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Visualizza Versione Completa : La Legge sul rientro dei capitali esportati.



Sir Demos
04-04-02, 01:05
Appena dopo il suo insediamento, e con maggiore insistenza a partire dall’estate, il Governo aveva manifestato l’intenzione di varare un provvedimento che consentisse di rimpatriare i capitali esportati illegalmente in passato. Un’attenta campagna di anticipazioni sui mass media faceva filtrare il messaggio che un simile provvedimento era coerente con la politica economica del nuovo governo, tutta tesa a incoraggiare la crescita economica. Si citava, in particolare, la Tremonti per gli investimenti, affermando che il rientro dei capitali “occultati” all’estero avrebbe creato nuove disponibilità per gli investimenti in Italia, sia direttamente (molti imprenditori, desiderosi di investire in Italia, finora erano stati impediti dal “rigorismo” dei precedenti governi, che aveva loro impedito di rimpatriare i capitali illegalmente esportati in passato), sia indirettamente, tramite una maggior disponibilità di risparmio che gli intermediari finanziari italiani avrebbero utilizzato per finanziare le nuove iniziative imprenditoriali. Inoltre, si affermava, anche per giustificarne l’urgenza, che il provvedimento doveva essere attuato subito, prima dell’introduzione definitiva dell’Euro. E infatti è stato varato con il decreto-legge contenente “Disposizioni urgenti in vista dell’introduzione dell’euro” (25 settembre 2001, n. 350).

Dal punto di vista economico, il ragionamento non sembra molto convincente. In un’economia sempre più integrata e internazionalizzata, operazioni estero su estero sono la prassi e la disponibilità di fondi all’estero è funzionale. In un mercato dei capitali integrato, con libertà di movimento, non è rilevante il luogo dove è fisicamente localizzato l’intermediario cui è affidata la ricchezza. Eventuali problemi di liquidità in Italia possono essere risolti ricorrendo al credito (magari dando in garanzia gli stessi capitali esportati). Se proprio necessario, si può attivare il rimpatrio con gli stessi metodi utilizzati per l’espatrio. Non è chiaro perché il provvedimento dovrebbe dar luogo a massicci rimpatri di capitali che in fondo stanno benissimo dove sono, che sono occulti al fisco (non pagano imposte né in Italia né all’estero) e di cui si può comunque disporre. Infatti, nei commenti al provvedimento è stato frequentemente avanzato il dubbio che mancassero i presupposti per un suo massiccio utilizzo. La pretesa urgenza, in vista dell’introduzione dell’euro, è stata declamata, ma non ne sono stati mai chiariti i motivi.

Sarebbe però errato pensare che il nuovo Governo sia vittima di una visione poco realistica del fenomeno. Il provvedimento, se giungerà in porto come era nella intenzioni originarie del Governo, sarà un successo, perché la finalità vera del provvedimento non è quella dichiarata, è tutt’altra.

Quali sono le caratteristiche fondamentali del provvedimento ? Nella versione uscita dal Consiglio dei Ministri del 21 settembre (riportata sulla stampa economica del giorno seguente) i beneficiari sono le persone fisiche (nonché gli enti non commerciali, le società semplici, le associazioni e gli altri soggetti equiparati ai fini delle imposte sui redditi; vedi l’art. 5 del TUIR). Dietro pagamento del 2,5 per cento del denaro e delle altre attività finanziarie rimpatriate attraverso intermediari tra il 1° novembre 2001 e il 28 febbraio 2002, i beneficiari godono dei seguenti effetti:

1. preclusione da ogni accertamento tributario e contributivo per i periodi d’imposta per i quali non è ancora decorso il termine per l’azione di accertamento alla data di entrata in vigore del provvedimento, relativamente agli importi dichiarati;
2. estinzione delle sanzioni amministrative, tributarie e previdenziali e di quelle previste ai fini del cosiddetto monitoraggio fiscale (art. 5 del DL 167 del 1990), relativamente alla disponibilità delle attività finanziarie dichiarate;
3. estinzione dei delitti e dei reati collegati all’evasione fiscale (artt. 4 e 5 del Dlgs. 74 del 2000; Dl 429 del 1982), eccettuato il caso di frode (art. 4, lettere d)e f) del DL 429 del 1982).

