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Rodolfo (POL)
20-03-02, 03:06
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IL GAULEITER MUSSOLINI NON E' MAI ESISTITO, PAROLA DI GIORGIO BOCCA (Da: Ciao, rossa Salò)
Enrico Landolfi
Alla mia amatissima sinistra, nella viva speranza che si decida finalmente a rendersi conto di ciò che veramente successe nella Repubblica Sociale Italiana. Ciò al fine di adeguatamente misurarsi con quelle remote difficilissime cose ed eventi e non essere ancora una volta presa in contropiede.

Enrico Landolfi. Ciao, rossa Salò.


L’ufficialissima posizione dell’Italia ufficiale sul Mussolini della Repubblica Sociale Italiana è arcinota: uno straccio d’uomo fattosi affittare dai tedeschi occupanti nel ruolo di un burrattino vestito con i panni di un capo di Stato alleato, ma in realtà adoperato dal puparo nazista in una squallida funzione di modesto gauleiter. La versione, insomma, dell’antifascismo più tradizionale. Enorme, oceanica la massa delle citazioni possibili a supporto di tale deprimente interpretazione del Benito ultimo. Mettiamo le mani nel mucchio ed estraiamone un paio, così, a casaccio. Ecco, c’è Nicola Caracciolo - autore insieme a Valerio Marino all’avvio degli Anni Novanta di un documentario di successo presentato al Festival del Cinema di Venezia con il titolo I 600 giorni di Salò - il quale così si esprime in una intevista rilasciata a L’Unità e raccolta da Gabriella Gallozzi: “...a cinquant’anni di distanza cosa avremmo potuto aggiungere di più al giudizio storico ormai acquisito? E’ noto che la Repubblica sociale è stato un tragico fallimento: con Salò Mussolini ha legato il fascismo al carro di Hitler.” E aggiunge, a sua volta, la Gallozzi: “...un altro filmato, di quelli inediti, mostra invece tutte le difficoltà di un esercito ormai dilaniato dalle diserzioni, costretto ad arruolare ragazzini giovanissimi. E poi le ultime immagini di Mussolini, davanti alle sue truppe nel ‘44, ormai non più capo del fantomatico impero, ma un uomo stanco sottoposto completamente ai voleri di Hitler e ossessionato dall’idea di essere tradito dai suoi generali.”
Un Mussolini-spazzatura, dunque. Ma è proprio vero che nel campo dell’antifascismo militante e, anzi, guerriero, questo sprezzante, liquidatorio giudizio non soffre eccezione alcuna? No, non è vero. Per esempio, una illustre personalità della cultura resistenziale, giornalista famoso, storico autorevole, intellettuale di grosso spessore, non è propriamente del parere dei predetti signori, fino al punto di discostarsene nettamente. Trattasi di Giorgio Bocca, tra i fondatori, insieme a Duccio Galimberti e a Bianco, delle formazioni “Giustizia e libertà”, comandante della X Divisione GL, vice commissario politico nel cuneese e, dalla fine della guerra ai nostri giorni, firma di prestigio e di lusso su quotidiani quali La Gazzetta del Popolo, Il Giorno, La Repubblica, nonché su settimanali come L’Europeo, L’Espresso e vari altri periodici. Ecco cosa scrive Bocca a proposito del rapporto di Benito Mussolini con i tedeschi in uno dei suoi tanti volumi, Storia d’Italia nella guerra fascista, apparso nelle librerie un quarto di secolo fa e gratificato da un grande successo di critica e di pubblico: “La trappola è pronta a scattare e il dittatore non fa nulla per sfuggirle. Deposta l’arroganza, quasi rassegnato alla sorte, rinuncia ai ricorsi “ barbarici” che Hitler gli ha suggerito, non si dissocia dal regime, non intende governare dietro la protezione delle baionette tedesche. E’ un uomo di molti errori e di molti misfatti, ma non è un quisling. Se volesse potrebbe chiedere l’intervento tedesco e fare piazza pulita dei suoi avversari, ma sarebbe la fine del suo potere legale. Non dimentichiamo che a Salò andrà solo dopo lunghe esitazioni e sotto la minaccia tedesca; concediamogli di non aver animo da servo.” Il Lettore di certo avrà compreso che il pezzo fa riferimento alla situazione di “ammutinamento” creatasi nell’ambito delle alte gerarchie littorie alla vigilia della drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio ‘43.
Rapida riflessione. Il libro di Bocca è di parecchi lustri successivo a quel riluttare mussoliniano al protettorato germanico. Se dopo l’ 8 settembre ‘43 il Duce si fosse ad esso acchetato, il brillante scrittore piemontese avrebbe avuto a disposizione una bella fetta di Novecento per inseverire il giudizio coraggiosamente equo - per quel che attiene al modo di atteggiarsi dell’uomo di Predappio con l’uomo di Braunau - verso colui che egli come partigiano aveva onestamente combattuto dopo averlo altrettanto onestamente servito in qualità di segretario del GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Cuneo mediante articoli contro potenze e potentati “demoplutogiudaicomassoni” su riviste “di area”, come oggi si direbbe. O, magari, prendendo a sganassoni su di un treno un industrialotto locale per essersi costui permesso - correva l’anno di grazia 1943 - di dubitare a voce alta della immancabile vittoria delle forze armate dell’Asse e, in esse, di quelle italiane. Con relativa, successiva denuncia alla polizia del malcapitato imprenditore per disfattismo. Peccatucci di gioventù, indubbiamente, svelati dal quotidiano L’Indipendente quando era diretto, in chiave berlusconiana, non ricordiamo bene se da Vittorio Feltri o da Pia Luisa Bianco, “penne buone” sempre in fregola di fromboleggiamenti sui polemisti più agguerriti del fronte progressista. Certo, Bocca dà un colpo al cerchio e uno alla botte; né potrebbe fare diversamente, non essendo lecito, stando ai comandi dell’etica resistenziale, vergare anche una sola pagina dalla quale possa emergere il sospetto che questo Mussolini, poi, non fosse un personaggio completamente negativo e, conseguentemente, non demonizzabile a volontà dovunque, comunque e da chiunque.
