i Templari. Mai un trovatore ha cantato una satira contro questo Ordine.
Una comune origine gnostica accomuna albigesi, Templari e sufi, in contatto tra loro ed espressione della gnosi nelle loro rispettive religioni. La mistica in Persia diventa la maschera del libero pensiero ed in modo similare lo intendono i Templari. La setta degli ismailiti, che conosceva sette gradi di perfezione, era l’espressione estrema con la sua autonomia ed opposizione all’autorità dogmatica, di tale pensiero. I sodalizi Templari, impegnati dalla gnosi della Gaia Scienza d’Amore, adottarono in tutto il suo rigore la segretezza dei misteri antichi e svilupparono tecniche iniziatiche. Le prime donne allegoriche cristiane erano nate a Palermo, alla corte di Federico II, ed il loro nome era sempre Rosa.
L’amore cantato alla corte di Palermo, si applica chiaramente alla spiritualità templare, che del resto era in sintonia con la corte ghibellina. Nata a Palermo, la poesia d’amore come forma di gnosi si estese in toscana e al resto d’Italia, qui le donne allegoriche iniziarono a fregiarsi di nomi sempre diversi, realistici e di migliore copertura pubblica. Del resto questi poeti non operavano più con il consenso e sotto la protezione dell’illuminato imperatore Federico II alla corte di Palermo, ma in condizioni varie, spesso in ambienti guelfi legati al papato, ed una maggiore segretezza era d’obbligo. Dino Compagni chiama "Donna Intelligenza" la sua donna, vestendola dei colori verde rosso e bianco visti anche in Beatrice. Come in Guido Cavalcanti troviamo analogie di pensiero con il sufismo di Ibn Bagga, in Dante riecheggia lo spagnolo Abu Arabi. Vediamo intensamente influenzate dalla poesia e dal pensiero islamico la poesia provenzale, e forse ancor più quella siciliana e la toscana. In questo si vede una fusione di neoplatonismo ed aristotelismo.
Plotino vide l’anima come un pezzo d’oro insudiciato ed infangato, al quale si ponevano due alternative - quello dell’ascesa e della liberazione, e quella dell’affondare nella semplice materialità del corpo. La via verso l’alto, verso gli dei, verso l’intima natura dell’Io, era anche quella che tentavano di dischiudere gli antichi misteri. Plotino chiamò il principio dell’armonia naturale "Intelligenza", (il nous), mettendo sopra di esso l’Uno Assoluto, sotto di esso la psiche. Al culmine della vita spirituale Plotino vede l’estasi. Nel grande vuoto dell’anima che si priva di ogni pensare, desiderare, aspirare, si compie l’ingresso della grande quiete, della pienezza della felicità. Non possiamo approfondire ulteriormente le similitudini, ma vale la pena sottolineare quanto questo pensiero si avvicina alla concezione del Satori nel buddhismo Zen, anche se in quest’ultimo è l’uomo a creare il Satori, l’illuminazione con le proprie forze, quando per Plotino rimane neccessario un intervento esterno, simile alla grazia cristiana, che lui chiama Eros.
L’eros è l’aspirazione al mondo superiore, al superamento del condizionamento materiale, Dante dice "Al cor gentile ripara sempre Amore". Il neoplatonismo agisce nel pensiero cristiano attraverso Riccardo di San Vittore, Agostino, Boezio e Scoto Eriugena. Rientra poi in Occidente attraverso i contatti con l’Islam. Gli ultimi filosofi della scuola neoplatonica di Atene, chiusa da Giustiniano, emigrarono in Persia e lì i loro successori vennero in contatto con l’Islam, dando origine alla sua corrente mistica, il sufismo. La venerazione araba per l’Intellectus Activus plotiniano trovò poi la via per l’Europa attraverso la corte imperiale di Federico II a Palermo, la Spagna ed i Cavalieri Templari. Qui converge l’esaltazione dell’Eros plotiniano, della venerazione dell’Amore. Amore che non nasce dalla sola vista, ma dal vedere e ripensare costante. Questo travaglio intellettuale del ripensare costante è sottolineato in modo continuativo dai Fedeli d’Amore.
Nel Templarismo spirituale questa abitudine alla riflessione profonda diventa caratteristica essenziale, soltanto nel suo ambito può formarsi quella elite spirituale a cui si aspirava come germe del rinnovamento di chiesa ed impero. I Templari, acerrimi nemici della Ecclesia Carnalis scaturita dalla donazione costantiniana, si consideravano come silenziosi portatori di questo germe della nuova chiesa, in piena concordia con le tesi di Dante. Una catena iniziatica ininterrotta passa da Ermete Trismegisto per Pitagora, Platone, Seneca, Plotino e Giamblico fino ai Fedeli d’Amore ed ai poeti ghibellini siciliani, ed attraverso i Templari fino alla accademia platonica di Firenze.
Anche se Plotino ricusava la gnosi, i fondamenti del loro pensiero e delle loro aspirazioni filosofiche ultime erano simili e si fusero, irradiandosi nella morente religione greco-romana come nei tre monoteismi di origine medio-orientale. I Templari, come i poeti d’amore dell’alto medioevo si inseriscono a pieno titolo nella tradizione ermetico-gnostica-neoplatonica. Dante nella sua lenta e faticosa ascesa dal buio delle umane nefandezze verso la luce di Dio, si rivela gnostico, esprimendo le grandi verità in modo appena velato per tenerle a disposizione di chi ha orecchie per sentire. L’accenno di Beatrice (Purg. XXXI, 51) alle sue "membra in terra sparse" suona simile ad un passo nel Vangelo di Eva, gnostico: "Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei là sono io, e in tutti io sono sparsa", analoghi passi possono essere trovati nel vangelo di Filippo. Del resto come la gnosi templare recepì il sufismo islamico, così nello stesso periodo fu scritto nella Spagna musulmana lo Zohar, massimo libro della gnosi ebraica. La raffigurazione di Dio come punto Luminoso (Par. XXVIII,16) è una immagine tipica della Cabala.
La gnosi templare accoglie la ricerca della progressiva smaterializzazione dell’uomo interiore, fino alla spiritualizzazione suprema. L’amore descritto è l’eros neoplatonico, la causa della mors philosophorum, della distillazione ultima della componente divina dell’uomo. Nel Convivio Dante dice: "Quella fine e preziosissima parte dell’anima che è la deitade" (Convivio III,2). In questo contesto la conquista della visione di Beatrice, che poi si fa tramite della visione di Dio, è una elegante esposizione della dottrina gnostica templare della beatitudine.
Dal sito http://www.zen-it.com/
Tomás de Torquemada
07-07-02, 00:37
Il Dante esoterico svelato da Guénon
In un volume dello studioso francese spiegati i “misteri” sui simboli della Commedia
di Alberto Lombardo
Pubblicato per la prima volta nella “Piccola Biblioteca” delle edizioni Adelphi, il breve saggio di René Guénon L’esoterismo di Dante (pp. 106, lire 14.000) costituisce, come quasi ogni libro di questo autore, un prezioso scrigno ricco di inestimabili tesori. «Dante indica in modo esplicito che nella sua opera vi è un “senso nascosto”, propriamente dottrinale, di cui il senso esteriore e apparente è soltanto un velo, e che deve essere ricercato da coloro i quali sono capaci di penetrarlo»: prendendo spunto dall’indicazione dantesca circa i quattro livelli a cui può essere attinto il senso dell’opera, il metafisico francese si interessa proprio all’ultimo, che definisce esoterico. Non è del resto un caso che le maggiori divergenze della critica continuino a vertere su questo significato, per comprendere il quale è necessaria, oltre a una speciale predisposizione, una qualificazione di tipo “tradizionale”. A parte i fondamentali studi del Valli - di poco successivi al saggio di Guénon, che nella versione originale è del 1925 - in italiano ben poche letture sono state fatte in questa direzione così difficoltosa. Passo per passo, e con la frequente allusione a simboli appartenenti alle più varie tradizioni, Guénon ci conduce nell’universo spirituale da cui scaturì la mirabile creazione dantesca. La struttura cosmica, le divisioni temporali e spaziali, i regni animale, vegetale e minerale, i numeri simbolici e le loro proporzioni, tutto rientra in un grande affresco di simboli che allude a un’esperienza iniziatica. Sulla scienza dei numeri in Dante, in particolare, lo studioso francese mette in chiaro come esistano paralleli significativi con numerosi altri ambiti tradizionali, inclusa forse persino la Qabbalah ebraica, ma con ben maggiore certezza il Pitagorismo, che fondava la sua scienza sui rapporti e le proporzioni dei numeri, più che sul valore numerico di caratteri dell’alfabeto.
http://courses.umass.edu/chappell/Images/Dante/DanteTomb.jpg
Ravenna, Tomba di Dante - Immagine tratta dal sito http://courses.umass.edu/
Guénon è costretto ad accennare poi a numerose implicazioni storiche, dalla distruzione dell’Ordine del Tempio alla nascita del Rosicrucianesimo e della Massoneria: questi e altri episodi vengono letti “tra le righe”, cioè per quel che di sovratemporale e assoluto agì tramite essi. Una digressione assai interessante riguarda i viaggi extraterrestri nelle differenti tradizioni (di questo infatti si tratta nel caso della Divina Commedia): con una serie di significativi paralleli, Guénon ci rammenta la sostanziale identità del viaggio dantesco con quelli descritti da Mohyiddin ibn Arabi, il più grande dei maestri spirituali dell’Islam: «Tali coincidenze, fin nei dettagli più minuti, non possono essere accidentali, e abbiamo più d'un motivo per credere che Dante si sia effettivamente ispirato, per una parte importante della sua opera, agli scritti di Mohyiddin». Nelle opere di quest’ultimo si trovano poi numerose immagini proprie di tradizioni millenarie, o meglio sarebbe dire della Tradizione Una: per questa ragione i critici sono giunti persino a pensare a influenze indiane su Dante. Anche la struttura del cosmo che si articola in tre mondi è tipicamente tradizionale, e si manifesta tanto nell’immagine di un sovramondo, il mondo terreno e un mondo infero quanto in quella di un sovramondo, il mondo terreno e un mondo etereo che mette i due precedenti in comunicazione. Ma queste due varianti corrispondono, come ben spiega Guénon, a una medesima struttura cosmica, in cui l’intero universo pare fondarsi sull'equilibrio ternario. Un altro aspetto di indubbio interesse riguarda l'interpretazione del “ghibellinismo” dantesco. A tale proposito, Guénon sostiene che fare di Dante «un precursore del protestantesimo, o forse anche della Rivoluzione Francese, per il semplice fatto che fu un avversario del papato sul terreno politico, è misconoscere interamente il suo pensiero e non capir nulla dello spirito della sua epoca». Dante non è un semplice uomo del suo tempo: è portatore di un messaggio universale, poiché parla il linguaggio della metafisica, ossia quello simbolico. Quelle correnti dell’esoterismo che affondano le loro radici sin nei tempi di Dante (Rosicrucianesimo, Massoneria, certo "post-templarismo") e nel gruppo dei Fedeli d’Amore avrebbero invece subìto un generale processo di involuzione e di rovesciamento, sino a divenire gli strumenti della controiniziazione e della sovversione: dunque ogni assimilazione è non solo arbitraria, ma del tutto errata. Insomma. questo agile volumetto è un’autentica miniera di sapienza: e non si potrà affermare di conoscere l’opera di Dante, ignorando gli spunti intellettuali che qui vengono offerti.
