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04-04-02, 13:25
BUSH "Trattare anche senza tregua"

NEW YORK, 3 APRILE 2002 - Accusato da falchi e colombe di incoerenza strategica, incalzato dagli arabi moderati, dagli alleati europei e dal Vaticano che vede minacciati i luoghi della Cristianità, il presidente Bush ha oggi ammorbidito la posizione americana: la Casa Bianca è pronta a sostenere le discussioni su una soluzione politica della crisi, senza prima attendere con intransigenza che in Medio Oriente si raggiunga una tregua.

«Ci sono due linee guida vitali che il presidente sta cercando di fare avanzare ed esse possono andare avanti indipendentemente, insieme», ha detto il portavoce Ari Fleischer riferendosi alla questione della sicurezza e della ricerca di una soluzione politica, che finora sembravano, nella visione strategica di Washington, la prima temporalmente subordinata alla seconda. «La cosa importante è che le parti comincino a concentrarsi, con l'assistenza degli Stati Uniti, sul fare progressi su entrambe le questioni o sull'una o l'altra delle due», ha detto Fleischer. Ma nel briefing quotidiano con i giornalisti il portavoce di Bush non ha nascosto l'inclinazione del presidente: «È molto più facile arrivare al processo politico una volta che sul terreno si riduce la violenza».

L'abbandono del rigido collegamento temporale tra cessate il fuoco e processo politico era stato chiesto da giorni dai palestinesi, e ieri, in una telefonata al premier israeliano Ariel Sharon, il segretario di Stato Colin Powell ha sollecitato Israele ad accelerare i tempi della «operazione di polizia» in corso.
«Gli ha detto che gli Stati Uniti riconoscono il diritto di Israele a difendersi ma, qualsiasi cosa facciano, la concludano al più presto possibile», ha rivelato una fonte del Dipartimento di Stato alla Cnn. La telefonata di Powell a Sharon era la seconda in due giorni. Il segretario di stato americano ha mandato un altro messaggio a Sharon: «Non puoi isolare completamente Arafat». «Non puoi rimuovere la sua intera infrastruttura, tutti i suoi più stretti collaboratori e poi pretendere che compia i passi giusti per por fine al terrorismo», ha sintetizzato una fonte del Dipartimento di Stato le parole di Powell.

«L'obiettivo adesso è la riduzione della violenza», ha ribadito oggi Fleischer rammentando che il presidente Bush «è attivamente impegnato» sul fronte della crisi. Mentre al momento non sono mature le condizioni per un viaggio del segretario di stato nella regione, il mediatore americano Anthony Zinni resta impegnato ed è «incessantemenbte al telefono» con gli addetti alla sicurezza israelani e palestinesi.

«Progressi possono ancora essere fatti. La violenza non può deragliare il processo di pace per sempre», ha detto Fleischer additando un barlume di luce alla fine del tunnel. Ieri intanto lo stesso Bush aveva ribadito in un discorso a Filadelfia la sua «visione» di «uno stato pacifico palestinese» che coabita con Israele.

«Ho una visione per il Medio Oriente che dice che Israele ha diritto di esistere», aveva detto Bush: «Spero che i palestinesi possano avere il loro stato pacifico... ma ci sono alcuni che vogliono distruggere questa visione, ci sono alcuni che vogliono uccidere per assicurare che questa visione non si realizzi mai».


http://lanazione.quotidiano.net/art/2002/04/03/3198442

Roderigo
04-04-02, 13:37
DALLA CASA BIANCA UNA MOSSA ARDITA PER SBLOCCARE L´IMPASSE

Gli Usa rinunciano al rigido principio tregua-negoziato
La nuova rotta forse dovuta alle divisioni interne: Powell ritiene che eliminare Arafat complicherebbe la situazione, Cheney e Rumsfeld vorrebbero scaricarlo. C´è spaccatura anche nella comunità ebraica

