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Visualizza Versione Completa : Le notti di Ramallah



Roderigo
22-03-02, 19:25
di Amira Hass

Intorno al quartiere di case di pietra, normalmente tranquillo, il rumore degli spari e delle esplosioni è sempre più vicino. Le sirene delle ambulanze fendono l'aria. L'elettricità è stata tolta. È in questi momenti che uno ha paura. Non per gli spari, ma per l'impossibilità di sapere che cosa succede nell'isolato accanto, all'incrocio successivo.

Le famiglie preparano i loro bunker: materassi sul pavimento, lontano dalle finestre, dietro pesanti scrivanie. Questo è un posto privilegiato: i muri dell'edificio, vecchio di ottant'anni e costruito in pietra, sono spessi quasi un metro e sembrano a prova di proiettile. Forse perfino un missile stenterebbe a sfondarli. Nei campi profughi, invece, le case sono costruite con pareti di calcestruzzo, tetti di lamiera e lastre di eternit, e per buttarle giù basta un carro armato. Proprio come è successo qui vicino, nel piccolo campo profughi di Kadura: appena cinque minuti di distanza, eppure la forza d'invasione ha avuto un atteggiamento completamente diverso.

In quattro campi profughi i bombardamenti hanno gravemente danneggiato 1.620 abitazioni. È solo perché sono convinti che nei campi profughi ci siano più "terroristi" e più persone pronte a morire o perché mostrano più riguardo per le proprietà dei ricchi?

Anche in tempo di guerra le differenze di classe persistono. Nei campi profughi e nelle città più povere, obiettivo delle prime incursioni dei soldati israeliani, l'elettricità è stata tagliata per l'intera durata dell'"operazione". Qui, nella più ricca Ramallah, solo per un paio d'ore e nemmeno in tutti i quartieri. Le incursioni nelle città e nei campi della Striscia di Gaza e nei campi profughi della Cisgiordania sono sempre accompagnate da pesanti bombardamenti di carri armati ed elicotteri, per prevenire la resistenza armata (anche quando è improbabile). Risultato: le aree più povere pagano un intollerabile tributo di sangue nel giro di poche ore, se non pochi minuti. Nella notte di lunedì 11 marzo a Jabalia, il più grande campo profughi della Cisgiordania, ci sono stati diciassette morti e decine di feriti in cinque ore. Alcune delle persone uccise cercavano di combattere ­ con esplosivi artigianali e semplici fucili ­ contro l'enorme forza che ha fatto irruzione nella parte orientale del campo. Molti altri erano civili nelle loro case o per strada. Tra i morti ci sono due fratelli che, a quanto pare, stavano mettendo degli esplosivi anticarro. Prevedendo un'incursione israeliana a Ramallah, l'11 marzo mi sono trasferita da alcuni amici nel centro della città (casa mia è troppo lontana dagli eventi). Ero lì, nel bel mezzo degli spari con il rumore dei carri armati in lontananza, quando la figlia maggiore, che ha 19 anni, ha detto: "Perché non organizziamo una manifestazione contro l'invasione?". Ha perfino preso l'agenda telefonica e ha cercato dei numeri. Così logico, così sensato, eppure così impossibile in questa fase del conflitto. Suo padre va a dormire con i vestiti e le scarpe addosso. Non si sa mai: se i soldati bussano alla porta, è già pronto.

La madre è l'esatto opposto: estremamente calma, sempre pronta a scherzare. Il giorno dell'incursione, a Ramallah si doveva tenere la riunione di una nuova formazione palestinese: un gruppo di femministe per la democrazia. Adesso la mia ospite è impegnata a spedire delle email per cancellare l'incontro. Nel frattempo arrivano telefonate da Gaza: due delle persone uccise, i due fratelli, sono parenti dei miei amici. Una famiglia originaria di Burair, un grande villaggio che adesso è un kibbutz israeliano, una quindicina di chilometri a est della Striscia di Gaza. È un brutto colpo, non solo per la famiglia ma anche per i molti discendenti di questo villaggio distrutto nel 1948. Adesso sono sparsi un po' ovunque: nei campi profughi di Gaza, in quelli della Giordania, in Europa, a Ramallah. In tutti i loro anni di esilio i profughi hanno conservato e coltivato il tipico "patriottismo locale" palestinese.