Dal sito www.lapadania.com
Scusatemi,ma quando si parla di Dante non lo si può fare non tenendo conto che ci troviamo di fronte,parlo di Dante,ad un membro della Setta dei Fedeli D'Amore.
In tale ottica andrebbe inquadrata anche la numerosa presenza di Catari a Firenze e i buoni rapporti di vicinato che i Catari avevano con i Fedeli D'Amore.
I Fedeli D'Amore furono una setta impermiabilissima.
Solo un Fedele D'Amore poteva sapere cosa significasse appartenere a tale Setta.
Come del resto, un Iniziato non svelerà mai la sua Qualifica di Iniziato a NESSUNO,almeno che non lo voglia specificatamente.
Cosa era la Beatrice Dantesca?
La Sapienza?
Una Setta?
Tutte e due le cose?
Grazie del Benvenuto.
Condivido la Tua Riflessione.
Purtuttavia,alcune volte e ravvisabile in Beatrice,qualcosa di fisicamente stabile.
Insomma,una sorta di cerchia propriamente Toscana dei Fedeli D'Amore,con il nome in codice di Beatrice.
Naturalmente queste sono deduzioni.
la Verità la conoscono solo i Fedeli D'Amore.
Con Affetto
Reporter
white_rage
12-07-02, 09:05
La Beatrice e' la Forma della potenza sessuale.
Esiste un piano stabile, al di sopra delle acque, che e' raggiunto a mezzo di regime sessuale sottoposto a rigorosa astinenza da dissipazione di forza vitale.
L'opposto della dissipazione centrifuga e' la direzione centripeta. Ma nella pratica, esistono due vie.
Una via e' la Via Diretta centripeta pura della Morte in Battaglia.
Altra via e' la Via Spirale.
La prima e' rudemente contro natura.
La seconda e' sottilmente contro natura.
La Via Spirale e' la via della CIRCOLAZIONE PER RAGGIO DECRESCENTE DELLA POTENZA SESSUALE NON DISSIPATA.
La Via Spirale e' lo stesso che la Via dei Fedeli D'Amore.
SI prende la forza dissipativa,la brama sessuale. Si piega la direzione alienante in una curva, prima gentilmente, poi sempre piu' spietatamente.
La potenza vitale e' catturata e raffinata nel circuito del crogiuolo di questa carcassa qui.
Il raggio della spirale e' raggio decrescente.
La spirale dei Fedeli e' spirale centripeta.
Gli sforzi delle societa' segrete sono gli sforzi delle scimmie che si affannano a nascondere a altre scimmie il ninnolo che hanno trovato sulla spiaggia.
Il segreto dei segreti e' che questo essere alto otto palmi contiene tutto.
La realizzazione di tale evidenza e' cio' che il Parassita teme oltre ogni cosa. Le societa' segrete sono emanazioni del Parassita. La Verita' e' sotto gli occhi di tutti. La Verita' non e' monopolio delle societa' delle scimmie segrete. Dio e' Grande.
Il vero, l'unico valore delle societa' segrete, e' il RIGORE della pratica.
Chiunque, che sia capace di RIGORE uguale o superiore, raggiungera' risultati uguali o superiori.
TUTTO E' POSSIBILE.
OGNI SISTEMA E' CORRETTO IN CIO' CHE AFFERMA, E ERRATO IN CIO' CHE NEGA.
SOLO CI RENDE INFERIORI AGLI DEI E' LA DISCIPLINA DI FERRO DELLA VOLONTA' NOSTRA APPLICATA ALLA INTELLIGENZA CHE E' DI TUTTI.
La intelligenza non e' nostra, e' di tutti. Ma la volonta' e' nostra, di nessun altro.
Le societa' segrete temono la potenza del Guerriero che dorme nell'uomo, ne' possono cancellare la potenza della sua Volonta' che e' eredita' diretta del Padre. Pertanto, tentano di nascondere la Conoscenza, che pure e' di tutti. Tentano di accecare l'occhio, sperando di rendere inefficace il pugno.
Morte al segreto. Morte alle associazioni di scimmie. Il vero non e' monopolio di nessuno. Il mondo e' libero, prendi quello che desideri, e pagane il giusto prezzo.
Cordiali saluti.
Caro White_Rage il Tuo intervento è interessante.
Pur non condividendolo nella sua interezza,ne apprezzo lo spessore.
Saluti
Reporter
PASCOLI E L’ESOTERISMO DANTESCO
di Roberto Rinaldi
Cosa lega Dante, i Fedeli d’Amore, Foscolo, Pascoli, l’esoterismo, i Rosacroce, Gabriele Rossetti, l’uno all’altro? Il punto è che ricercando le opere di critica dantesca del Pascoli ci si trova di fronte ad uno strano fenomeno: questi libri, come tutti quelli che trattano l’argomento in questione, sono pressoché introvabili; le antologie e le critiche letterarie dei Licei, sulle quali tutti abbiamo studiato, non ne fanno menzione. Che succede?
Ebbene siamo sull’orlo di un abisso. Come sempre capita quando incrociamo l’onda che denuncia l’esistenza di movimenti ermetici, il flusso degli eventi si fa confuso e contraddittorio. Analogamente al fenomeno dei fiumi carsici, in cui corsi d’acqua appaiono e subitaneamente scompaiono in oscuri e profondi antri, così gli avvenimenti che si collegano alla critica della Commedia sotto il profilo esoterico, pur essendo rintracciabili da più di due secoli, talvolta appaiono evidenti quasi a gridare al mondo l’esistenza di tale lettura e tal altra spariscono in un inspiegabile oblio.
Il Valli, alla cui opera "Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d’Amore" si deve la rivelazione dell’esistenza di tale setta, proprio nel frontespizio dell’opera scrive:
Dedico questo libro
alla gloriosa memoria di
Ugo Foscolo,
Gabriele Rossetti, Giovanni Pascoli
i tre poeti d’Italia
che infransero i primi suggelli
della misteriosa opera di Dante
Il libro (pubblicato nel 1928) prosegue una tradizione di studi già allora ormai più che centenaria, che ha avuto la sua continuità, la sua lenta maturazione e il suo logico sviluppo, anche se una critica d’indirizzo estetico e oggi psicologico abbia sempre definito coloro che hanno seguito quest’indirizzo come visionari e incompetenti.
Nel 1825 Ugo Foscolo già affermava con chiarezza che la Divina Commedia ha un segreto contenuto mistico e profetico, che essa è cioè una grande profezia esposta in un sistema occulto.
Curiosa non trovate la somiglianza con l’articolo uno della nostra Costituzione che recita: la Massoneria è un Ordine universale iniziatico di carattere tradizionale e simbolico…..
Nel 1902 Giovanni Pascoli riprese l’idea di una costruzione segreta del mondo dantesco, intravedendo il rapporto misterioso, profondo e ardito che lega nel Poema la Croce con l’Aquila. Il simbolo sottende il sottile concetto secondo il quale per una perfetta realizzazione del progetto di costruzione di un uomo completo e libero, vi dovesse essere la compenetrazione di valori esoterici e di un progetto sociale e politico che potesse permetterne la realizzazione; come del resto ben testimoniato dalla tradizione platonica in poi.
Parallelamente a questo sviluppo d’idee se ne svolgeva però anche un altro.
Gabriele Rossetti nelle sue opere, scritte tra il 1826 e il 1847, poneva la tesi arditissima e inaudita che tutta la poesia d’amore di Dante e dei suoi amici fosse costruita secondo un gergo convenzionale e che, sotto la finzione dell'amore per la donna, nascondesse le idee iniziatiche di una setta segreta che aveva speciali intenti politici e religiosi.
Curiosissimo personaggio, il Rossetti, padre di quel Dante Gabriel Rossetti conosciuto come uno dei più grandi pittori preraffaeliti, scrisse un’impressionante mole di testi, ma solo un terzo di questi fu pubblicato.
Considerò i Fedeli d’Amore come adepti di un segreto culto pitagorico, continuatori di una Sapienza iniziatica e odiatori della Chiesa e della sua dottrina. Purtroppo l’idea del Rossetti si confuse, si corruppe e ondeggiò tumultuosamente in molti volumi che mettevano sì in luce innumerevoli e importantissimi fatti, ma nei quali faceva gravemente difetto la disciplina del pensiero e la rigidezza del metodo.
Va detto che l’originalità del pensiero di tale autore, sempre a parere del Valli, non poteva che derivare da una felice intuizione o da (come appare più probabile) una tradizione orale del pensiero dei fratelli Rosacroce, ai quali sicuramente apparteneva. Intorno all’opera di tale personaggio cospiravano tendenze e interessi di diversissima natura.
Era contrarissima all’idea del Rossetti una retorica romantica che si estasiava e voleva che tutti si estasiassero davanti a queste donne eteree, inafferrabili, angelicate, e voleva a qualunque costo che fossero delle donne vere.
Era contraria all’idea del Rossetti la critica estetica, che si infastidiva delle interpretazioni complicate e del simbolismo e riteneva che la discussione sui simboli (che pure erano tanti e così evidenti in quella poesia) distraesse dal gustare gli elementi lirici e genuinamente poetici della poesia stessa e spesso non si accorgeva di quanto questi elementi di pura poesia fossero scarsi e saltuari.
Era finalmente contrarissimo alla tesi del Rossetti un gruppo di zelatori dell’ortodossia cattolica, i quali fecero condannare uno dei libri del Rossetti riuscendo a far sì che la vedova bruciasse la maggior parte delle copie de "Il mistero dell’Amor platonico".
Eppure, nonostante il rogo inflitto al maggiore dei suoi scritti, i disdegni di una critica superficialissima e gli odi nemici, l’opera di Gabriele Rossetti riuscì a sopravvivere, mentre molte cose accadevano.
Anche René Guénon affrontò il tema dell’esoterismo di Dante, ponendosi in forte disaccordo con le tesi prima ricordate. Che vi sia un senso apparente e un senso nascosto non dovrebbe sorprendere nessuno, anzi è proprio Dante che ricorda i quattro sensi in cui leggere l’opera, il punto è che l’autore formò il suo pensiero in un clima iniziatico in cui prevalsero elementi della tradizione nordica, celtica, anglosassone, forse non proprio adatti a leggere in profondità il prodotto mirabile di una dottrina più specificatamente mediterranea. Non dimentichiamo, infatti, che Dante è l’esponente di un sistema filosofico occulto in cui si intravede la stretta discendenza con quella linea di pensiero che ha pervaso l’occidente storico dilagando come un onda dal Egitto, alla Grecia alla Romanità, alla scuola Alessandrina.
Altri critici come l’Aroux in Francia e il Peladan sebbene da posizioni diverse mantennero viva questa conoscenza che giunse per vie facilmente immaginabili al nostro Pascoli.
Che gli studi danteschi gli fossero molto cari traspare dalle poche righe della dedica del primo volume "Minerva Oscura": "era da cinque o sei anni il mio lavoro – sono parole del poeta – segreto e prediletto: lo meditavo per giorni interi e ne sognavo le notti. Era la mia compagnia, il mio conforto il mio vanto". In seguito fu pubblicato "Sotto il Velame" e già in questa opera Pascoli promise: "Questo volume sarà seguito, se la vita e la forza mi basteranno, da due altri libri: La Mirabile Visione, che svolgerà l’ultimo capitolo di questo; La Poesia Del Mistero Dantesco, che tenterà di dichiarare le bellezze del poema, quasi adulterate, quasi celate dalla non esatta interpretazione che se né suole dare.
