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nuvolarossa
05-04-02, 18:09
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Il Vademecum del Buon Repubblicano

Ho cercato piu' volte, meditando sulle variegate risposte che si alternano giornalmente sulle pagine del nostro Forum di discussione politica, come si possa riassumere in un vademecum o in una specie di decalogo una definizione di Buon Repubblicano che si attagli, per grosse linee, al di la' delle diverse concezioni personali e specifiche sulle varie tematiche politiche e sociali, a tutti coloro che si riconoscono appartenenti a quell'area laica e democratica, di scuola mazziniana, che si riassume nella parola "Repubblicanesimo".
Vi sottopongo quanto i neuroni mi hanno fatto frullare per la testa, con la speranza che la decodifica, in parole scritte, di quanto pensato, non abbia snaturato di molto le idee da me ponderate e vagliate.

Primariamente ritengo basilare per un buon repubblicano il ricorso perenne ed incessante al metodo democratico, nei rapporti politici e nella vita quotidiana, facendo di questo strumento di convivenza la base da cui possano prendere corpo valori complessivi validi e fecondi, nella ricerca esaltante della verita' comune, da cui possano avere scaturigine soluzioni valide per la Societa' nella sua intierezza.

Nella ricerca di questa verita’ comune occorre avere sempre ben presente la possibilita’ che essa possa nascondersi ai piu’ ed apparire chiara ed esaltante a pochi ed occorre quindi mantenere, nei confronti di tutti, quella necessaria posizione di tolleranza e di rispetto delle idee altrui tale da favorire una comune crescita della propria e della altrui socialita’, allo scopo di favorire e partecipare alla costruzione del benessere collettivo dell’Umanita’.

Questa tolleranza e questo rispetto verso le idee altrui deve essere anche stimolo e terreno per un nostro intimo miglioramento quale incessante conquista e progressione verso piu’ alti traguardi di dominio delle nostre capacita’ intellettive e del loro utilizzo.

Nei rapporti con gli altri membri della realta’ sociale in cui operiamo dobbiamo portare testimonianza di saldi valori morali tali da innescare, per emulazione, desiderio di soddisfazione edonistica nelle altrui coscenze e porre termine allo scivolamento verso il basso delle istanze di socialita’ insite nella natura stessa dell’Uomo.

A tale scopo dobbiamo riappropriarci del concetto di fratellanza universale di scuola mazziniana che solo puo’ stare alla base della creazione di un mondo tutto nuovo, in pacifica convivenza e con cancellazione degli squilibri e dislivelli sociali tra i vari popoli.

Nel perseguire gli obiettivi della fratellanza universale dobbiamo sempre avere ben presente la nostra posizione nella realta’ in cui operiamo e le responsabilita’ che ne conseguono, piccole o grandi che siano, ed in ossequio ed ottemperanza agli ineliminabili doveri verso noi stessi, verso la Famiglia, verso la Patria, verso l’Umanita’ e verso Dio, come esemplarmente divulgato dal grande apostolo Mazzini attraverso i capitoli dei Doveri dell’Uomo e con l’incessante integrazione ed il necessario equilibrio con i diritti umani.

Al fine di ricaricarci nella vigoria di un perseguimento di tali finalita’ occorre ricorrere al ricordo della tradizione nella ritualita’ del pensiero volto alla memoria di quanti hanno immolato la propria vita per i medesimi scopi e per gli stessi nobili obiettivi di miglioramento dell’Umanita’.

Onde divulgare questi nostri principi di democrazia e di laicita’ dobbiamo essere costanti testimoni delle nostre idee, partecipando attivamente alla vita politica e sociale della realta’ in cui operiamo e testimoniando, con atti concreti, la bonta’ del concetto repubblicano di liberta’, opponendoci in ogni occasione alla violenza di qualunque tipo e di qualunque provenienza, portando agli altri il messaggio della nostra dottrina, interpretando l’evolversi dei tempi, incanalando il divenire umano verso mete socialmente migliori, favorendo l’adeguamento delle Istituzioni al mutare dei rapporti umani, operando la ricongiunzione tra materialita’ e spiritualita’ al fine di sopire quella nevrosi di modernismo che opacizza tantissime attivita’ umane, favorendo quella liberta’ di coscienza, basilare ad ogni altra liberta’ individuale e collettiva, e tale da impedire che l’Uomo diventi facile preda di trasversali messaggi mediatici ingannevoli e suggestivi.

Spero di non avervi annoiato con quanto sopra scritto che, pur se succintamente, non vuole assolutamente avere valore di vangelo, anche se intitolato Vademecum del Buon Repubblicano, ma vuole essere semplicemente un piccolo contributo, non esaustivo, alla discussione ed al confronto tra tutti gli amici repubblicani, da farsi in armonia ed in assonanza di intenti e di propositi.

Un fraterno abbraccio
NUVOLAROSSA website (http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/index-12.html)

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Questo “thread” appartiene ad una delle tante pagine che componevano la prima versione del Forum “Repubblicanesimo e Democrazia in Azione”, che e’ uscito dal web con la chiusura di Politica Online.com.

nuvolarossa
16-04-02, 00:34
Questo “thread” appartiene ad una delle tante pagine che componevano la prima versione del Forum “Repubblicanesimo e Democrazia in Azione”, che e’ uscito dal web con la chiusura di Politica Online.com.
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TEORIA REPUBBLICANA SULLA LIBERTA’ E SUL GOVERNO

Si pensi a come ci si sente quando il proprio “stato del benessere” dipende dalle decisioni di altri e non e’ possibile reagire contro tali decisioni. Si e’ in una posizione nella quale si puo’ “affondare” o “galleggiare”, sulla base di una decisione che spetta ad altri. E non si ha nessun diritto di ricorso, psicologico o legale, nessuna possibilita’ di salvezza, anche se ci si trova in un consesso di amici che si aiutano, non si puo’ sovvertire nulla. In queste condizioni si e’ nelle mani degli altri, si e’ alla loro merce’.
L’esperienza di dominazione (o supremazia) su di un altro assume diverse forme. Si pensi al bambino di un genitore emotivo e volubile; alla moglie di un marito occasionalmente violento; allo scolaro con un insegnante che, arbitrariamente apprezza o disapprezza. Si pensi all’impiegato, la cui sicurezza dipende dal mantenere buoni rapporti con il proprio padrone o manager; al debitore, la cui sorte dipende dal capriccio del prestatore di denaro o dal manager di banca; o al piccolo imprenditore, la cui sopravvivenza dipende dal modo di comportarsi di un grande concorrente o da chi gestisce un’associazione. Si pensi al destinatario di interventi di sostegno sociale la cui sorte puo’ mutare in base all’umore dell’impiegato-ragioniere che concede i contributi; all’immigrato o all’indigeno la cui condizione e’ vulnerabile, dipendendo dall’andamento erratico delle decisioni politiche e dei dibattiti radiofonici; o all’impiegato pubblico, la cui carriera dipende non dalle sue capacita’ ma dai collaboratori politici di cui un ambizioso ministro si circonda, perche’ li ritiene utili elettoralmente. Si pensi alla persona anziana che deve sottomettersi, sul piano culturale ed istituzionale, alle volonta’ sfrenate di una gang di giovani della sua area. O si pensi proprio al giovane delinquente la cui punizione dipende da come i politici e i giornali scelgono di stimolare in un dato momento la cultura della vendetta.
In tutti questi casi qualcuno vive alla merce’ di altri. La persona e’ dominata da altre, nel senso che anche se queste non interferiscono direttamente nella sua vita, hanno la possibilita’ di poterlo fare: vi sono alcune restrizioni o dei “pesi” che frenano il suo comportamento. Se la persona “dominata” riesce ad evitare il trattamento malevolo, questo accade per concessione o il favore del “dominante”. La persona vive comunque sottomessa al suo potere o sotto il controllo di altri: questi ultimi occupano la posizione di un dominus (termine latino per indicare il capo) nella loro vita.
Se si comprende l’esperienza dell’essere esposti e soggetti alla vulnerabilita’ di un altro – la situazione di dominazione – e se si puo’ osservare che cosa incute timore, allora si e’ sulla giusta strada per comprendere il Repubblicanesimo. Il tema centrale che ha coinvolto il Repubblicanesimo nel corso dei secoli – l’argomento che spiega tutte le altre tipologie di impegno – e’ stato il desiderio di predisporre le diverse situazioni in maniera tale che i cittadini non fossero sottoposti a dominazioni di nesun genere, non dovessero vivere, come usavano dire i Romani, in potestate domini, sotto al potere di un padrone. Questo interesse repubblicano e’ sempre stato espresso come un impegno per la liberta’, sin da quando la liberta’, secondo i canoni repubblicani, richiede espressamente l’assenza di dominazione. Per rispondere ai quesiti sottesi alla liberta’ repubblicana una persona deve essere un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi non abbiano un padrone o dominus che li tenga sotto il suo potere, in relazione ad alcun aspetto della loro vita.
Il concetto della liberta’ repubblicana e’ piu’ rigido, quindi, del concetto di liberta’ inteso nel senso contemporaneo di “non interferenza”. Si potrebbe essere abbastanza fortunati o sufficientemente accorti da evitare interferenze di qualcuno, ma se poi si vive sotto lo spettro di un terzo, che potrebbe essere un datore di lavoro, uno sposo o uno sfruttatore locale, seguendo l’idea repubblicana non si e’ liberi in tali situazioni, anche prima che vi siano eventuali interferenze. La liberta’ richiede una sorta di immunita’ da interferenze che diano la possibilita’ di poter fissare chiunque altro negli occhi. Nessuno e’ libero se deve mantenere un occhio sempre vigile per i capricci di chi ha piu’ potere, e, all’occorrenza, adottare attitudini servili verso costoro, come farebbe una marionetta.
UN VECCHIO TEMA
I temi ai quali abbiamo fatto prima riferimento hanno una lunga storia, come ci hanno dimostrato studiosi quali Pocock, Skinner e Viroli che se ne sono occupati. La “fiamma” del Repubblicanesimo comincio’ a divampare nella Roma classica, dove Cicerone e altri pensatori si vantavano della indipendenza e della mancanza di sottomissione del cittadino romano. Si riaccese durante il Rinascimento quando i cittadini di citta’ italiane come Venezia e Firenze erano fieri del modo in cui potevano tenere alte le loro teste, senza dover elemosinare favori ad alcuno. Essi si sentivano cittadini “uguali” di una Repubblica, ed erano di una specie politica differente dai soggetti “intimiditi” della Roma papale o della corte francese.
La fiamma repubblicana passo’ al popolo di lingua inglese nel diciassettesimo secolo quando la tradizione del commonwealth, che venne plasmata durante il periodo della guerra civile inglese, fisso’ e istituzionalizzo’ l’opinione secondo la quale il re e il popolo dovevano vivere seguendo una disciplina contenuta nella medesima legge. Secondo questa prima versione del Repubblicanesimo la Monarchia non andava abbandonata, ma doveva essere parte di un ordine costituzionale, e non poteva esserle concesso di diventare centro di un potere assoluto. Entusiasti all’idea di un commonwealth – termine inglese che significa “repubblica” – sostenevano che essendo protetti da una legge chiara, nessun inglese sarebbe dipeso dalla volonta’ arbitraria di un altro, nemmeno dalla volonta’ arbitraria del re; a differenza dei Francesi e degli Spagnoli, gli Inglesi erano una razza di vigorosi ed indipendenti - anche aspri e schietti – uomini liberi.
Questo dibattito ebbe naturalmente delle ripercussioni sulla storia successiva degli Inglesi. Durante il diciottesimo secolo i coloni americani si persuasero che a loro stessi erano negate quelle liberta’ che invece erano dovute: ci si riferiva in particolare alla dipendenza dalla volonta’ arbitraria di un parlamento straniero. Forse dovevano pagare solamente un penny di tasse al governo londinese, come fece osservare uno scrittore contemporaneo, ma il governo che disponeva su di un penny aveva il potere di disporre anche su quello che rappresentava l’ultimo penny. Forse il padrone britannico era gentile e ben disposto, si adattava alle mutevoli esigenze, ma coloro che erano sottoposti al padrone gentile erano comunque dei sottoposti; non avevano l’immunita’ dal potere arbitrario che richiede la vera liberta’. I coloni americani pensarono di sfuggire alla dominazione britannica spezzando il loro legame con il paese da cui provenivano e diedero vita alla prima grande Repubblica del mondo costruita senza aiuto di alcuno.
Il precedente americano, e certamente il modello inglese di monarchia costituzionale, aiutarono nel favorire la creazione nel 1790 della Repubblica francese. Questa seconda importante rivoluzione condusse, e’ noto, ad un regno di terrore ma nacque dallo stesso desiderio della cittadinanza di sentirsi liberi dal giogo a cui era sottoposta. La liberta’ intesa come non dominazione, quale risultava nella tradizione francese, richiedeva eguaglianza e fraternita’, e uno scenario nel quale ciascuno potesse camminare a testa alta, sicuro che nessuno fosse in grado di tiranneggiare su di lui. Ognuno poteva guardare i propri consimili negli occhi, osservare gli altri cittadini, e nessuno possedeva speciali privilegi. Nessuno doveva adulare o essere servile, nessuno doveva dipendere dalla grazia o dal favore di un altro.
Ho osservato in precedenza che si e’ in grado di comprendere il Repubblicanesimo se si ha la cognizione di che cosa significa la dominazione e le ragioni per cui va considerata detestabile. Nella Roma classica, nel Rinascimento italiano, durante il diciassettesimo secolo in Inghilterra o nel diciottesimo in America e in Francia, tutti i repubblicani videro la dominazione come il piu’ grande pericolo da evitare organizzando una comunita’ e la vita sociale. Essi pensarono alla liberta’ come il non essere sottoposto a nessun altro, anche se persona benevola o despota “protettivo”.
La liberta’ repubblicana assume questi significati: essere in grado di tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli occhi, e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza.
DALLA LIBERTA’ REPUBBLICANA ALLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE
Il Repubblicanesimo, secondo il significato romano o neo-romano che e’ andato ad assumere, si e’ distinto non solamente per l’importanza accordata alla liberta’ intesa come non-dipendenza, ma anche attraverso il genere delle istituzioni sociali e politiche che ha generalmente preferito. Vi sono due argomenti che meritano di essere richiamati: innanzitutto, la fiducia nella efficacia di dichiarare in maniera esplicita i fini che si intendono perseguire; in secondo luogo, l’opinione intorno alla necessita’ di porre dei limiti in modo chiaro al perseguimento di quegli stessi fini.
Il Repubblicanesimo ha sempre affermato che lo stato e’ richiesto per promuovere la liberta’ intesa come non-dipendenza dei suoi cittadini, benche’ nell’antichita’ i cittadini fossero limitati nelle loro azioni, cosi’ come in ogni altra forma di espressione del pensiero, per mantenere la proprieta’ ai soli uomini. Di conseguenza essi hanno sempre considerato che lo stato e’ necessario per proteggere le persone da nemici esterni ed interni, e per assicurare contro l’abuso di ricchezze private o di autorita’: per esempio, assicurando una corretta distribuzione di terra o attraverso una legislazione contro certe forme di eccessiva ricchezza.
Ma se i repubblicani hanno sempre difeso il ruolo dello stato in relazione al perseguimento di tali fini – fini derivanti, in definitiva, dall’obiettivo di promuovere la liberta’ delle persone – essi hanno ugualmente insistito sull’essere lo stato una specie di spada affilata a due lame. A meno che non venga ridimensionato istituzionalmente in vari modi, lo stato puo’ causare un pericolo peggiore per la liberta’ dei cittadini intesa come non-dipendenza piuttosto che adottando determinate decisioni contro un fine particolare. Se lo stato offre potere senza impedimenti a una singola persona, per esempio, come accade sotto a una monarchia assoluta o a una dittatura, allora quella persona sara’ in grado di interferire con la sua volonta’ sulle vite dei cittadini e dominera’ ciascuno e ognuno di essi. O se lo stato permette ad una particolare fazione o classe di controllare cosa e’ fatto in nome suo, allora lo stato avra’ lo stesso potere di dominare anche coloro che non appartengono a quella classe.
La tesi repubblicana su questo fronte ha sempre chiaramente indicato che lo stato deve essere strutturato e obbligato in modo tale che possa agire promuovendo solo cio’ che conviene al pubblico interesse. Non deve essere libero di servire gli interessi di una particolare persona o famiglia o fazione a detrimento dell’interesse di altri. Se cosi’ fosse, allora rappresenterebbe un potere dominante nelle vite di altre persone. Lontano dal promuovere innanzitutto le loro liberta’ – benche’ debba fare qualcosa in questo senso – il suo effetto concreto sarebbe quello di ridurre la liberta’: di trasformare i cittadini in una classe sottomessa, sistematicamente vulnerabile.
Che genere di limitazione ha generalmente favorito il Repubblicanesimo? La limitazione piu’ importante nell’antica Roma e nel periodo delle rivoluzioni americana e francese, e’ stata l’opposizione contro la monarchia: un rifiuto di tollerare l’idea di un diritto dinastico al supremo potere. L’importanza di questo rifiuto, sicuramente, spiega la ragione per la quale per molti il Repubblicanesimo significhi poco o nulla di piu’ di una posizione antimonarchica. Ma e’ necessario ricordare che c’era sempre piu’ che una visione repubblicana delle istituzioni, una ostilita’ verso la monarchia e, di sicuro, che questa ostilita’ scompare nella tradizione del commonwealth che prende forma nel tardo millesettecento in Gran Bretagna. La' l’idea repubblicana emerse, e venne generalmente accettata sotto altre forme, vale a dire che un monarca doveva essere costituzionalmente limitato, quindi la monarchia non era di per se’ riprovevole.
Le limitazioni che sono state piu’ diffusamente associate con la teoria repubblicana dello stato sono ora, grazie anche all’influenza della tradizione, idee sicuramente piu’ chiare.
Sette punti, in particolare, vanno messi in evidenza:
1) l’importanza di avere una costituzione, scritta o non scritta, all’interno della quale ciascun governo deve operare.
2) Il desiderio di un governo di essere selezionato – generalmente eletto – in modo che le differenti parti della popolazione abbiano i loro diversi interessi rappresentati.
3) l’ideale di limitare la durata del mandato di coloro che prestano servizio nell’ufficio esecutivo, con la richiesta della loro selezione attraverso un rinnovamento regolare e la sottoposizione a periodiche elezioni.
4) la necessita’ per il governo di governare attraverso la Legge, non caso per caso, e di assicurare che le leggi siano applicate nei confronti di ciascuno, legislatori inclusi, e siano generali, chiare, ben comprese e cosi’ via.
5) la indispensabilita’ di separare i poteri, in modo che ciascuna autorita’ sia soggetta a controlli e valutazioni, e in particolare la indispensabilita’ di separare il potere giudiziario dal potere esecutivo e legislativo.
6) la necessita’ che quando le decisioni sono prese dal governo siano ricondotte a ragioni che derivano chiaramente da interessi generali, in modo che la rilevanza e la solidita’ di quelle ragioni possa essere posta in discussione nell’ambito della legislatura, dei tribunali o in altri forum.
7) la inevitabile fiducia dell’intero sistema sull’esistenza di un’attiva, partecipe cittadinanza che vigila sull’esercizio del potere di governo, mettendo in discussione i suoi abusi e facendolo condannare quando e’ necessario.
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CONCLUSIONI
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Per riassumere, quindi, il Repubblicanesimo e’ in primo luogo una teoria di liberta’ e, secondariamente, una teoria di governo. Equiparare la liberta’ con il godimento della non-dominazione, che possiamo esprimere in questo modo: vivere senza padrone la propria vita. Deriva dal valore di tale liberta’ sia cio’ che lo stato dovrebbe fare, sia come lo stato dovrebbe esserci costretto. Fornisce una base sulla quale elaborare sia una teoria sostanziale che una teoria costituzionale dello stato.