Riflessione anche più rapida, rapidissima, su quanto affermato da Nicola Caracciolo a proposito del connotato di fondo di Salò, definita “tragico fallimento”. Il Caracciolo, uomo colto e preparato, non può non sapere che in Italia, per un verso o per l’altro, tutte le Repubbliche delle età moderna e contemporanea - non si può andare troppo lontano con riferimenti a Roma e alle “marinare” del Medioevo - sono state un tragico fallimento: a tacer d’altre, la Partenopea, la Cispadana, la Cisalpina, la Romana e, buon ultima, la prima Repubblica “nata dalla Resistenza”. Da fare inoltre presente che in tema di indipendenza di repubbliche dallo straniero se Sparta piange Atene non ride, come usa dire. I regimi giacobini altro non furono che protettorati francesi, dove i proconsoli del Direttorio o del Bonaparte facevano il bello e il cattivo tempo: depredavano, saccheggiavano, imponevano tributi esosi, requisivano, reclamavano contingenti militari per guerre dove l’interesse italiano allegramente latitava, si riservavano l’ultima parola per quel che concerneva le cariche pubbliche ed i pubblici affari, trattavano gli italiani dall’alto in basso. Unica eccezione: la Repubblica Romana di mameliana memoria. Ma lì, ecco il punto, a tenere la bacchetta in mano c’era nientepopodimeno che un certo Giuseppe Mazzini. Ora,con tutti questi poco illustri precedenti, come ha potuto Caracciolo limitarsi a dichiarare che “con Salò Mussolini ha legato il fascismo al carro di Hitler”? Comprendiamo bene che egli non era in grado di esimersi dal bruciare il suo bravo grano di incenso sull’altare delle “verità” ufficiali, di Stato, di epoca, duramente presidiate da quelle vestali della formazione conformista che sono gli intellettuali organici di tutti indistintamente i partiti. Ma, insomma, perché essere poi tanto astrattamente radicali nel giudizio negativo da mettersi in condizione di farsi smentire da una figura storica come Giorgio Bocca che, oltre ad appartenere al più qualificato e autorevole brain trust della cultura resistenziale, il partigiano l’ha fatto sul serio e quando parla sa quel che dice? Affermiamo ciò senza nulla togliere alla nostra amicizia e considerazione per un giornalista come Nicola - peraltro amico molto caro - il quale ha fatto tutte le sue brave prove con risultati notevolissimi. Fra cui, appunto, I seicento giorni di Salò.
Nel Diario di Giovanni Dolfin, giovane segretario particolare di Mussolini prima di essere sostituito da Luigi Gatti, cogliamo alcuni sfoghi del Duce. Taluni di essi sembrerebbero dare ragione ai Caracciolo, ai Gallozzi, a tutto il vasto stuolo degli sputtanatori della RSI e del suo Capo. Questo, per esempio: “Ormai abbiamo perduto molto del nostro prestigio e stiamo perdendo quel poco che ancora ci rimane, esercitando per delega altrui un potere che si rivela sempre più fittizio. Ciò ci toglie ogni residua simpatia da parte del popolo italiano che non potrà, sotto il peso della sventura, mai capire il mio tormento per lui. E’ mio dovere, comunque, non sottrarmi alla responsabilità che fa parte del mio destino.” Un gauleiter rassegnato e psicologicamente distrutto dalla consapevolezza della sua subordinazione e della connessa inconsistenza del suo ruolo dunque? Niente affatto. Pur senza abbandonare la chiave elegiaca dello sfogo, eccolo riprendersi e, con orgoglio, rivendicare necessità, positività, insostituibilità del nuovo, più umile ma anche più nobile compito affidatogli dalla storia. Dichiara: “Eppure, senza di noi, senza questa cosiddetta larva di governo, che lotta come può, ma lotta, i tedeschi avrebbero avuto, l’8 settembre, buon gioco per trattare l’Italia come terra di preda. Non mancavano loro né gli intendimenti, né le ragioni né i mezzi per impiegare nei nostri confronti la stessa durezza che hanno posto in essere verso i popoli e le terre che hanno conquistato con le armi.” A questo punto scatta una nostra seria, forte riserva relativa alle “ragioni” dei germanici, i quali sicuramente ne avevano da far valere nei confronti di Badoglio e sodali, ma altrettanto certamente si erano spesso e soprattutto volentieri comportati nei confronti dell’Italia, fascista o meno che fosse, con enorme scorrettezza. Potremmo riempire un intero volume a ciò dedicato, ma basterà citare a volo d’uccello due soli casi: l’accordo Ribbentrop-Molotov prima e, quindi, l’aggressione all’URSS. Ambedue le volte Regno d’Italia e Regime Fascista, annodati nella Diarchia, furono messi di fronte al fatto compiuto.
Ma seguiamo il Dolfin in una sua chiosa al peculiare agire mussoliniano durante i seicento giorni sulla riva del lago : “In questi tre mesi che gli sono vicino, non l’ho mai sentito una sola volta esprimere parole di odio, che non siano state il frutto di un impulso immediato, subito corretto, attenuato, verso i suoi avversari. Quando può, continua a salvarli, accentuando nei tedeschi diffidenza e ostilità. (Quindi, non è un pupazzo, un rimorchiato, uno strumento nelle mani dei nazisti.) Silvestri ne sa qualche cosa. Giunge da noi settimanalmente, con lunghi elenchi di perseguitati politici arrestati dalle diverse ed incontrollate polizie. Talvolta si tratta di nomi ritenuti importanti quali capi responsabili del movimento clandestino. Anche per Roveda, il duce si sta opponendo ad un processo che i tedeschi e il partito reputano necessario. ( Si è mai visto un servo contestare a un padrone il diritto di processare chi gli pare e piace?). Egli disprezza soltanto coloro che, approfittando della sventura, fascisti sino a ieri, hanno gettato tessera e fede per un atto di vigliaccheria fisica, infierendo contro altri fascisti. Ed ha ragione.”
Del resto, che Mussolini non abbia alcuna intenzione di essere un quisling sia pure riveduto e corretto emerge anche da una risposta a Leandro Arpinati, fra i massimi gerarchi targati Anni Venti, “ras” di Bologna caduto in disgrazia per un diverbio con Starace che, comprensibilmente, aveva negato la tessera del PNF a Mario Missiroli, “penna buona” dell’antifascismo, duellante mediante sciabola oltre che inchiostro con Mussolini, il quale su Il Popolo d’Italia lo aveva definito “perfido gesuita e solennissimo vigliacco” per avere egli tacciato il fascismo di “schiavismo agrario”. Dunque, ad Arpinati che gli dice: “Ma vedo che tu sei prigioniero dei tedeschi” risponde: “Non è vero. Ho fatto sapere a tutti che io faccio il capo del governo e devo avere la più ampia libertà d’azione. Se no me ne vado. Ma ho bisogno di persone sicure. Tu sei l’unico uomo su cui posso veramente contare. Tu devi essere per ora il ministro dell’Interno. Poi, nella nuova repubblica, io sarò il presidente e tu sarai il capo del governo. Ma tu devi stare con me.”Dove ci si imbatte nel solito Mussolini, assolutamente sprovveduto come intenditore di uomini. Afferma di ritenere l’Arpinati il solo degno di affidamento. E’ invece distante trilioni di anni luce dalla verità. Infatti il felsineo interlocutore rifiuta le offerte tremende e generosissime del suo ex capo e, in verità molto correttamente, gli significa di non poter patrocinare una causa a lui completamente estranea e, men che meno, di identificarsi con essa; tanto più che i princìpi stessi su cui si fondava la Repubblica Sociale Italiana sono ben lungi dall’incontrare fervori e favori suoi. Per dirla tutta: Leandro Arpinati, liberista puro, “berlusconiano” come oggi si dice, è avverso alla socializzazione; ed è strano che il Duce abbia dimenticato, a parte la questione Missiroli e l’incompatibilità con Achille Starace, un altro dei motivi del braccio di ferro con le alte gerarchie littorie che ridusse l’autorevole squadrista emiliano ai margini, fuori del Regime: la sua dichiarata avversione al corporativismo. Ma costui non si limiterà a respingere le compromettenti e tuttavia allettantissime profferte mussoliniane; prenderà contatti con la Resistenza e darà asilo a prigionieri angloamericani e affini, guadagnandosi benemerenze antifasciste e antitedesche che gli varranno la fucilazione da parte non delle Brigate Nere bensì dei partigiani. Nei momenti più tumultuosi e caotici successivi alla capitolazione gemanica un gruppo di tangheri, ignari delle vicissitudini dell’Arpinati nel Ventennio e neppure edotti della sua recente posizione politica, decisero di metterlo al muro senza sentire ragioni né accettare spiegazioni.