E questo? Questo si ricongiunge alla "Minerva Oscura", " La Minerva Oscura" si può dire che consista nel riconoscere che i sette peccati, quanti sono enumerati da Virgilio come discendenti da incontinenza, malizia e bestialità, sono i sette peccati mortali e capitali. Non è gran che; e questa non grande cosa si ottenne con una ben menoma osservazione che, essendovi due passioni dell’anima, la libidine e l’ira, il concupiscibile e l’irascibile, il Poeta dopo gli incontinenti di libidine o di concupiscibile, aveva indicati, con le parole "color cui vinse l’ira" gli incontinenti d’ira o d’irascibile. Oh! La cosa piccina! Ma questa cosa piccina era una pietra sporgente nell’impiantito d’una grande casa. Per molte generazioni quelli che abitavano o convenivano in quella casa vi urtavano col piede. Nessuno fu che una volta presto o tardi, non inciampasse in quella piccola cosa. Finalmente uno, che non era un grand’uomo, si trovò nella grande casa, e dopo aver picchiato nella pietra, la guardò, e... fece quello che nessuno, dal primo abitatore all’ultimo, da sei secoli su per giù, aveva pensato a fare: tolse la pietra. La pietra era quella paroletta ira… Questo libro toglie, credo ogni questione e ogni dubbio, non dico mediante le mie argomentazioni, ma con la scoperta di quella che è la principale fonte del Poema. Dalla quale si ricava come il numero settenario nell’inferno e nel purgatorio sia richiesto dalla essenza stessa dell’argomento.
L’argomento del poema in vero è l’abbandono della vita attiva per la contemplativa. Alla contemplativa si giunge dopo l’esercizio delle virtù, diretto a mondar l’anima da ogni macchia.
Ora a me pare che sia "Minerva Oscura" che questo volume siano la pur tenue cosa; un filo siano; ma un filo che può guidare, o giovani, le vostre orme in un labirinto. Svolgetelo con fiducia: vi condurrà alla luce".
L’introduzione termina con questa esortazione: "Studio e amore! studio o amore!
Non possiamo essere sorpresi delle difficoltà che Pascoli incontrò nel far comprendere il suo punto di vista al mondo profano, la via iniziatica si vive in una dimensione intima e non trasmettibile ad alcuno, altro è studiare l’esoterismo, altro è praticarlo. E’ inutile ricercare un linguaggio segreto o messaggi in codice come se il simbolo riduttivamente fosse riconducibile ad una cifra, l’intera Commedia genera un ambiente che evoca seppur velatamente un clima a noi familiare, possiamo pensare ad essa come ad una altro tempio diverso da questo in cui stiamo lavorando, ma nel quale si svolge il medesimo rituale.
Gli stessi passi di Giovanni Pascoli che seguono assumono valori e significati del tutto diversi se ascoltati nel mondo profano o se uditi tra le colonne del Tempio.
Dice Pascoli in "Minerva oscura": "Il viaggio pare uno di quelli che possiamo ricordare d’aver fatti da fanciulli (Dante è come un fanciullo vicino a Virgilio), un poco a piedi, poi portati di peso in carrozza, poi discesi senza averne coscienza intera, balzati di qua e di là, tra cigolii e schiocchi e scricchiolii e tonfi, con qualche carezzevole parola mormorata all’orecchio in mezzo a un rotolare continuamente e sordamente fragoroso." Già gli Apprendisti vi scorgeranno un’eco del loro recente viaggio iniziatico tra gli elementi.
In "Sotto il Velame": "Perciò lo scendere agl’inferi Dante narra, come un tornare alla vita per via della morte; morte alla tenebra ... non ascende … Su tutti i cieli chi non discende negli ultimi abissi ... E come lui, ogni uomo che farà quel ch’esso fece. E come lui, Dante; che ora discende per ascendere; e muore per vivere; e visita l’Inferno per vedere il Paradiso. Il velame comincia a sollevarsi." E’ fin troppo facile il richiamo all’acrostico VITRIOL!
Un ultimo esempio lo dedichiamo al momento in cui si intraprende la via iniziatica; è infatti solo "Nel mezzo di cammin di nostra vita" per usare le parole di Dante, che l’uomo acquista quella forza necessaria ad intraprendere la via della conoscenza: "L’adolescente si smarrisce non avendo la prudenza. La riacquista ne1la sua età piena. Si mette per la via del mondo, verso la felicità buona e non ottima. Vuol essere utile ai suoi simili. Ha, con la prudenza riacquistata, le altre tre virtù necessarie alla vita attiva. Ma la malizia degli uomini lo respinge. Non c’è chi governi, e l’ingiustizia regna. Allora l’uomo cambia di cammino. Si mette nella via di Dio: si dà alla vita contemplativa, studiando per giungere all’arte e alla sapienza. L’arte gli deve servire per rivelare agli altri ciò che avrà veduto: che utile anch’essa, e più dell’altra anche, è la vita contemplativa ai nostri fratelli.
Ma bisogna morire per fruire di questa vita: morire alla tenebra, e riaver in atto la luce o la prudenza; morire al peccato, sia della carne, sia dello spirito…. Ha la sapienza e ha l’arte di rivelarla altrui. Può salire al cielo".
Dal sito www.lamelagrana.net
Tomás de Torquemada
29-09-02, 23:08
Simmetrie esoteriche nella Divina Commedia
La Commedia dantesca, così ricca di scenari suggestivi e complessa nel suo intreccio di simboli e raffigurazioni mutuate dalla tradizione pagana e cristiana, colpisce per la straordinaria e a tratti terribile eloquenza della sua narrazione, ed è al giorno d'oggi uno dei maggiori classici della Letteratura. Lo stesso Dante è ritenuto il padre delle nostre Lettere.
Ma una grande opera, d'alta fantasia, è tale in quanto, oltre al significato che la scrittura palesa nero su bianco, spesso cela sorprendenti allegorie e significati di tale profondità da connettere l'argomento trattato a tematiche ancestrali, universali, eterne.
E la nostra Commedia non fa assolutamente eccezione: fra i suoi versi si annidano simboli e simmetrie che richiamano conoscenze esoteriche molto antiche, nessi all'Astrologia e- come è ben noto- alla Numerologia di notevole profondità.
Queste simmetrie si possono notare anche in altri grandi scritti dell'Umanità, a cominciare dalla Bibbia, che rivela interessanti allegorie e addirittura una peculiare simmetria nella stesura dei testi stessi; ma nella Commedia abbiamo un modello di enigmatica armonia che non ci viene da un testo ufficialmente ritenuto 'ispirato'.
Forse l'ispirazione di Dante è stata tanto profonda e spiritualmente forte da segnare questi nessi; d'altra parte, i simboli sono ovunque, intessono la nostra realtà e si manifestano anche senza il consenso della ragione umana.
Saranno analizzati i due aspetti della scrittura dantesca, che procedono l'uno dall'altro:
Riferimenti astrologici attraverso la struttura del testo;
Elementi di Numerologia.
Riferimenti astrologici
Douglas Baker, astrologo, ha dimostrato nel suo Dizionario Astrologico che in ogni aspetto della Realtà, sia fisica che spirituale, in tutto l'Universo, è riscontrabile la sinergia di aspetti astrologici. Ad esempio, un animale, un oggetto, o una persona avrà i suoi tipici caratteri astrologici, una sorta di 'corredo astrale' che lo caratterizza.
Questo significa che, seguendo tale linea di pensiero, i simboli ancestrali dell'Astrologia si trovano praticamente dappertutto, in ogni elemento della nostra vita.
E se un autore scrive un'opera, come fece Dante, inevitabilmente i simboli presenti in quel testo potranno richiamare il loro universo di idee e collegamenti che possono ricondurre alle radici allegoriche dell'opera.
I Segni zodiacali, come anche i Tarocchi, non sono soltanto una serie di archetipi: sono anche interpretabili come percorso iniziatico, microcosmico o macrocosmico.
La nostra Astrologia non è più nemmeno basata sulle costellazioni zodiacali, come avveniva circa 2000 anni fa: a causa della precessione degli equinozi, abbiamo un tipo di Astrologia stagionale, legata al Ciclo Naturale. Si parte dall'Ariete, segno di Fuoco in Azione, che apre la Primavera in un'esplosione di vitalità, e si termina coi Pesci, il Riassorbimento nel Non-Manifestato.
Quindi per ogni segno zodiacale, abbiamo un periodo dell'anno, o anche un'Era, discorso di cui si sente spesso parlare a proposito e a sproposito.
Da sempre, l'Uomo si è mosso attraverso le Ere segnate dai vari assi zodiacali:
ARIETE
BILANCIA
TORO
SCORPIONE
GEMELLI
SAGITTARIO
CANCRO
CAPRICORNO
LEONE
ACQUARIO
VERGINE
PESCI
Ad esempio, l'Era segnata dall'asse Bilancia-Ariete vide la civiltà greca (Bilancia=armonia, bellezza, ordine, giustizia, buon pensiero) e diverse guerre (Ariete=Marte, ma anche Imperialismo Romano, i Romani come civiltà legata all'espansione ed alla forza.).
L'Era Toro-Scorpione fu il periodo egizio: Toro=stabilità, forza, solidità e lo Scorpione, il segno della Morte legato alla 'cultura funeraria' degli antichi Egizi.
L'era del Cristianesimo trascorse sotto l'asse Vergine (Maria)- Pesci (simbolo cristiano)...
Questo tema è tanto vasto che alcuni hanno creduto di collegare la Rivoluzione Francese, importante evento storico molto più recente delle civiltà sopracitate, al pianeta Urano che fu scoperto proprio allora (è infatti il pianeta delle rivolte improvvise e della Libertà) ed ai tre segni d'Aria: Gemelli=Fratellanza, Bilancia=Uguaglianza, Acquario=Libertà.
Alcune filosofie credono addirittura che la distruzione dell'Universo, anch'essa ciclica, avvenga alternativamente, o con un esplosione di fuoco (Leone) o attraverso un diluvio (Acquario). Il diluvio l'abbiamo avuto...
Tutto ciò serve a dimostrare che i simboli dell'Astrologia sono letteralmente ovunque.
E tornando alla Commedia, vediamo che il viaggio di Dante si svolge in periodo pasquale.
Ecco, la Pasqua: avviene sotto l'Ariete, ed è una festività di origine ebraica; il calendario ebraico, appunto, ricalca i periodi dei Segni dello Zodiaco, e quindi appare 'sfasato' rispetto ai nostri mesi. Il periodo pasquale è anche per quel calendario sotto l'Ariete, ed il simbolo della Pasqua è... un Agnello. Agnello =Ariete, è fuor di dubbio, ed il tempo della Resurrezione- di Cristo come della Natura- è arietino, è la Primavera del Fuoco in Azione.
