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Alberich
22-03-02, 00:03
da: Democrazia Repubblicana (www.democraziarepubblicana.org)


di Claudio Lodici

MA L’ITALIA DI CURCIO ERA UN’ALTRA COSA

Improponibili i paralleli con gli anni settanta. Queste sono schegge di follia.


Il delitto di Bologna dimostra che la democrazia italiana, sebbene immatura e contraddittoria, è operante e salda. E’ vero: si può, per esempio, parlare di cospirazione a proposito di Gladio e della CIA, ma non si può nemmeno immaginare l’introduzione di elementi di flessibilità nel mercato del lavoro senza rischiare la rottura della pace sociale, cioè dell’ordine politico. Però sarebbe un errore azzardare paralleli con l’Italia degli anni settanta. Una premessa del genere è fuorviante, e comporta il rischio di individuare risposte altrettanto sbagliate.
In trent’anni sono successe cose che è difficile sottovalutare. Prima di tutto è finito il comunismo. A parte nuclei di nostalgici dell’ortodossia marxista-leninista, non esiste più l’operaismo su cui facevano leva le prime Brigate rosse per sollevare “le masse proletarie in lotta” e “smascherare la struttura oppressiva e repressiva del potere”. E’ cambiata la società italiana, e con essa il modo di formare il reddito, le aspirazioni, le inclinazioni politiche, la sensibilità civica.
Certo: un ampio divario separa ancora la gente dalle istituzioni. E’ la disaffezione pubblica su cui tanto si è discusso negli ultimi anni. Ma ciò non ha nulla a che vedere con il vero ostacolo sulla strada di una piena integrazione dell’Italia nel novero delle democrazie industriali dell’Occidente: lo scetticismo e l’ostilità con cui la cultura di matrice socialcomunista, da un lato, e cattolica, dall’altro, hanno guardato lo Stato liberale, prodotto delle tre rivoluzioni borghesi: quella inglese del 1688, quella americana del 1777, quella francese del 1789.
Quando, nel 1973, Renato Curcio e Mara Cagol (marxisti e cattolici), insieme ad Alberto Franceschini, fuoruscito dalla federazione giovanile del PCI, fondarono le Brigate rosse, esisteva un terreno di coltura piuttosto esteso: c’erano stati l’autunno caldo, la contestazione giovanile, la mobilitazione sociale, la radicalizzazione della lotta di classe. Serviva solo un braccio armato. E, infatti, a distanza di quasi trent’anni, il numero dei potenziali sostenitori e/o fiancheggiatori di quel terrorismo costituisce un dato quasi acquisito: circa un milione di persone.
Quella galassia si è ormai ristretta ai minimi termini. Certo, possono esserci alcuni infiltrati nel movimento no global, in ambienti dell’estremismo giovanile, perfino nel sindacato o in quella sinistra che ama definirsi “antagonista”. Ma si tratta comunque di frammenti. Pericolosi, perfino mortali, come purtroppo abbiamo visto. Ma pur sempre marginali e residuali rispetto ad una realtà che da in decina d’anni ha visto la liquidazione della competizione ideologica, il superamento dei dispositivi militari contrapposti, l’atomizzazione del blocco cattolico in politica, la secolarizzazione della società e della cultura, l’introduzione di un sistema politico tendenzialmente bipolare in cui – qualunque cosa pensino i nostalgici del proporzionale – gli elettori si identificano. Il che, conseguentemente, produce una politica di tipo incrementale, riformista, centrista. Tutto questo, accanto al progredire del processo di integrazione europea, ha avuto conseguenze tanto vaste da rendere gli eredi delle Brigate rosse bande incapsulate nel tessuto di una società che li considera corpi estranei.
A questo punto, fare suonare a distesa le sirene d’allarme non ha molto senso. Dire che occorre rispondere al terrorismo in modo univoco, superando le divisioni degli schieramenti politici è addirittura una banalità. Se non esistesse nemmeno un sentimento condiviso nei riguardi della violenza politica, significherebbe che l’Italia è sprofondata in un abisso di cinismo. Ma non è così. Piuttosto, c’è da auspicare che la politica – ovvero il governo, il Parlamento, la maggioranza e l’opposizione – continui a fare il proprio mestiere. E così pure le parti sociali, padronato e sindacati. Guai se la dialettica pubblica venisse rallentata dai proiettili dei brigatisti.
Semmai, questi ultimi siano trattati per quello che effettivamente rappresentano: criminali comuni e assassini. Un lavoro che spetta alle forze di polizia condurre e alla magistratura dirigere. Poi, una volta passata la burrasca, sarà utile avviare una riflessione sul funzionamento degli apparati di sicurezza, sugli organismi incaricati di tutelare l’ordine pubblico, sui servizi segreti. Sui quali, in questo momento, sarebbe difficile spendere una buona parola.

20 Marzo 2002