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Visualizza Versione Completa : Un documento della crisi del Novecento (da "Margini") - Interessante



asburgico
24-03-02, 15:12
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Note su Il conflitto della cultura moderna di G. Simmel

(tratto da 'Margini' n. 37, gennaio 2002)


La modernità nasce sulle rovine di ogni Ordine ontologicamente dato. Al suo posto c’è ora un ordine che è costruito dalla "stella polare" della modernità: l’individuo. Al "guardare" l’Ordine (che dunque preesiste all’uomo), si sostituisce il "fare", il "produrre" da parte dell’individuo. Ossia l’ordine è, adesso, opera del soggetto (ed è, quindi e inevitabilmente, un ordine artificiale), ma di un soggetto razionale. La ragione, insomma, come necessaria mediazione in virtù della quale l’individuo può dar vita ad un ordine. Alcuni esempi di quanto detto sinora: Bacone e Galilei, Cartesio, soprattutto Hobbes. Infatti, cos’è il contrattualismo hobbesiano se non la pretesa che l’ordine (in questo caso, ordine politico) sia, alla lettera, costruito tramite l’accordo di individui razionali, a partire dalla constatazione, illuminante, del costitutivo disordine dello "stato di natura"? In Hobbes si mostra con chiarezza l’assenza di un Ordine naturalmente dato, oggettivo, e la conseguente necessità di un ordine solo artificiale, frutto del costruttivismo del soggetto. Nell’Ottocento, poi, si assiste all’insorgere di una estrema mediazione razionalistica: quella dialettica, con Hegel e Marx. Ma la sostanza non cambia, perché si tratta sempre del tentativo di espungere il conflitto e di dare alla modernità un ordine e una forma. E se è pur vero che la potenza del "negativo" è stata indagata a fondo da Hegel, è altrettanto vero che ciò è avvenuto comunque in vista della conciliazione (la "sintesi dialettica").

Ricapitolando: nel mondo classico l’Ordine e la Forma coincidevano con l’Essere, in cui ogni cosa, uomini e Dei, Terra e Cielo, era compresa. Col cristianesimo s’avanza invece un dualismo dilaceratore e, pertanto, la necessità di una mediazione fra trascendenza e immanenza. Tale compito è assunto dalla persona di Cristo (che è automediazione della trascendenza) prima, dalla Chiesa come mediazione pontificale, unico ponte tra Cielo e Terra, poi. Di quel che viene dopo si è già detto.

Rispetto a tutto ciò, il testo di Simmel, e sin dal titolo, segna un radicale cambiamento di prospettiva. Si parla, infatti, di conflitto della cultura moderna. Ovvero della dissoluzione di ogni mediazione. E, quindi, dell’emersione in primo piano appunto del conflitto. Conflitto che per Simmel è tra Vita e forma. Un conflitto immediabile, non ricomponibile in alcuna conciliazione. E dunque irrisolvibile, tragico. Scrive Simmel al riguardo che "è un pregiudizio filisteo che tutti i conflitti e i problemi ci siano proprio per essere risolti" (p. 77); pertanto "il futuro sostituisce al conflitto non la sua composizione ma solo altre forme e contenuti del conflitto stesso" (p. 77), essendo la Vita "una lotta in senso assoluto" (p. 77).

Scendendo, ora, più nel dettaglio: Simmel è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta "filosofia della vita". In breve, per il filosofo tedesco al fondo di ogni cosa vi è la Vita, intesa come processualità inarrestabile, come fluire ininterrotto. Ma la Vita può manifestarsi solo attraverso forme, può "esprimersi" solo facendo ricorso alla forma. La Vita, insomma, è costretta a svelarsi solo grazie a ciò che la nega, che ne è l’antitesi: appunto la forma.