Il simbolo di Marte (U), pianeta governatore del segno dell'Ariete, non è soltanto una stilizzazione dei genitali maschili, ovvero della Forza Fecondatrice, di nuovo, ma può essere interpretato parallelamente come la scintilla attiva che si diparte dal Centro, dal Sole, dal Principio Vitale Unico. Quindi è sotto questo primo Segno dello Zodiaco che abbiamo la vita rinnovata ed in espansione. La Natura risorge rigogliosa (l'uovo, no?), anche se si tratta di una stagione climaticamente instabile, portando ancora il residuo dei Pesci, segno mutevole che condivide il mese di Marzo con l'Ariete di natura ignea.
In un'allegoria di M. Schulmann, ogni Segno porta in se' una scintilla della Creazione: il primo segno pianta il seme, esso mette solide radici sotto il Toro, si attraversano i periodi dei Gemelli (aria primaverile, vivace), del Cancro (protezione e nutrimento), del Leone (splendore del Creato),e della Vergine (mietitura, lavoro).
Con la Bilancia si ha l'equinozio d'Autunno, il Giorno è uguale alla Notte; sotto lo Scorpione, segno distruttivo, la Natura viene 'massacrata' ma solo in funzione della Rinascita. In seguito, sotto il Sagittario si ha una sublimazione delle forze più basse (uomo-cavallo), ed il Capricorno rappresenta una presa di coscienza, una cristallizzazione.
L'Acquario ha il compito di liberare, di aprire alle energie la via del Riassorbimento, rappresentato dai Pesci.
http://icp.ge.ch/sis/letteratura/autori/Dante/Iconografia/Inferno_spaccato.jpg
Inferno - Immagine tratta dal sito http://icp.ge.ch/sis
Ad ogni segno viene conferito un dono speciale, legato a questi compiti individuali.
Ed il secondo segno che ci interessa, dopo l'Ariete, è lo Scorpione: è decisamente il segno che domina la Commedia, il segno da sempre connesso alle energie 'infere', dell'Inconscio, ed alla loro potenziale sublimazione affinché l'Uomo sia in grado di rinascere, evolversi.
Ora, allo Scorpione è dato un dono pericoloso: il potere di scrutare nell'animo umano, facoltà che include automaticamente il rischio di smarrirsi nei tortuosi labirinti subconsci, popolati di creature angeliche o a volte terrificanti. Il tipo Scorpione è destinato a passare attraverso meandri sotterranei, per purificarsi e tornare alla Luce divina.
Se inseriamo il termine selva oscura e l'espressione uscire a rivedere le stelle, beh, il paragone sembra decisamente calzante.
Nell'allegoria si allude chiaramente a 'belve' dell'animo umano, e quante fiere incontra Dante, nell'Inferno! Già nella 'selva oscura', poi attraverso tutti i canti.
Si ricorda la frase di Freud: "Nessuno che, come me, si cimenti nell'evocare alcuni fra quei demoni terribili, domati solo a metà, che abitano nel petto dell'Uomo, e che tenti di lottare contro di loro, può sperare di uscire del tutto indenne dalla lotta."
Ma se questo tipo di uomo riuscirà a superare tali prove, giungerà allo stato sublime dell'Aquila, l'uccello che si eleva ma riesce a scrutare lontano ed in basso, con la sua vista.
Avrà la Conoscenza assoluta ("Come in alto, così in Basso") e la Determinazione divina.
La Commedia è un'opera fortemente scorpionica, ed il suo leitmotiv è la Purificazione, la Rinascita, tutti valori legati a questo segno zodiacale.
In questo proposito risulta interessante il libro Cercando Beatrice, un'interpretazione in chiave psicologica del viaggio dantesco.
Elementi di Numerologia
Proprio dallo studio astrologico codificato dai popoli del basso Oriente, procedono le corrispondenze numerologiche che hanno dato vita alla Cabala (Qabbalah) ebraica, alle varie altre forme di Numerologia, fino alla Smorfia nostrana.
Probabilmente, in principio si cominciò con l'associare ad ogni costellazione un numero corrispondente alla quantità delle stelle che la componevano; poi, nella volontà codificante e sistematica dell'Uomo, furono stesi veri e propri studi sulle simmetrie fra la Natura ed i Numeri. D'altronde i numeri sono il codice di tutta la nostra realtà, e l'Uomo scopre di volta in volta leggi matematiche che la Natura, nel suo ordinamento infallibile, ha già in se', "in vigore" dalle origini stesse dell'Universo.
E quando si carpisce una misura, una regola naturale, si ha la sensazione di aver intravisto un Disegno perfetto, senz'altro divino, dietro l'ordinamento delle Cose, del Cosmo.
Di qui nasce la Numerologia.
Lo studio dei Pitagorici è un lampante esempio di come i Greci avessero intuito e reso in termini di studio questo concetto dell'Universo come ordinamento matematico.
Alcuni popoli, si sente dire spesso, 'inventarono' lo zero.
Sembrerebbe un dato di fatto, per noi, considerare una cifra corrispondente al nulla, ma è soltanto abitudine, la nostra: lo zero fu ad esempio concepito dai Maya, grandi osservatori e diligenti catalogatori dei ritmi cosmici.
Zero deriva dall'orientale sephr o siphr, da cui cifra, e tracce di questo uso in comune dei due termini è riscontrabile nella lingua Inglese: cipher infatti significa sia 'cifra' che 'uno zero', un pincopallino. La cifra è un concetto impersonale, un ruolo; il numero ha quel che può definirsi una sua personalità, e per questo risulta un potente simbolo esoterico.
Residui di tali usi restano anche nell'Algebra (altro termine arabo, con al=articolo): pare che la x, usata per indicare un'incognita, fosse il segno che indicava il numero 21, multiplo del misterioso 7 e quindi segno enigmatico...
Menzionavo prima la 'Smorfia': ancora oggi si tende a considerare il numero 17 come segno della sfortuna, il che ci viene dalle credenze romane: XVII è anagramma di VIXI, 'ho vissuto', quindi "sono morto". Retaggi che vengono ereditati come superstizioni.
Osserviamo elementi, indizi della presenza della Numerologia anche nelle opere letterarie. A cominciare naturalmente dai miti: vi sono costanti vere e proprie riguardo alle forme delle creature fantastiche (l'Idra a sette teste, il nordico Jotunn Troll a nove teste, ecc....), ma anche nel numero delle imprese che ogni eroe deve affrontare, primo fra tutti Ercole.
C'è chi vede nelle dodici fatiche dell'eroe greco-romano una scansione zodiacale, ipotesi convalidata dalla 'solarità' simbolica dell'eroe. Ma potremmo operare lo stesso paragone con il Gilgamesh mesopotamico o un'infinita serie di altri eroi mitologici.
Numeri particolarmente 'potenti' sotto l'aspetto simbolico sono l'1, il 3, il 7, il 9 ed il 12, tanto per proporre un esempio. Dodici furono gli Apostoli, i Cavalieri della Tavola Rotonda- con relativi paragoni zodiacali, ovviamente: l'Astrologia non si lascerebbe mai sfuggire occasioni tanto ghiotte di esprimere la propria onnipresente validità simbolica!
Ma è meglio procedere per ordine, pertinentemente alla Commedia:
Il numero in Dante
Il tempo in cui visse Dante fu indubbiamente influenzato dalle nozioni pitagoriche, dalla cultura dei dotti dell'epoca per cui l'aspetto 'numeristico' veniva studiato nell'ambito filosofico e per estensione letterario. Questo perché in un'opera scritta l'aspetto quantitativo, e quindi numerico, non solo ricorre necessariamente nel testo- dacché uno scenario deve necessariamente avere delle quantità descritte- ma ha modo di presentarsi anche nelle importantissime rime. E Dante se ne occupò in maniera davvero esemplare...
E pensare che alcuni autori opinionisti dell'epoca affermarono che la numerologia dantesca fosse una volgare miscellanea di retaggi e superstizioni. Dimostreremo l'opposto.
Certamente fu determinante l'influenza di un precettore di Dante, il Doctor Seraphicus della Chiesa, Bonaventura, grandissimo traduttore religioso, mistico e sapiente.
Tra l'altro Dante stesso pare essere stato francescano.
Tralasciando la ricca aneddotistica riguardo al Bonaventura ed agli altri Doctores cristiani da cui senza dubbio Dante attinse, possiamo citare quel che lo stesso Poeta ebbe a dire:
"Li principi delle cose naturali son tre ... e non solamente tutti insieme, ma anche in ciascuno è numero ... perché Pitagora poneva li principi delle cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero." (Convivio, XIII, 17).
Insomma esemplare a tutta una serie di considerazioni sugli Angeli e sugli ordinamenti divini e inferi, assolutamente essenziali per l'interpretazione del poema dantesco.
Perché in fin dei conti, è di ordinamenti che Dante parlava, e un ordinamento divino, quindi espressione per forza di concetti della perfezione, e inevitabilmente matematica.
In ciò Dante fu eminentemente geometrico ("Da sempre la Divinità geometrizza."), adombrando le teorie platoniche: le cose tutte quante
hanno ordine fra loro e questo è forma (idea, conferma)
che l'Universo a Dio fa simigliante.
Per la perfezione quasi 'magica' di questo poema, Dante sostenne opinioni diametralmente opposte da parte dei capi della Chiesa: la sua opera fu innalzata a Quinto Vangelo (!) da papa Benedetto XV, ma l'Autore fu anche accusato di eresia. Gli inquisitori del suo tempo guardavano assai malamente Dante, che ebbe il destino di ogni grande illuminato.
Prima di proseguire parlando della Gematria e dei numeri in dettaglio, vorrei confutare la facile idea che tali indizi di perfezione siano da attribuirsi al Caso.
Ebbene, prove certe che non voglio ora anticipare escludono questa supposizione:
"Caso"- disse qualcuno- "è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare."
Gematria dantesca
La 'Gematria' è il discorso inerente alla Cabala giudaica. Dante ne fa uso in emulazione del profeta Giovanni, autore dell'Apocalisse. Questa 'scienza' studia il valore simbolico di singole lettere nelle parole, o anche di due o tre lettere iniziali di una parola.
La Bibbia cela diverse gematrie, ed anche i Greci indulgevano spesso a questa usanza.
Un esempio lampante è il famoso numero 666 della Bibbia: che significhi Nerone Cesare o altri nomi inquietanti che gli interpreti ancora tentano di ricavarne, è un buon modello.
Tra l'altro, sembra che globalmente, secondo calcoli accurati, l'Inferno di Dante misurerebbe in volume 666 miglia cubiche! E' affascinante, è qualcosa di stupefacente.
Nel Purgatorio, Dante parla del 'veltro', attribuendogli il numero 515.
Esistono due intere biblioteche dedicate allo studio su questi due numeri: il 666 ed il 515!
Uno indica l'Anticristo, la Grande Bestia satanica che svolgerà il ruolo di Messia Infernale nel periodo finale della storia dell'Umanità; l'altro è il numero della 'buona bestia' salvatrice, che ricaccerà la lupa simbolica nell'Inferno.
Un secondo esempio di Gematria in Dante lo abbiamo nel Cielo di Marte: il viaggiatore vede una fiamma che si divide in 'cinque volte sette' e compare il versetto:
Diligite justitiam qui judicatis terram.
Dante mette in rilievo solo le prime tre lettere fra queste, che sono... DIL, numero romano, del 515mo versetto, nel quale si dichiara da se' sesto fra i grandi poeti imperiali.