Di questa orrenda oltre che paradossale vicenda va però colto un elemento preciso: Mussolini si rivolge all’antico seguace per affidargli il dicastero dell’Interno soprattutto per sfruttarne le doti di personalità e di energia, precipuamente al fine di fare argine all’invadenza dei nazisti e alla odiosità dei loro metodi. Ma la nomina di Arpinati gli serviva anche per bloccare la candidatura “naturale” di Guido Buffarini Guidi, personaggio dal carattere ellittico e sfuggente; e, oltre a ciò, in fama di propinquità eccessiva ai tedeschi, alle loro idee, ai loro interessi. Comunque, Arpinati o non Arpinati, Buffarini o non Buffarini, l’Uomo che dai fastigi e dai trionfi di Palazzo Venezia era finito in una sorte di esilio lacustre silente e solitario la sua parte di frenatore degli alleati/occupanti la fece. Nei limiti consentiti dalle circostanze eccezionalissime, negative, drammatiche, si capisce. E giunse addirittura al punto di intervenire su Hitler nel tentativo di salvare uno dei membri della congiura del venti luglio ‘44: il diplomatico Von Hassel, già rappresentante del Reich a Roma. Ordinò all’ambasciatore a Berlino, Filippo Anfuso, di fare un passo presso il Fhurer. Non ricordiamo, mentre scriviamo, come andò a fnire. Tuttavia si trattava di una causa disperata.
I più violenti detrattori di Mussolini - soprattutto alcuni ex ultras in camicia nera passati sull’altra parte della barricata, quindi, bisognosi di accreditarsi nella nuova veste con sfoggia di incontenibile avversione per il vecchio idolo non più sostenuto dalla Dea bendata - hanno scritto e detto che sulle rive del Garda il già Inquilino di Palazzo Venezia altro non era che un fantoccio su cui i tedeschi riversavano solo ironia e, soprattutto, disprezzo. Orbene, mai raffigurazione fu più marcatamente strumentale. Certo, nel suo Diario il Goebbels scrive: “in fondo, questo Mussolini è soltanto un italiano”, ma trattasi di valutazione che, ove a conoscenza dell’interessato, non sarebbe affatto tornata a lui sgradita. Hitler, ben diversamente dal ministro, sempre ritenne Musolini un suo pari e lo rispettò profondamente, cercando, ove possibile, di venirgli incontro nei desiderata. Fermo restando, ovviamente, il primato degli interessi tedeschi. Per esempio, pur non credendo alla socializzazione, ordinò ai rappresentanti in Italia del Reich - ma si trovarono marchingegni idonei ad ottemperare solo in misura limitata alle sue disposizioni - di non contrastare il revival socialista del vecchio direttore de La lotta di classe e de L’Avanti!. Così come - riferisce ciò il Deakyn, autore inglese di sicura caratura antifascista, nella Storia della Repubblica di Salò - a proposito della macabra farsa giudiziaria di Verona “ripeté le sue istruzioni, che cioè il processo doveva essere considerato una questione esclusiva di Mussolini nella quale i tedeschi non dovevano interferire, né in un senso né nell’altro.”
In taluni momenti a taluni tedeschi al rispetto viene a sommarsi l’entusiasmo più schietto e, perfino, l’ammirazione più incondizionata. E così in occasione del famoso discorso al Teatro Lirico del dicembre ‘44 - nella Milano che lo aveva accolto festosamente, trionfalmente, con una folla turgida di nostalgia e di rimpianto; quella stessa che quattro mesi dopo funestamente, orgiasticamente danzerà non dinnanzi all’Albero della Libertà, ma allo scempio di Piazzale Loreto - Rudolf Rahn, l’ambasciatore tedesco, esprime questo parere sull’allocuzione del più famoso incantatore di “adunate oceaniche” che mai abbia calcato le scene della storia e della politica sul pianeta: “E’ decisamente un grand’uomo, capace di imporsi ai più grandi della terra; il suo discorso è stato un autentico capolavoro davanti al quale bisogna togliersi il cappello.” Se questo è un commento sprezzante...! Ma vediamo come un altro “crucco” descrive le manifestazioni incontenibili di gioia dei milanesi al passaggio per strade e piazze di colui che si considerava - lo aveva detto anche a Vittorio Emanuele III a Villa Savoia, prima dell’arresto - “l’uomo più odiato d’Italia”. Chi scrive è, eccezionalmente, un tedesco simpatico, il dott. George Zachariae, medico curante di Mussolini, specialista delle malattie di cui soffre il Duce e in pianta stabile a Salò su disposizione di Hitler per seguirne gli sviluppi e adeguatamente curarle. Dice dunque costui: “...I marciapiedi erano invasi da una quantità di gente in continuo movimento, da una popolazione entusiasta che si spingeva avanti per vedere il suo duce da vicino, per cogliere possibilmente un suo sguardo; spesso erano vani i tentativi dei vigili e della truppa per tenere sufficientemente libera la strada, poiché la folla tentava ad ogni istante di rompere i cordoni in modo che le macchine potevano avanzare lentamente e con la massima prudenza. Io ho visto anche a Berlino delle scene indescrivibili di entusiasmo, ma l’entusiasmo al quale ho assistito in quei giorni a Milano è ben raramente eguagliabile.” E “La folla è femmina”, soleva dire quel maschilista inveterato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini. Ma come dargli torto se la massa meneghina, nel giro di una manciata di mesi, passa da una strabiliante e straripante euforia a una indecente, indegna manifestazione di filostragismo barbarico e infame, destinato a disonorare l’Italia e Milano agli occhi di tutto indistintamente il mondo civile? Per quanto ci riguarda, ci rifiutiamo di coinvolgere l’ampia parte sana, creativa, feconda liberatrice della Resistenza in quell’obbrobrio. Così come, del resto, ci guardiamo bene dall’indebitamente mescolare la altrettanto vasta quota pulita, patriottica; civilissima, nazional-popolare, socializzatrice della Repubblica Sociale Italiana con le bande teroristiche delle cosiddette polizie private, con il secco collaborazionismo ideologicamente ottuso o privatisticamente interessato degli elementi e dei gruppi filonazisti che sfuggivano anche al controllo di Mussolini e dei suoi più affidabili ministri. In ogni caso, siamo incommensurabilmente avversi - e non certo per spirito banalmente pacifondaio, ché sappiamo ben comprendere l’esigenza delle guerre di liberazione; ma per schietta vocazione umana e politica - all’idea stessa della guerra e, in primo luogo, di quella detta “civile”, che meglio sarebbe chiamare incivile.