Perché antitesi? Perché la forma, una volta sorta da quel processo che è la Vita, tende a durare, a raggiungere una stabilità, a conseguire una sorta di atemporalità. La forma aspira "alla durata, anzi all’intemporalità" (p. 27). Ma in tal modo, la forma finisce per irrigidire, opprimere, soffocare la Vita, in quanto volendo durare si pone in risoluta contrapposizione con la Vita stessa: in una parola, la nega. Fluire vs "stare". E allora, la Vita si libera della forma, corrodendola incessantemente sino a provocarne la caduta. Ma, attenzione, per subito sostituirla con un’altra. Perché, appunto, la Vita può mostrarsi soltanto in virtù della forma. Ecco spiegato, secondo la prospettiva di Simmel, il succedersi delle varie epoche storico-culturali (Classicità, Medioevo, Rinascimento, ecc.), ognuna esprimente una sua peculiare forma e ognuna travolta dall’incessante, convulsa processualità della Vita. Da qui il conflitto, conflitto senza mediazione possibile, tra Vita e forma. Conflitto eterno, perché sempre la Vita continuerà a procedere e sempre la forma continuerà ad opporsi a tale procedere. Conflitto, dunque, senza risoluzione armonica (di qui l’evidente antiidealismo simmeliano).

Per cui, se è vero che la modernità si costituisce come una vera "rottura di livello" nei confronti di ciò che l’ha preceduta (come specificato all’inizio), è pur vero che, nella prospettiva di Simmel, tale discontinuità finisce per stemperarsi nella continuità rappresentata dal succedersi ininterrotto delle forme e dal loro declinare ad opera della Vita. Ma, a questo punto, sorge un interrogativo: perché Simmel parla di conflitto della cultura moderna? Se, come detto più sopra, tale conflitto è eterno, che senso ha riferirlo esclusivamente (o principalmente) al "moderno"? E poi, il "moderno" è la stessa cosa della modernità? Qui siamo davvero al cuore del testo simmeliano. Il "moderno", infatti, è altra cosa dalla modernità, è l’epoca stessa in cui Simmel vive, l’epoca post-nietzschiana, un’epoca in cui si sta registrando un evento assolutamente nuovo, in cui si sta vivendo "una nuova fase dell’antica lotta, che non è già lotta dell’attuale forma satura di vita contro la vecchia forma divenutane ormai priva, ma lotta della vita contro la forma in generale, contro il principio della forma" (pp. 31-33; corsivo mio). In sintesi: adesso "non è più una forma nuova a ingaggiare battaglia contro una forma vetusta, ma è la vita stessa, in ogni ambito possibile, a ribellarsi alla costrizione di scorrere entro forme precise di qualsiasi tipo" (p. 33). La Vita vuole ora "esprimere soltanto sé stessa e per questo infrange qualsiasi forma" (p. 47). Solo così si può spiegare quella peculiare "assenza di forma" che caratterizza il "moderno" e che lo differenzia dalla modernità. Assistiamo pertanto ad una nuova tipologia conflittuale: non più tra la Vita e questa o quella forma, ma tra la Vita e la forma in quanto tale. L’antagonismo tra Vita e forma solo ora giunge a piena consapevolezza e solo adesso è portato ai suoi livelli più radicali. Proprio per questo motivo Simmel afferma che nel "nostro caso attuale, il ponte tra la forma culturale antecedente e quella successiva si mostra infatti completamente demolito, sicché a colmare il vuoto rimane in apparenza soltanto la vita, in sé informe" (p. 77; corsivo mio). La Vita sembra trionfare nel suo tentativo di "emanciparsi" dalla forma; in realtà, però, la Vita "vuole dunque qualcosa che non può ottenere, vuole determinarsi e manifestarsi nella sua nuda immediatezza passando sopra ogni forma" (p. 75; corsivo mio) e non può ottenerlo perché essa "può soltanto cambiare una forma con l’altra, mai la forma in generale con la vita stessa in quanto aldilà della forma" (pp. 75-77). Insomma, la Vita per manifestarsi non può fare a meno della forma, dev’essere mediata dalla forma. Ma si tratta di una mediazione assolutamente precaria, contingente, instabile, del tutto incapace di fondare un ordine duraturo. Perché a dominare è il conflitto, conflitto che nel "moderno" ha non soltanto raggiunto l’apice ma, ed è il punto davvero decisivo, è emerso, senza infingimenti di sorta, in tutta la sua irriducibilità.