Questo è un continuo lavoro di dovizia numerologica, una sottolineatura dell'importanza che Dante attribuisce a questo studio.
Altra gematria di Dante è la 'M' gigliata nella parola terram del versetto sopracitato: Dante, nel cielo di Marte, parla di una disposizione delle facelle dei beati, a formare prima una M gigantesca, ingigliata, e poi un'aquila. Che indichi Firenze (il giglio) o una monarchia come già Dante teorizzava? O la monarchia francese, anch'essa gigliata.
O magari la Vergine Maria... Dal profeta Isaia leggiamo: Germoglierà una vergine dalla radice di Jesse, e dalla sua radice nascerà un fiore.". Solo che nell'iconografia cristiana l'Aquila non figura troppo spesso, più ricorrente è la Colomba come simbolo dello Spirito.
Dante parla anche di due città chiamate, cosa assai curiosa, Maria e Lucia, situate a due antipodi; forse questa M enigmatica sta a significare l'unione dei due antipodi- la M mariana e l'aquila di Lucia- in una fusione intima ed utopica.
I simboli sono sempre passibili di svariate interpretazioni, e per questo ambigui: tornano alla mente le famose quartine simboliche di Nostradamus...
Il numero nel testo
Ed eccoci alla parte clou dello studio numerologico: è lo studio che consente di ricavare maggiori richiami e simbolismi dalla Commedia, e vedremo uno per uno i vari numeri:
1& 3 sono per eccellenza i numeri della Commedia.
Essa è cattolicamente il poema per il Dio Uno e Trino, ed i suoi canti sono 100, numero perfettissimo perché potenza di 10, numero già connesso all'1 divino, unitario, cosmico.
Il primo canto è il prologo di tutta l'opera, a cui seguono 33+33+33 canti.
Dio è Uno e Trino, ed anche Lucifero, nella sua Antitrinità, riesce ad esserlo; tre sono le donne alleate di Dante: Maria, Lucia e Beatrice. Ancora 3 sono i personaggi dell'ultimo canto: Bernardo, Dante e Beatrice. Tripartito è il Male, il Peccato e quindi l'Inferno: Incontinenza, Violenza, Frode. Di conseguenza, tripartito è l'Acheronte, fiume infero, in Stige, Cocito e Flegetonte. Una e tre sono le rovine sul mondo infernale prodotte dalla discesa vittoriosa di Cristo: un segno del suo passaggio è sulla porta scardinata su cui sono scritte le 'parole dure'; altre tracce sono nella regione degli incontinenti (ruina dei lussuriosi) e nel territorio della Bestialità (ruina del Minotauro), nonché della frode coi ponti rotti nella sesta bolgia. Quindi l'Uno ed il Tre insieme si trovano nei punti del poema in cui emergono i segni delle verità salienti, essi rappresentano e manifestano i Segni.
Il tre da solo si trova invece' 'sparso' attraverso tutto il componimento: perfino i commentatori non numeristi sono costretti a riconoscerne la ricorrenza.
Sono così tanti gli esempi, che sarebbe prolisso e nemmeno esauriente citarli tutti: prendiamone alcuni, come i lampi che precedono la discesa di Beatrice dal carro celeste, sono tre le teste di Cerbero, i giri delle Luci Beate, i passi di Matelda, tre le oasi di verde (selva oscura, Valletta amena e Foresta Divina, a tre diverse gradazioni) e una serie infinita di altri esempi per la rassegna dei quali rimando al libro Dante ed il simbolismo pitagorico di P. Vinassa de Regny. E' interessante notare che il tre si rivela anche nel numero di volte che una frase o un monito viene ripetuto, come avviene nella Bibbia per l'Aquila dei Guai.
http://kidslink.bo.cnr.it/ic6-bo/scuolainospedale/num6-2/divcom/Image7.jpg
Purgatorio - Immagine tratta dal sito http://kidslink.bo.cnr.it/
Inoltre il 3 è uno dei numeri del Triangolo Sacro di Pitagora, insieme al 4 ed al 5, abbinamento di cui avremo modo di parlare dopo aver trattato singolarmente tali numeri.
4 & 8 abbinati assieme perché le Beatitudini il cui numero complessivo è otto, sono suddivise in 4+4. Tra l'altro l'8 è un numero legato alla Morte ed alla Resurrezione: ottagonale era il Santo Sepolcro, quindi la corona del Sacro Romano Impero, ed ottagoni sono infatti incisi sui ceri mortuari, insieme a piccole croci...
Ottava Casa è nell'Oroscopo il settore connesso allo Scorpione, come mostravo prima segno della Resurrezione e di tutti i processi di rinascita attraverso uno stato di 'morte'.
4 sono le morti simboliche di Dante: sviene nella Selva Oscura, precipita al piano dell'Acheronte tramite il lignum leve della Croce, cade come corpo morto cade davanti agli spiriti di Paolo & Francesca; cade vinto, infine, nel Purgatorio prima del Lete.
Si hanno 4 terremoti, 4 ruine e 4 fiumi (v. sopra), 4 fratture sul monte del Purgatorio, e queste fratture (pietre crepate) vanno di 90° in 90°, a formare una Croce... Incredibile.
4 volte sorride Virgilio, 4+4 sono come vedevamo prima le cornici che portano alle Beatitudini; l'otto è spesso legato alla Vergine Maria. Nel Purgatorio, l'ottavo pianto di Dante è per le accuse contro Beatrice, ed il Poeta elenca otto nomi di patriarchi biblici.
D'altra parte, il 4 è anche astrologicamente un numero importante, è la Quadruplicità elementale, il numero dei 4 elementi (in Occidente, poiché nella concezione orientale vengono considerati Legno e Metallo in aggiunta ai nostri principi naturali).
4 sono i venti dei punti cardinali, 8 per la precisione, considerando tutta la rosa dei venti.
Una stella ad otto punte campeggia a volte, come si accennava prima, sul manto scuro della Madonna. Ottagonale è il misterioso Castel del Monte, in Puglia.
Un'ultima nota sull'otto: c'è un sonetto acrostico che viene attribuito dall'Ozanam a Dante:
O tu, Tu del ciel donna; Tu sai. Or mi soccorri. E l'acrostico è... OTTO.
5 Ecco un numero che è come in bilico fra il Bene ed il Male.
Quando è unito al 3 ed al 4 è un numero sacro, come ho accennato e come vedremo, e l'espressione greca Ta panta, Universo, ha in se' un pan =tutto che potrebbe derivare da Penta=cinque. E' al suono della quinta tromba apocalittica che escono le fiere dalla coda di scorpione per perseguitare i peccatori per cinque mesi; è la quinta coppa che getta le Tenebre sul regno dell'Anticristo, precipitandolo nel Caos...
Una stella a cinque punte ha un doppio valore simbolico:
Simbolo dell'Uomo, con testa, braccia e gambe come nel noto uomo di Leonardo da Vinci. Simbolo positivo, richiama la dimensione Uomo.
Simbolo del Diavolo, con corna, orecchie e barba caprina, e fra le righe l'Uomo rovesciato, il Nemico dell'Umanità. Insegna dei movimenti satanisti.
Importante è sottolineare che le cinque punte significano anche lo Spirito, ossia la punta in alto, più i quattro noti elementi; e per i satanisti Fuoco e Terra in alto, e lo Spirito in basso!
Plutarco, che riteneva il cinque somma dei primi due numeri (2 e 3 perché non definiva l'1 un numero Plutarco, che riteneva il cinque somma dei primi due numeri (2 e 3 perché non definiva l'1 un numero propriamente detto, forse come noi tendiamo ad escludere lo Zero), diceva anche che il pentagono non era ne' un triangolo ne' un quadrato, come a dire 'né carne né pesce'. Secondo Mani, il principio del Male è quintuplo, e dall'Inferno escono cinque mali alberi con altrettante 'diramazioni' di demoni; ed il regno del Male è composto di 5 mondi.
Dante riserba il cinque per gli aspetti maligni delle cose: la Luna compie 5 cicli prima che Ulisse coli a picco, a Firenze è attribuito il 5 con 5 invettive; 5 gli eretici dalle laide colpe.
Cinque ladroni nel XXVI canto, altrettanti cittadini nominati da Ciacco; Fialte è avvinto da 5 giri di catene. Ma i 5 seduti nel prato del Purgatorio non sono un caso di 5 isolato: sono prima 3, poi 4 e poi 5. Ed ecco l'abbinamento 'divino' che osserveremo:
3+4+5 Finalmente analizziamo questi tre numeri divini: la Commedia è divisa in 12 quadri, precisamente 5 per l'Inferno, 4 per il Purgatorio e 3 per il Paradiso.
E' affascinante come la rima Deo torni 5 volte nell'Inferno, 4 nel Purgatorio e 3 nel Paradiso! Ecco la grandezza di Dante: una simmetria perfetta nella struttura del testo.
Un altro piccolo enigma, un acrostico (VOM) si trova alla nona terzina del canto XII.
Il totale degli angeli che compaiono attivamente nel poema, se si considera quello che si trova all'ingresso della città di Dite, sarebbe il poco adatto 11, o 13 con i due che fugano il serpente dalla Valletta Amena, ma escludendo la possibilità che il messo di Dite possa essere un angelo vero e proprio, i conti tornano: 12 angeli in tutto.
E qui l'Astrologia, come al solito, trova di che sbizzarrirsi...
A proposito, perché il 12 è il numero astrologico?
A parte la ragione 'fisica', astronomica, per cui la fascia dello Zodiaco è di dodici figure
da cui derivano i nostri Segni, le suddivisioni astrologiche sono per 3 e per 4:
Tripartizione in 3 nature:
CARDINALE: Ariete, Cancro, Bilancia e Capricorno, aprono le stagioni;
FISSA: Toro, Leone, Scorpione ed Acquario, dominano i rispettivi periodi;
MUTEVOLE: Gemelli, Vergine, Sagittario e Pesci, chiudono le stagioni.
Quadripartizione secondo gli elementi, che tutti conosciamo.
Anche i sorrisi o i risi di Beatrice sono in tutto 12. Solo al Settimo Cielo, nel XXI canto (21=3x7), Dante non può più sostenere il fulgore del riso della sua donna-angelo.
Ma le volte in cui si capisce che Beatrice sta ridendo dopo il Settimo Cielo, sono 7.
Altri esempi di 3x4 sono le tre croci ed i tre cerchi ai primi livelli del Paradiso, a cui si accede dopo aver ascoltato in Purgatorio le tre e quattro melodie delle Ninfe.
Dante non sbaglia un colpo.
E sembra che ancora ci resti qualche retaggio dei tre numeri sacri: in alcune Chiese l'alba è segnalata da dodici rintocchi di campane, e ad esempio, in Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, l'ordine delle 12 ore è scandito in serie di 3, 4 e 5 rintocchi.
6 E' un numero dal grande valore geometrico, infatti l'esagono inscritto in un cerchio ha il lato pari al raggio del cerchio stesso, e come il triangolo ed il quadrato, riempie un'area senza soluzione di continuità (definizione di De Reigny).
Ecco come sesto, seste e altri termini simili sono tuttora significanti di misura, di regolarità; il Creatore è per Dante "Colui che volse il sesto allo stremo del mondo".
Misura, quindi Ordine, quindi Giustizia, quindi l'Impero perfetto idealizzato da Dante.