C’è davvero da chiedersi se, al termine di quella magica giornata, Mussolini non si sia ricordato della frase pronunciata quando, trent’anni prima, lo avevano espulso dal PSI e non abbia colto la esplosiva veridicità. “Voi mi odiate perché mi amate ancora.”, disse allora; e che ancora lo amino - nel classico rapporto amore/odio - lo si evince sempre di più mentre il sacerdote d’Esculapio speditogli da Berlino prosegue, più che mai sbalordito, nella sua al tempo stesso realistica e favolistica narrazione, così esternando nel descrivere i movimenti del Duce dentro la caserma della Legione Muti ove si era recato per assistere alla sfilata della Guardia Nazionale Repubblicana: “Il duce, che voleva uscire, non poteva muoversi. Io stavo proprio dietro a lui, alla mia sinistra c’era Pavolini e alla mia destra Buffarini; invano cercavamo di fargli un argine, di aprirgli una strada. Una signorina mi saltò sulla schiena , mi tenne stretto, mi tirò indietro la testa e con la mano libera riuscì ad aggrapparsi a una delle spalline del duce, gridando nelle mie orecchie: Duce - Duce; abbandonò la spallina solo quando egli si voltò e le fece una carezza sulla guancia. Allora mi lasciò libero, piangendo e ridendo di gioia e io la vidi sparire tra la folla.” Annota a sua volta Bruno Gatta, storico e giornalista di talento, nella eccellente biografia di Mussolini licenziata alla stampa per i tipi della Editrice Rusconi nell’88: “Il 18 dicembre, il terzo giorno della visita di Mussolini, parata al castello Sforzesco delle forze giovanili del fascismo milanese. Una marea di popolo lungo il percorso...Sono inquadrate prima le giovani, le giovanissime, le piccole italiane, poi i giovani, i balilla, gli avanguardisti e, infine, completano il quadrato le ausiliarie, cioè le donne-soldato, anch’esse, soprattutto esse, in ordine perfetto e marziale. All’ingresso di Mussolini cantano gli inni del fascismo...C’è la benedizione delle bandiere, poi Mussolini sale sul podio e parla brevemente, rievocando quel 18 dicembre di nove anni prima in cui le donne italiane si erano raccolte attorno all’ara dei caduti e vi avevano deposto i loro ori, compreso l’anello nuziale...Mussolini bacia la bandiera che una bella giovane italiana gli tende, bacia anche la giovinetta in divisa” che, assicura quindi lo Zachariae, “ha una espressione estasiata, di beatitudine senza pari; una grande tenerezza, una dedizione completa e un’intensa commozione le si leggono sul volto, anche questo quadro è per me indimenticabile:”... Era convintissimo, il nume tutelare della salute del Solitario del Garda, che si trattava di “un entusiasmo spontaneo e sincero, dell’ultima grande fiammata che rievocava i giorni dell’apoteosi, di una immensa fiammata di passione che non avrebbe lasciato presagire la ormai prossima, tragica fine.” Soggiunge: “Notavo come fosse difficile, per le ragazze specialmente, star ferme nei ranghi anzichè correre verso il Duce. La lotta interna che dovevano sostenere si vedeva chiaramente nei loro volti, molte di loro avevano le lacrime agli occhi ma non ci fu un solo caso di indisciplina.”
A questo punto è giusto che il Lettore dica la sua. Magari rispondendo, rispondendosi, al seguente quesito: Sono mai immaginabili scenari simili per un servo dei tedeschi o di chicchessia?
Interrogativo, questo, che si posero, per esempio, sia il fascista di estrema sinistra Stanis Ruinas (autore nel ‘44 di un volume, Lettere a un rivoluzionario, poliantea epistolare diretta a un ignoto amico comunista per indurlo a schierarsi con la RSI), sia al già mentovato ex fascista passato all’antifascismo combattente Giorgio Bocca. Il primo condensa il problema in una ulteriore domanda a se medesimo: “Era febbre di curiosità, o delirio, o pazzia?” Il secondo tenta di cavarsela con una spiegazione, come dire?, “funzionalistica”. Dice: “Singolare il fatto che Mussolini sia riuscito a percorrere in macchina scoperta una grande città come Milano. La sua visita coincide, è vero, con un momento di crisi dll’organizzazione gappista ma rivela anche una debolezza della Resistenza milanese, che apparirà in modo ben più chiaro nelle ore dell’insurrezione.” Bocciamo ambedue le dichiarazioni. Esse, infatti, restano molto al di qua del reale, perché non connessa alla questione relativa alle giornate di apoteosi mussoliniana mentre la guerra andava come andava e, per communis opinio, la famosa “capitale morale” era, di fatto, nelle mani dell’apparato resistenziale.

CIAO ROSSA SALO' Enrico Landolfi. Edizioni dell'Oleandro, Via Monte Cassino 8, 00141 Roma. Tel 06-87191202.

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IL GANDHI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Da: Ciao, rossa Salò)
Enrico Landolfi
Questo libro viene da sinistra e va a sinistra, frutto, com'è, di documentazioni e, soprattutto, di riflessioni sui seicento giorni della repubblica di Mussolini da parte di chi, come noi, fa riferimento alla complessiva area popolare, riformatrice, progressista. Perché questa direzione? Perché nelle pagine presentate con un titolo paradossale, iperbolico, provocatorio nel senso buono della parola, spicca l'indicazione della esigenza di uscire - per quanto attiene alla tragica guerra fratricida del '43-'45 - dalle infeconde e astratte demonizzazioni globali della RSI, dalle avare concessioni in chiave "perdonistica" e "comprensionistica". Ciò al fine di approdare a sponde...

Enrico Landolfi. Ciao, rossa Salò.


Abbiamo conosciuto il dott. Giorgio Pini e lungamente conversato con lui, in anni ormai lontani. Ne accenneremo dopo avere trascritto le poche righe deakiniane dedicate al modo con cui il periclitante ministro accolse lo sgraditissimo sottosegretario - suo “collaboratore” per modo di dire, poco essendo, anzi non essendo affatto, un “collaborazionista” - rifilatogli da un Mussolini che aveva in uggia e in dispetto quei maggiorenti erresseisti proclivi a fare comunella con i cosiddetti “camerati germanici” anche oltre gli inevitabili contatti imposti, o solo suggeriti, dalla realtà della situazione politico-militare nella quale versava l’Italia e, quindi, la Repubblica. Scrive lo storico britannico: “ La nomina di Pini a sottosegretario agli Interni costituiva un avvertimento per il Ministro. Pini fu subito tenuto ai margini degli affari più importanti, specialmente politici. La corrispondenza ministeriale non passava per le sue mani, e tutte le questioni erano trattate personalmente da Buffarini e dal suo ufficio a Maderno; questi, anche se non era in grado di svolgere le più elementari attività amministrative interne, costituiva peraltro un centro bene informato di notizie politiche. Aveva proprie unità di polizia e propri agenti. Ogni linea telefonica era controllata, compresa quella del duce e della sua segretaria.” Da notare che il Deakin ricava queste notizie da un volume del giornalista bolognese - di cui è facile immaginare i legami affettivi che potevano unirlo a un Buffarini che, in punto di personalità, di princìpi, di linea, di complessiva visione delle cose, era il suo esatto opposto - edito negli Anni Cinquanta dalla Editrice Cappelli con il titolo Itinerario Tragico.