Con il tempo questo patriottismo locale si è esteso non solo ai discendenti dello stesso villaggio, ma a tutti i profughi: un rifugiato ucciso nel suo campo, e specie quando l'intero campo è attaccato, suscita particolari sentimenti di vendetta e rabbia tra gli altri profughi, ovunque si trovino. Non sorprende perciò che sia stato un profugo del campo di Deheishe, a sud di Betlemme, a compiere la rappresaglia per l'uccisione di venticinque rifugiati in altri due campi: quello di Balata, a Nablus, e a Jenin.

Si è fatto esplodere e ha ucciso dieci israeliani che avevano appena lasciato un ostello per ebrei ortodossi a Gerusalemme Ovest. Tra i morti c'era un'intera famiglia. Bambini e genitori. Avevano appena festeggiato il compleanno di un parente. Un altro profugo, proveniente da Jabalia, si è vendicato andando nel centro di Tel Aviv e sparando alle due di notte contro i clienti di un ristorante: sono morti un poliziotto e quattro civili. Questi sono solo due esempi della catena di rappresaglie in risposta ai raid israeliani nei campi profughi.

In Israele i raid sono considerati come una misura necessaria per individuare e distruggere i "nidi del terrore": arrestare gli uomini armati e gli ideatori degli attentati, e scovare i laboratori dove sono fabbricati gli esplosivi e i razzi artigianali. Si dice che nei campi profughi di Balata, Tulkarem e Jabalia ne siano stati trovati alcuni. Ma queste scoperte richiedono distruzioni e spargimento di sangue, che una nuova generazione di giovani giura di vendicare al più presto. Gli israeliani contano i loro morti con paura e rabbia. E lo stesso fanno i palestinesi. Se chiedete a un israeliano quanti palestinesi siano stati uccisi, probabilmente non saprà rispondervi. Potrebbe tirare a indovinare e poi aggiungere che erano tutti "ricercati" e "terroristi". È difficile che sappia che tra le vittime ci sono madri, bambini e anziani, spesso colpiti a morte dagli elicotteri. La televisione israeliana non mostra le scene di lutto palestinese né i crani fracassati dalle pallottole israeliane da cui escono brandelli di cervello.

I palestinesi invece contano il numero dei morti israeliani. Sì, i palestinesi tengono il conto. Per loro è una prova che la promessa di sicurezza di Sharon e la sua politica per ristabilirla sono fallite. I palestinesi seguono attentamente la tv israeliana quando ci sono scene di orrore: caffè saltati in aria e corpi smembrati. "Se Israele non rispetta la vita dei nostri civili, e se agli israeliani non importa niente dei nostri civili, perché noi dovremmo rispettarli e preoccuparci per loro?", si chiedono i palestinesi. Uno di questi caffè, a Gerusalemme, è stato l'obiettivo dell'ultimo ­ per ora ­ attentato suicida, compiuto da un altro profugo del campo di Arub, sulla strada per Hebron. La sua famiglia è originaria del villaggio di Masmiye. Quel posto fa parte della mia infanzia: andavo lì a prendere mia madre, che stava con le sue amiche, secoli fa. Nei suoi ultimi anni ci siamo tornate: non ci sono gradini e lei poteva entrarci facilmente. Questo caffè, il Moment, è proprio accanto alla residenza del primo ministro. Ma la cosa più importante è che si trova vicino alla piazza dove da quindici anni le Donne in nero protestano contro l'occupazione israeliana. E dopo ogni raduno, alcune vanno a fare due chiacchiere e prendere un caffè proprio al Moment.

Traduzione di Nazareno Mataldi
Internazionale 19 marzo 2002