Tratto dal Pensiero Mazziniano………traduzione a cura di Paola Morigi…testo di PHILIP PETTIT
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Philip Pettit insegna “teoria politica e sociale” presso la Scuola di ricerca in Scienze Sociali della Australian National University di Canberra…il suo Libro Republicanism e’ stato pubblicato in Italia da Feltrinelli
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nuvolarossa
25-06-02, 21:32
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I DOVERI DELL'UOMO DEL MAZZlNI
E L' ALBA DEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA
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di Cesare Spellanzon

I Doveri dell'Uomo del Mazzini, quest' operetta che è tra le
più organiche e compiute uscite dalla penna di quel grande
scrittore frammentario, non fu creata di getto, in un solo mo-
mento della vita operosa dell'infaticabile apostolo dell'unità
nazionale. I primi quattro Capitoli di essa furono scritti dal li
gure nel 1841-42, e pubblicati in uno dei suoi giornali dalla
breve vita, l'Apostolato Popolare (1), ch'egli fece uscire allora a
Londra, dove trovavasi, con lo scopo preciso e dichiarato di at-
trarre l'attenzione dell'elemento popolare e operaio sul fonda-
mentale problema della libertà patria. «Abbiamo (scriveva il
19 maggio 1840 all'amico e conterraneo Giuseppe Elia Benza)
nel primo periodo della nostra vita lavorato pel Popolo, non
col Popolo. Bisogna farlo ora, e per molte ragioni morali e poli-
tiche... A questo fine ho tentato di scendere in una classe nu-
merosa anche fuori, e negletta finora quella de' nostri operai.
Ne ho trovato un nucleo, d'uomini di poche idee ma di vo-
lontà buona e fermissima; poche parole hanno bastato a susci-
tare in essi quel senso che dorme purtroppo anch' oggi in seno
al nostro popolo, sol perchè noi non abbiamo ancora avuto fe-
de sufficiente per meritare di suscitarlo... Si radunano settima-
nalmente, e si quotizzano con una regolarità da far vergogna a
noi letterati. Abbiamo già mandato operai per organizzare a
Parigi e nel Belgio altre sezioni. Faremo lo stesso nella Svizzera
e altrove. Avremo... un giornale d' Apostolato Popolare, soste-
nuto con i loro fondi, chiesto da loro, e che scriveremo chiaro,
elementare, unicamente per essi» (2). E quando il primo nu-
mero del giornale uscì, il 10 novembre 1840, il primo articolo,
naturalmente del Mazzini, era rivolto agli Italiani, e special-
mente “agli operai italiani” (3).
Quei primi capitoli dei Doveri dell'Uomo furono poi ripub-
blicati, dopo accurata revisione, dallo stesso autore, in Pensiero
ed Azione, rivista ,quindicinale di grande importanza nella sto-
ria del giornalismo mazziniano, pubblicata a Londra negli an-
ni 1858-59: e in essa il ligure annunziava il suo proposito di
condurre a termine quel lavoro, incominciato e interrotto
tant'anni prima. Avvenne così infatti: e nel periodo di tempo
in cui Pensiero ed Azione uscì a Londra furono pubblicati, dopo
quei primi quattro, i capitoli dal V al IX, il X fu pubblicato nel
la stessa rivista trasferita a Lugano, l'XI vide la luce, quasi nello
stesso tempo, a Genova, in Pensiero ed Azione, quivi ulterior-
mente trasferita, e nel giornale mazziniano di nuova creazione
L 'Unità Italiana, mentre il XII ultimo fu pubblicato, nel giu-
gno del 1860, esclusivamente in quest'ultimo foglio, essendo
stata nel frattempo sospesa la pubblicazione della rivista, allo
scopo di concentrare sul giornale, ch'era il monitore più vivace
e meglio informato della spediione garibaldina in Sicilia, tutte
le forze finanziarie e intellettuali del Partito d' Azione, il Partito
che voleva «I'Italia Una e Lira, per opera degli Italiani» (4).
Non era ancora finita questa prima frammentaria pubblica-
zione dei Doveri dell'Uomo, che già il Mazzini s'affrettava ad ac-
cettare la proposta fattagli da un suo fedele discepolo, Giovan-
ni Grilenzoni di Reggio Emilia, quella di pubblicare in volume
l' operetta, che ormai era compiuta, e alla quale il Ligure avreb-
be soltanto aggiunta la Dedica agli operai: ed egli pensava di i-
niziare con essa una Biblioteca popolare, destinata a trattare e
diffondere i principii della sua fede, maturata in oltre un tren-
tennio di lotte, di prove perseveranti, di dedizione illimitata al-
la causa d'Italia. «Se muoio (scriveva), farà la Biblioteca chi sa-
prà: se non muoio seguirò io con altre pubblicazioni dello stes-
so genere». Egli era evidentemente ansioso che la edizione si
facesse al più presto, affinchè quei suoi pensieri, nei quali era-
no racchiusi la sua mente e il suo cuore, potessero circolare in
un tutto organico, e pervenire nelle mani di quegli operai ai
quali erano indirizzati. Senonchè il Grilenzoni, dubitando egli
che il volumetto potesse stamparsi in Italia, gli scritti mazzinia-
ni essendo qui tuttavia riguardati con accigliato sospetto, ave-
va deciso di ricorrere per la stampa ad una tipografia della
Svizzera italiana: e il Mazzini, che ne temeva qualche più gra-
ve intralcio alla diffusione del volumetto, non pose tempo in
mezzo a negare l' opportunità di cosiffatta decisione, che dava
modo al Governo monarchico, ove gli fosse venuto in mente
di sequestrare l' edizione, di far ciò più agevolmente alla fron-
tiera, al momento in cui i libretti sarebbero stati introdotti in I-
talia, laddove un sequestro fatto all'interno del Regno, doven-
do essere in ogni caso seguito da un processo, era assai meno
probabile, anche se la natura dello scritto, lo che il Mazzini ne-
gava recisamente, fosse stata tale da offrire qualche pretesto aI-
la sospettosa malevolenza del regio fisco. Ma ormai era troppo
tardi; questa prima edizione dei Doveri dell'Uomo fu stampata
a Lugano con una falsa data di pubblicazione, Londra 1860. E
perchè questa sua operetta potesse andare veramente nelle
mani di tutti, e principalmente degli operai che disponevano
di poco denaro per l'acquisto di libri, il Mazzini aveva anche
insistito perchè il prezzo di vendita del volumetto fosse tenue
quanto più possibile. «il libriccino è per gli operai. E' tra loro
che deve avere il suo smercio» scriveva. Laonde dette la sua
approvazione al prezzo di cinquanta centesimi. Dopo di allo-
ra, i Doveri dell'Uomo furono ristampati innumerevoli altre vol-
te: lo stesso Mazzini ne pubblicava un'altra edizione a Napoli,
in quello stesso anno 1860 (5).
Non v'ha dubbio, che il Ligure si proponesse, con questa
pubblicazione, che in forma pacata e semplice si rivolgeva agli
operai, e parlava loro di Dio, di Umanità, di Nazione, di Fami-
glia, di Libertà, di Associazione, di lavorare pel Popolo, e col
Popolo, così come aveva annunziato di voler fare nel 1840 con
l' Apostolato Popolare, cosi come aveva fatto istituendo in Lon-
dra quella sua scuola per gli operai italiani, che fu una delle
più belle e proficue creazioni di quella grand'anima, nella qua-
le la politica parlava con accenti poetici, e l'amor di patria con
vibrazioni mestamente elegiache. Egli forse intuiva, che l'ope-
raio italiano, impossibilitato fino a quel momento, dai Governi
assoluti che dominavano su tanta parte della terra d'Italia, di
far sentire i suoi bisogni e le sue esigenze, non avrebbe tardato
ad affacciarsi sulla scena della vita politica nazionale, giovan-
dosi della relativa libertà concessa ai cittadini dallo Statuto car-
lalbertino, che stava per essere introdotto anche nelle nuove
province recentemente aggiunte o prossime ad esserlo all'anti-
co Regno sardo-ligure-piemontese: eppero’ si proponeva di pe-
netrare con la sua parola nella coscienza di quelle vergini mol-
titudini, per educarle, per illuminarle, per guadagnarle a' suoi
disegni, per sottrarle alle suggestioni che certo non sarebbero
mancate di un cieco e rabbioso clericalismo reazionario o di un
pavido conservatorismo o di un audace socialismo eversore,
ch'egli non avrebbe mai cessato di giudicare più che dannoso,
esiziale al benessere materiale e morale della classe lavoratrice.
Fino a quel momento infatti, soltanto negli Stati continentali
del Regno sardo, e sotto l'egida di quella legge statutaria, era
potuta nascere e svilupparsi, sia pure entro ristretti limiti, e
prevalentemente nella sua forma più moderata, quella del mu-
tuo soccorso, un qualche notevole accenno di movimento ope-
raio. Mentre fra il 1850 e il 1853 s'erano costituite ottantacinque
società operaie, esse nel 1859, e in tutto il Regno, sommavano a
centotrentaquattro: e insieme col mutuo soccorso non era
mancato qualche ardito tentativo di associazione cooperativa
per la produzione e per il consumo; e anche qualche sporadico
esperimento di resistenza alle eccessive esigenze del padrona-
to industriale. Ed era così bene intesa la utilità di codeste asso-
ciazioni, e la opportunità di approfondire il movimento ope-
raio accrescendo la sfera della sua efficacia, che dal 1853 fino al
1859 queste società liguri-piemontesi usavano riunirsi a con-
gresso annuale, nei quali furono successivamente discussi talu-
ni argomenti di fondamentale importanza per la elevazione
dei lavoratori, e per la prosperità delle loro associazioni, così
da far persuasi i più attenti osservatori, che il problema del la-
voro non avrebbe troppo a lungo tardato ad imporsi alla co-
scienza della universalità dei cittadini (6).
Dopo i mutamenti politici avvenuti in Italia negli anni 1859
e 1860, il movimento operaio non tardò a vivamente manife-
starsi anche nelle altre regioni italiane, rimaste fino allora pres-
sochè estranee, e indifferenti, dinanzi ai problemi del lavoro.
Da un capo all'altro d’Italia si videro nascere le società di mu-
tuo soccorso, le quali erano generalmente promosse o favorite,
e in qualche caso aiutate finanziariamente, dagli elementi della
borghesia locale militanti nel partito democratico o repubblica-
no. E molte di queste associazioni usavano proclamar soci o-
norari il generale Giuseppe Garibaldi o Giuseppe Mazzini o
Aurelio Saffi o qualche altro eminente cittadino noto per le sue
passate benemerenze patriottiche e civili. Alla fine del 1862, la
statistica contava in Italia (Roma e la Venezia escluse) ben
quattrocentoquarantacinque società operaie. Era naturale, che
il pullulare delle associazioni operaie in ogni parte d’Italia de-
terminasse la trasformazione dei congressi regionali liguri-pie-
montesi in congressi nazionali: nel 1860 infatti un primo con-
gresso operaio nazionale ebbe luogo a Milano, e nel 1861 un
altro a Firenze, i quali entrambi furono caratterizzati dall'urto
di due tendenze ,inconciliabili, quella delle società in prevalen-
za piemontesi avverse ad ogni influsso mazziniano, e quella
delle nuove società in prevalenza toscane emiliane e liguri fa-
vorevoli ai concetti del Mazzini, il quale non sapeva capacitar-
si che tali associazioni, le quali erano la naturale espressione
del movimento operaio, si estraniassero dalle vitali questioni
della politica nazionale, fossero condannate «ad essere associa-
zioni di ciechi e meccanici strumenti di produzione». A Mila-
no, le due opposte tendenze si scontrarono, essendo stata da
alcuni congressisti sollecitato un voto a favore del suffragio u-
rùversale; e a Firenze, qualche argomento di natura politica es-
sendo stato riproposto dagli elementi mazziniani, ne seguì una
netta scissione del congresso, dal quale una numerosa schiera
di rappresentanti si staccarono, protestando con estrema viva-
cità contro la decisione approvata a maggioranza, che le que-
stioni politiche potessero essere prese in considerazione, quan-
te volte i congressi le avessero riconosciute utili all'incremento
e al consolidamento del movimento operaio. I secessionisti
non esitarono allora a convocare un contro congresso in Asti, il
quale s'affrettava a deliberare che lo scopo della società di mu-
tuo soccorso non era la trattazione di materie politiche, e che
anzi esse dovevano astenersene per la propria conservazione e
l'incremento del bene popolare (7).
A causa di questa divisione delle forze operaie organizzate,
ai successivi congressi di Parma (1863) e di Napoli (1864) inter-
vennero un più limitato numero di rappresentanti, e ciò sebbe-
ne il movimento operaio continuasse a svilupparsi nell'Italia
libera, essendo nel frattempo cresciuto il numero delle società
di mutuo soccorso, qua e là avendo gli operai affrontato con
intelligenza e fermezza i rischi connessi alla istituzione di coo-
perative di produzione, il numero delle cooperative di consu-
mo essendo ormai di gran lunga maggiore che non negli anni
trascorsi, e avendo altresì in qualche occasione talune altre ca-
tegorie di operai lottato con lo sciopero, sia per l'aumento de-
gli scarsi salari, sia per la riduzione della giornata di lavoro,
ch'era in realtà quasi dovunque eccessivamente lunga e mal
retribuita. Ma in questi due ultimi congressi nazionali, il Maz-
zini era riuscito a mezzo de' suoi amici a far prevalere il suo
concetto, quello che fosse opportuno stringere in una grande
organizzazione unitaria, estesa a tutta l’Italia redenta, le cento
e cento associaziori operaie vecchie e nuove, che a quell'aria
eccitante di vita rigenerata eran nate o cresciute nelle vecchie e
nelle nuove province del Regno: a Parma era stato deciso che