Gli interessati debbono presentare agli intermediari una dichiarazione riservata delle attività finanziarie rimpatriate, di cui una copia resta agli interessati stessi. La dichiarazione non deve né può essere trasmessa al fisco; è garantita l’assoluta riservatezza.

Se la finalità del provvedimento fosse stata quella dichiarata, di favorire il rientro dei capitali, sarebbe stato sufficiente limitarsi a sanare gli illeciti amministrativi connessi con l’esportazione e la detenzione all’estero di cespiti finanziari (sostanzialmente, quanto contenuto al punto 2, cioè la mancata segnalazione del movimento valutario, nonché la mancata segnalazione a fini di monitoraggio fiscale), nonché a sanare la mancata dichiarazione dei redditi derivanti da tali cespiti .

Quest’ultimo aspetto è importante, perché la norma va ben oltre la sanatoria dei redditi derivanti dalle attività all’estero. Il punto 1, che preclude “qualunque accertamento … relativamente agli importi dichiarati”, benché (volutamente) ambiguo intende, secondo l’interpretazione ufficiosa, ma autentica, costituire una sorta di plafond, pari all’ammontare dei cespiti denunciati, da far valere, fino a concorrenza, contro qualunque accertamento fiscale o contributivo (è coperto tutto, dall’Irpef e tutte le altre dirette, all’Iva, al registro, alle imposte di fabbricazione, a tutti i contributi obbligatori) o contro qualunque sanzione amministrativa della stessa natura. In altre parole, in concreto: si rimpatriano capitali per 100 lire, se ne pagano 2 e mezzo, si mette nel cassetto la dichiarazione relativa al rimpatrio, di cui tengono copia solo il contribuente e la banca. Il fisco non sa nulla, non deve e non può sapere nulla, non può chiedere nulla né alla banca né al contribuente. La tutela della riservatezza è totale. Quando, nei prossimi anni, il fisco o l’INPS (o altro istituto che riscuote contributi obbligatori) contesteranno irregolarità e invieranno un accertamento per qualunque imposta o contributo dovuti per gli anni passati, si tirerà fuori dal cassetto la dichiarazione e, fino a concorrenza, l’accertamento verrà annullato. Se, ad esempio, verranno accertate 80 lire di imponibile evaso, resteranno ancora 20 lire da spendere per un ulteriore accertamento). L’eventuale aspetto penale dell’evasione (il cosiddetto penale-tributario, che scatta quando l’ammontare evaso supera certe soglie quantitative) sarà annullato.

In realtà, dietro la facciata dell’entrata in vigore dell’euro e di favorire il rientro dei capitali, l’intenzione del governo era quella di concedere un vero e proprio condono generalizzato, fiscale e contributivo, riguardante tutte le annualità ancora non prescritte e qualunque tipo di imposta (diretta o indiretta) e di contributo obbligatorio, con estinzione delle eventuali conseguenze penali del reato di evasione fiscale, solamente limitato nell’importo massimo condonabile a quanto dichiarato in sede di autodenuncia al momento del rimpatrio dei capitali.

In questa versione, il provvedimento trova una sua forte e precisa ragione, che ne fa parte integrante di quella strategia dei 100 giorni che sempre più si rivela come il fondamentale obiettivo politico di questo inizio di legislatura. Si tratta del cosiddetto SAP (Sistemazione degli Affari Propri), che si articola in un trittico di provvedimenti: falso in bilancio, rogatorie e, appunto, “scudo fiscale”. Le rogatorie (con la mostruosità giuridica di essere retroattive) bloccano i procedimenti già in corso. Il falso in bilancio inibisce alle procure nuovi attacchi sul fronte (civilistico) della falsa rappresentazione dei conti. Ma occorre anche inibire alle procure la seconda linea di attacco, quella del penale-tributario, e dotarsi quindi di uno “scudo fiscale”. Mai la scelta di un nomignolo è stata più chiaramente rivelatrice delle vere intenzioni.