Giorgio Pini era il non violento per antonomasia della Repubblica Sociale Italiana, peraltro non risparmiato dalla violenza abbattutasi sulla sua famiglia con l’uccisione di due dei suoi figli. Il che, ecco qualcosa di stupendo, lungi dall’inasprirgli il carattere, rincalzò le componenti “religiose”, evangeliche, pacificatrici, distensioniste, della sua realtà umana. Fu il Ghandi della RSI, così come Pavolini fu il Robespierre del fascismo in tutti gli aspetti, i momenti, le vicende del Regime. Non sappiamo se, come afferma lo scrittore albionico, la “frazione moderata” cui si richiamava il Pini fosse davvero “estranea” al PFR. Francamente tale asseverazione, pare a noi piuttosto azzardata, riferita com’è a una congiuntura politica caratterizzata dalla diffidenza per i “senza tessera”, per gli “indipendenti”, per i “fiancheggiatori”, visti come il fumo negli occhi dai “puri” che, paventando - non a torto, dal loro punto di vista - le male piante dell’alibismo, del doppiogiochismo, e, insomma, delle mezze tinte e dei toni grigi, intuivano nella richiesta della tessera del Partito le seguenti cose: una aperta, chiara, inequivoca assunzione di responsabilità; una presa di distanza, senza ambiguità e incertezza, da quelli del 25 luglio; la rottura, ribadita una volta per tutte e senza possibilità di obliterazioni o solo di attenuazioni, con il “nemico”, vale a dire con quella Resistenza che Benito Mussolini soleva definire “Vandea monarchica bolscevica” e ciò che ad essa stava dietro, ossia le Nazioni Unite - altrettanto icasticamente indicate dal Duce con l’appellativo di “Potenze demoplutogiudaico massoniche” - i loro eserciti, le loro ideologie, i loro interessi egemonici di Stati di livello planetario, il tartassatissimo e più o meno badogliano Regno del Sud, gravato da una occupazione pesante, da una cobelligeranza umiliante ed elargita con il contagocce in attesa di imporgli la firma di un trattato di pace capestro, da una supervisione arrogante, da rapporti politici e personali improntati al più odioso disprezzo.
Orbene, Giorgio Pini era la vivente negazione di un trasformista, di un voltagabbana, di un essere infido, di un personaggio in chiaroscuro. Neanche volendo, avrebbe potuto esserlo. Al Popolo d’Italia era stato, di fatto, il vice del Capo del Regime, il suo uomo di fiducia. Consegnò alla storia un libro dal titolo Filo diretto con Palazzo Venezia i contenuti delle telefonate quotidiane con il Duce, rimasto il vero Direttore. Dopo l’otto settembre non mancò all’appuntamento - un rendez-vous più che naturale - con il lider maximo di un Littorio ora interpretato in versione repubblicana e rivoluzionaria, che subito lo destinò alla direzione de Il Resto del Carlino, prestigiosa testata di Bologna già fortemente influenzata da Dino Grandi, conte di Mordano, Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e tante altre cose, ispiratore e guida dell’operazione che, si dice, fu alla base del crollo del fascismo. “Si dice”, dichiariamo dubitativamente, perché, con Grandi o senza Grandi e gli aderenti al suo ordine del giorno, il siluro contro l’ex socialista di Predappio sarebbe stato scagliato lo stesso. Già si erano preparati gli alti gradi delle Forze Armate, decisisi poi a fare un passo indietro visto e considerato che un certo numero di dignitari del Regime si mostravano pronti a render loro il segnalato favore di togliergli le castagne dal fuoco. Che se poi i gerarchi avessero esitato - vuoi per un recupero di “fedelismo”, vuoi per il timore di una soluzione di continuità destinata a travolgere anche loro, vuoi per semplice paura fisica - allora i plurigallonati si sarebbero tempestivamente mossi. Tempestivamente, ribadiamo, perché tutti i piani per l’arresto o, se necessario, per la soppressione del dittatore insieme alla dittatura erano pronti; preparati anche grazie al buon lavoro di intelligence del colonnello Luigi Marchesi, ufficiale dello stato maggiore addetto alla persona del generale Vittorio Ambrosio, da costui incaricato di recarsi ogni mattina nell’ufficio del Capo del Governo onde sottoporgli il testo del bollettino di guerra. Il Marchesi, badogliano di ferro, aveva messo a frutto quelle visite per allestire, su indicazione dello stesso Ambrosio, un progetto di cattura dell’“Uomo” ormai non più della “Provvidenza”. Alternativa all’eventuale impraticabilità dell’arresto a Palazzo Venezia l’impossessamento della sua persona durante una esercitazione militare a Tivoli, cui sarebbe stato pregato di presenziare in qualità di comandante supremo dell’ormai sgangheratissimo apparecchio militare.
Giorgio Pini appartenne a quella corrente della Repubblica Sociale, interna ed esterna al Partito, definibile, senza tema di forzature ed enfatizzazioni, come la Sinistra dell’RSI: nazionale-popolare, pacificatrice, che della socializzazione - emblema e sostanza del nuovo Stato mussoliniano - dava una lettura non puramente riformistica e appena correttiva degli aspetti deboli del corporativismo venuti in evidenza nel corso del Ventennio e nel corpo dell’assetto sociale ed economico del Regime. Della socializzazione quel filone intellettuale, combattentistico, governativo - aggregazione ampia, autorevole, perfino maggioritaria; anche perché si giovava della “complicità” del Duce, desumibile proprio dalla presenza in essa del Pini - invece dava una interpretazione pronunciatamente popolare e autogestionaria. La pacificazione, poi, era intuita non soltanto come dovere nazionale ineludibile nell’Italia variamente occupata dalle armate di grandi potenze confliggenti per la conquista dell’egemonia planetaria, ma quale possibilità, ipotesi di “fronte unico” di tutte le forze rivoluzionarie, dovunque e comunque collocate, per avviare la ricostruzione del Paese nel quadro di un cambiamento radicale, profondissimo, esaustivo. In occasione del varo del governo repubblicano Mussolini aveva lanciato la seguente parola d’ordine: “Riforma del costume, rinnovamento sociale in profondità”. Fra i ministri della Sinistra - continuiamo a chiamare così questa fazione che, peraltro, si considerava Nazione - da segnalare Pisenti (Giustizia), Biggini (Educazione Nazionale), Spinelli (Lavoro), Tarchi (Economia Corporativa, poi Economia Sociale). Naturalmente trattasi di catalogazione da considerare cum grano salis. Alcune personalità erano, infatti, “anfibie”, per così dire. Per esempio: il Pavolini, segretario del Partito, inappuntabile sotto il profilo rivoluzionario sociale - fino a pochi giorni prima del crollo non si stancherà di sollecitare il governo nel senso di sempre più incisive trasformazioni nella struttura produttiva e sociale, in ossequio al precetto mussoliniano della “disseminazione di mine sociali nella valle padana”, enunciato nel famoso discorso al “Lirico” del dicembre ‘44 - , ma assolutamente refrattario a incontri, approcci, intese, trattative, fraternizzazioni con i “ribelli” e gli antifascisti in genere.