Ma occorre anche dire che il Poeta credeva nell'Astrologia e nei simbolismi in generale, onde per cui il sei fu da lui considerato come numero 'alto', legato anche agli Angeli, sia quelli votati al bene che quelli caduti. Il sei è anche il numero della stella ebraica, che in Alchimia indica l'unione degli Elementi:
A +B +D +C = A
Aria
Fuoco
Terra
Acqua
Così, per mantenere come dicevamo la costante sei nella morfologia delle creature descritte nella Commedia, si hanno i quattro animali evangelici con 6 ali anziché 4, come da Ezechiele; sei ali venivano pure attribuite ad alcuni angeli, quali i Serafini, e Lucifero, che probabilmente era un Serafino prima di ribellarsi, ne ha altrettante, ma membranose e di colore cupo. Si pensa che fosse stato uno dei Serafini perché è ritenuta la cerchia più elevata presso Dio, il cui nome significa in ebraico gli Ardenti o Serpi Ardenti.
Cianfa Donati ha sei piedi come deformazioni delle 6 ali.
Dante, l'avevamo già notato, si inserisce al sesto posto fra i Poeti, e per sei volte si ha una stretta fra i due poeti Dante e Virgilio, nell'opera: stanno avvinti sulla groppa di Gerione, discesa e salita per vedere Nicolò sono effettuate da Dante fra le braccia di Virgilio; la discesa nella sesta bolgia vede ancora i due poeti abbracciati, i due sono ancora stretti nella mano titanica di Anteo ed infine scendono abbracciati lungo i fianchi villosi di Lucifero.
Sono i momenti più importanti, in cui occorre una stretta ed intima collaborazione, una salda alleanza, fra i due rappresentanti della Croce e dell'Aquila (ancora l'Aquila...).
Parlavamo dell'Impero di Dante: ebbene al sesto canto di ogni mondo spirituale, si ha un rimando a questa idea. Vediamo: nel VI dell'Inferno si ha una visione delle miserie della città partita; nel VI del Purgatorio abbiamo una protesta contro l'Italia ingiusta e corrotta, e poi nel VI del Paradiso, Dante inneggia alla gloria dell'Impero, unico monologo del testo.
E poi, non dimentichiamo che il Sesto Cielo è il Cielo di Giove, quindi ordine e giustizia, simboleggiato nel mito greco da... un'Aquila. Nell'occhio dell'Aquila stanno sei beati nel canto XX, altro gran numero, fra cui, al centro, l'illuminato David.
E' questo il canto in cui Dio è definito Colui che traccia il Sesto, fra il Finito e l'Infinito.
Sempre il questo canto notiamo sei terzine di sei versi ciascuna, che cominciano tutte per Or conosce.... Il viaggio comincia all'ora sesta, per Dante espressamente "L'ora più nobile de lo die"; la salita al Paradiso Terreste si ha nell'ora sesta, ancora.
Le invocazioni ad Apollo ed alle Muse sono precisamente sei.
Nell'Inferno, il ponti dell'arco sesto dei Barattieri, sono tutti rotti, e questa era una delle ruine di cui accennavamo prima. Il sesto angelo del Purgatorio, quello della Giustizia, è il più discreto fra tutti, forse ad indicare la mancanza di Giustizia umana nel mondo.
E poi Firenze è sempre posta contro il concetto di Giustizia: Dante dice a un certo punto di essere arrivato "da Fiorenza in popolo giusto e sano", quasi a contrapporre i due concetti!
Cacciaguida non nomina a proposito di Firenze l'ora sesta, ma la terza: Firenze non è compatibile, per Dante, con l'ora più virtuosa, la sesta. Perché Firenze è nemica dell'Impero, che è il numero 6.
Questo 6 positivo e quasi 'numero ideale' lo troviamo in Dante, ma per altre filosofie il 6 era anche un numero legato al Sole, alla Divinità in Movimento e per i Druidi era estremamente importante, tanto che le erbe venivano raccolte in mazzetti, a sei a sei.
7 Eccoci al numero misterioso e misterico per antonomasia.
Spesso diviso in 3+4 (terque quaterque), è anche un importante numero biblico: sette piaghe egizie, sette le Coppe dell'Ira Divina, altrettante teste il dragone demoniaco (forse indicante Roma? Comunque la belva scarlatta a stette teste che compare subito dopo può essere vista come un simbolo romano), e così via. Sono tantissimi gli esempi notabili.
Sette Muse, sette Ninfe o Mistiche Stelle, sette Virtù e relativi peccati capitali.
Di queste Virtù, le prime quattro sono viste dalla gente, ma le altre tre si trovano nella Valletta amena, laddove è sì la Croce ma non l'Impero.
E fino al Paradiso Terrestre, dove finalmente le stelle spirituali vengono mostrate tutte e sette riunite, i numeri 3 e 4 restano affiancati ma divisi, come nel caso delle ninfe che cantano "or tre or quattro melodie". Quindi osserviamo i casi in cui si nota tale divisione: ecco, per esempio nella processione mistica del Paradiso Terrestre, il drago ha sette teste e dieci corna, quindi in tutta probabilità tre teste bicorni e quattro unicorni.
Virgilio e Sordello si salutano ripetendo il gesto tre e quattro volte.
Quando arriva Enea ad aprire la porta di Dite, si hanno 3 manifestazioni: terremoto, spavento e vento; come accade dopo per la Croce attraverso cui Dante precipita dall'Acheronte, ma in questo caso si ha anche la luce vermiglia, perché la Croce porta la Luce nel Mondo. I cerchi dell'Inferno sono 9, ma se si considera che uno è riservato al Peccato Originale e due sono sullo stesso piano (il V ed il VI) in tutto si hanno 'fisicamente' sette cerchi inferi. Sette le cornici del Purgatorio dopo l'Antipurgatorio.
Nel Nobile Castello si nota la frase: "Orrevol gente; tu che onori, cotanta on(o)ranza, onrata nominanza, onorate l'altissimo poeta, fannomi onore e onor gli fanno.".
Sette parole che si riferiscono all'Onore.
Poi vediamo 14 grandi personaggi, da Elettra a Saladino, e 21 grandi filosofi.
Sette 'P' sulla fronte del Poeta, e una miriade d'altri esempi ben visibili e che, come per il 3, vale la pena piuttosto di andare a notare direttamente. Piuttosto, ci interessa il non-visibile, ad esempio il 7 non-menzionato ma che può essere ben riconosciuto nei sonni e nei sogni di Dante: in tutto si addormenta 7 volte. Il 7, numero misterico, come poteva non essere legato ai Sogni che del Mistero sono l'espressione più profonda?
Infatti, come vedremo, i canti della Commedia sono sinottici, e al canto VII di tutte e tre le cantiche, si ha l'espressione di un mistero: la Fortuna, poi la Notte, infine la Redenzione.
O nel numero dei canti: spesso sono i canti di numero multiplo di 7 che avvengono fatti o comparse speciali, da Matelda, a Giacobbe, al Punto Luminoso, Dio.
Il Sette è ovunque. E non vale, questo, solo per la Divina (ora la possiamo ben definire così) Commedia…
9 E' un numero legato intimamente al 3, di cui è potenza. E le potenze sono sempre l'espressione perfetta di un numero, nella Cabala.
Per di più, il 9 fu anche connesso al mondo soprannaturale: 9 cerchi angelici, 9 giri dell'Acheronte attorno all'Ade pagano, 9 i livelli del regno tenebroso di Yama, sostenevano i Bramini… Ma anche, 7+2 quindi, secondo alcuni, nella processione paradisiaca aggiungendo al 7 misterico il numero delle ali del Grifone. Nove sfere celesti per Tolomeo, 9 reparti in Purgatorio. Spesso vi si aggiunge un altro elemento per avvicinarlo al 10 numero tradizionalmente legato al Perfetto, alla Completezza: abbiamo quindi 9 cerchi inferi più la loggia di Lucifero, 9 cerchi paradisiaci più l'Empireo, e così via.
http://www.rpi.at/wien/Materialien-Dateien/Kamper-Dateien/Dore-DanteLaDivinaComedia3-31-Paradies.jpg
Paradiso, Immagine tratta dal sito http://www.rpi.at/
Quindi spesso si ha un 9 con un 'optional' che lo porterebbe a 10.
Anche le Beatitudini sarebbero 9, con la scissione di Beati qui sitiunt justitiam da Beati qui exuriunt; più la beatitudine 'optional' che non viene citata ma sarebbe quella espressa da Gesù nel famoso Discorso della Montagna: Beati quorum tecta sunt peccata.
Ma sapevamo già qualcosa del Nove da Dante, che dice espressamente nella Vita Nova:
"Lo numero del 3 è la radice del 9, però che senza numero altro alcuno per se' medesimo fa 9… Dunque, se lo 3 è fattore per se stesso del 9, e lo fattore per se medesimo delli miracoli è 3, cioè Padre, Figlio & Spirito Santo, li quali son 3 ed 1, questa donna fu accompagnata da questo numero del 9 a dare a intendere che ella era 1-9, cioè uno miracolo la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade." (XXIX, 3).
Non pretendo che si capisca a fondo il ragionamento di Dante, ma è un buon esempio dell'impegno che egli metteva nell'analizzare a fondo l'immissione, per così dire, dei numeri nelle proprie opere. Strano però che nella Commedia nemmeno una volta si connette il 9 alla Donna-Angelo. E lo spiega forse lo stesso Poeta, dicendo di voler trattare in quest'opera di Beatrice, ma come MAI fosse stato fatto prima, come di una sua donna.
Piuttosto, osserviamo il 9 e mezzo connesso a Beatrice.
Ma lo vedremo dopo aver notato che perfino il modo di rivolgersi di Dante ai personaggi segue un metodo numeristico: egli dà del Voi a 5 persone, e a 4 dà in alcuni momenti del Voi e in altri del Tu. I 5 sono: Farinata, Cavalcanti, Brunetto Latini, Corrado Malaspina e Guinizelli; i 4 sono Papa Fieschi, Cacciaguida, Carlo Martello e la sfolgorante Beatrice.
91/2 Strano numero, in ambito. E la sua spiegazione impone una breve digressione che De Reigny ha analizzato per intero nel suo libro, ma è qualcosa di molto profondo e complesso, non certo trattabile in questa sede. Sta di fatto che alcuni hanno desunto che Beatrice, da alcune parole sibilline di Dante, a proposito dei suoi sonetti, sembrerebbe non essere esistita fisicamente, non quella Beatrice che sarebbe una creatura onirica di Dante.
Spesso degli autori sibillini inseriscono alcune frasi come fece Giovanni per l'Apocalisse:
"Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia… Chi ha orecchio ascolti, ecc….".
E Dante disse: "Chi non è di tanto ingegno che… la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, che certo io temo di aver a troppi comunicato lo suo intendimento."
(Vita Nova, XIX, 22)
Era la sua donna, la donna 'de la Mente', e Dante ha voluto attribuirle un numero speciale: lei è una donna, ma con qualcosa in più… Un nove quindi, ma con 1/2 che fa la differenza.