Si potrebbe obiettare che queste considerazioni sono infondate e motivate da polemica, perché il rientro dei capitali riguarda solo le persone fisiche, non già le società di capitali. In realtà, era fin dall’inizio intenzione del Governo estendere l’applicazione anche alle persone giuridiche, una volta che il provvedimento sul falso in bilancio fosse progredito nei lavori parlamentari. Puntualmente, una volta approvato il falso in bilancio, la questione dell’estensione è stata sollevata, anche con presentazione di emendamenti, ed è affidata alla discussione del Parlamento. A conferma che siamo di fronte non certo al “caso”, ma a una strategia precisa e ben coordinata, che punta a conseguire il risultato complessivo e finale attraverso una serie di iniziative apparentemente scollegate e mosse da finalità diverse, ma in realtà mirate con precisione. E in ogni caso, anche se per avventura il Parlamento non estendesse il provvedimento alle società di capitali, già la copertura delle sole persone fisiche costituirebbe uno “scudo” interessante. Offrirebbe un’utilissima protezione, ad esempio, a tutti i professionisti adusi a ricevere compensi estero su estero.

Che queste considerazioni non siano infondate lo dimostra anche il fatto che il provvedimento è stato firmato dal Presidente della Repubblica solo quattro giorni dopo la sua approvazione dal Consiglio dei Ministri (il 25 settembre), e dopo che due modifiche sono state introdotte. In primo luogo, l’estinzione del penale è stata sostituita dalla non punibilità. Sembra un cambiamento formale, e in realtà non cambia la sostanza delle cose, ma è regola costituzionale che un condono penale non possa essere varato per decreto legge. In secondo luogo, la portata dei benefici è cambiata. Nel testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, gli accertamenti sono preclusi ”limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o dalle altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio”.

La nuova stesura tende evidentemente a limitare la portata del beneficio, che nel testo originario era troppo ampia e “scollegata” rispetto al rimpatrio dei capitali. In sostanza, perché possono fruire di un condono generalizzato solo coloro che hanno esportato capitali? Sorgono dubbi evidenti sulla razionalità del provvedimento e sulla sua equità, aspetti passibili di rilievo costituzionale. Chi ha evaso e poi esportato il provento dell’evasione, fruisce della sanatoria; chi, invece, ha evaso e poi reinvestito nell’azienda non ne fruisce. Per non parlare, poi, di chi non ha evaso nulla e ha investito nell’azienda e che oggi si sente penalizzato e deriso: gli onesti fanno la figura dei “fessi”. Di più, si crea un forte incentivo a dichiararsi comunque disonesti: il 2,5 per cento in fondo è un premio assicurativo molto basso contro i rischi che il provvedimento copre. Molti potrebbero essere tentati di rimpatriare capitali detenuti all’estero in piena legittimità, di fatto autodenunciandosi come esportatori “clandestini”, ma con la garanzia della totale riservatezza e senza alcuna necessità, perché la norma non lo richiede, di dimostrare l’origine di quei capitali. Uno degli aspetti più preoccupanti di questo provvedimento, come anche di quello sull’emersione, è che ancora una volta si premiano e si incentivano i comportamenti scorretti e si mina l’adempimento spontaneo da parte dei contribuenti.

Purtroppo, la nuova stesura del provvedimento non è chiarissima, e può dar luogo a tre diverse interpretazioni. La prima è che la riscrittura sia solo formale e non cambi nulla nella sostanza. Sembra inaccettabile perché vanifica la correzione e, soprattutto, non sana gli aspetti di scarsa razionalità ed equità prima menzionati. In una seconda interpretazione, la norma potrebbe significare che sono preclusi gli accertamenti sui redditi imponibili provenienti dalle attività costituite all’estero e dichiarate. E’ un’interpretazione che riporterebbe la norma in un ambito “fisiologico”, di stretta correlazione tra rimpatrio e benefici. Tuttavia, vanificherebbe l’appetibilità del provvedimento e non risponderebbe alle finalità proprie dello “scudo”. Una soluzione intermedia sarebbe quella di dire che sono preclusi gli accertamenti relativamente a quegli imponibili che sono collegati alle somme e ai beni oggetto dell’esportazione. In altre parole, se i capitali portati all’estero sono frutto dell’evasione e l’accertamento riguarda proprio quella evasione che ha portato all’espatrio dei capitali (e non altra), allora l’accertamento è precluso. Resterebbe, seppure attenuato, il problema di razionalità e equità sopra ricordato. Resterebbe inoltre il problema di stabilire chi deve dare la prova del collegamento (o del mancato collegamento) tra l’evasione e l’espatrio dei capitali: il contribuente o il fisco? All’atto pratico, data comunque la difficoltà di fornire la prova si tenderebbe ad avvicinarsi o al secondo o al primo dei casi sopra menzionati.