Fra i direttori dei giornali più impegnati sul terreno del rivoluzionarismo dialogico spiccano i nomi di Concetto Pettinato (La Stampa), Bruno Spampanato (Il Messaggero), Carlo Borsani (Repubblica Fascista), Giorgio Pini (Il Resto del Carlino), Mirko Giobbe (La Nazione) e via elencando. Fra costoro e il ministro della Cultura Popolare, Fernando Mezzasoma - che si giovava della collaborazione di un sottosegretario come Alfredo Cucco, grande scienziato dell’oculistica, con delega “per le terre invase”; di un giovane funzionario intelligente e colto, suo capo di gabinetto, il dott. Giorgio Almiramte, giornalista e ufficiale - si instaurò un rapporto, anzi un non rapporto, di tipo serratamente vertenziale. Né poteva essere diversamente, essendo il Mezzasoma unitamente al Pavolini il capofila della corrente detta “intransigente”. A Pettinato - sottoposto a provvedimento disciplinare per un articolo fortemente critico sul governo recante il titolo “Se ci sei batti un colpo”, nel quale si incitavano tuti gli italiani a superare odii e differenziazioni “per unirsi al di sopra delle baionette straniere” - venne tolta la tessera del Partito nonché, com’è ovvio, la direzione del quotidiano. Spampanato - che dopo la caduta di Roma con conseguente perdita della guida de Il Messaggero aveva assunto la direzione di Orizzonte, settimanale della Decima MAS del Principe Junio Valerio Borghese, e teneva ai microfoni dell’EIAR (la RAI di allora) una rubrica per le FF.AA., Radio Fante, - venne duramente redarguito per l’indirizzo dei suoi articoli e delle sue trasmissioni, ritenuti eccessivamente critici, dialogici, compromissori, democratizzanti. L’eresiarca erresseista dal simpaticissimo eloquio campano non se ne diede per inteso, fece orecchie da mercante, si infischiò solennemente di riprovazioni ortodosse e di reprimende ministeriali. Forse se lo poteva permettere, essendo, come sul dirsi, “nella manica di Mussolini”, di cui era consulente per quelle che oggi chiamiamo “riforme costituzionali”, delle quali sosteneva una versione inoppugnabimente democratica; per le questioni relative al processo socializzatorio. Pari simpatia riscuoteva dal comandante Borghese, tanto vero che, persa la pazienza, Mezzasoma decise il sequestro di Orizzonte, sguinzagliando i poliziotti delle varie questure della RSI per la “ripulitura” delle edicole. Ciò facendo, però, innescò una crisi gravissima, le cui conseguenze avrebbero potuto rivelarsi incalcolabili se Mussolini e il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, ministro della Difesa, non avessero preso in mano la situazione. Infatti avuta notizia del divisamento sequestratorio del Mezzasoma, il mitico violatore del blocco di Giblterra - all’epoca e in quel contesto storico-militare un uomo/simbolo assolutamente intoccabile, - mandò i suoi marò armati fino ai denti a presiedere le edicole con l’ordine tassativo di evitare, costasse quel che dovesse costare, l’impossessamento delle copie di Orizzonte da parte dei questurini. Insomma, si paventò lo scontro a fuoco, evitato per il ritiro del provvedimento.
In sede storica non è possibile negare - per quanta simpatia si possa provare per la Sinistra erresseista; e magari, adesione intellettuale e spirituale alle intuizioni programmatiche - una certa dose di astrattezza inficiante i suoi postulati. Anzitutto, perché ci fosse una intesa atta a determinare il superamento sia pure progressivo della guerra civile, bisognava essere in due. Ora, l’antifascismo, nella varietà delle sue interne specificazioni non era minimamente disponibile per alcuna misura di distensione. Il suo motto era: “Morte al fascismo, libertà ai popoli”. I fascisti, per i CLN, altro non erano che traditori, criminali di guerra, servi dei tedeschi. E basta. Potevano, nella migliore delle ipotesi, essere perdonati; previo, naturalmente, ritrattazioni e pentimenti. Ma anche su questo piano, al Nord - altro discorso vale per Roma, dove prevaleva la linea morbida di Togliatti con relativa manica larga - la Resistenza non si muoveva con particolare generosità. Peraltro, il “perdonismo” era nella logica delle cose; si evidenziava come comportamento perfettamente speculare a quello delle autorità della RSI, capaci di “perdonare” alla precisa condizione dell’impegno visibile da parte del “pentito” di concretamente e operativamente accettare le scelte politiche e militari di uno Stato ormai non soltanto “con un piedino nell’Ade”, per dirla con un grande e arguto intellettuale concittadino del Buffarini, Fortunato Bellonzi, ma anche contestatissimo e attaccato da un altro Stato italiano mediante un movimento partigiano di massa fortemente sorretto dal consenso della maggioranza della società civile. Sic stantibus rebus, la sinistra repubblicana risultava sterilizzata, per non dire paralizzata, nella sua pur meritoria iniziativa pacificatrice e rivoluzionaria - avversata allo stesso modo e nella stessa misura sia dalla destra fascista che da quella antifascista, della quale ultima era parte integrante l’azionismo filo occidentale e filo capitalista della Banca Commerciale; dei Mattioli, dei Tino, dei Visentini, dei La Malfa etc. : una destra moderata e liberaldemocratica truccata da sinistra - dai limiti forzatamente a esse imposti dal contesto storico-politico che la vedeva inglobata in una insuperabile alleanza con i nazisti, da un pezzo ridotti a vivere e a far vivere i loro veri e presunti amici di rendita psicologica, ossia sulla favola delle famose “armi segrete” che un Hitler sempre più preda della follia giurava e spergiurava essere “quasi” - un eterno “quasi” - pronte per un impiego fulmineo destinato a rovesciare le negativissime sorti della guerra. Da ciò il fallimento della sua offerta al mondo dell’antifascismo socialista e azionista, fondata su di una serie di proposizioni di democratizzazione dello “statuale” e di dilatazione del “sociale” da attuarsi mediante alleanze, patti di unità d’azione con una opposizione disponibile per una comune linea nazionale-popolare. Una strategia, dunque, affascinante, resa però oggettivamente impraticabile dall’ineludibile coinvolgimento delle colombe di Salò e dintorni nella solidarietà con l’ormai valetudinaro asse italo-germanico.

CIAO ROSSA SALO' Enrico Landolfi. Edizioni dell'Oleandro, Via Monte Cassino 8, 00141 Roma. Tel 06-87191202.

