Roderigo
04-04-02, 21:21
L'accusa di Barak contro Sharon
«Non possiamo destituire Arafat»
G. L.
Proprio nel giorno in cui l'"altro Israele" è sceso clamorosamente in piazza - con il corteo delle donne pacifiste a Ramallah, brutalmente attaccato dai pretoriani di Sharon - il governo israeliano torna a minacciare un allargamento del conflitto, questa volta per bocca del ministro degli Esteri Peres, sempre più appiattito sulle posizioni del premier. A New York infatti l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Yehuda Lancri, dopo aver confermato che il suo governo non ha alcuna intenzione di rispettare la risoluzione del Consiglio di sicurezza sul ritiro immediato dai Territori, ha consegnato al segretario generale Kofi Annan una lettera in cui appunto Shimon Peres chiede di comunicare ai governi di Siria e Libano che gli attacchi dei "terroristi Hezbollah" potranno provocare "conseguenze allarmanti" per il Medio Oriente. Il riferimento è agli scontri verificatisi nei giorni scorsi nella zona delle cosiddette fattorie di Shebaa, porzione di sud Libano da cui Israele non si è ritirato, due anni fa, con il pretesto che si tratterebbe di territorio siriano e non libanese. Nelle ultime 48 ore i cacciabombardieri israeliani hanno colpito presunte "basi" degli Hezbollah al di là del confine, e la minaccia più o meno implicita è quella di attaccare lo stesso Libano o le truppe siriane di stanza in quel paese. E venendo da Peres l'avvertimento ha un suono sinistro: fu proprio lui infatti, come primo ministro pro-tempore succeduto all'assassinato (per mano israeliana) Yitzhak Rabin, a lanciare nell'aprile 1996 la sciagurata "Operazione furore" contro il Libano, culminata nel massacro di oltre cento profughi nella base dell'Onu a Qana. Il bello è che su questo terreno Peres si vede oggi scavalcato, per così dire, a sinistra da un suo compagno di partito, vale a dire il generale ed ex-premier Ehud Barak, a suo tempo suo avversario nella contesa per la leadership laburista e per la premiership. Barak infatti ha attaccato frontalmente la strategia di Sharon di attacco ai territori palestinesi e ad Arafat personalmente, definendola oltretutto immorale. «Avremo successo (nella lotta al terrorismo, ndr) - ha detto infatti Barak - solo se riusciremo a dimostrare di essere moralmente nel giusto. Nei mesi scorsi abbiano perduto questa superiorità morale, che avevamo dopo le trattative dell'estate 2000 a Camp David. Non possiamo solo essere i più forti - ha concluso - ma dobbiamo anche essere nel giusto». La presa di posizione di Barak è per la verità quantomeno tardiva, dato che è stato proprio lui a permettere la famigerata "passeggiata" di Sharon sulla spianata delle moschee, mandando duemila poliziotti a scortarlo e innescando così la miccia della seconda Intifada; ma come dice il proverbio, meglio tardi che mai. Barak parla se non altro per esperienza vissuta, come ex-premier, come negoziatore a Camp David e come autore del ritiro unilaterale dal sud Libano; ed è significativo che metta apertamente e fermamente in guardia il governo dalla tentazione di rovesciare (o esiliare) Arafat. L'obiettivo nella lotta al terrorismo - dice Barak - non deve essere quello di «mettere alle corde Arafat e schiacciarlo», perché Arafat non può essere assimilato ai terroristi e comunque «sostituirlo non è compito nostro ma dei palestinesi: allo stesso modo di una persona che non può scegliersi i genitori e di un paese che non può scegliersi i vicini, noi non dobbiamo intraprendere nulla per sostituire Arafat. Chiunque scegliessimo al suo posto, sarebbe automaticamente incapace di fare qualcosa. E' tra i palestinesi che deve sorgere una nuova guida». In sostanza Barak fa lo stesso ragionamento del segretario di Stato americano Colin Powell e punta il dito sulla clamorosa mancanza, nella linea Sharon, di una credibile strategia politica per il futuro. Arafat è il leader riconosciuto da tutti i palestinesi, anche da quelli che lo criticano, ed è comunque stato eletto in regolari elezioni; e solo i palestinesi possono decidere se li rappresenta ancora o se deve essere sostituito. E poi, da chi sarebbe costituita - secondo Sharon - la leadership alternativa? Il possibile successore di Arafat alla guida di Al Fatah, Marwan Barghuti, è ora braccato dagli israeliani come "capo terrorista"; e dagli altri nomi da loro indicati a suo tempo, il capo dei servizi di sicurezza Jibril Rajub è stato proprio in queste ore assediato e costretto a una resa umiliante, mentre il presidente del parlamento Abu Ala e il numero due dell'Anp Abu Maizen hanno detto chiaro e tondo di riconoscersi nella leadership di Arafat. Sharon insomma non ha altra strategia se non quella del "pugno di ferro", una strategia controproducente - oltre che infame - che non risolve, anzi aggrava, il problema del terrorismo, impone un prezzo tremendo e inaccettabile ai palestinesi e, come si è visto ieri con l'attacco al corteo delle pacifiste israeliane, corrode nel profondo la stessa società civile dello Stato ebraico.