una commissione eletta a quest'uopo formulasse uno statuto
federativo, che sur uno schema steso dallo stesso Mazzini, do-
po laboriose discussioni, e non senza che fosse inteso anche il
parere di Carlo Cattaneo, fu infatti approntato, e poi sottopo-
sto all'approvazione del congresso riunito a Napoli l'anno se-
guente. Questo statuto, che fu detto Atto di .fratellanza, aveva
subito notevoli modificazioni da quello ch'era il progetto del
Iigure ( «il tono caldo e ispirato dello statuto mazziniano ven-
ne concretato, spianato, al contatto delle espressioni precise e
dimesse del Cattaneo», scrisse lo storico di questi congressi):
ma infine, il Mazzini si compiacque che fosse stato approvato,
giacchè gli pareva che l'unione della più gran parte delle orga-
nizzazioni operaie in un solo organismo, sul quale egli, a mez-
zo de' suoi fedeli, pensava di poter efficacemente influire, po-
tesse ormai ritenersi cosa possibile e di prossima realizzazione.
Dopo l' approvazione, l' Atto di .fratellanza fu comunicato a tutte
le società operaie, le quali furono così invitate a darvi la pro-
pria adesione (8).
Benchè, dopo il 1864, la serie dei congressi nazionali delle
società operaie avesse subita una lunga sosta, e soltanto ses-
santa di esse dessero la propria adesione aIl' Atto di .fratellanza,
non per questo cessava lo sviluppo del movimento associativo
operaio nel Regno, cosicchè le società di mutuo soccorso erano
cinquecentosettantatrè nel 1867 , settecentosettantuno nel 1869 ,
e quindi, entrate ormai Roma e la Venezia a far parte della
nuova Italia, ottocentosettantotto nel 1870. Le preoccupazioni
di carattere più direttamente politico, la guerra del 1866, il ten-
tativo garibaldino infelicemente concluso a Mentana del 1867 ,
le agitazioni suscitate dall'introduzione della tassa sul macina-
to del 1868-69 , che dettero luogo a una serie di sanguinosi con-
flitti in molte parti d'Italia, le complicazioni internazionali che
sboccarono nella guerra franco-prussiana del 1870 e nella pre-
sa di Roma da parte del Governo italiano, avevano in qualche
modo distolto il Mazzini dall'agitare, con la stessa sollecitudi-
ne degli anni immediatamente successivi al 1860, la questione
operaia. Nè questo soltanto: nel 1864, qualche settimana avanti
che il Congresso di Napoli si riunisse per deliberare l' Atto di
fratellanza, s'era costituita a Londra l'Associazione internazionale
dei Lavoratori, alla quale in un primo momento anche il Mazzi-
ni e i suoi seguaci avevano dato la loro adesione, essendo per-
suaso il Iigure, che quell'esperimento meritasse di essere ten-
tato, e fiducioso di poter imprimere al neonato sodalizio il se-
gno inconfondibile delle sue lungamente meditate convinzioni
politiche, sociali e religiose. Invece l'Internazionale era ben pre-
sto caduta sotto il ben diverso influsso di Carlo Marx, che a
poco a poco era riuscito ad escludere dall'associazione tutto
ciò che aveva sapore mazziniano, e a dare ad essa un indirizzo
decisamente socialista, con l'affermazione del principio che l'e-
mancipazione dei lavoratori doveva essere opera esclusiva dei
lavoratori stessi, i quali erano sollecitati a reclamare la socializ-
zazione dei mezzi di produzione, principio che così enunciato
era nettamente antitetico al pensiero del ligure; questi infatti
rifuggiva dalla lotta fra le classi, e, come appare dagli ultimi
capitoli dei Doveri dell'Uomo, era contrario a tutto ciò che signi-
ficasse menomazione del diritto di proprietà, che egli conside-
rava uno degli elementi fondamentali della vita umana, al pari
della religione, della libertà, dell'associazione.
Il movimento operaio italiano, che già vedemmo in gran
parte restio a condividere le vedute del partito mazziniano,
nemmeno s'era lasciato facilmente attrarre nella scia del socia-
lismo internazionale, quella parte di esso che vedeva nel Maz-
zini il maestro d'ogni verità politica e sociale essendo tuttavia
fedele al suo Credo civile ed educativo, e persuasa che gli scio-
peri e la lotta di classe non fossero vantaggiosi mezzi di affer-
mazione del buon diritto dei lavoratori, i quali invece avrebbe-
ro dovuto conseguire la loro propria emancipazione con un'o-
pera «indefessa concorde intelligente» , avente «per base la mo-
ralità e per movente l'amore, l'amor fraterno» (9). Ma fin dal
1864 era venuto a soggiornare in Italia, a Firenze prima, a Na-
poli poi, il rivoluzionario russo Michele Bakounine, il quale
s'era già precisamente inteso col Marx allo scopo di scalzare e
di controbattere l'autorità del Mazzini in mezzo alle classi ope-
raie italiane, e nel seno stesso di quel partito democratico d'a-
vanguardia, che si diceva mazziniano per tradizione e consue-
tudine, quantunque il Credo religioso del Ligure, ch'era in-
dubbiamente al centro di tutta la sua concezione politica-socia-
le, fosse stato sempre condiviso da un numero assai ristretto
de' suoi adepti. Fu così che gli operai italiani, attratti nelle as-
sociazioni di mutuo soccorso e di resistenza, che ogni di più
andavano nascendo nella Penisola, dai naturali bisogni della
loro povera vita di lavoratori sottoposti a una dura eccessiva
fatica inadeguatamente compensata, e da un'irresistibile bra-
ma di cose nuove e migliori, che riusciva spesso a soverchiare
le trepide paure dell'egoismo borghese, e le misure ostili del
Governo monarchico; fu così che gli operai italiani cominciaro-
no a balbettare i primi accenti di socialismo e di internazionale
dei lavoratori, e che l'associazione marxista cominciò ad essere
nota tra noi, e a guadagnare le prime adesioni di società ope-
raie italiane. Cionondimeno, il Mazzini non scese subito in
campo Contro l'Internazionale, quantunque la giudicasse ormai
come uno strumento di perdizione della classe operaia, nell'a-
nimo della quale egli si proponeva di coltivare quei principii
di elevazione morale, che mentre avrebbero dovuto rigenerar-
ne la intima coscienza, dovevano nello stesso tempo esser
mezzo (mezzo, non fine) a quei miglioramenti materiali, dei
quali egli pure riconosceva l'urgente necessità. La voce del Li-
gure s'alzò veemente, pur nella sua austera compostezza, solo
dopo il tragico episodio della Comune di Parigi, che segnò, co-
sì come disse Benoit Malon, la terza sconfitta del proletariato
di Francia. La lotta dei Comunardi parigini contro l' Assemblea
di Versailles aveva suscitat9 in Italia, tra gli elementi mazzinia-
ni e garibaldini, cui la conseguita unità della patria lasciava in-
travedere un avvenire grigio modesto casalingo, a differenza
di quel ch'era Stato il passato, avventurosamente intrarnezzato
da cospirazioni persecuzioni e geste guerresche, che riempiva-
no l'animo di quanti vi partecipavano di un'ebrezza travolgen-
te, e davano la sensazione di una vita tutta passioni frementi e
imprese gloriose; quella lotta fiera disperata gagliarda, in cui e-
rano ad un tempo espressi amor di patria, odio contro l'inva-
sore straniero, avversione contro la reazione clericomonarchi-
ca, annidata nell'assemblea versagliese, ansioso desiderio di u-
na più illuminata giustizia sociale, e come aveva ovunque spa-
ventato la moltitudine delle anime timorate e della gente ricca
ed agiata, aveva altresì commosso o entusiasmato buona parte
del Ceto operaio italiano e di quella borghesia intellettuale de-
mocratica già da tempo assuefatta all'idea di una inevitabile ri-
voluzione, che la stessa propaganda rnazziniana aveva accli-
matato nella loro mente. Giuseppe Mazzini, a questo punto,
scese decisamente in campo contro la Comune parigina, pur
riconoscendo quel che di generoso e di ardito era in quel moto
di popolo, «condotto con mirabile energia da uomini ignoti ie-
ri, e che avevano saputo in pochi giorni e in una città esaurita
dall’ assedio..., creare ordinatamente mezzi ed esercito» -ma al-
l'infuori di ciò, il programma degli uomini della Comune era
da lui giudicato con aperto sfavore, era da lui recisarnente con-
dannato. Il Ligure vedeva in quel programma il trionfo del
materialismo, la negazione assoluta della Nazione, la fine del
sentimento di Patria, un decadimento generale del livello della
cultura, l'impossibilità di ogni durevole progresso, e quindi l'i-
nevitabile trionfo di anarchia e dispotismo. E lo disse, e lo ri-
petè fermamente, in una aspra polemica lungamente durata
con i fautori dell'Internazionale, e con lo stesso Bakounine, po-
lemica che fu l'ultima sostenuta dal Mazzini con i suoi avver-
sari, poco avanti la morte, che avvenne nei primi mesi dell'an-
no seguente. Prima di morire, egli aveva visto riunirsi a Roma
un dodicesimo congresso delle società operaie italiane, quelle
che aderivano ai suoi concetti, non più di centotrentacinque
tuttavia: e in esso aveva visto rinnovata l'approvazione del-
l' Atto di fratellanza (salvo qualche leggera modificazione) già
deliberato a Napoli nel 1864, Atto che fu la magna charta del
movimento operaio mazziniano durato, prima più attivo, poi
a poco a poco sempre più languido e stento, fino al 1893.
In verità, data da allora il progressivo diffondersi del movi-
mento socialista in Italia: il Mazzini aveva proclamato, nei Do-
veri dell'Uomo e in altri suoi scritti, che gli operai dovevano cer-
care e ottenere i necessari miglioramenti non come fine ma co-
me mezzo, cercarli per senso di dovere non unicamente di di-
ritto, per farsi migliori moralmente non solo per farsi material-
mente felici; dovevano, affermava, educarsi ed educare, perfe-
zionarsi e perfezionare, così da corrispondere alla Legge di
Dio essendo necessario «tendere a fare dell'intera Umanità u-
na famiglia, ogni membro della quale rappresentasse in sè, a
beneficio degli altri, la Legge morale».
Era una sublime riforma morale che il Mazzini suggeriva
agli operai d’ltalia, tale che nemmeno il Cristianesimo era ve-
ramente riuscito a far prevalere, nonostante il martirio dei suoi
Apostoli e l'esempio suggestivo de' suoi Santi, nell'animo del-
le moltitudini guadagnate alla sua dottrina lungo il corso dei
secoli; era perciò ben difficile credere che essi avrebbero ascol-
tato quella voce, e battuto quella via, mentre i bisogni materiali
della loro vita erano cosi gravi ed urgenti, che rinviarne la sod-
disfazione, quando s'apriva dinanzi a loro la strada più facile e
attraente della lotta e della resistenza contro i datori di lavoro,
sarebbe parso loro di tradire i compagni delle quotidiane fati-
che, e le stesse loro famiglie, che chiedevano un po' più di pa-
ne e un po' più di benessere materiale. Egli stesso, d'altronde,
aveva riconosciuto, che «insegnare ad essi il dovere di progre-
dire, parlar loro di vita intellettuale e morale, di diritti politici,
di educazione, (era), nell'ordine sociale attuale, una vera iro-
nia» (10). E se non propriamente un'ironia, un linguaggio
troppo alto e difficile per gente così povera e bisognosa. Ra-
gion per cui, i Doveri dell'Uomo, se conquistarono non più che
una esile minoranza della classe artigiana alla quale erano di-
retti, e per la quale erano stati pensati e scritti, sono pur sem-
pre insigne documento del pensiero mazziniano, di quella
grand'anima del Ugure, che visse veramente, con assoluta de-
dizione di sè, quella che fu la teoria enunziata da lui nei suoi
scritti, cosicchè anche i suoi più fieri avversari, lo stesso suo an-
tagonista degli ultimi anni il russo Bakounine, dovettero rico-
noscere la somma integrità morale dell'Uomo, la intima di-
gnità della sua mente. «Pochi uomini (scrisse il Bakounine nel
pieno della battaglia antimazziniana) sono capaci d'amare co-
me Mazzini; chiunque ha avuto la fortuna di avvicinarlo per-
sonalmente ha sentito gli effluvi di quella tenerezza infinita
che sembra penetrare tutto il suo essere, si è scaldato l'anima al
raggio di quella bontà indulgente che brilla nel suo sguardo
nello stesso tempo così serio e dolce, nel suo sorriso melanco-
nico e fine». E il libretto dei Doveri dell'uomo è altissima testi-
monjanza della illimitata capacità di amore del grande Esule,
di quanto amore egli sapesse circondare la poverissima di-
menticata classe degli artigiani d’Ita1ia (11).
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
(1) M. MENGHINI, introduzione, al voI. LXIX della Edi-
zione Nazionale degli Scritti Editi ed Inediti di Giuseppe Mazzini,
p. VII; (2) MAZZINI, Scritti, ed. cit., voI. XIX, p. 119; (3) L. RA-
VENNA, il giornalismo azziniano, Firenze, 1939, p. 65; (4) ME-
NEGHINI, Introduzione, cit., pp. XI segg; (6) N. ROSSELLI,
Mazzini e Bakounine, Torino, 1927, pp. 30 segg; (7) L. MINUTI,
il comune Artigiano di Firenze della Fratellanza Artigiana d'Italia,
Firenze, 1911, pp. 35 segg. -ROSSELLI, op. cit., da p. 57 a p. 96;
(8) ROSSELLI op. cit., pp. 108 segg; (9) MINUTI, op. cit., p. 64.
-ROSSELLI, op. cit., pp. 189, 284 segg; (10) Dei doveri dell'uomo,
cap. XI, § 1°; (11) il volume del Rosselli cit. è fondamentale per
la storia di questo periodo della vita italiana, e del conflitto fra
il Mazzini e il Bakounine. Gli ultimi scritti del Mazzini sull'In-
temazionaIe, sulla Comune di Parigi, e sul Congresso di Roma
sono riuniti nel volume XCII e XCIII della Edizione Nazionale
degli Scritti editi e inediti del Ligure.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