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DICIANNOVE MESI DI INTENSA E INNOVATRICE ATTIVITÀ DI PENSIERO REPUBBLICA SOCIALE, RIVOLUZIONE ITALIANA La RSI salvo' l'Italia dalla reazione tedesca, ma non nacque solo per questo. Nella legislazione repubblicana le linee maestre di una radicale trasformazione della società.
Manlio Sargenti
Trascritto dal cyberamanuense U.C.


"Mussolini. Il rivoluzionario", intitolò De Felice il primo volume della sua biografia mussoliniana. "Mussolini. Il rivoluzionario" avrebbe dovuto intitolare anche l’ultimo volume, dedicato alle vicende della Repubblica Sociale, perché la Repubblica Sociale è stato un episodio eminentemente rivoluzionario della storia del nostro Paese e perché si può ben dire che in esso Mussolini tornò a dispiegare le sue più eminenti qualità di rivoluzionario.
Tante sono state e sono le interpretazioni del fatto storico che prese il nome di Repubblica Sociale. Senza considerare quelle puramente di parte, della parte dei vincitori, che ne hanno fatto il simbolo stesso del male, raffigurandola come uno strumento di bieca oppressione e di asservimento allo straniero, per restare ai sentimenti di quelli che ne hanno vissuta la vicenda ed alle idee di quanti sono o si sforzano apparire obbiettivi interpreti degli eventi storici, si va dall’immagine appassionata del ritorno al combattimento per riscattare gli italiani dalla vergogna del tradimento, a quella del sacrificio generoso che Mussolini per primo, e con lui tutti gli uomini della Repubblica, avrebbero compiuto per evitare all'Italia un trattamento pari a quello o addirittura peggiore di quello usato alla Polonia; dalla visione utilitaristica della necessità di salvane il poco che rimaneva delle strutture dello Stato dopo la catastrofe dell'8 settembre ed assicurare la vita della popolazione civile, all'impegno di difendere, nei limiti del possibile, gli interessi economici e politici dell'Italia nei confronti dell'alleato tedesco.
Ognuno di questi modi di intendere le ragioni d’essere della Repubblica Sociale ha la sua parte di verità.
Hanno ragione i giovani ed i giovanissimi ed i meno giovani di allora, che corsero ad arruolarsi nelle Formazioni militari della Repubblica (e furono, come si sa, decine e decine di migliaia), per affermare la volontà di combattere fino alla fine una guerra che avevano sentito come una lotta di liberazione contro l’egemonia delle grandi potenze plutocratiche e, per l'Italia in particolare, contro le forze che la chiudevano e la tenevano prigioniera nello spazio angusto delle sue terre e del suo mare, ma anche come il mezzo per realizzare in Europa un ordine nuovo, economico, sociale e politico.
Ed hanno ragione quanti vedono nella Repubblica Sociale lo strumento contingente per arrestare la furia della reazione tedesca alle vicende del 25 luglio e dell'8 settembre, per assicurare agli italiani quel minimo di ordine e di organizzazione civile che si era perduto nella bancarotta dello Stato monarchico, per difendere gli interessi dell’Italia anche nei confronti dell’alleato. La Repubblica Sociale fu, senza dubbio, anche questo, fu un governo, un'amministrazione civile, la tutela dell'ordine pubblico, un'attività economica regolare, pur in mezzo alle difficoltà della guerra, lavoro assicurato, un apparato giudiziario funzionante, una moneta sana; una quasi normalità, insomma, per quanto di normalità si potesse parlare in quelle circostanze. E fu anche una costante difesa degli interessi economici e politici dell'Italia e dei suoi cittadini contro l'azione delle svariate forze e formazioni tedesche, militari e civili, operanti nel nostro territorio; una difesa che, bisogna dirlo, valse a salvare molte delle capacità produttive, strutture materiali e forze di lavoro dalle distruzioni e dalla dispersione che le vicende della guerra avrebbero portato con sé, e far sì che l'apparato produttivo dell’Italia del nord si trovasse, alla fine del conflitto, ancora almeno relativamente efficiente.
La Repubblica Sociale fu tutto questo, ma non fu solo questo; e se solo questo fosse stata, essa non uscirebbe dal quadro del contingente. Fu anche e soprattutto un evento, lo ripeto, essenzialmente rivoluzionario, una svolta decisiva nella storia d'Italia, per la rottura nei confronti della tradizione monarchica, che aveva segnato la formazione dell’unità e quasi un secolo della sua vita nazionale, ed ancora più decisamente per la concezione dichiaratamente anticapitalistica che si poneva a base della società e dello Stato.
Per rendersi conto della verità di queste affermazioni basta andare ai documenti fondamentali nei quali si rispecchiava la costruzione della nuova realtà politico-sociale.
Il Manifesto di Verona
In primo luogo quel Manifesto di Verona, che esprimeva, in sintesi, il programma del Partito Fascista Repubblicano. E in questo documento è il caso di richiamare, prima ancora che le specifiche proposizioni in materia di politica economica e sociale, quella che enunciava le linee dell'azione internazionale che l'Italia si proponeva di svolgere al termine della guerra, se questa fosse riuscita vittoriosa. "Tale politica - affermava la dichiarazione 8 del Manifesto - si adopererà per la realizzazione di una comunità europea, con la federazione di tutte le Nazioni che accettino í seguenti principi fondamentali: a) eliminazione dei secolari intrighi britannici dal nostro Continente; b)abolizione del sistema capitalistico interno e lotta contro le plutocrazie mondiali". Un'affermazione, come si vede, decisamente rivoluzionaria, che, a parte il contingente spunto antibritannico, legato al momento bellico, prefigurava un’unione europea, ma un’unione nel segno dell'aritiplutocrazia e dell'anticapitalismo, come strumento della futura unità politica del Continente.
E se questa raffigurazione dell'assetto europeo restava per il momento sul piano del futuribile, la concezione rinnovatrice in senso anticapitalistico della società e dello Stato trovava nella Repubblica Sociale non solo le sue enunciazioni teoriche e programmatiche, ma l'inizio di una concreta attuazione.
Mussolini aveva dichiarato, già nel suo primo messaggio agli italiani, il 18 settembre 1943: "Lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più alto della parola" ed aveva posto tra i suoi postulati quello di "annientare la plutocrazia parassitaria e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello Stato". Ripeterà il 27 settembre, nella prima riunione del nuovo governo da lui presieduta, che "la Repubblica avrà un pronunciatissimo contenuto sociale". Ed ancora più nettamente dichiarerà due giorni più tardi all’ambasciatore di Germania Rahn, che ne riferiva al suo governo, che la nuova costituzione avrebbe avuto "un carattere nettamente socialista, stabilendo una larga socializzazione delle aziende industriali e l'autogoverno dagli operai".
Su questa linea si muoverà il Manifesto di Verona, il quale cominciava con l’affermare che "Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione", e continuava precisando che la proprietà privata, pur essendo garantita dallo Stato come "frutto del lavoro e del risparmio", non deve, però, "diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini attraverso lo sfruttamento del lavoro" ed enunciava, infine, la direttiva secondo cui "in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente - attraverso una conoscenza diretta della gestione - all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto del capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori".