Liberazione 04 aprile 2002
http://www.liberazione.it
«Non possiamo destituire Arafat»
G. L.
Proprio nel giorno in cui l'"altro Israele" è sceso clamorosamente in piazza - con il corteo delle donne pacifiste a Ramallah, brutalmente attaccato dai pretoriani di Sharon - il governo israeliano torna a minacciare un allargamento del conflitto, questa volta per bocca del ministro degli Esteri Peres, sempre più appiattito sulle posizioni del premier. A New York infatti l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Yehuda Lancri, dopo aver confermato che il suo governo non ha alcuna intenzione di rispettare la risoluzione del Consiglio di sicurezza sul ritiro immediato dai Territori, ha consegnato al segretario generale Kofi Annan una lettera in cui appunto Shimon Peres chiede di comunicare ai governi di Siria e Libano che gli attacchi dei "terroristi Hezbollah" potranno provocare "conseguenze allarmanti" per il Medio Oriente. Il riferimento è agli scontri verificatisi nei giorni scorsi nella zona delle cosiddette fattorie di Shebaa, porzione di sud Libano da cui Israele non si è ritirato, due anni fa, con il pretesto che si tratterebbe di territorio siriano e non libanese. Nelle ultime 48 ore i cacciabombardieri israeliani hanno colpito presunte "basi" degli Hezbollah al di là del confine, e la minaccia più o meno implicita è quella di attaccare lo stesso Libano o le truppe siriane di stanza in quel paese. E venendo da Peres l'avvertimento ha un suono sinistro: fu proprio lui infatti, come primo ministro pro-tempore succeduto all'assassinato (per mano israeliana) Yitzhak Rabin, a lanciare nell'aprile 1996 la sciagurata "Operazione furore" contro il Libano, culminata nel massacro di oltre cento profughi nella base dell'Onu a Qana. Il bello è che su questo terreno Peres si vede oggi scavalcato, per così dire, a sinistra da un suo compagno di partito, vale a dire il generale ed ex-premier Ehud Barak, a suo tempo suo avversario nella contesa per la leadership laburista e per la premiership. Barak infatti ha attaccato frontalmente la strategia di Sharon di attacco ai territori palestinesi e ad Arafat personalmente, definendola oltretutto immorale. «Avremo successo (nella lotta al terrorismo, ndr) - ha detto infatti Barak - solo se riusciremo a dimostrare di essere moralmente nel giusto. Nei mesi scorsi abbiano perduto questa superiorità morale, che avevamo dopo le trattative dell'estate 2000 a Camp David. Non possiamo solo essere i più forti - ha concluso - ma dobbiamo anche essere nel giusto». La presa di posizione di Barak è per la verità quantomeno tardiva, dato che è stato proprio lui a permettere la famigerata "passeggiata" di Sharon sulla spianata delle moschee, mandando duemila poliziotti a scortarlo e innescando così la miccia della seconda Intifada; ma come dice il proverbio, meglio tardi che mai. Barak parla se non altro per esperienza vissuta, come ex-premier, come negoziatore a Camp David e come autore del ritiro unilaterale dal sud Libano; ed è significativo che metta apertamente e fermamente in guardia il governo dalla tentazione di rovesciare (o esiliare) Arafat. L'obiettivo nella lotta al terrorismo - dice Barak - non deve essere quello di «mettere alle corde Arafat e schiacciarlo», perché Arafat non può essere assimilato ai terroristi e comunque «sostituirlo non è compito nostro ma dei palestinesi: allo stesso modo di una persona che non può scegliersi i genitori e di un paese che non può scegliersi i vicini, noi non dobbiamo intraprendere nulla per sostituire Arafat. Chiunque scegliessimo al suo posto, sarebbe automaticamente incapace di fare qualcosa. E' tra i palestinesi che deve sorgere una nuova guida». In sostanza Barak fa lo stesso ragionamento del segretario di Stato americano Colin Powell e punta il dito sulla clamorosa mancanza, nella linea Sharon, di una credibile strategia politica per il futuro. Arafat è il leader riconosciuto da tutti i palestinesi, anche da quelli che lo criticano, ed è comunque stato eletto in regolari elezioni; e solo i palestinesi possono decidere se li rappresenta ancora o se deve essere sostituito. E poi, da chi sarebbe costituita - secondo Sharon - la leadership alternativa? Il possibile successore di Arafat alla guida di Al Fatah, Marwan Barghuti, è ora braccato dagli israeliani come "capo terrorista"; e dagli altri nomi da loro indicati a suo tempo, il capo dei servizi di sicurezza Jibril Rajub è stato proprio in queste ore assediato e costretto a una resa umiliante, mentre il presidente del parlamento Abu Ala e il numero due dell'Anp Abu Maizen hanno detto chiaro e tondo di riconoscersi nella leadership di Arafat. Sharon insomma non ha altra strategia se non quella del "pugno di ferro", una strategia controproducente - oltre che infame - che non risolve, anzi aggrava, il problema del terrorismo, impone un prezzo tremendo e inaccettabile ai palestinesi e, come si è visto ieri con l'attacco al corteo delle pacifiste israeliane, corrode nel profondo la stessa società civile dello Stato ebraico.
Liberazione 04 aprile 2002
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