nuvolarossa
20-08-02, 02:31
LE OPERE DI GIUSEPPE MAZZINI

Qui si dà un cenno sommario sulle edizioni degli scritti di
Mazzini. Una bibliografia esauriente pur nella sua incomple-
tezza è in preparazione e di essa è parte un accurato lavoro di
Terenzio Grandi sulla produzione straniera.
La prima edizione degli Scritti editi e inediti di Giuseppe
Mazzini fu incominciata nel 1861, e per i primi sei volumi,
pubblicata con note autobiografiche del Mazzini stesso, in Mi-
lano dall'editore G. Daelli; il VII volume fu pubblicato dall' A-
gnelli di Milano; 1'VIll volume fu pubblicato da Levino Ro-
becchi; gli altri volumi dal 1877 da una Società editrice nazio-
nale - Commissione editrice degli Scritti di Giuseppe Mazzini -
la quale affidò ad Aurelio Saffi la cura di ordinarne gli Scritti e
di accompagnarli con cenni storici cui l'amico devoto attese
con amore dal IX volume (1877) insino al XVIII (l'ultimo) usci-
to ne11891.
Nel 1905 fu deliberata l'edizione nazionale degli Scritti editi
ed inediti. Vi presiedette una Commissione, ma all'immenso la-
voro attese il prof. Mario Menghini.
Erano stati preventivati 100 volumi, che uscirono tutti nel
tempo fissato.
I volumi sono cosi’ distinti:
Politica, voI. 30 in 3 serie; Epistolario, voI. 48; Letteratura, voI.
5; voI. 94° Letteratura e appendice agli scritti politici; Appendice al-
l'epistolario, voI. 6.
Ogni volume della «Politica» ha un' ampia introduzione
storica e ogni volume dell'Epistolario l'indice dei nomi.
Sono stati pubblicati anche quattro volumi del «Protocollo
della Giovine Italia».
Sono in gestazione gli indici ragionati per soggetto che
Mario Menghini aveva già impiantato prima di morire.
Mario Menghini ha anche curato, con note, la pubblicazio-
ne di «Ricordi autobiografici» ai quali ha premesso un'intro-
duzione (Imola, Galeati) e ha curato una raccolta di scritti sot-
to il titolo «Italia ed Europa» con sua introduzione (ed. Co-
lombo).
Con queste notizie sulle edizioni di tutti gli scritti del Maz-
zini, si soddisfa il desiderio di tanti studiosi. Non sarà fuori
luogo avvertire che non mancano raccolte autologiche di scrit-
ti politici, sociali, filosofici curate da J. W. Mario (ed. Sansoni),
da Carlo Cantimori (ed. P. Vallardi), da Rosolino Guastalla
(ed. Paravia), da Giovanni Conti (ed. libreria Politica Moder-
na, che ha annunziato una nuova edizione con il vecchio tito-
lo «I problemi dell'epoca» ).
Tra le biografie si ricordano quella della J. W. Mario (ed.
Sonzogno), del Bolton King (ed. Barbera), del Griffth (ed. La-
terza), del Saponaro (ed. Garzanti).
Sono state pubblicate importanti raccolte di lettere (com-
prese poi nell'edizione nazionale): recente la raccolta di «Let-
tere politiche» curata da Michele Saponaro (ed. Garzanti).

Roberto (POL)
05-09-02, 17:45
I dieci comandamenti del buon repubblicano

Gustavo ZAGREBELSKY

Lasciamo da parte gli avvenimenti che portarono alla Repubblica, attraverso la sconfitta del fascismo, la resistenza e la guerra di liberazione, la messa in gioco delle responsabilità di Casa Savoia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E, con gli avvenimenti, lasciamo qui da parte anche le contese storiografiche su quel periodo della nostra storia, diventato negli ultimi anni oggetto di una lotta per la memoria il cui significato è nel George Orwell di 1984: "Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato". Intendo invece porre una duplice questione che può essere esaminata indipendentemente da quella controversia e dalle sue ipoteche ideologico-politiche: che cosa è la repubblica e come essere repubblicani. Una questione di "conoscenza pratica", in cui la definizione di un concetto ci suggerisce dettami su un modo d'essere e di agire. Tra le varie classiche partizioni delle forme di governo cui rivolgerci per mettere ordine in una selva piuttosto oscura, quella di Montesquieu è una delle meno ovvie e più illuminanti perché non si limita a elementi esteriori, come ad esempio il numero dei governanti (tutti, alcuni, uno, cui corrispondono, rispettivamente, democrazia, aristocrazia, monarchia ovvero demagogia, oligarchia, tirannia), o a pur importantissime regole procedurali (il voto, invece che la violenza, per cambiare i governanti, da cui i regimi della ragione o quelli della forza), ma penetra nel loro intimo, svelandone il principio etico o, secondo l'espressione ch'egli impiega, il ressort, cioè la molla che dà loro vita e movimento.

Nel terzo libro dell'Esprit des lois, le forme di governo sono distinte in (a) dispotiche, (b) monarchiche e (c) repubblicane.

(a) Il despota è colui che sta fuori della legge, anzi colui la cui volontà o arbitrio sono legge per gli altri. Il regime della prepotenza si tiene sulla paura. Alimenta scontento e indignazione e proprio per questo occorre che il terrore spenga il coraggio e prevenga ogni minima ambizione di libertà. Il dispotismo è il regime dell'insicurezza, delle delazioni, degli informatori e delle spie, del sospetto. Chi ha l'animo costantemente occupato dal timore primordiale di perdere la vita e i propri beni non può permettersi il lusso di alzare la testa e pretendere rispetto e libertà. Montesquieu scriveva nella metà del XVIII secolo e i suoi esempi erano i "despoti orientali" o i crudeli cesari di Roma, come Diocleziano. Noi possiamo guardare appena alle nostre spalle, ai regimi totalitari del XX secolo che, in maniera scientifica e pianificata, si sono retti sull'uguaglianza del terrore.

(b) Della monarchia, la forza vitale sono gli onori: gli onori e i privilegi che il re distribuisce in cerchie concentriche per legare a sé i sudditi in un vincolo di fedeltà. La società è una gerarchia. Si sta in alto o si sta in basso a seconda degli onori ottenuti dalla fonte regale benefattrice. L'aspirazione al privilegio rafforza l'autorità del re e tanto più i privilegi sono estesi, ramificati e differenziati, tanto più saldo è il regno. Montesquieu aveva di fronte a sé l'esempio vivente di questo genere di società, la monarchia francese con le sue differenziazioni in "stati", "ordini" nobiliari ed ecclesiastici, in ceti professionali, in città che godevano di esenzioni più o meno ampie. E certamente non poteva non vedere - come vedevano i letterati del suo tempo - che gli onori alimentavano, in chi non ne godeva o ne godeva in misura minore di altri, un sentimento come l'invidia sociale che, raggiunto il limite di sopportazione del "terzo stato", avrebbe distrutto quella società.

(c) Nello "stato popolare" o democrazia - che Montesquieu tratta come primo paradigma di stato repubblicano (nella sua classificazione, c'è posto anche per la repubblica aristocratica) - coloro che fanno le leggi, direttamente o tramite propri magistrati, sono gli stessi che le subiscono. Quest'identità comporta il rischio che le leggi siano influenzate da interessi particolari. Le leggi possono essere piegate al fine di sottrarsi ai doveri verso lo stato, di saccheggiare la ricchezza pubblica, di soddisfare il piacere e il lusso personale e anche, appena possibile, di obbedire allo spirito di fazione, origine dell'ingiustizia e dell'oppressione. Ecco allora che, in uno stato popolare, esposto al rischio di questa corruzione, occorre un principio etico in più, la virtù: una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso sospetta, per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi dobbiamo utilizzare con cautela, ma che, in una forma o in un'altra, inevitabilmente fa capolino in ogni discussione sulla democrazia. Quale sia il contenuto di questa virtù, possiamo cercare di ricavarlo, oltre che dagli esempi storici che Montesquieu trae dall'Inghilterra, da Roma, Atene o Cartagine, dai mali da cui la repubblica deve essere preservata. Innanzi tutto, per evitare che lo stato, che è bene di tutti, possa apparire un bottino allettante, la sobrietà degli stili di vita personali. Per garantire la forza dello stato, l'osservanza scrupolosa del dovere di contribuire con la propria opera e i propri beni alla sua prosperità. Per difendere la libertà pubblica e difendersi dall'ingiustizia e dall'oppressione, il senso dell'intangibilità della propria dignità e dei propri diritti. Per preservarsi dal male maggiore, il flagello delle fazioni, infine, l'amor di patria: un sentimento politico che supera le divisioni e impone la concordia in ciò che davvero è essenziale nella vita collettiva. Che cosa si deve intendere per patria, nel senso repubblicano? Se si considera che la repubblica è l'insieme degli apporti che ciascuno dà alla vita collettiva - i doveri - e dei benefici che ne trae - i diritti -, possiamo dire che la patria è un modo di stare insieme, una visione della convivenza, una specifica comunità di diritti che vengono riconosciuti in restituzione dei doveri. La patria, intesa come una concezione della vita collettiva, è certo il prodotto di una terra e di una storia comuni ma non è essa stessa terra, storia e, magari, sangue. L'idea repubblicana di patria appartiene alla cultura e non alla natura; è costruita sull'impegno degli uomini di ogni generazione che adempiono il dovere di trasmetterla migliore a quella successiva; è selettiva, perché impone di tenere le distanze verso chi abusa dei diritti che gli sono riconosciuti e viola o elude i doveri che deve adempiere; è inclusiva ed espansiva, perché permette di accogliere chi accetta la medesima concezione della vita, pur non venendo dalla stessa terra e dalla stessa storia; è aperta, perché si può combinare e allargare ad altre comunità di esseri umani in vista della costruzione di patrie più vaste. Il significato che può avere oggi quest'idea culturale di patria si comprende nel confronto con l'idea naturalistica, basata sulla comunanza di terra, stirpe, storia. Questa, al contrario di quella, è un dato che segna come un destino; comprende il buono, il meno buono e il peggio, tutto giustifica e tutti acquieta nell'accettazione passiva, insieme alle virtù, dei patri vizi; è chiusa su se stessa, ostacolando la costruzione di comunità umane progressivamente più vaste. Comporta infine un potenziale pericolo per la pacifica convivenza tra gli individui, i gruppi sociali e i popoli, data la carica di aggressività che essa contiene e legittima nei confronti di chi non appartiene alla stessa comunanza.

Fin qui, che cosa è la repubblica. Ora, che cosa implica, nel modo d'essere e di operare dei cittadini, quella virtù con la quale la repubblica vive e cresce, ma senza la quale muore.

1. L'atteggiamento altruistico, come disponibilità a mettere in comune qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene di tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno. E' contraria all'uguale appartenenza alla repubblica e dunque non è repubblicana l'idea di un darwinismo sociale che abbandona i deboli alla condanna della selezione naturale.

2. La disponibilità all'accettazione nella comunità dei diritti di tutti coloro che lealmente si riconoscono nella comunità dei doveri, senza intolleranza nei confronti di quanti, per qualsiasi ragione storica, etnica, personale, possano apparire diversi. L'idea repubblicana ammette una sola ragione di diversità alla quale possa seguire un'esclusione: la violazione dei doveri che dei diritti rappresentano il corrispettivo.

3. L'apprezzamento e la valorizzazione della pluralità delle opinioni, e quindi anche delle opinioni divergenti dalle proprie, come espressione di un atteggiamento che non si rassegna, contentandosi di quel che collettivamente siamo, ma promuove il miglioramento cercando di correggere i difetti.

4. Lo spirito del dialogo, con ciò che ne discende nella pratica: procedure, istituzioni deliberative, tempo e anche frustrazioni e lentezze.

5. Il rigetto della politica come dogma, ciò che, contrapponendo irrimediabilmente i cittadini tra loro, pregiudica l'unità, crea repubbliche (o meglio, chiese) che dividono la repubblica.

6. La diffidenza verso le decisioni estreme e irretrattabili, non solo perché anch'esse dividono irrimediabilmente, ma anche perché contraddicono l'inesauribile diritto al libero confronto, essenza dello spirito repubblicano.

7. La cura della propria personalità, il senso della dignità e la gelosa difesa dei propri diritti, a garanzia di beni che non sono solo individuali ma riguardano l'interesse di tutti.

8. La sostituzione dell'idea lamentosa, molto nostrana ma poco patriottica, che tutto sia dovuto dall'alto, con l'idea opposta che, fin dove è possibile, ciascuno è responsabile della soluzione dei propri problemi, senza gravare sugli altri.

9. La sperimentazione pratica di ciò che significa vivere repubblicanamente, prestandosi personalmente, fin dalla prima giovinezza, a svolgere attività nella politica e nel servizio sociale.

Mi accorgo che inevitabilmente, dalla repubblica e dalle sue regole, mi sto spostando sul terreno contiguo della democrazia.

Ma ancora un ultimo punto, per completare il decalogo e ricollegarlo all'inizio, dove si diceva della paura e dell'invidia come i tratti di psicologia collettiva che caratterizzano i dispotismi e le monarchie: due sentimenti tetri, avvilenti e distruttivi. Dello spirito repubblicano è propria invece l'allegria, che nasce dall'ottimismo, dalla fiducia reciproca e dallo spirito creativo che scaturisce dal coinvolgimento in imprese comuni, importanti per la vita di tutti.

Così è in tutti i tipi di società umane, anche le più piccole e le più semplici: tra compagni di scuola, tra studenti e professori, tra professori tra loro e tra professori e preside, se manca l'allegria, manca lo spirito repubblicano. Vuol dire che, al posto, prevale lo spirito dispotico con le sue paure o lo spirito monarchico con la sua invidia.

**********

Saluti

R.