10 & i suoi multipli sono un po' ovunque, 'disseminati' dappertutto dalla cura quasi maniacale di Dante: ad esempio i passi che si compiono in Purgatorio sono 1000 come 10 passi per andare a raggiungere Gerione. Più i vari nove con l'uno in più e molti altri esempi notevoli. Dante e Matelda, camminando, compiono 100 passi in due, quindi 50 per uno, e 50 è la somma delle 'perfette' potenze di 3, 4 e 5 di nuovo i tre numeri pitagorici.
2, 20 & 22 sono altri numeri particolari in abbinamento.
Essi indicherebbero per Dante il numero di stelle della Via Lattea (1022), ed essendo il XX ed il II numeri per così dire 'palindromi' (invertendo le cifre, il numero non cambia), indicano la Trasformazione, l'Alteratio, ovvero il Passaggio. Infatti, sinotticamente, i canti II e XX delle varie cantiche segnano tutti degli importantissimi 'passaggi'. E così per il 22=20+2: al principio del viaggio, il Sole era al 22° dell'Ariete, e la Luna antipodica si trovava al 22° della Bilancia. Il Benini ha dimostrato come, secondo calcoli dell'epoca, Dante stesse viaggiando nell'anno 6500, (ventitreesimo giorno) dell'Umanità: per farlo, avrebbe dovuto lasciare la selva il giorno ventidue.
Sempre Benini calcolò, considerando orari, distacchi temporali eccetera, che per risalire 'a riveder le stelle' Dante impiegò 22 ore.
Il fossato delle Malebolge gira 22 miglia a dir di Virgilio, come la Roma dell'epoca…
Scatta l'accusa di eresia contro Dante da parte dell'Aroux, per aver anche solo accennatamente osato paragonare la sede papale alla sede dei demoni.
Quanto alla Via Lattea, l’antica luce delle stelle è stata sempre connessa alla casa celeste in cui dimorano gli spiriti dei trapassati…
Non sembra necessario aggiungere altri numeri notevoli, comunque una nota particolare meritano i versi sinottici, versi cioè che sia nell’Inferno che nel Purgatorio e nel Paradiso trattano temi affini. Risultano decisamente sinottici il III, il V, VI, VII, IX, X, XV, XVI, XX, XVII e XXX.
Conclusione
E finalmente, dopo le varie osservazioni, usciamo anche noi a riveder le stelle.
Abbiamo trattato le simmetrie della Divina Commedia in chiave astrologica, numerologica ed abbiamo accennato alla particolare natura dei versi sinottici.
Naturalmente, esistono molte altre simmetrie di concetto e certamente molto affascinanti, ma la fantasia di Dante è davvero alta come lui stesso dice, e si sfocerebbe in digressioni ramificate e in definitiva non troppo pertinenti alla sintesi richiesta dalla carta.
Pertanto, sarà un’ottima cosa leggere l’Opera alla luce delle nozioni qui riportate, e cercare nuove chiavi per la lettura del grande poema dantesco.
Chissà che non emerga qualche nuovo simbolo o un’ennesima traccia della perfezione divina che Dante ha voluto riportare come proiezione scritta, quasi una testimonianza il più fedele possibile alla concezione degli Ordinamenti Spirituali.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla lettura del libro Dante ed il simbolismo pitagorico di De Reigny, ed alla bibliografia dantesca che è certamente molto vasta ed esauriente per ogni curiosità.
Dal sito http://www.crofiz.com/
La sostanza di cui sono composti cieli e astri è, secondo Dante, energia divina cristallizzata e non è soggetta alle leggi di usura e distruzione che dominano nel mondo terreno. Anzi, attraverso la rotazione dei cieli intorno alla Terra, Dio distribuisce su di essa le virtù e le qualità che prima imprime a ciascun cielo. Questa concezione cosmologica consente a Dante di dare fondamento alla credenza nell’influsso degli astri sulla vita umana: l’astrologia era per lui una vera e propria scienza, e come tale poteva conciliarsi con la fede.
La fiducia dantesca nella complessiva armonia dell’universo è testimoniata dai numerosi canti del Purgatorio e del Paradiso che si aprono con complesse perifrasi astronomiche che hanno il compito di ragguagliare il lettore sulla posizione dei pianeti in quel preciso momento del viaggio di Dante nell’aldilà, ma che ribadiscono anche come eventi celesti ed eventi terreni si corrispondano nel grandioso disegno divino.
(…da Moduli di letteratura italiana ed europea di Dendi, Severina, Aretini - Carlo Signorelli Editore).
DANTE E L’ASTROLOGIA
di Filippo Garrone
Dante Alighieri, nell’universalità del suo genio che travalica tempo e spazio, profondo conoscitore dell’astrologia e mago, iniziato in discipline occulte (Templari? Rosacroce? ) , esprime nella Divina Commedia le sue conoscenze esoteriche, e il poema che non può essere interamente compreso senza nozioni astrologiche.
Nell’Inferno i gironi sono suddivisi per peccati capitali secondo la caratteristica astrologica del pianeta, in base alla tradizione che assegna al Sole l’orgoglio, alla Luna l’accidia, a Mercurio l’invidia, a Venere la lussuria, a Marte l’ira, a Giove la gola, a Saturno l’avarizia.
Nel canto XV Brunetto Latini, precettore di Dante, fa un riferimento esplicito all’oroscopo del poeta:
"... Se segui la tua stella,
non puoi fallire al glorioso porto,
se ben m’accorsi nella vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto
veggendo il cielo a te benigno....".
Dante, acuto osservatore, partecipe delle lotte politiche, nel canto VI del Purgatorio scrive quei versi che tutti conosciamo:
"Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta..."
ma pochi ricorderanno che in questo canto Dante identifica Cristo con Giove nei versi:
"O sommo Giove che fosti in terra per noi crocifisso...."
Nel canto XIX scrive:
"Ne l’ora che non può ‘l calor diurno
intrepidar più freddo de la Luna,
vinte da terra, e talor da Saturno..."
notando, in analogia con l’astrologia, che Luna e Saturno sono due astri considerati freddi. Inoltre Saturno, maestro del Capricorno e dell’Acquario, segna due mesi invernali.
E prosegue: "quando i geomanti, lor maggior Fortuna veggion in oriente..", il che è un chiaro riferimento a Giove (in astrologia "Fortuna Maior") , e all’Ascendente (oriente) : Giove all’Ascendente viene considerato segno di nascita fortunata.
Nel canto XXV pone quindi il Toro al Medio Cielo ("cerchio di meriggio") e lo Scorpione al Fondo Cielo ("mezzanotte"), come preciso significato di passaggio dalla vita alla morte: solo chi si interessa di astrologia tiene conto di questi dati, sapendo che Medio Cielo è opposto a Fondo Cielo.
Nel Paradiso ci avviciniamo sempre più alla luce. Nel primo canto, secondo l’uso classico, invoca l’ispirazione lirica: per lui si tratta di Apollo (nome del Sole), in quanto altro termine astrologico; egli considera il Sole la sua Dominante oroscopica. Nel canto IV parla di determinismo astrologico, ovvero della predestinazione. Fa dire a Piccarda di Timeo che "l’alma a la sua stella riede", consigliando però agli studiosi di astrologia di non esagerare nella ricerca di una spiegazione fatalistica della vita, che occorre invece vivere e realizzare in armonia con ciò per cui si è nati, e cioè seguendo le tendenze tipiche date dai pianeti. Il male consiste nel cercare di sottrarsi alla propria indole, espressa dall’oroscopo. Il fatto che non si possa andare contro la propria natura risulta evidente, nella "Commedia", dalla suddivisione dei cieli.
* Nel primo cielo, dominato dalla Luna, mette le anime mancanti ai voti (Piccarda Donati, Costanza Imperatrice), portate alla grammatica e alla poesia.
* Nel secondo, dominato da Mercurio, gli spiriti operanti nella dialettica (Giustiniano).
* Nel terzo, "di Venere", gli spiriti dotati di oratoria (Carlo Martello, i cavalieri medioevali).
* Nel quarto, "del Sole", gli spiriti sapienti (Tomaso d’Aquino, Salomone, Boezio, Bonaventura), i filosofi e i matematici (Agostino, Anselmo, Gioacchino da Fiore).
* In quello "di Marte" gli spiriti militanti (Carlo Magno, Goffredo da Buglione) e amanti della musica.
* In quello di Giove gli spiriti giusti (Traiano, Costantino).
* Nel cielo dominato da Saturno (la Montagna Sacra), gli spiriti contemplanti (San Benedetto) e amanti dell’astronomia.
Dante, insomma, adotta una sistematica che pare attenersi più all’astrologia che allo Spirito cristiano.
Ci sono poi le Stelle Fisse, il Primo Mobile, l’Empireo. Nel canto XVII, cielo di Marte, dice di Cangrande della Scala:
"...vedrai colui che impresso fue,
nascendo sì da questa stella forte".
Nel canto XVIII così descrive Giove:
" O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostrano che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme! ".
Nelle alte sfere del Paradiso, Dante parla di "una primavera sempiterna/che notturno Ariete non dispoglia" (notti di marzo-aprile, canto XXVIII) . Nell’ultimo canto del Paradiso, parla di Nettuno (che sarà scoperto solo nel secolo XIX) ma già presente nell’ultima lama dei Tarocchi (il Matto) in termini di fede, misticismo, poesia e di "stelle" (altra lama), la parola che chiude tutte le tre cantiche.
Nel canto XVI del Purgatorio, a Dante che gli chiede perchè il mondo sia così pieno di "malizia", Marco Lombardo risponde: " Lo cielo i vostri movimenti inizia".
Infine, nel canto XXII del Paradiso, riferendosi alla sua nascita quando il Sole era nel segno dei Gemelli (anche Mercurio e Ascendente sono in Gemelli, mentre la Luna è in Acquario al Medio Cielo), Dante scrive:
" O gloriose stelle o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’io senti’ di prima l’aere tosco;
e poi, quando mi fu grazia largita
d‘entrar nell’altra rota che vi gira,
la vostra ragion mi fu sortita.”
versi da cui emerge una profonda gratitudine per le stelle e il sole (mercuriale) quali fattori indispensabili per accrescere l’ingegno.
Dal sito www.geagea.com
LA DIVINA COMMEDIA E I SEGUACI D'AMORE
di Andrea Romanazzi
Come spesso accade nelle grandi opere, anche la Divina Commedia racchiude, tra i suoi canti, tra le sue figure e tra gli stessi luoghi di dannazione o paradisiaca potenza in essa descritti, segreti che van ben oltre lo sguardo del lettore distratto, e che ripropongono pensieri e credenze nascoste di misteriose sette provenienti dall’oriente e legate a quella forza cosmica chiamata “amore”: i Fedeli d’amore.
Anche se in nessuna storia ufficiale della letteratura se ne parla, ci sono alcuni studiosi come Luigi Valli (Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’amore) che sostengono che i poeti del Dolce Stil Novo, come appunto Dante, non scrivessero semplici poesie d’amore, ma utilizzassero nei loro versi un codice segreto con il quale comunicavano tra loro. Molti di questi poeti, infatti, sarebbero stati Seguaci d’Amore, una confraternita che aveva tra i suoi scopi il ritorno alla purezza della dottrina cristiana e che lottava contro il potere temporale della chiesa. Valli ricorda inoltre altri casi, in particolare dei Sufi persiani, in cui un simile senso era analogamente nascosto sotto le apparenze di una semplice poesia d’amore.