Era questo, in nuce, in forma ancora alquanto imprecisa, il principio della socializzazione, che Mussolini aveva preannunciato due mesi prima e che troverà una più esatta formulazione nella Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economa italiana, approvata dal governo l'11 gennaio 1944, e la sua realizzazione normativa nel decreto legislativo sulla socializzazione delle imprese del 12 febbraio successivo.
Premessa e decreto andavano, in verità, ben oltre la semplice "cooperazione" dei lavoratori all’equa ripartizione degli utili dell’impresa preconizzata nel Manifesto di Verona: postulavano e realizzavano una vera, sostanziale loro partecipazione alla gestione, in piena parità con i rappresentanti del capitale. Prevedevano, infatti, che in ogni impresa a forma societaria si costituisse un consiglio di gestione, formato per metà dai rappresentanti degli azionisti (o quotisti, per le società a responsabilità limitata, o accomandanti per le società in accomandita) e per metà dai rappresentanti eletti dall’assemblea dei lavoratori di ciascuna impresa; ed al consiglio di gestione demandavano tutti i poteri decisione attribuiti nell'impresa capitalistica al consiglio di amministrazione o ad altri organi singoli o collegiali. Al consiglio di gestione spettava anche la designazione del "capo dell’impresa", non più imprenditore capitalista, ma espressione dell'impresa socializzata e reso responsabile, come tale, dell'andamento e dei risultati dell’attività produttiva di fronte allo Stato. Principi simili, anche se più attenuati, valevano anche per le imprese a forma individuale, per le quali si prevedeva pure un consiglio di gestione di lavoratori accanto all’imprenditore, capo dell'impresa.



Un audace disegno
Non solo. La Premessa fondamentale annunciava programmaticamente e, un mese dopo, il decreto legislativo attuava normativamente anche il passaggio alla gestione diretta dello Stato delle imprese "che controllino settori essenziali per l’indipendenza economica e politica del Paese nonché delle imprese fornitrici di materie prime o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica". Questo passaggio era previsto, però, in una forma diretta ad evitare la burocratizzazione statalistica, attraverso un apposito Istituto di gestione e finanziamento che riuniva le prerogative e le funzioni dei preesistenti IRI ed IMI. E, soprattutto, le imprese, così divenute a capitale pubblico, sarebbero state amministrate, come le imprese private, da un consiglio di gestione eletto da tutti i lavoratori, accentuando, cosi, in esse la partecipazione del lavoro ed il suo potere decisionale.
Questo audace disegno non rimase, si noti, pura enunciazione teorica o solo traduzione normativa. Nonostante le aspre comprensibili resistenze delle forze del capitalismo, nonostante l'opposizione che queste stesse forze andavano surrettiziamente suscitando e favorendo nei rappresentanti del governo tedesco in Italia, sotto la speciosa motivazione che l'attuazione della socializzazione avrebbe potuto compromettere l'andamento della produzione bellica, nonostante che persino taluni esponenti del governo fossero piuttosto freddi nei confronti del progetto di socializzazione, questo entrò nella fase di effettiva attuazione e, malgrado le difficoltà inerenti allo stato di guerra ed ancor più di guerra civile, si realizzò in numerose imprese industriali dell'Italia settentrionale, incontrando, fra l'altro, contrariamente a quanto una storiografia partigiana o male informata ha detto, una consapevole partecipazione dei lavoratori interessati, sia nelle assemblee, per la designazione dei loro rappresentanti nei consigli di gestione, sia nel funzionamento di questi. Solo l'esito infausto della guerra e la prezzolata acquiescenza dei partiti sedicenti democratici del comitato di liberazione, che come primo e forse unico atto di governo abrogò le norme emanate dal governo della Repubblica Sociale, impedirono lo sviluppo di un programma che mirava alla radicale trasformazione in senso anticapitalistico della struttura della società italiana.
Questo programma non si limitava, è bene sottolinearlo, alla socializzazione delle imprese industriali. Questo non voleva essere che il primo passo di un processo più vasto che doveva investire gradualmente tutto il sistema produttivo ed economico, non nel solo settore dell’industria, ma anche in quello agricolo, commerciale, finanziario. Non solo: la socializzazione delle imprese si inseriva, poi, in un quadro più ampio di programmazione economica da realizzare, anch'essa, con la partecipazione delle forze della produzione, attraverso organi rappresentativi, il cui disegno riprendeva le linee fondamentali del modello corporativo, realizzato in parte ed imperfettamente, durante il ventennio e che si voleva, riprendere su nuovi presupposti e sul fondamento dell’impresa socializzata. Anche questo non era un semplice progetto astratto, ma aveva trovato già concreta espressione in un disegno di legge sul nuovo ordinamento corporativo, che solo gli eventi bellici impedirono di tradurre in realtà.
E all’orizzonte ultimo di tutto il movimento di idee e di realizzazioni, che volevano disegnare la figura del nuovo Stato nazionale e sociale, si profilava il progetto di una forma di rappresentanza politica fondata anch’essa sul lavoro e realizzata non attraverso l’illusorio episodico atto del voto, ma attraverso l’organica partecipazione del cittadino lavoratore a tutte le fasi ed a tutti i momenti del processo decisionale, economico, amministrativo e politico, a tutti i livelli della vita della società civile e delle sue formazioni Istituzionali e territoriali.
Questo programma si riassumeva in un frase incisiva: "Socializzare l’impresa, per socializzare l'economia, per socializzare lo stato" e andava molto al di là di quei progetti di costituzione a sfondo democratico-parlamentare, che alcuno, pur nell’ambiente fascista, andava proponendo. Era un programma ispirato ad una visione profondamente nuova della società e dello Stato, che voleva realizzarsi nella Repubblica Sociale. Era, come aveva preannunciato Mussolini, il progetto di uno Stato che voleva avere come sua base infrangibile il lavoro, che voleva dare al cittadino lavoratore il ruolo di protagonista della vita economica e politica della società.
Per la verità storica, per un’immagine non falsata della stessa Repubblica Sociale, tutto ciò merita di essere ricordato.
E forse merita di essere ricordato anche per quello che esso ha ancora di vivo e vitale, come programma di trasformazione rivoluzionaria, ma non utopistica, di una società che la vittoria bellica degli alleati ha ricacciato in tutte le storture ed in tutte le contraddizioni della sedicente democrazia, dello sfrenato liberismo economico, del predominio delle forze del capitalismo finanziario, e che è posta, oggi, dinanzi al progetto di un’Europa che, lungi dal realizzare l’unione delle forze del lavoro, si avvia ad attuare lo strapotere delle forze del capitale.
La storia della Repubblica Sociale, quella vera, ricostruita sui documenti ed interpretata nello spirito che animava quelli che per essa lottarono, può divenire, una volta tanto, maestra per chi vive l’esperienza negativa del presente.


STORIA VERITA' N. 6 Maggio-Giugno 1996
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DOMUS

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Ecco perchè mai ci uniremo ai liberisti di AN!