Roberto (POL)
05-09-02, 17:45
I dieci comandamenti del buon repubblicano

Gustavo ZAGREBELSKY

Lasciamo da parte gli avvenimenti che portarono alla Repubblica, attraverso la sconfitta del fascismo, la resistenza e la guerra di liberazione, la messa in gioco delle responsabilità di Casa Savoia nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E, con gli avvenimenti, lasciamo qui da parte anche le contese storiografiche su quel periodo della nostra storia, diventato negli ultimi anni oggetto di una lotta per la memoria il cui significato è nel George Orwell di 1984: "Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato". Intendo invece porre una duplice questione che può essere esaminata indipendentemente da quella controversia e dalle sue ipoteche ideologico-politiche: che cosa è la repubblica e come essere repubblicani. Una questione di "conoscenza pratica", in cui la definizione di un concetto ci suggerisce dettami su un modo d'essere e di agire. Tra le varie classiche partizioni delle forme di governo cui rivolgerci per mettere ordine in una selva piuttosto oscura, quella di Montesquieu è una delle meno ovvie e più illuminanti perché non si limita a elementi esteriori, come ad esempio il numero dei governanti (tutti, alcuni, uno, cui corrispondono, rispettivamente, democrazia, aristocrazia, monarchia ovvero demagogia, oligarchia, tirannia), o a pur importantissime regole procedurali (il voto, invece che la violenza, per cambiare i governanti, da cui i regimi della ragione o quelli della forza), ma penetra nel loro intimo, svelandone il principio etico o, secondo l'espressione ch'egli impiega, il ressort, cioè la molla che dà loro vita e movimento.

Nel terzo libro dell'Esprit des lois, le forme di governo sono distinte in (a) dispotiche, (b) monarchiche e (c) repubblicane.

(a) Il despota è colui che sta fuori della legge, anzi colui la cui volontà o arbitrio sono legge per gli altri. Il regime della prepotenza si tiene sulla paura. Alimenta scontento e indignazione e proprio per questo occorre che il terrore spenga il coraggio e prevenga ogni minima ambizione di libertà. Il dispotismo è il regime dell'insicurezza, delle delazioni, degli informatori e delle spie, del sospetto. Chi ha l'animo costantemente occupato dal timore primordiale di perdere la vita e i propri beni non può permettersi il lusso di alzare la testa e pretendere rispetto e libertà. Montesquieu scriveva nella metà del XVIII secolo e i suoi esempi erano i "despoti orientali" o i crudeli cesari di Roma, come Diocleziano. Noi possiamo guardare appena alle nostre spalle, ai regimi totalitari del XX secolo che, in maniera scientifica e pianificata, si sono retti sull'uguaglianza del terrore.

(b) Della monarchia, la forza vitale sono gli onori: gli onori e i privilegi che il re distribuisce in cerchie concentriche per legare a sé i sudditi in un vincolo di fedeltà. La società è una gerarchia. Si sta in alto o si sta in basso a seconda degli onori ottenuti dalla fonte regale benefattrice. L'aspirazione al privilegio rafforza l'autorità del re e tanto più i privilegi sono estesi, ramificati e differenziati, tanto più saldo è il regno. Montesquieu aveva di fronte a sé l'esempio vivente di questo genere di società, la monarchia francese con le sue differenziazioni in "stati", "ordini" nobiliari ed ecclesiastici, in ceti professionali, in città che godevano di esenzioni più o meno ampie. E certamente non poteva non vedere - come vedevano i letterati del suo tempo - che gli onori alimentavano, in chi non ne godeva o ne godeva in misura minore di altri, un sentimento come l'invidia sociale che, raggiunto il limite di sopportazione del "terzo stato", avrebbe distrutto quella società.

(c) Nello "stato popolare" o democrazia - che Montesquieu tratta come primo paradigma di stato repubblicano (nella sua classificazione, c'è posto anche per la repubblica aristocratica) - coloro che fanno le leggi, direttamente o tramite propri magistrati, sono gli stessi che le subiscono. Quest'identità comporta il rischio che le leggi siano influenzate da interessi particolari. Le leggi possono essere piegate al fine di sottrarsi ai doveri verso lo stato, di saccheggiare la ricchezza pubblica, di soddisfare il piacere e il lusso personale e anche, appena possibile, di obbedire allo spirito di fazione, origine dell'ingiustizia e dell'oppressione. Ecco allora che, in uno stato popolare, esposto al rischio di questa corruzione, occorre un principio etico in più, la virtù: una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso sospetta, per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi dobbiamo utilizzare con cautela, ma che, in una forma o in un'altra, inevitabilmente fa capolino in ogni discussione sulla democrazia. Quale sia il contenuto di questa virtù, possiamo cercare di ricavarlo, oltre che dagli esempi storici che Montesquieu trae dall'Inghilterra, da Roma, Atene o Cartagine, dai mali da cui la repubblica deve essere preservata. Innanzi tutto, per evitare che lo stato, che è bene di tutti, possa apparire un bottino allettante, la sobrietà degli stili di vita personali. Per garantire la forza dello stato, l'osservanza scrupolosa del dovere di contribuire con la propria opera e i propri beni alla sua prosperità. Per difendere la libertà pubblica e difendersi dall'ingiustizia e dall'oppressione, il senso dell'intangibilità della propria dignità e dei propri diritti. Per preservarsi dal male maggiore, il flagello delle fazioni, infine, l'amor di patria: un sentimento politico che supera le divisioni e impone la concordia in ciò che davvero è essenziale nella vita collettiva. Che cosa si deve intendere per patria, nel senso repubblicano? Se si considera che la repubblica è l'insieme degli apporti che ciascuno dà alla vita collettiva - i doveri - e dei benefici che ne trae - i diritti -, possiamo dire che la patria è un modo di stare insieme, una visione della convivenza, una specifica comunità di diritti che vengono riconosciuti in restituzione dei doveri. La patria, intesa come una concezione della vita collettiva, è certo il prodotto di una terra e di una storia comuni ma non è essa stessa terra, storia e, magari, sangue. L'idea repubblicana di patria appartiene alla cultura e non alla natura; è costruita sull'impegno degli uomini di ogni generazione che adempiono il dovere di trasmetterla migliore a quella successiva; è selettiva, perché impone di tenere le distanze verso chi abusa dei diritti che gli sono riconosciuti e viola o elude i doveri che deve adempiere; è inclusiva ed espansiva, perché permette di accogliere chi accetta la medesima concezione della vita, pur non venendo dalla stessa terra e dalla stessa storia; è aperta, perché si può combinare e allargare ad altre comunità di esseri umani in vista della costruzione di patrie più vaste. Il significato che può avere oggi quest'idea culturale di patria si comprende nel confronto con l'idea naturalistica, basata sulla comunanza di terra, stirpe, storia. Questa, al contrario di quella, è un dato che segna come un destino; comprende il buono, il meno buono e il peggio, tutto giustifica e tutti acquieta nell'accettazione passiva, insieme alle virtù, dei patri vizi; è chiusa su se stessa, ostacolando la costruzione di comunità umane progressivamente più vaste. Comporta infine un potenziale pericolo per la pacifica convivenza tra gli individui, i gruppi sociali e i popoli, data la carica di aggressività che essa contiene e legittima nei confronti di chi non appartiene alla stessa comunanza.

Fin qui, che cosa è la repubblica. Ora, che cosa implica, nel modo d'essere e di operare dei cittadini, quella virtù con la quale la repubblica vive e cresce, ma senza la quale muore.

1. L'atteggiamento altruistico, come disponibilità a mettere in comune qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene di tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno. E' contraria all'uguale appartenenza alla repubblica e dunque non è repubblicana l'idea di un darwinismo sociale che abbandona i deboli alla condanna della selezione naturale.

2. La disponibilità all'accettazione nella comunità dei diritti di tutti coloro che lealmente si riconoscono nella comunità dei doveri, senza intolleranza nei confronti di quanti, per qualsiasi ragione storica, etnica, personale, possano apparire diversi. L'idea repubblicana ammette una sola ragione di diversità alla quale possa seguire un'esclusione: la violazione dei doveri che dei diritti rappresentano il corrispettivo.

3. L'apprezzamento e la valorizzazione della pluralità delle opinioni, e quindi anche delle opinioni divergenti dalle proprie, come espressione di un atteggiamento che non si rassegna, contentandosi di quel che collettivamente siamo, ma promuove il miglioramento cercando di correggere i difetti.

4. Lo spirito del dialogo, con ciò che ne discende nella pratica: procedure, istituzioni deliberative, tempo e anche frustrazioni e lentezze.

5. Il rigetto della politica come dogma, ciò che, contrapponendo irrimediabilmente i cittadini tra loro, pregiudica l'unità, crea repubbliche (o meglio, chiese) che dividono la repubblica.

6. La diffidenza verso le decisioni estreme e irretrattabili, non solo perché anch'esse dividono irrimediabilmente, ma anche perché contraddicono l'inesauribile diritto al libero confronto, essenza dello spirito repubblicano.

7. La cura della propria personalità, il senso della dignità e la gelosa difesa dei propri diritti, a garanzia di beni che non sono solo individuali ma riguardano l'interesse di tutti.

8. La sostituzione dell'idea lamentosa, molto nostrana ma poco patriottica, che tutto sia dovuto dall'alto, con l'idea opposta che, fin dove è possibile, ciascuno è responsabile della soluzione dei propri problemi, senza gravare sugli altri.

9. La sperimentazione pratica di ciò che significa vivere repubblicanamente, prestandosi personalmente, fin dalla prima giovinezza, a svolgere attività nella politica e nel servizio sociale.

Mi accorgo che inevitabilmente, dalla repubblica e dalle sue regole, mi sto spostando sul terreno contiguo della democrazia.

Ma ancora un ultimo punto, per completare il decalogo e ricollegarlo all'inizio, dove si diceva della paura e dell'invidia come i tratti di psicologia collettiva che caratterizzano i dispotismi e le monarchie: due sentimenti tetri, avvilenti e distruttivi. Dello spirito repubblicano è propria invece l'allegria, che nasce dall'ottimismo, dalla fiducia reciproca e dallo spirito creativo che scaturisce dal coinvolgimento in imprese comuni, importanti per la vita di tutti.

Così è in tutti i tipi di società umane, anche le più piccole e le più semplici: tra compagni di scuola, tra studenti e professori, tra professori tra loro e tra professori e preside, se manca l'allegria, manca lo spirito repubblicano. Vuol dire che, al posto, prevale lo spirito dispotico con le sue paure o lo spirito monarchico con la sua invidia.

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Saluti

R.

nuvolarossa
05-02-03, 01:02
http://www.feltrinelli.com/fs/cover/im/9/88-07-10288-9.jpg
Il repubblicanesimo
Una teoria della libertà e del governo
Philip Pettit
Traduzione: Paolo Costa
Collana: Campi del sapere
Pagine: 384
Prezzo: Euro 30,99
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In breve

Un ritratto sistematico di una delle prospettive politiche più originali di questi ultimi anni: la riscoperta dell'idea repubblicana di convivenza democratica. Non la sola eguaglianza, ma l'assenza di qualunque forma di dominio sull'altro, garantisce la piena libertà.

Il libro

Questo libro offre un quadro sistematico di una delle prospettive politiche più originali emerse dal dibattito politico di questi ultimi anni. Il repubblicanesimo, nella versione data da Pettit, ambisce infatti a costituire una "terza via" tra liberalismo e comunitarismo, le due teorie concorrenti che hanno dominato il panorama della filosofia politica degli anni ottanta. Muovendo da una concezione della libertà come assenza di dominio, Pettit offre una lettura delle società democratiche in cui risulta centrale l'idea del vivere insieme agli altri da pari, come individui pienamente garantiti nella propria indipendenza. L'idea di liberta come dominio ha affascinanti implicazioni istituzionali e il libro cerca di delineare gli insegnamenti più rilevanti che se ne possono trarre. Alcune di queste implicazioni presentano tratti caratteristicamente repubblicani, come il richiamo all'uguaglianza, alla comunità e alle virtù civiche; altre risultano più sorprendenti, come le tesi che riguardano quali politiche una repubblica dovrebbe perseguire e il tipo di democrazia che dovrebbe realizzare. La libertà come non dominio, scrive Pettit, promuove una concezione della democrazia in cui la contestabilità viene ad assumere il ruolo tradizionalmente assegnato al consenso: il governo deve fare ci" che la gente chiede ma, anche a costo dell'arbitrarietà, i cittadini devono poter contesttare ci" che il governo fa.

Approfondimento

Il repubblicanesimo (1997) è un'opera importantissima, già ampiamente citata nella letteratura filosofica, la cui traduzione è molto attesa. Con questo scritto Philip Pettit è riuscito nell'intento non agevole di offrire un ritratto sistematico di una delle prospettive politiche più originali di questi ultimi anni. Il repubblicanesimo, le cui radici affondano nell'antica Roma, ambisce a costituire una "terza via" tra liberalismo e comunitarismo, le due teorie concorrenti che hanno dominato il panorama della filosofia politica degli anni ottanta. Muovendo da una concezione della libertà come assenza di dominio, Pettit offre una lettura delle società democratiche in cui risulta centrale l'idea del vivere insieme agli altri da pari a pari, come individui pienamente garantiti nella propria indipendenza: essere liberi significa non essere soggetti all'arbitrio di un padrone, di un dittatore o di un qualsiasi controllore che, per quanto umano e gentile, può interferire nella nostra vita. Il libro si rivolge ovviamente agli studenti e agli specialisti delle discipline politico-sociali, ma è di sicuro interesse anche per tutti coloro che seguono i travagli e gli sforzi di rinnovamento delle società liberali contemporanee.
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TRATTO DAL SITO DI
http://www.feltrinelli.com/pic/top-www.gif (http://www.feltrinelli.com/SchedaAutore/SchedaLibro?id_volume=672990)