Notiamo un legame stretto con il Catarismo che a sua volta traeva origine da un movimento, il Manicheismo, che era nato appunto in Persia.
Italo Pizzi, nel libro Storia della poesia persiana, fornisce un'interpretazione di alcune parole comunemente usate nelle poesie degli stilnovisti:
Madonna: Fedeli d’amore
Donna: adepto
Folle: fuori della setta
Piangere: simulare fedelta’ alla chiesa
Noioso: contro la setta
Fiore: simbolo della potenza divina
Vento e gelo: forze opposte all’amore
Pietra: la chiesa romana
Come in molti altri componimenti degli stilnovisti, anche nella Divina Commedia e’ nascosto il “vero” ed e’ lo stesso Dante a farci cenno di questo quando nel Purgatorio (VIII, 19-21) dice:
…aguzza qui , lettor, ben li occhi al vero,
che ‘l velo e’ ora ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro e’ leggiero…
Nel medioevo, il simbolo e il numero erano i cosiddetti principia individuationis e la loro funzione, in tutte le opere, sia letterarie sia architettoniche, era importantissima. Lo stesso Dante non si sottrae al simbolismo numerico ed e’ grazie a questo che il Poeta nasconde il “sacro credo”.
Infatti, esaminando la Divina Commedia, notiamo che il poeta non usa mai meno di 115 e piu’ di 160 versi per ogni canto (la frequenza maggiore e’ sui valori 139 e 142). Inoltre non chiude mai un canto con 118 – 121 - 127 versi. La cosa strana e’ che, pur scrivendo in terzine, Dante non impiega mai un numero che sia divisibile per tre, anzi, il numero dei versi finali di ogni canto e’ pari ad un multiplo di 3 piu’ 1.
Facciamo un rapido conto:
118 = 39 terzine +1
121 = 40 terzine +1
127 = 42 terzine +1
Tali numeri potevano essere utilizzati ma, come evidenziato, il poeta cerca di scansare i numeri 39, 40, 42 la cui somma restituisce il 121, quadrato di 11.
Secondo la simbologia cristiana, l’11 rappresenterebbe il peccato: 11 sono per esempio le spire del labirinto della cattedrale di Chatres che il penitente doveva percorrere a scopo purificatorio.
Continuiamo con i calcoli ed esaminiamo il I canto dell’Inferno, che si compone di 136 versi, e cioe’:
1+3+6=10
10=1+0=1
Se facciamo questo per tutti i canti del’Inferno otteniamo tre numeri: 1 , 4 , 7. Esaminiamo il loro simbolismo.
Il numero 1 e’ alla base della numerazione e indica il monoteismo, l’espressione del Dio creatore.
Il numero 4 rappresenta la completezza, l’uomo. Per i babilonesi indicava le 4 regioni del mondo, per gli ebrei il paradiso terrestre con i suoi 4 fiumi, per gli alchimisti i 4 elementi e anche per S. Agostino rivestiva una grande importanza, perche’ “in quaternario numero est insigne temporalium”.
Il numero 7 indica invece la perfezione, perche' somma del 3 + 4, cioe’ Dio (la trinita’) e la materialita’ (i 4 elementi).
Dunque
1 - DIO
4 - L’UOMO
7 - IL CONGIUNGIMENTO DELL'UOMO CON DIO dopo l’espiazione dei peccati (11)
Tutto sembra quindi in tema con lo spirito della Divina commedia, l’uomo che raggiunge Dio dopo l’espiazione dei peccati.
Non finisce certo qui, infatti il 147 lo ritroviamo anche “geograficamente” nell’Inferno, che infatti, dal limbo a Belzebu’, e’ alto proprio 147 miglia. La stessa altezza la ritroviamo nel Purgatorio.
Ovviamente il Poeta , nello scrivere la sua opera, ha tenuto conto della numerazione araba gia’ introdotta in occidente da Fibonacci, studioso che opero’ alla corte di Federico II. A questo punto pare chiaro come anche Dante fosse vicino al culti misterici orientali che, ormai perse le antiche tradizioni egizie, tramandavano nel numero un loro ricordo vago.
Sono cosi’ i Fedeli d’Amore di cui lo stesso Dante faceva parte, quasi per sua stessa ammissione:
"...Vero è che tra le parole ove si manifesta la cagione di questo sonetto si scrivono dubbiose parole...E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d'amore." (Vita Nuova)
Dal sito www.daltramontoallalba.it
http://www.silviadue.net/vari/dante.jpg
Dante: assolto per non aver commesso il fatto
Che fosse abbastanza permaloso, vendicativo e che avesse un’opinione piuttosto alta di sé lo capisce chiunque metta il naso anche solo per poco tra i versi della Divina Commedia. Certo i tempi erano difficili. Però bisogna andare oltre: Dante infatti, secondo molti detrattori del tempo (e non solo), si sarebbe macchiato di corruzione, abuso d'ufficio, “intelligenze con lo straniero a scopo di guerra contro la città di Firenze” e diffamazione a mezzo stampa. Accuse che non potevano rimanere inevase, senza alcuna sentenza. E così a Soave si è tenuto un vero e proprio processo, con tanto di accusa, avvocati difensori e collegio giudicante. Eccellente imputato compreso. Sette secoli non lo hanno fatto cadere in prescrizione.
Non si è trattato però di una trovata goliardica: il processo era inserito in una tre giorni di dibattiti e seminari sull’opera dantesca e l’intero dibattimento si è svolto con la formula del rito abbreviato, cioè senza testimoni. L’avvocato chiamato a difendere il poeta era Guariente Guarienti, un vero principe del foro veronese. Di pari levatura anche l’accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto della Repubblica di Verona Mario Giulio Schinaia. L’onere della decisione è invece andato all’ordinario di Storia della tradizione classica all’Università di Verona Francesco Donadi, e ai due suoi colleghi d’ateneo Giuseppe Chiecchi e Mario Allegri, docenti di letteratura italiana. I tre facevano componevano il collegio giudicante. Dante Alighieri, con tanto di immancabile mantello rosso è stato interpretato dall’attore Tiziano Gelmetti.
“L’Alighieri Dante avrebbe accordato numerosi favori agli amici nello svolgimento delle sue funzioni di Priore del Comune di Firenze per il bimestre 15 giugno-15 agosto dell'anno 1300”. Da qui l’accusa di abuso d’ufficio. La corruzione invece sarebbe derivata per “aver ricevuto per sé e per altri denaro ed altra utilità quale prezzo per il compimento di vari atti contrari ai propri doveri d'ufficio”. Il reato di “intelligenze con il nemico” era quello più grave: in pratica l’accusa sosteneva che Dante non solo facesse la spia e tramasse contro i Guelfi Neri, ma che avesse cercato di rientrarvi in armi alleandosi con i Ghibellini. Un traditore della patria, roba che se fosse successo oggi lo avrebbero spedito a Guantanamo senza pensarci due volte. Infine la diffamazione a mezzo stampa. Qui in realtà molti potrebbero aver qualcosa da dire al collerico fiorentino, ma a fare la voce grossa in questo caso è solo la Chiesa: Dante nell’Inferno spedisce Bonifacio VIII e Clemente V nel girone dei simoniaci, accusandoli di nepotismo. Che i due non fossero esattamente dei cavalieri senza macchia lo sostengono quasi tutti gli storici, ma la Chiesa è un’istituzione che a volte prescinde da chi la guida: da qui la "chiamata" di costituzione in parte civile per il neo-papa Benedetto XVI.
Come è andata? L’accusa ha chiesto che le ceneri del poeta rimanessero per sempre lontane da Firenze, per la gioia dell’assessore al Turismo di Ravenna, città che ogni anno ospita non pochi turisti attirati proprio dalle spoglie di Dante. Una richiesta pesantissima. Ma la corte – a dire il vero a dispetto anche delle attese dell’avvocato difensore – ha rigettato tutte le accuse revocando l’esilio perché deciso “contro la volontà di un uomo che ha sempre amato la sua città in modo viscerale, come dimostra tutta la sua opera, in particolare il Convivio, dove esprime la speranza di poterci tornare”. Non solo: è stato deciso che Ravenna restituisca le ceneri di Dante a Firenze perché vengano poste nella chiesa di Santa Croce. Tutto finito? No, perché tra qualche settimana verranno reso noto l’intero dispositivo della sentenza con tutte le motivazioni. E allora la palla arriverà nelle mani dei sindaci di Firenze e Ravenna.
Liberamente tratto da www.sapere.it (20 maggio 2005)
http://www.silviadue.net/vari/dante1.jpg
Tomás de Torquemada
13-09-07, 22:45
Luigi Valli
Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d'Amore»
Testo digitale alla pagina
http://www.classicitaliani.it/index071.htm
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/b/ba/Dante03.jpg/562px-Dante03.jpg
Anonimo, Ritratto allegorico di Dante (1530) - Immagine tratta dal sito http://upload.wikimedia.org/
harunabdelnur
14-09-07, 15:18
Carissimi Torquemada e Silvia !
Ottimi come sempre, uno splendido lavoro!
Abdel Nur
sagittarius
14-09-07, 16:40
atti del convegno organizzato dal Rito Simbolico Italiano:
Sotto il velame. Dante fra universalità esoterica e universalismo politico
Mimesis Edizioni, pagg. 63
Scritti di
Piero Vitellaro Zuccarello
Luigi Della Santa
Angelo Iacovella
Alessandro Grossato
Marco Vannini
descrizione:
Dalle prime intuizioni di Ugo Foscolo ai fondamentali studi di Gabriele Rossetti, da Giovanni Pascoli a René Guénon, la problematica dell'ermeneutica dantesca è stata interpretata in termini iniziatici ed esoterici e in una prospettiva intellettuale più elevata, nonostante l'ostracismo della critica dantesca ufficiale.
Il Collegio Mediolanum del Rito Simbolico Italiano, che ha curato la presente pubblicazione, ha voluto andare ancora una volta controcorrente e porre al centro dell'attenzione le opere degli autori menzionati, nell'intento di dare un contributo teso a rilanciare gli studi sui significati più profondi dell'opera dantesca, come si evince dai saggi di Piero Vitellaro Zuccarello e Luigi Della Santa.
La questione della censura delle opere concernenti l'esoterismo di Dante si intreccia con la prolungata rimozione dal panorama culturale italiano della questione delle fonti islamiche della Divina Commedia, che ancora in certa misura persiste. Tale questione fu affrontata per la prima volta in modo magistrale da Asin Palacios e recentemente dall'italianista Maria Corti. In Italia una tale rimozione è durata più a lungo che in altri paesi, a causa di un becero nazionalismo e di un malinteso senso della "cattolicità" di Dante. Anche in tale campo si è voluto cercare di dare un contributo di conoscenza con gli interventi di Angelo Iacovella e Alessandro Grossato.
Nel saggio di Grossato sono state anche esaminate le concezioni politiche universalistiche di Dante, poggianti sull'idea da lui propugnata di un impero universale spiritualmente legittimato, concezioni che si riscontrano sia nel ghibellinismo occidentale sia nell'Islam.
Infine, Marco Vannini ha fornito un raffronto fra le prospettive di Dante e quelle del grande metafisico tedesco Meister Eckhart.
Powered by vBulletin® Version 4.2.5 Copyright © 2024 vBulletin Solutions Inc. All rights reserved.