NEW YORK

Gli aspetti politici della pace in Medio Oriente si possono discutere anche prima della tregua sul terreno. Forse non siamo ancora arrivati alla logica di Rabin, secondo cui bisognava negoziare come se il terrorismo non esistesse, e combattere il terrorismo come se non ci fosse il processo di pace. Questo, comunque, è il nuovo passo fatto ieri dalla Casa Bianca per aumentare la pressione su Israele, anche se nel giro di poche ore il portavoce Ari Fleischer ha ritirato un poco la gamba. Il passo di Washington. Nella mattinata, incontrando i giornalisti, Fleischer aveva parlato così: «Ci sono due linee guida vitali che il presidente sta cercando di far avanzare, e possono funzionare indipendentemente o insieme. La cosa importante è che entrambe le parti, con l'assistenza degli Stati Uniti, comincino a concentrarsi nel fare progressi su entrambi i fronti o su uno solo di essi». Finora la Casa Bianca aveva detto che un cessate il fuoco, attuato secondo il piano del capo della Cia Tenet, era il primo passo essenziale per tornare al negoziato, da condurre poi in base ai suggerimenti della commissione presieduta dall'ex senatore Mitchell. Ieri mattina però Fleischer ha lasciato intendere che Bush sarebbe disposto a discutere le questioni politiche anche prima della tregua. Questo non significa che Washington stia chiedendo a Sharon di fermare l'offensiva, ma comunque è una concessione ai palestinesi, che dicono di essere disposti a bloccare i kamikaze solo davanti a una prospettiva negoziale certa e completa. Durante la conferenza stampa di mezzogiorno Fleischer ha fatto una mezza marcia indietro, spiegando che la fine delle violenze resta l'obiettivo principale, e ha ripetuto che Bush «capisce e rispetta il diritto di Israele all'autodifesa». Ma ha ribadito anche che la visione del presidente prevede la nascita di uno Stato palestinese prospero e vivibile. Le divisioni nel governo. Questi aggiustamenti di linea sono probabilmente frutto delle critiche ricevute dall'amministrazione, per le incertezze dovute alle divisioni interne. Il vice presidente Cheney pensa che Arafat non sia un partner credibile per la pace e ha visto confermare questa convinzione quando, due settimane fa, il leader palestinese ha rifiutato le condizioni poste per incontrarlo. Anche il capo del Pentagono Rumsfeld è sulla stessa linea, e infatti ieri ha collegato Arafat a Saddam, rivelando che il leader iracheno regala 25 mila dollari alle famiglie palestinesi disposte ad offrire i loro figli come kamikaze. Il segretario di Stato Powell invece pensa che eliminare o esiliare Arafat complicherebbe solo la situazione, delegittimando il processo di Oslo e facendo precipitare i palestinesi nel caos della successione. Ancora ieri, però, l'ex generale ha detto di non essere disposto ad andare nella regione «tanto per viaggiare». Queste divisioni si riproducono anche nell'opinione pubblica, sui giornali, tra gli ex leader dell'amministrazione americana e nella stessa comunità ebraica. Ad esempio l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Brzezinski dice di non capire come «l'anarchia tra i palestinesi possa favorire la fine del terrorismo», e suggerisce a Washington di offrire, o quasi forzare, una soluzione politica. L'ex segretario di Stato Kissinger risponde che lavorare alla pace definitiva ora sarebbe impossibile. Invio truppe Nato. I giornali più progressisti, come il «New York Times», premono ormai per un cambio di linea, e la dimostrazione più evidente viene dall'editoriale pubblicato ieri da Tom Friedman: «Un terribile disastro si prepara in Medio Oriente. Quello che Osama bin Laden non è riuscito ad ottenere l'11 settembre, viene scatenato ora dalla guerra israelo-palestinese in Cisgiordania: uno scontro tra le civiltà». Secondo Friedman la reazione di Sharon agli attentati è comprensibile, ma ha senso solo se l'obiettivo finale è lasciare i Territori occupati in condizione di sicurezza, perchè «altrimenti Israele non avrà mai un giorno di pace, e minerà qualunque tentativo legittimo degli Stati Uniti di combattere il terrorismo nel mondo». Bush non ha il coraggio di dichiarare questa verità, perché per garantire la sopravvivenza dello Stato ebraico dopo il ritiro serve una forza internazionale. Eppure l'unica via d'uscita, secondo Friedman, è proprio l'avvio di un processo che preveda il ritiro israeliano dai Territori, la nascita di uno Stato palestinese e lo schieramento di una forza Usa-Nato a garanzia e protezione dei confini. I media conservatori, dal «Washington Times» alla «National Review», spingono esattamente nella direzione opposta. Secondo i loro editoriali Bush ha contraddetto la sua stessa politica, quando sabato mattina ha permesso al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di approvare la risoluzione sul ritiro israeliano dai Territori proprio mentre diceva a Sharon di comprendere le ragioni della sua offensiva. Quindi l'opinione pubblica di destra ripete che, se Arafat sostiene i terroristi, deve essere combattuto nello stesso modo, e ieri come prova sventolava il documento fornito dagli israeliani sui presunti finanziamenti diretti del leader palestinese ai kamikaze. Mentre queste divisioni complicano l'esistenza di Bush, il Consiglio di Sicurezza ieri ha dedicato un'altra intera giornata al dibattito aperto sulla crisi mediorientale, con i Paesi arabi che facevano circolare una nuova risoluzione per imporre termini precisi alla richiesta di ritiro degli israeliani, votata la settimana scorsa. La comunità ebraica. La spaccatura non si limita a politici e giornalisti, ma riguarda anche la comunità ebraica americana. Pure qui i progressisti, come il rabbino californiano Michael Lerner e la sua rivista «Tikkun», puntano il dito contro Sharon e battono le mani al presidente della Knesset Avraham Burg, che ha accusato il premier di condurre il Paese in un vicolo cieco. Ma sull'altra costa degli Stati Uniti, nei quartieri di Brooklyn abitati dagli ebrei più osservanti, alcune famiglie preparano le valigie per emigrare verso Israele, come segno tangibile di sostegno all'offensiva. Un'iniziativa presa proprio mentre il dipartimento di Stato suggerisce ai famigliari dei diplomatici americani in servizio a Tel Aviv di lasciare il Paese. In questo clima tocca a Bush l'impossibile compito di trovare un punto di equilibrio efficace e realistico.

Paolo Mastrolilli
La Stampa 4 aprile 2002