nuvolarossa
10-07-04, 00:48
La politica come religione civile: fu proprio questo il sottotitolo che proposi a Giuseppe Laterza e a Roland Sarti nel 2000, al momento della pubblicazione della traduzione italiana dell’ultima importante biografia di Mazzini, che era già uscita, nel 1997, da Praeger, negli Stati Uniti. Mi sembrava che quel messaggio, non apprezzato da tutta la critica, sintetizzasse bene una parte essenziale del pensiero mazziniano. Esso implica, infatti, un profondo coinvolgimento, responsabilità individuale, senso dell’associazione, a partire dalle microstrutture e fino all’unione dei popoli a livello planetario. È attraverso questi passaggi che si misura il progresso di una società che non può essere declinato solo in termini utilitaristici, attraverso un arido bilancio numerico tra costi e ricavi. Sono, al contrario, le relazioni umane a misurare la crescita effettiva di qualsiasi comunità, se non vogliamo che la teorica del “dovere” sia intesa come semplice imposizione dell’arbitrio del più forte sul più debole; o che l’associazionismo decada allo stato di semplice intesa “familistica”, anziché proiettarsi come formidabile strumento di coinvolgimento.
La religione civile implica, naturalmente, che ognuno di noi si ponga di fronte alla “questione religiosa” tout court: anche i laici, soprattutto i laici. Gli agnostici prima ancora dei credenti e degli atei i quali, in fondo, sembrano aver risolto la faccenda una volta per tutte, con un “a priori” assoluto; come se la fede stessa non si dovesse vivificare ogni giorno, attraverso, almeno, l’incontro tra la teoria e la prassi o, come dicono i mazziniani, tra il pensiero e l’azione. Concetti, questi ultimi, che Mazzini volle riunire sotto forma di un “binomio” significativamente vicino a un altro binomio: “Dio e Popolo”. Mazzini fu però sempre attento che i rispettivi contenuti dei binomi non si fondessero ontologicamente e neppure formassero un unicum confuso, inutile e, anzi, dannoso per l’uomo, come avrebbero ben spiegato Salvemini e Croce in una limpida polemica con le teorie “ideazioniste” di Gentile.
È all’insegna di questa riflessione, sicuramente schematica e troppo semplificata, che invitiamo i lettori a un approccio speciale con uno dei “fili conduttori” di questo numero. Tra i tanti stimolanti contributi molti scritti alludono infatti, direttamente o indirettamente, al tema della religione e della religiosità. A partire dall’intervento di Paolo Bonetti sulla religiosità di Bobbio, per proseguire con i saggi di Alberto Guasco, La religione come ideologia, l’ideologia come religione e di Antonio De Lauri, Mazzini nella critica di un giornale di “liberi pensatori” razionalisti, fino ai lavori di Claudia Farkas e, soprattutto, di Michel Ostenc che pongono il tema religioso nel vivo della dinamica storica del Novecento, con tutti i risvolti drammatici, noti e meno noti. Prospettive e interpretazioni diverse per chiedere ai lettori un esercizio di comprensione attraverso la lente del mazzinianesimo, capace di innestarsi nel neorepubblicanesimo. Su quest’ultimo filone siamo orgogliosi di proporre un saggio di uno dei massimi studiosi mondiali, James Bohman, un autore che viene per la prima volta tradotto in Italia.
Sarà allora agevole cogliere la straordinaria contemporaneità di alcune concezioni: constatare, ad esempio, che la religione “vera”, così come la democrazia, non si esporta con la forza, né s’impone con le bombe, con gli eserciti o con il terrore. Può solo scaturire, come diceva Cattaneo, dalle “viscere dei popoli”, con processi che non possono essere determinati simultaneamente neppure nel tempo della realtà virtuale e della globalizzazione, se non vogliamo che la stessa democrazia perda completamente ogni sua connotazione e assuma la forma di un nuovo dispotismo. Attuale più che mai, dunque, il sogno kantiano, poi perfezionato proprio da Mazzini, dell’unione dei popoli, che non può certo avvenire, come abbiamo appena sottolineato, attraverso il postulato della presunta superiorità di una civiltà; e neppure grazie al dominio economico-militare di una minoranza ricca e “democratica”, su una grande maggioranza povera e sottomessa alla prima casta. Il “passaggio essenziale” riguarda dunque l’esercizio di una legge di giustizia mondiale attuabile, forse, pensando a una profonda riforma dell’ONU, a un cambiamento dell’architettura economica della Terra, all’individuazione, per dirla con Amartya Sen, “di un’istituzione sovranazionale in grado di garantirla”. Si presenta, in formato globale, l’esigenza di risolvere l’immenso problema da “sala della pallacorda”, cercando una adeguata rappresentanza per tutti i popoli del mondo. Certo, senza cadere dall’oligarchia dei detentori del potere economico-finanziario alla “dittatura del numero”, ma attraverso una sorta di “parlamento mondiale”, per cercare di riequilibrare una situazione in tutta evidenza iniqua e foriera di pericoli gravissimi a tutte le latitudini, rappresentati dalle guerre, dalle carestie, dal terrorismo.
È attraverso queste considerazioni, con la declinazione, ovviamente “rischiosa” e provocatoria, di una utopia, che proponiamo il tema della “religione civile”: la saldatura “tra cielo e terra”, al di là dei panegirici di comodo, per sottoporre ogni fede alla prova della nostra intima coscienza, del nostro residuo desiderio di partecipazione e dei progetti per l’avvenire.

s.m.
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tratto dal P.M. n.1 2004

nuvolarossa
09-03-05, 13:19
Mazzini fu il primo neocon

di Tommaso Ciuffoletti

Caro Direttore,
in occasione della visita italiana di Bill Kristol, avrei voluto suggerire al neocon DOCG di fare una visita a Genova come omaggio per il bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, al quale proprio i neocon tanto devono, almeno per quanto riguarda la loro concezione della politica estera. Perché a ben vedere essi non hanno inventato niente di nuovo in materia, ma hanno invero avuto il merito di riprendere ciò che altrove si è colpevolmente fatto finta di dimenticare, piuttosto che rielaborare criticamente. Proprio in un recente libro del prof. Salvo Mastellone è infatti riportata un’interessantissima lettera aperta che Giuseppe Mazzini scrisse, nel luglio del 1845, al ministro dell’Interno Sir J. Graham in cui si legge come per l’esule italiano la politica di pace e la conservazione dello status quo in Europa, che il governo inglese perseguiva sulla scorta del Congresso di Vienna, cozzava con le dichiarazioni autorevoli e coraggiose del Duca di Wellington secondo cui la politica dell’Inghilterra aveva, per fine “non solamente di rimanere in pace con tutti, ma di mantenere pace per ogni dove, e promuovere l’indipendenza, la sicurezza e la prosperità di ogni altra terra nel mondo” (4 luglio 1844). Mazzini scrisse testualmente: “Accetto di buon grado una definizione siffatta e la credo migliore di tutte le teorie di non intervento che oggi cancellano il diritto internazionale e il progresso europeo. La dottrina assoluta del non intervento in politica corrisponde all’indifferenza in fatto di religione: è un mascherato ateismo, una negazione, senza la vitalità della ribellione, di ogni credenza, d’ogni principio generale, d’ogni missione a pro dell’umanità. Noi siamo tutti vincolati l’uno all’altro nel mondo, e a un intervento è dovuto quanto di buono, di grande, di progressivo ci addita la storia [...] Io non sono partigiano di quella massima gesuitica “il fine giustifica i mezzi”, ma devo confessare che mi sembra egualmente assurdo, egualmente ingiusto di esaltare fino al grado di assioma l’opinione che in ogni occasione e in ogni epoca condanna l’applicazione della forza fisica”.
P.S. Considerato che dunque non occorre essere neocon per sostenere il “contagio democratico”, ne approfitto per aderire all’appello del vostro giornale per un Libano libero e indipendente.

Tommaso Ciuffoletti
Firenze
http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/SOTTOQUESTOSOLE.mid

nuvolarossa
21-04-05, 15:17
Il repubblicanesimo e la tradizione liberal-democratica: una questione culturale

di Roberto Balzani*

Se c’è una cosa che colpisce, nelle difficoltà in cui si agita l’area laica italiana in questo inizio di secolo, è l’impossibilità di trovare un posto dove stare . I “poli”, le grandi “case”, non convincono o non danno risposte accettabili; il notabilato politico, come affetto da un perenne ballo di S. Vito, si affanna a prender posizione, per mettere a frutto un minimo di rendita elettorale: ma, una volta raggiunto qualche successo, cede alla frustrazione generale e si chiede: “e ora?”. I partiti, destrutturati sotto il profilo ideologico, si sono trasformati in autobus: si può salire, scendere, prendere coincidenze, senza soluzione di continuità. Senza neppure bisogno di pause di riflessione, di attese che rendano plausibile un minimo non dico di contrizione, ma almeno di coscienza per ciò che si sta facendo o si è fatto.

Intendiamoci: il buon tempo andato non era esente da pecche, anche colossali; e non è vero che il partito “ideologico”, che fidelizzava quadri e iscritti, fosse poi molto meglio: tant’è che – ad esempio – i partiti laici ne hanno sempre pesantemente criticato la natura di fondo autoritaria. Ora, però, siamo giunti all’opposto: la perdita di senso quasi completa delle organizzazioni extra-parlamentari della vita politica. La Repubblica dei partiti, affermatasi definitivamente nel 1953, dopo il fallimento della “legge truffa” (con la quale De Gasperi aveva cercato di salvaguardare le prerogative di una maggioranza parlamentare e di una premiership forte, senza dipendere eccessivamente dai partiti di massa), è entrata in crisi all’indomani del fallimento della solidarietà nazionale, nel 1979. Ha conosciuto poi un lungo declino – anche sotto il profilo morale -, e, fra il 1989 e il 1992, ha subito le ultime, decisive, fatali convulsioni. L’arrivo al Quirinale di un uomo non indicato dai partiti, nel 1992, è la testimonianza di questo passaggio decisivo.

Bisogna chiedersi, a questo punto, se la forma-partito sia riproponibile nella sua struttura gerarchica tradizionale; se gli attuali partiti-comitati elettorali possano esserne surrogati efficienti; se, infine, la tradizione del repubblicanesimo e della liberal-democrazia contenga in sé, e non da oggi, gli strumenti per uscire da questo stallo, inoculando nel sistema una forte dose d’innovazione politica.

Circa il primo punto, credo che la forma-partito gerarchica e “nazionale”, con la testa a Roma e gli arti in giro per l’Italia, sia ormai un ricordo del passato. E ciò per due ragioni: la prima è che gli interessi e le “domande” della società civile non sono più, salvo alcuni casi, filtrate direttamente dai partiti politici, come nella “Repubblica dei partiti”. I centri di spesa locali – comunali, provinciali e regionali – sono molto più importanti di vent’anni fa; inoltre, le associazioni di categoria, un tempo cinghie di trasmissione dei partiti medesimi, a partire dalla svolta del 1989-1992 hanno acquisito un’autonomia imprevista, ponendosi in prima battuta come interlocutori del “bisogno” di “risposte tecniche” da parte di cittadini/lavoratori (si pensi ai patronati dei sindacati) o delle piccole/medie imprese (si veda, in questo caso, a mo’ d’esempio, quanto i servizi reali resi alle imprese pesino sui bilanci di associazioni come Cna o Confartigianato). Le risorse controllate direttamente dal centro sono inferiori ad alcuni anni fa, e spesso predeterminate dalle grandi leggi finanziarie dello stato: di conseguenza, uno dei canali classici di sopravvivenza dei partiti politici strutturati al tempo della loro crisi appare largamente ostruito. Il partito-apparato “nazionale”, così come lo stato nazionale, è troppo costoso; sempre più difficile appare la collocazione di para-funzionari in organismi collaterali, la cui mission risulta via via più autonoma e indipendente; le cariche pubbliche, d’altra parte, selezionano fortemente il numero dei professionisti disponibili. Pensare, quindi, di rifare i partiti stile “Repubblica, 1953- 1992” risponde ad un ragionamento sostanzialmente errato.
Secondo problema. I partiti-comitati elettorali sono surrogati efficienti? Lo sono, o possono esserlo, se – vedi riforma costituzionale in votazione – un enorme peso decisionale si sposta dal legislativo all’esecutivo; se, cioè, i partiti servono a garantire la maggioranza parlamentare da cui scaturisce l’autentica leadership del paese. In questo senso, l’articolazione di Forza Italia – un partito che in dieci anni non ha saputo produrre al proprio interno una vera classe dirigente “dal basso” - pare molto coerente con l’impianto che si vorrebbe dare alle nuove istituzioni; assai più confuso, invece, sembra il ruolo che il centro-sinistra attribuisce ai partiti, o alle coalizioni, nel proprio disegno finale (restaurazione pura e semplice? Ripristino di una “centralità” parlamentare? Premierato debole? Premierato forte?). In ogni caso, i partiti-comitati elettorali non possono surrogare una leadership , sia essa espressa da un “magnate dei media ”, da un “professore”, o altro. In altre parole, ai partiti-comitati elettorali non si può chiedere di produrre politica, giacché essi hanno un’altra funzione, quella di raccogliere voti .

Terzo punto. Pensare, in questo quadro, ad un’ennesima riedizione, in salsa laica, o della forma-partito tradizionale o del partito-comitato elettorale, non ha alcun senso. O meglio: può avere un senso contingente in vista di una tornata elettorale, ma si tratta di un disegno di corto respiro, e comunque statisticamente votato al fallimento se concepito su scala nazionale; trascorse le elezioni, ci si scopre con un gruzzolo di consensi più piccolo da far pesare, la volta successiva, sul tavolo della politica. Di qui una considerazione: poiché, storicamente, il mondo laico-repubblicano è stato il prodotto di un aggregato di formazioni regionali o sub-regionali, guidate da un’élite intellettuale vivace e battagliera, perché non prendere atto che la struttura federativa è, di fatto, quella che oggi può impedire che le esplosioni, all’interno dell’atomo, continuino senza sosta? Perché non considerare la possibilità di un telaio leggero, di un Ufficio di coordinamento, che si posi sulle gambe di realtà locali autonome ancora decorosamente forti? In fondo, ci si provò già nel XIX secolo, al tempo del trasformismo. I democratici si scoprirono divisi e, per unirsi senza venir meno alle proprie peculiarità, si dotarono di un centro d’informazione nazionale che fungeva da “vigile” del dibattito interno e prendeva posizioni su alcuni temi condivisi: lo chiamavano “Comitato centrale di corrispondenza” ed era costituito da tre individui: Edoardo Pantano, Ernesto Nathan e Antonio Fratti. Finì male, è vero; ma finì male perché, allora, stava nascendo il partito di massa, un competitore troppo forte e troppo dinamico. Oggi siamo al termine di quella fase: il partito ideologico di massa, in Italia, è ormai defunto da dieci anni, e sono rimasti solo i suoi cascami, in preda a convulsioni permanenti.

E’ chiaro che un telaio leggero non basta. E’ chiaro che una struttura del genere dev’essere il motore di un’innovazione profonda del linguaggio della politica, dei temi della politica. Se no, resterebbe la casa un po’ triste e polverosa di un manipolo di reduci. Ecco allora l’idea di collegare questa struttura democratica alla proposta liberal-democratica europea: come bacino cui attingere idee, opportunità di confronto, stimoli. Una dimensione internazionale forte, sotto il profilo intellettuale, è ciò che serve alla federazione inter-regionale per conquistare il suo spazio nel mondo democratico, anche italiano. Può farlo introducendo un “discorso pubblico” continentale, sprovincializzando l’asfittica politica autoreferenziale del nostro paese, anestetizzando un’opinione pubblica ipnotizzata dai bla bla inutili e inconcludenti dei talk shows . Dimostrando, in una parola, che è possibile disegnare un’idea di sviluppo moderno e razionale per il nostro paese.

D’altronde, occorre ricordare che, per Mazzini, la nazione era solo una tessera del grande mosaico: l’unione democratica dell’Umanità. Il compito, in altre parole, non si esauriva con Roma capitale, ma continuava in Europa e in America. Come, non lo sapeva neppure lui di preciso. Ma forse è venuto il tempo di riprendere quel testimone.

Roberto Balzani
*Professore ordinario di Storia Contemporanea
all’Università di Bologna

nuvolarossa
07-10-05, 21:29
Una ricorrenza per parlare di valori e relativismo culturale

Intervento presentato a Ospedaletto, 16 settembre 2005, nell'ambito delle giornate repubblicane.

di Gianni Ravaglia

Al di là delle varie interpretazioni filosofico - culturali, che lascio a chi meglio di me ha approfondito i caratteri del mazzinianesimo, ritengo importante rilevare che in Mazzini, a differenza di altri pensatori liberali, l'idea di libertà è innervata dal concetto del dovere che comporta l'esigenza di rafforzare le virtù civiche dei cittadini, la loro integrazione civica, per realizzare, a cominciare dalla famiglia, un superiore interesse nazionale e, quindi, universale.

Non so se l'indubbio successo delle manifestazioni per il bicentenario della nascita di Mazzini abbiano lasciato il segno nella riproposizione del pensiero che sottende tutta l'opera del maestro e cioè che uno stato democratico, una repubblica, non può vivere se non ha valori condivisi che ne sostengano le fondamenta.