Detto questo (e rimandando al saggio di F. Ingravalle in appendice al testo di Simmel, per un’analisi di ben altra ampiezza e profondità degli stessi temi qui appena accennati), rimane da spiegare il motivo che ha spinto le Edizioni di Ar a dare alle stampe un’opera tanto (ma per certi versi, solo apparentemente) lontana dalle sue linee-guida dottrinarie. Motivo che va ricercato nella necessità di fare i conti appunto col "moderno" (nel senso simmeliano, ovviamente). Orbene: mentre la modernità è unicamente una "parodia" dell’Ordine metafisico, ossia il tentativo di dar vita ad un ordine "umano troppo umano", dimentico di ogni riferimento metafisico e appiattito su un piano meramente orizzontale e storico, il "moderno" rappresenta, invece, il momento di crisi non tanto e non solo del progetto della modernità quanto, più in generale, di qualsivoglia "tipologia" ordinativa. Simmel mostra, con asciutta crudezza, l’impermanenza di ogni forma, l’impossibilità di ogni "sostanza". Eterna è unicamente la Vita (cosa, tra l’altro, che mostra a sufficienza il distacco di Simmel dal costruttivismo della modernità), che però, essendo "puro movimento", è la negazione del concetto stesso di sostanza. Corollario evidente della filosofia simmeliana non può allora che essere l’inanità di "ogni appello nostalgico a un’armonia primigenia" (come giustamente scrive Ingravalle a p. 94). In ciò Simmel è vicino allo Spengler eracliteo e del Tramonto dell’Occidente e, ancor più, di Anni della decisione, allo Spengler che, perentorio, scrive: "la vita, in sé, è guerra". Ed è con questo disincanto, al pari alieno dall’ottimismo "progressista" e dalla nostalgia dell’Uno originario, che bisogna mettersi alla prova.

Per cui: pubblicare Simmel significa confrontarsi non con le "cattive imitazioni" dell’Ordine, tipiche della modernità e non certo meritevoli di soverchia attenzione, ma con l’aspetto propriamente tragico del "moderno" che spazza via ogni mitologia progressista (Simmel, nota Ingravalle a p. 106, manda a fondo l’idea stessa di "finalità"), compresa la cieca fede nella forza unificatrice della ragione, e ogni pretesa di vivere nel "migliore dei mondi possibili". Significa confrontarsi con un pensiero degno e serio, le mille miglia lontano da una attualità protesa solo al raggiungimento di una "pacificazione" universale in nome dei "valori-idoli" della modernità. Modernità che si è gettata alle spalle tutto ciò che ne disturba i sogni, compreso, dunque, Simmel - non a caso pubblicato, il che è solo apparentemente un paradosso, nella collana delle Ar "gli Inattuali" - e la sua poco edificante, per i tempi odierni, intuizione tragica del mondo. Ma è alle altezze di una tale intuizione che, piaccia o no, è oggi necessario portarsi. Per uno scopo preciso: sottrarsi a sterili cortocircuiti autoreferenziali (al fine di "saggiare" la tenuta della nostra intuizione-visione del mondo) e, insieme, rendersi vieppiù consapevoli delle povere illusioni di cui si nutre il presente. Illusioni nell’oggi smentite dai fatti dell’11 settembre. Perché di sicuro l’attacco alle Twin Towers ha segnato la fine della "belle époque della globalizzazione" (A. Bonomi), ossia della pretesa che la globalizzazione potesse essere un processo indolore ed ecumenico, guidato automaticamente grazie all’esclusivo ricorso alla via tecnico-amministrativa, quasi come se si trattasse di un ordine spontaneo ("a mano invisibile"). Di conseguenza, l’11 settembre ha mostrato l’irruzione del politico (come conflitto) nel cuore della globalizzazione. E, di certo, l’imperialismo "a mano armata" degli Usa non potrà in alcun modo rappresentare indefinitamente una risposta adeguata a questa irruzione.


Georg Simmel
Il conflitto della cultura moderna.
Una conferenza

Traduzione e postfazione a cura di Francesco Ingravalle, con testo originale a fronte.
Edizioni di Ar, Padova 2001. Collezione "gli Inattuali", pp. 144, L. 30.000

Paul Atreides
24-03-02, 15:32
Egregio Asburgico, non c'è nessun copyright. Basta citare la fonte. Cosa che Lei ha fatto. Quindi nessun problema, anzi è sempre positivo far circolare il materiale. Aggiungo solo che l'autore dello scritto è Giovanni Damiano.
Saluti.

margini
25-03-02, 12:51
il libro fu anche recensito positivamente dalla traduttrice di Simmel, A. Iadicicco, sul 'Il Giornale' nell'agosto 2001.