Roderigo
28-03-02, 14:13
GALAPAGOS
In Italia aumenta il numero delle persone che lavorano e diminuiscono i disoccupati. Il risultato è la discesa - in gennaio - del tasso di disoccupazione al 9,1%, il livello più basso dal 1993. Un dato positivo quello diffuso ieri dall'Istat, sul quale il governo ha, immediatamente, tentato di mettere le mani, alzando il tiro con la promessa che, grazie all'approvazione del Libro bianco (con l'aggiunta dello spappolamento dell'articolo 18), la creazione di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro nel corso della legislatura è un obiettivo possibile. Anzi, certo. I dati Istat, però, non dicono proprio quel che tentano di dimostrare i seguaci di Berlusconi (Maroni, Tajani, Tabacci, tanto per fare qualche nome). Dicono, invece, che nei cinque anni di centro sinistra un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro sono stati creati davvero, non solo promessi, e in una fase di politica economica non particolarmente espansiva, visto l'impegno di Maastricht. La verità è che l'occupazione ha ricominciato a crescere più rapidamente quando l'economia ha registrato tassi meno compressi. E i provvedimenti di rilancio varati dal governo Berlusconi non c'entrano nulla con la crescita, anche perché, finora, sono stati un autentico fiasco. L'emersione del sommerso è stata richiesta da appena un centinaio di imprese; la Tremonti-bis ha prodotto addirittura risultati negativi, avendo bloccato gli investimenti in attesa della sua approvazione e gli investimenti stanno diminuendo e gli industriali (come risulta da una inchiesta di Bankitalia) non sembrano assolutamente disposti a impegnarsi. E ancora: lo scudo fiscale non sta riportando in Italia quei capitali che avrebbero dovuto alimentare il processo di accumulazione, mettendo a disposizione del sistema produttivo enormi risorse.
Tutto questo significa che la tenuta della crescita e l'aumento dell'occupazione ha differenti radici. In primo luogo nella politica moderatamente espansiva lasciata in eredità dal precedente governo sul fronte delle opere pubbliche e della moderata riduzione della flessione fiscale. Inoltre, la crescita e la tenuta dell'occupazione affondano anche nella domanda estera, in particolare quella proveniente dall'esterno dei confini dell'euro, grazie alla forza del dollaro e ai maggiori introiti dei paesi produttori di petrolio.
Tutto questo ha consentito all'occupazione un consolidamento dei rapporti permanenti a tempo pieno, mentre stanno perdendo peso le forme flessibili e precarie alle quali corrispondono salari da fame (e quindi precarietà nella domanda di beni di consumo) e lavori marginali che non possono assolutamente ridare competitività all'industria italiana, soprattutto nella competizione con partner dell'euro.
I dati Istat dimostrano perfettamente che la crescita può essere trainata unicamente dal lavoro regolare e stabile, che garantisce anche le imprese più dinamiche. La conferma si ha dai dati territoriali sulla disoccupazione: al Nord il tasso di disoccupazione è sceso al di sotto del 4%, mentre nel Mezzogiorno il tasso dei senza lavoro (anche se in riduzione) rimane appena al di sotto del 19%. Poter licenziare al Sud, con l'abolizione dell'articolo 18, chi è appena emerso non creerà nessun nuovo posto di lavoro, mentre al Nord, a questo punto e salvo poche realtà territoriali, il problema è solo quello della carenza di manodopera. Il problema, insomma, non è quello della flessibilità e della precarietà, ma dell'accumulazione in un'area dell'Italia, puntando a conquistare quote di mercato nelle produzioni tecnologicamente avanzate. Tutto il contrario della flessibilità e dei bassi salari, che con l'abolizione dell'articolo 18 rilancerebbero unicamente le produzioni a basso valore aggiunto.
il manifesto 28 marzo 2002
http://www.ilmanifesto.it
In Italia aumenta il numero delle persone che lavorano e diminuiscono i disoccupati. Il risultato è la discesa - in gennaio - del tasso di disoccupazione al 9,1%, il livello più basso dal 1993. Un dato positivo quello diffuso ieri dall'Istat, sul quale il governo ha, immediatamente, tentato di mettere le mani, alzando il tiro con la promessa che, grazie all'approvazione del Libro bianco (con l'aggiunta dello spappolamento dell'articolo 18), la creazione di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro nel corso della legislatura è un obiettivo possibile. Anzi, certo. I dati Istat, però, non dicono proprio quel che tentano di dimostrare i seguaci di Berlusconi (Maroni, Tajani, Tabacci, tanto per fare qualche nome). Dicono, invece, che nei cinque anni di centro sinistra un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro sono stati creati davvero, non solo promessi, e in una fase di politica economica non particolarmente espansiva, visto l'impegno di Maastricht. La verità è che l'occupazione ha ricominciato a crescere più rapidamente quando l'economia ha registrato tassi meno compressi. E i provvedimenti di rilancio varati dal governo Berlusconi non c'entrano nulla con la crescita, anche perché, finora, sono stati un autentico fiasco. L'emersione del sommerso è stata richiesta da appena un centinaio di imprese; la Tremonti-bis ha prodotto addirittura risultati negativi, avendo bloccato gli investimenti in attesa della sua approvazione e gli investimenti stanno diminuendo e gli industriali (come risulta da una inchiesta di Bankitalia) non sembrano assolutamente disposti a impegnarsi. E ancora: lo scudo fiscale non sta riportando in Italia quei capitali che avrebbero dovuto alimentare il processo di accumulazione, mettendo a disposizione del sistema produttivo enormi risorse.
Tutto questo significa che la tenuta della crescita e l'aumento dell'occupazione ha differenti radici. In primo luogo nella politica moderatamente espansiva lasciata in eredità dal precedente governo sul fronte delle opere pubbliche e della moderata riduzione della flessione fiscale. Inoltre, la crescita e la tenuta dell'occupazione affondano anche nella domanda estera, in particolare quella proveniente dall'esterno dei confini dell'euro, grazie alla forza del dollaro e ai maggiori introiti dei paesi produttori di petrolio.
Tutto questo ha consentito all'occupazione un consolidamento dei rapporti permanenti a tempo pieno, mentre stanno perdendo peso le forme flessibili e precarie alle quali corrispondono salari da fame (e quindi precarietà nella domanda di beni di consumo) e lavori marginali che non possono assolutamente ridare competitività all'industria italiana, soprattutto nella competizione con partner dell'euro.
I dati Istat dimostrano perfettamente che la crescita può essere trainata unicamente dal lavoro regolare e stabile, che garantisce anche le imprese più dinamiche. La conferma si ha dai dati territoriali sulla disoccupazione: al Nord il tasso di disoccupazione è sceso al di sotto del 4%, mentre nel Mezzogiorno il tasso dei senza lavoro (anche se in riduzione) rimane appena al di sotto del 19%. Poter licenziare al Sud, con l'abolizione dell'articolo 18, chi è appena emerso non creerà nessun nuovo posto di lavoro, mentre al Nord, a questo punto e salvo poche realtà territoriali, il problema è solo quello della carenza di manodopera. Il problema, insomma, non è quello della flessibilità e della precarietà, ma dell'accumulazione in un'area dell'Italia, puntando a conquistare quote di mercato nelle produzioni tecnologicamente avanzate. Tutto il contrario della flessibilità e dei bassi salari, che con l'abolizione dell'articolo 18 rilancerebbero unicamente le produzioni a basso valore aggiunto.
il manifesto 28 marzo 2002
http://www.ilmanifesto.it