Credo comunque che la misura del successo delle celebrazioni di questo bicentenario sarà dato dalla sensibilizzazione che avremo fornito all'opinione pubblica circa l'esigenza di recuperare quei concetti di repubblicanesimo e di religione civile, che sono propri del pensiero mazziniano, quali presupposti di valore del nostro stato laico democratico e che vorremmo diventassero valori universali.

Trovo decisivo riscoprire tali concetti per vari motivi.

Innanzitutto, dalla nascita dello stato italiano ad oggi il tema dell'identità italiana, dello scoprire la ragion d'essere del nostro stare insieme come Stato o per meglio dire come Patria comune, ha coinvolto un dibattito tra cattolici e laici, tra liberalismo e totalitarismo, tra il valore della giustizia e quello della libertà, sul significato della resistenza, sulla validità dei principi inseriti nella nostra Carta Costituzionale. Di fatto però l'unico riconoscimento univoco che si è riusciti ad ottenere è il valore dello Stato democratico laico, inteso come non etico.

Per il resto un comune sentire circa l'identità della nazione è ancora condizionato da conflitti atavici.

Il problema che io mi pongo allora è questo: se ancora non abbiamo un comune sentire nazionale, pure in una normale dialettica che almeno riconosce il vincolo della democrazia, come faremo ad affrontare la nuova sfida, che si pone a tutto l'occidente, del fondamentalismo islamico, che invece non riconosce questo vincolo, che ancora concepisce solo lo stato etico, che neppure sa declinare la parola libertà, che non esiste nel lessico arabo?

In secondo luogo si avverte in Italia la carenza di valori civili di base, condivisi, elemento questo cui fa da contrappeso l'affermarsi di un relativismo culturale di derivazione marxista, del quale l'espressione più problematica è un generico multiculturalismo, con effetti deleteri sul piano interno e internazionale, ma anche il potenziamento dell'unica supplenza valoriale oggi avvertita che è quella della Chiesa.

Per intenderci, io penso che tra gli articoli più disattesi della nostra Costituzione vi sia l'articolo 4 che recita: "il cittadino deve concorrere al progresso spirituale e materiale della società". Cioè l'articolo dei doveri.

Nel comune sentire dei cittadini la nostra pare essere solo una democrazia di diritti, ciò che manca è una cultura dei vincoli di cittadinanza. L'esempio, per non dire altro, del livello della nostra evasione fiscale, che attraversa tutti i ceti, è il sintomo più evidente dell'assenza di tali vincoli. Le grandi energie di solidarietà che pure esistono sono investite fuori dal quadro politico, dentro una realtà sociale che non sa o non vuole trasferire alla politica tali motivazioni. Cosicché la politica si dimostra incapace di fissare obiettivi che vadano oltre il menu di diritti individuali se non in alcuni casi delle licenze individuali e dei gruppi corporativi.

Ciò che manca all'Italia è una diffusa cultura repubblicana.

Cittadinanza, civismo, integrazione civica, patriottismo costituzionale, religione civile, interesse nazionale, sono tutti concetti propri di un lessico repubblicano.

Se anche i laici vivono di rendita

Non è il momento qui, dato il tempo a disposizione, di affrontare la complessità dei problemi che si pongono, mi basta denunciare un punto: anche la cultura laica in questi anni ha creduto di poter vivere di rendita sulle tesi dei suoi grandi maestri senza produrre riflessioni innovative.

Il problema della secessione imposto dalla Lega, i nodi dello sgretolamento della famiglia, del ruolo delle scuola, i problemi dell'immigrazione, quelli del progressivo depauperamento delle condizioni di sviluppo della Nazione, i problemi immensi che pone lo sviluppo della bioetica, sono tutti temi che invece andrebbero approfonditi alla luce dei valori repubblicani.

Così come credo vada approfondito il tema della religione civile.

Come religione civile potremmo intendere -con G. E. Rusconi- un insieme di credenze che fanno riferimento ad una unità trascendente che fungono da legittimazione a una comunità politica e alla qualità della sua integrazione.

Al di là della religione di chiesa, quella cristiana, nella tradizione italiana possiamo riconoscere due varianti di religione civile: quella crociana "di religione della patria come religione di libertà" e quella mazziniana che ci dice: "l'ordinamento politico di una nazione è un solenne atto religioso e nella parola ordinatrice la religione e la politica affratellano in bella e santa armonia. Il nome di Dio splenderà sull'alto edificio che la nazione innalzerà: il popolo ne sarà la base. E' Repubblica questa? E' Repubblica".

Il potere temporale della Chiesa e la sua contrarietà all'unità della nazione ha poi fatto prevalere, negli interpreti del mazzinianesimo, concetti fortemente anticlericali tali da accantonare la forza e la modernità complessiva del messaggio mazziniano nella sua versione di una ricerca di una religione civile.

Il ruolo della religione civile

Ebbene io credo che, se il mazzinianesimo vuole svolgere un ruolo di interesse nazionale, riproponendo i valori propri di una identità nazionale per l'Italia, deve rivalutare anche il concetto di religione civile di Mazzini.

Repubblicanesimo e religione civile provengono dallo stesso ceppo e sono due modi di completare le teorie della libertà promuovendo anche l'integrazione civica e il civismo, senza i quali la stessa libertà rischia di perire nell'arbitrio o nell'anarchia. In altri termini, senza negare ad alcuno, a cominciare da me stesso, il diritto al proprio umanesimo ateo, se riteniamo che per uno stato democratico sia essenziale avere cittadini liberamente consapevoli di avere vincoli di reciprocità e di cittadinanza, e se crediamo sia decisivo per l'Italia che i cittadini scoprano il legame repubblicano della reciprocità tra diritti e doveri, ritenendo tale legame fondamentale per una comunità politica che voglia configurarsi come nazione; dunque, come laici dobbiamo concedere, abbandonando quelle forme di anticlericalismo di cui ancora si ammanta certa cultura laicista, che i cittadini cattolici mantengano la propria autonomia dogmatica e istituzionale e avanzino con gli strumenti dello stato liberale le proprie richieste per il rafforzamento dell'identità religiosa, così come i cattolici debbono porsi l'obiettivo essi stessi di costruire una religione civile, riconoscere la forma liberale dello stato che ha compiti suoi propri separati da quelli della chiesa, nel reciproco riconoscimento di una comune identità nazionale. Un cattolicesimo liberale dunque in grado di riconoscere che, pur esistendo una storia di divisioni, esiste anche una comune identità nazionale.

Dibattito a più voci

A tal proposito credo sia importante approfondire il dibattito a più voci tra Pera, Habermas e il nuovo Papa Ratzinger, soprattutto laddove quest'ultimo ammette che "vi sono patologie della religione che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo, ma anche alla ragione-se si parla di bomba atomica e dell'uomo visto come prodotto- devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell'umanità".

A mio parere i principi del repubblicanesimo e della religione civile rappresentano anche una risposta al relativismo culturale. Su questo piano ritengo si giochi il nodo dei rapporti culturali con la sinistra postcomunista e socialista. Crollato il muro di Berlino e il mito del totalitarismo di stampo marxista-collettivista, la sinistra, in debito di valori guida, nel rifiuto della cultura liberale e di quella repubblicana, non volendo smentire le proprie origini marxiste, ha abbracciato la filosofia relativista.

Il relativismo nega che i valori possano essere oggettivamente fondati. Secondo questa concezione non esistono valori universali da condividere e da difendere, in base ai quali giudicare altre culture, altri regimi, altri valori, ciò in quanto gli uomini, i loro pensieri, sono solo frutto dell'ambiente e della cultura in cui vivono. Tale concezione in sostanza non riconoscere il valore liberale dell'autonomia dell'uomo come individuo pensante. Tale concezione invece è figlia del pensiero di Marx, che scrive: "non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere,ma è,al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza".

Dal relativismo è nato il concetto di multiculturalismo in forza del quale ogni cultura ha una sua valenza che è inutile giudicare. E così i valori che da Socrate in poi in occidente si sono ritenuti universali, della libertà , della democrazia, per tale scuola di pensiero, sono solo illusioni, credenze accettate in quanto appunto prevalenti nelle società occidentali.

Dunque per impedire un giudizio storico di forte critica sul totalitarismo collettivista, il politicamente corretto della sinistra italiana ed europea, oggi vuole imporre un pensiero prevalente che non permette a noi, sulla base dei nostri valori occidentali liberali e repubblicani, di giudicare i regimi teocratici o quelli totalitari, né potremmo decidere di voler insegnare ad altre culture i valori della dignità dell'uomo e del suo essere capace di capovolgere la premessa marxista: di decidere il proprio essere e la propria storia con la propria coscienza.

Esportare la democrazia

Il dibattito attorno alla validità o meno della tesi di esportare la democrazia nei regimi che non solo ne impediscono lo sviluppo, ma che minacciano in vario modo lo sviluppo delle nostre società, ha al fondo una valutazione su tali aspetti.

Anche il comportamento che dovremo tenere nei confronti dell'immigrazione discende dall'aver sciolto tale nodo ideale e politico. Sergio Romano sul "Corriere della Sera" scrive che lui non si preoccupa se in futuro potremo avere un Italia islamica. Non so perché Romano la pensi così, so però che questo è il vero obiettivo della sinistra marxista, che preferisce l'islamismo al liberalismo.

Io invece mi preoccupo , non tanto per me che non la vedrò, ma per i miei figli e nipoti.

La polemica sugli scritti della Fallaci o sulle esternazioni di Marcello Pera è il frutto di diverse valutazioni attorno a tale problematica. Ma anche qui a ben vedere la cultura repubblicana e della religione civile ci offre gli elementi per una risposta.

Se è possibile ed anzi auspicabile ricercare i caratteri di una religione civile in chi, come la chiesa cattolica, riconosce il valore della ragione per mitigare i fondamentalismi della fede, e il valore dello stato laico democratico, come ha scritto il nuovo Papa, ben più difficile ci appare il dialogo con le religioni che ancora negano tali principi.

Ci si dovrebbe domandare prima di contestare la Fallaci o Pera, quale potrebbe essere il punto di incontro e se c'è un punto di incontro.

Si parla di stati arabi moderati, ma la moderazione di tali stati è conseguenza dei rapporti di forza geopolitica oppure è, come noi vorremmo, il risultato di un processo educativo che ha scoperto e che insegna la dignità dell'individuo, uomo o donna che sia, la sua autonomia di pensiero, la sua libertà di partecipare e di decidere la forma democratica del proprio stato.

Come mai, mi chiedo, il responsabile della Lega araba ha contestato duramente la prima Costituzione in odore di democrazia, approvata da uno stato arabo, quello iracheno. E ancora, i cittadini che giungono in Italia dai paesi arabi hanno interesse ad integrarsi, ad accettare i nostri valori, a discutere assieme a noi della validità dei loro. Hanno la volontà di diventare parte attiva, con valori condivisi, dei diritti e dei doveri della cittadinanza - o no. Se noi accettiamo, secondo la logica del relativismo e del multiculturalismo, che l'Arabia Saudita continui a finanziare le madrasse e i doposcuola per insegnare anche in Italia la logica del terrore ai bambini musulmani, come ci potrà essere integrazione? E ancora, se è vero che la logica demografica, stante i processi immigratori in atto, potrebbe condannare l'Europa a soccombere di fronte all'avanzata dell'Islam- di questo passo, infatti, i nostri nipoti sarebbero costretti a vivere in una Europa a maggioranza islamica- quale comportamento dobbiamo assumere? Accettiamo il multiculturalismo e snaturiamo i nostri valori fondamentali, o chiediamo che siano gli altri a cambiare se vogliono ospitalità in Italia e in Europa, riproponendo per intero l'insegnamento dei valori del liberalismo, del repubblicanesimo e della religione civile?

La mia risposta avrete capito qual è. Dico di più: io disprezzo il cinismo di Sergio Romano. Ma se Romano continua a dettare il suo verbo politicamente corretto nel maggiore quotidiano della borghesia nazionale, qual è la gravità del pericolo?

Cari amici, la posta è molto grossa.

Io credo che vada denunciato con forza che sul valore della libertà, sui diritti umani, individuali della persona, sui diritti alla partecipazione democratica, sul principio dell'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, quale che sia il sesso, la razza o la religione professata, tutti principi sconosciuti e anzi combattuti dall'islamismo, non esiste meticciato possibile.

La mia valutazione è che vada difeso Pera contro coloro che lo denigrano senza aver capito il senso del suo ragionamento, e lo difendo contro l'intellettualismo politicamente corretto che, per citare un detto della sinistra francese, ha sempre preferito aver torto con Sartre piuttosto che avere ragione con Aron, ma che appunto ha sempre avuto torto. Il dramma è che continua imperterrita a sentenziare, e trova sempre nuovi utili idioti che le credono.

Ma siccome la democrazia è anche questo, dico solo che il dialogo, lo scambio, l'integrazione, nuove sintesi culturali e politiche sono sempre possibili e auspicabili, ma esse trovano fondamento proprio nell'affermazione e condivisione di alcuni valori universali che vanno difesi e possibilmente affermati in tutto il mondo.

nuvolarossa
04-09-06, 00:34
Quando gli altri ci tolgono la libertà
Come tutelare l'uguaglianza dei cittadini: che cos'è l'idea repubblicana

di Philip Pettit

L'articolo di Philip Pettit, professore di Teoria politica e sociale presso l'Autralian National University di Canberra, è tratto dal numero 3 de Il pensiero mazziniano, rivista trimestrale dell'associazione mazziniana italiana. Dello stesso autore è appena uscito il libro Il repubblicanesimo.