Si può solo notare che la circolare dell’Agenzia delle Entrate non chiarisce per ora la questione, limitandosi a riportare letteralmente la norma di legge. Si auspica che il dibattito parlamentare porti a chiarire la questione, modificando la legge. Ovviamente, l’interpretazione auspicabile è la seconda.

La norma sul rimpatrio dei capitali offre anche possibilità ampie a chi svolge attività criminali e intende riciclarne i proventi. Infatti, consente anche il rimpatrio al seguito di contanti. E’ facile mettere in atto comportamenti elusivi, tesi a riciclare e sanare la detenzione di contanti in Italia. Ad esempio, basta effettuare un’escursione turistica in Svizzera o in Austria, per procurarsi la prova di essere stato all’estero. Entro 48 ore dal rientro in Italia ci si presenta in dogana o in una banca con una valigetta con i contanti e si dichiara di averli rimpatriati dall’estero, si sottoscrive la dichiarazione riservata, indicando l’importo contenuto nella valigia, si paga il due e mezzo per cento. Oltre a godere dei benefici del provvedimento, si è effettuato un riciclaggio in piena regola. Anche su questo fronte, lo “scudo fiscale” sembra in degna compagnia con gli altri provvedimenti del trittico già ricordato, in particolare, della norma sulle rogatorie, criticatissima per l’aiuto che dà alle attività criminose.

Altro aspetto molto criticabile dello “scudo fiscale” è il fatto che copre anche l’annualità in corso. Va tenuto presente che la dichiarazione vale per gli importi detenuti all’estero fino alla data di entrata in vigore del decreto, quindi, compreso il periodo d’imposta in corso per il quale le dichiarazioni dei redditi si presenteranno a maggio-ottobre 2002 e le imposte si pagheranno a giugno 2002. Inoltre, dato che il provvedimento è stato reso noto nelle sue linee portanti e ampiamente pubblicizzato prima della sua entrata in vigore, si è manifestato un certo interesse a esportare capitali prima della sua adozione, per precostituire fondi all’estero da rimpatriare successivamente. Le statistiche sui movimenti valutari sembrano evidenziare questo fenomeno.

Un’ultima notazione riguarda l’assoluta riservatezza che circonda la presentazione delle dichiarazioni di rimpatrio (o regolarizzazione) e il loro contenuto. Stupisce, invero, tanta attenzione e forza nell’affermarne e garantirne la riservatezza, tanto più se pensiamo che, invece, le dichiarazioni dei redditi sono pubbliche. Chi non ricorda con quanto interesse, almeno una volta all’anno, la stampa pubblica la graduatoria dei contribuenti più ricchi d’Italia, fornendo anche il domicilio degli interessati. Nessuno in questo caso si preoccupa della privacy dei contribuenti, né del rischio che qualche malintenzionato possa utilizzare per fini illeciti le notizie reddituali relative a questi soggetti, che hanno la “grande colpa” di dichiarare al fisco i propri redditi e pagare le relative imposte. Invece, nei confronti di coloro che detengono attività irregolari all’estero e che decidono di “regolarizzarle”, secondo la terminologia usata dal Governo, o meglio di utilizzarle per comprare il vantaggio offerto dallo “scudo” contro i futuri accertamenti, il Governo si preoccupa di garantire il massimo della privacy. Non solo nessun elenco pubblico, ma neanche visione al fisco dei soggetti che sfruttano le opportunità che offre questo decreto-legge. Aveva ragione il ministro Tremonti quando definì “criminogeno” l’operare dello Stato: anziché una forzatura critica, come fu letta allora la sua sortita, andava interpretata come un’anticipazione del suo programma di governo.

Così tanto per chiarire.

Buonanotte.