http://philrsss.anu.edu.au/archives/profiles/pettit/me.jpg

Una teoria della libertà e del governo (Feltrinelli, pagg. 380, lire 60.000). Il repubblicanesimo, nella versione di Pettit, ambisce a costruire una terza via tra liberalismo e comunitarismo, le due teorie concorrenti che hanno dominato il panorama degli anni Ottanta.
Si pensi a come ci si sente quando il proprio "stato del benessere" dipende dalle decisioni di altri e non è possibile reagire contro tali decisioni. Si è in una posizione nella quale si può "affondare" o "galleggiare", sulla base di una decisione che spetta ad altri. E non si ha nessun diritto di ricorso, psicologico o legale, nessuna possibilità di salvezza, anche se ci si trova in un consesso di amici che si aiutano, non si può sovvertire nulla. In queste occasioni si è nelle mani degli altri; si è alla loro mercé.
L'esperienza di dominazione (o supremazia) su di un altro assume diverse forme. Si pensi al bambino di un genitore emotivo e volubile; alla moglie di un marito occasionalmente violento; allo scolaro con un insegnante che, arbitrariamente, apprezza o disapprezza. Si pensi all'impiegato, la cui sicurezza dipende dal mantenere buoni rapporti con il proprio padrone o manager; al debitore, la cui sorte dipende dal capriccio del prestatore di denaro o dal manager di banca; o al piccolo imprenditore, la cui sopravvivenza dipende dal modo di comportarsi di un grande concorrente o da chi gestisce un'associazione.
Si pensi al destinatario di interventi di sostegno sociale la cui sorte può mutare in base all' umore dell'impiegato-ragioniere che concede i contributi; all'immigrato o all'indigeno la cui condizione è vulnerabile, dipendendo dall'andamento erratico delle decisioni politiche e dei dibattiti radiofonici; o all'impiegato pubblico, la cui carriera dipende non dalle sue capacità ma dai collaboratori politici di cui un ambizioso ministro si circonda, perché li ritiene utili elettoralmente. Si pensi alla persona anziana che deve sottomettersi, sul piano culturale e istituzionale, alle volontà sfrenate di una gang di giovani della sua area. O si pensi proprio al giovane delinquente la cui punizione dipende da come i politici e i giornali scelgono di stimolare in un dato momento la cultura della vendetta.
In tutti questi casi qualcuno vive alla mercé di altri. La persona è dominata da altre, nel senso che anche se queste non interferiscono direttamente nella sua vita, hanno la possibilità di poterlo fare: vi sono alcune restrizioni o dei "pesi" che frenano il suo comportamento. Se la persona "dominata" riesce ad evitare il trattamento malevolo, questo accade per la concessione o il favore del "dominante". La persona vive comunque sottomessa al suo potere o sotto il controllo di altri: questi ultimi occupano la posizione di un dominus - il termine latino per indicare il capo - nella loro vita.
Se si comprende l'esperienza dell'essere esposti e soggetti alla vulnerabilità di un altro e se si può osservare che cosa incute timore, allora si è sulla giusta strada per comprendere il repubblicanesimo. Il tema centrale che ha coinvolto il repubblicanesimo nel corso dei secoli è stato il desiderio di predisporre le diverse situazioni in maniera tale che i cittadini non fossero sottoposti a dominazioni di nessun genere, non dovessero vivere, come usavano dire i Romani, in potestate domini, sotto al potere di un padrone.
Questo interesse repubblicano è sempre stato espresso come un impegno per la libertà, sin da quando la libertà, secondo i canoni repubblicani, richiede espressamente l'assenza di dominazione.
Per rispondere ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi non abbiano un padrone o dominus che li tenga sotto il suo potere, in relazione ad alcun aspetto della loro vita.
Il concetto di libertà repubblicana è più rigido, quindi, del concetto di libertà inteso nel senso contemporaneo di "non interferenza". Si potrebbe essere abbastanza fortunati o sufficientemente accorti da evitare interferenze di qualcuno, ma se poi si vive sotto lo spettro del potere di un terzo, che potrebbe essere un datore di lavoro, uno sposo o uno sfruttatore locale, seguendo l'idea repubblicana non si è liberi in tali situazioni, anche prima che vi siano eventuali interferenze. La libertà richiede una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di poter fissare chiunque altro negli occhi. Nessuno è libero se deve mantenere un occhio sempre vigile per i capricci di chi ha più potere, e, all'occorrenza, adottare attitudini servili verso costoro, come farebbe una marionetta.
I temi ai quali abbiamo fatto prima riferimento hanno una lunga storia, come ci hanno dimostrato studiosi quali Pocock, Skinner e Viroli che se ne sono occupati.
La "fiamma" del repubblicanesimo cominciò a divampare nella Roma classica, dove Cicerone e altri pensatori si vantavano della indipendenza e della mancanza di sottomissione del cittadino romano. Si riaccese durante il Rinascimento, quando i cittadini di città italiane come Venezia e Firenze erano fieri del modo in cui potevano tenere alte le loro teste, senza dover elemosinare favore da alcuno. Essi si sentivano cittadini "uguali" di una repubblica, ed erano di una specie politica differente dai soggetti "intimiditi" della Roma papale o della corte francese.
La fiamma repubblicana passò al popolo di lingua inglese nel diciassettesimo secolo, quando la tradizione del Commonwealth, che venne plasmata durante il periodo della guerra civile inglese, fissò e istituzionalizzò l'opinione secondo la quale il re ed il popolo dovevano vivere seguendo una disciplina contenuta nella medesima legge. Secondo questa prima versione del repubblicanesimo la monarchia non andava abbandonata, ma doveva essere parte di un ordine costituzionale, e non poteva esserle concesso di diventare centro di un potere assoluto. Entusiasti all'idea di un commonwealth - termine inglese che significa "repubblica" - sostenevano che, essendo protetti da una legge chiara, nessun inglese sarebbe dipeso dalla volontà arbitraria di un altro, nemmeno dalla volontà arbitraria del re; a differenza dei francesi e degli spagnoli, gli inglesi erano una razza di vigorosi e indipendenti - anche aspri e schietti - uomini liberi.
Questo dibattito ebbe naturalmente delle ripercussioni sulla storia successiva degli inglesi. Durante il diciottesimo secolo i coloni americani si persuasero che a loro stessi erano negate quelle libertà che invece erano dovute: ci si riferiva in particolare alla dipendenza dalla volontà arbitraria di un parlamento straniero. Forse dovevano pagare solamente un penny di tasse al governo londinese, come fece osservare uno scrittore contemporaneo, ma il governo che disponeva su di un penny aveva il potere di disporre anche su quello che rappresentava l'ultimo penny. Forse il padrone britannico era gentile e ben disposto, si adattava alle mutevoli esigenze, ma coloro che erano sottoposti al padrone gentile erano comunque dei sottoposti; non avevano l'immunità dal potere arbitrario che richiede la vera libertà. I coloni americani pensarono di sfuggire alla dominazione britannica spezzando il loro legame con il paese da cui provenivano e diedero vita alla prima grande repubblica del mondo costruita senza aiuto di alcuno.
Il precedente americano, e certamente il modello inglese di monarchia costituzionale, aiutarono nel favorire la creazione nel 1790 della repubblica francese. Questa seconda importante rivoluzione condusse, è noto, ad un regno di terrore ma nacque dallo stesso desiderio della cittadinanza di sentirsi libera dal giogo a cui era sottoposta. La libertà intesa come non dominazione, quale risultava nella tradizione francese, richiedeva eguaglianza e fraternità, e uno scenario nel quale ciascuno potesse camminare a testa alta, sicuro che nessuno fosse in grado di tiranneggiare su di lui. Ognuno poteva guardare i propri consimili negli occhi, osservare gli altri cittadini, e nessuno possedeva speciali privilegi. Nessuno doveva adulare o essere servile, nessuno doveva dipendere dalla grazia o dal favore di un altro.
Ho osservato in precedenza che si è in grado di comprendere il repubblicanesimo se si ha la cognizione di che cosa significa la dominazione e le ragioni per cui va considerata detestabile. Nella Roma classica, nel Rinascimento italiano, durante il diciassettesimo secolo in Inghilterra o nel diciottesimo in America e in Francia, tutti i repubblicani videro la dominazione come il più grande pericolo da evitare organizzando una comunità e la vita sociale. Essi pensarono alla libertà come al supremo valore politico ed equipararono la libertà con il non essere sottoposto a nessun altro, anche se persona benevola o despota "protettivo". La libertà repubblicana assume questi significati: essere in grado di tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli occhi, e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza.

Tratto da http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/001003a.htm

nuvolarossa
04-01-08, 21:35
Riceviamo da Renato Traquandi

Ideario Repubblicano

Ho aspettato due settimane dal convegno di Milano della Voce Repubblicana, egregiamente tenuto alla fine del mese di ottobre del corrente anno, con lusinghieri risultati, prima di mettermi al computer e buttar giù quanto nei miei pensieri si andava arroccando da mesi.
In altri ambienti e in circostanze analoghe, persone alquanto a noi affini sovente si interrogano sui quesiti dell’esistenza, fornendo, ciascuno a suo modo, risposte variegate sul “ chi siamo, da dove veniamo, dove vogliamo andare?”
In questo tempo il Partito Repubblicano Italiano, pur mai stato un partito così detto “ di massa”, è pressoché ridotto ai minimi termini, e non soltanto rispetto al consenso elettorale, ma per le esigue risorse e la scarsa presa che ancora riesce ad ottenere sul fronte della agorà culturale, nazionale e non solo.
Sono passati oltre dodici decadi dai patti di fratellanza, dalla scapigliatura repubblicana, dall’economia associazionista, ed oggi ancora il nostro Partito può fregiarsi, senza peraltro essere smentito da chicchessia, di essere il più antico tra le formazioni politiche italiane.
Certo che si, dal 1885 ad oggi, la società italiana è profondamente mutata, ed anche il P.R.I. non è più quello che aveva posto al primo punto del suo programma la forma repubblicana dello Stato.
Nato come partito formato da piccoli coltivatori, mezzadri, artigiani e piccoli funzionari statali, in alcune regioni particolarmente ostili al potere papale e regio, come la Romagna, le Marche, il Lazio e la Sicilia, presto divenne un partito di respiro nazionale, in cui militavano anche operai, impiegati, imprenditori ed intellettuali, assieme a qualche, se pur minima, presenza di militari di carriera.
La crescita delle attenzioni verso le tematiche mazziniane e risorgimentali è sempre stata vivace e penetrante, nelle variegate categorie che nel corso dei decenni si sono andate formando nella società italiana. Se, dal 1831 al 1848, l’esigenza primaria era l’Italia una, libera, repubblicana, dalla prima guerra di indipendenza alla prima guerra mondiale l’impegno dei molti “progressisti” si incentrò sullo stato sociale delle classi e sulle rivendicazioni operaie, le quali, sì, erano state ben messe in evidenza da Giuseppe Mazzini, ma che non avevano ne il tempo ne la voglia di evolversi attraverso la cultura e le buone azioni prospettate dalla democrazia.
Questo determinò situazioni di autentico disagio tra militanti formatisi al repubblicanesimo per eredità familiare o frequentazioni di ambienti a loro compatibili e i nuovi aderenti, attratti da generica simpatia o solidarietà per gli atteggiamenti di attenzione ai problemi politici, economici e sociali, ma privi di maturazione ideologica.
Durante tutto il periodo dello stato monarchico, pervicacemente tenuto dalla famiglia francese dei Savoia, poco amata dalla quasi totalità degli italiani, capitava spesso di sentire militanti del partito repubblicano che sostenevano tesi classiste o liberiste, alcuni si dichiaravano libertari, incentrando la principale ed accanita loro lotta sul problema dei rapporti stato – chiesa.
E’ in quei decenni che nascono gli antagonismi e le contraddizioni; i sudditi giustamente reclamano diritti, riconoscendo alla dinastia sovrana il tributo dei doveri cui si assoggettano, e quasi non si accorgono di assumere posizioni in netto contrasto con la dottrina storica del P.R.I. , che non ha dogma univoci, come la presa del potere da parte delle masse operaiste predicata dal marxismo, ne la fede necessaria a credere in redenzioni ultraterrene, come il clero asserisce.. Il P.R.I. non ha schemi prefissati, manifesti da divulgare, testi sacri da esporre a laudazione, non presuppone schemi prefissati, regolamentazioni utopistiche, meccanicismi deterministici: sotto questo aspetto il P.R.I. è il vero erede della grande polemica tra Mazzini e Bakunin e prende le distanze dai tanti seguaci di Marx e Engels.
Ovviamente il P.R.I. una sua dottrina ce l’ha, eccome! Non si tratta comunque di utopia solitaria e agguerrita come quella social comunista, ne tanto meno della rassegnata vocazione al martirio di chi crede che la sofferenza terrena sia il viatico per il futuro celestiale della post mortem, bensì del maturato convincimento che una preparazione culturale, impermeata sulla conoscenza ed il progresso scientifico, costituisca la base, in un ambito storico geografico quale quello italiano, per il benessere di una comunità integrata.
E’ divenuto luogo comune tra gli storici definire la prima guerra mondiale combattuta sul fronte del Carso, sull’Isonzo e sul Piave, come “ quarta guerra di indipendenza”, tagliando corto, con questa lapidaria definizione, ai disagi delle popolazioni della Corsica, dell’Istria, e delle altre numerose zone dove forte è l’identità italiana.
I carbonari, gli aderenti alla Giovine Italia, i Martiri di Belfiore, i fratelli Bandiera, Mazzini e il giovane Garibaldi si erano fatti tutti un’idea diversa di come dell’Italia, una, libera e quindi repubblicana e nel 1919 ancora non c’era ne il tempo ne la voglia di prospettare ai più, e quindi raggiungere democraticamente questo obiettivo.
Scrisse Giuseppe Tramarollo, mitico e ineguagliabile presidente, nel periodo tra il 1970 e il 1980 della Associazione Mazziniana Italiana, che per tal motivo era componente d’onore del Consiglio Nazionale del Partito che quella distinzione faceva del partito fondato da Giuseppe Mazzini “… una formazione che può trovare similarità, ma non identità fuori della penisola. Per il P.R.I. non ci sono possibilità di adesioni dottrinarie e disciplinari come la internazionale socialista o quella liberale o quella cristiana, per non parlare del rapporto internazionalista dei partiti comunisti. Al Parlamento Europeo di Strasburgo i deputati repubblicani, dopo aver aderito, per necessità di collocazione, al partito socialista, hanno potuto benissimo aderire a quello liberale, trovandosi, però, parimenti a disagio.
Questo fa del P.R.I. una formazione storica, e non storicista, estremamente diffidente delle ricette universali valide per tutti i tempi e per tutti i paesi; viene da qui la critica mazziniana al socialismo utopistico anglo tedesco francese che è ben sintetizzata nell’avvertimento ai delegati del Congresso di Roma del 1871 delle Società Operaie , da cui uscì il celebre Patto di Fratellanza, che è la prima organizzazione nazionale del lavoro italiano:….. ^^ Se l’emancipazione operaia è universale, le diverse condizioni dei popoli fanno diversi i modi e a ciascun popolo appartiene essenzialmente il segreto della scelta di quei modi^^.
Riconosce però che solo nella fase della trasformazione dei sistemi, utili alla perdita dei poteri monarchici e clericali, con l’avvento della democrazia e della tecnologia, che sono prodotti della cultura e della ricerca scientifica, la pregiudiziale del territorio e della popolazione ivi cresciuta resti valida.
Bisogna diffonderlo a chiare lettere che fu Giuseppe Mazzini ad intuire che solo per un determinato lasso di tempo la storia umana sarebbe stata determinata dal concetto etico politico delle nazionalità., cioè in volontà politiche definite linguisticamente, etnicamente, territorialmente….
“ La Patria sacra, oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni individuo rispecchierà in se la coscienza dell’umanità”.
Ancor oggi, in piena globalizzazione, e lo dimostrano le recenti vicende della decolonizzazione e de il sorgere dei paesi denominati “terzo mondo”, la nazionalità dei popoli è ancora viva e vitale, con le sue degenerazioni come nazionalismo, imperialismo, razzismo.
Nella disgregazione dell’imperialismo sovietico forte è stato il ruolo, quasi sempre vincente, della nazionalità, che mai era stata domata dal bolscevismo russo, che in settant’anni di potere assoluto aveva praticato un vero e proprio genocidio linguistico, oltre che umano.
Mazzini, dunque, aveva disconosciuto il potere in mano alla chiesa, senza mai rinnegare Dio, cui soleva coniugare i termini Patria e Famiglia, ed ancora non accettava i fermenti internazionalisti, riconoscendo al contempo con l’intuizione della Terza Roma e La Giovine Europa, i cui postulati già presagivano l’abbattimento dei confini.
Terzo carattere del repubblicanesimo è il “laicismo”, che non significa affatto anti clericalismo, divieto a svolgere e divulgare gli insegnamenti religiosi, ma presa di distanza tra i problemi dello spirito e la gestione della società civile; il Campanile per nutrire l’anima e la Torre Civica per custodire al meglio la persona fisica, secondo la tradizione umanistica classica.
All’opposto della concezione laica dello stato c’è il modello confessionale.
Confessionali sono l’attuale stato italiano, come quello spagnolo, confessionali sono gli stati arabi, che fondano la società civile sul diritto cranico, confessionali sono i paesi marxisti, che hanno una pedagogia, una estetica, una morale, prettamente di stato.
L’ideale repubblicano laico è quello dell’articolo 7 della Costituzione Repubblicana Romana del 1849 che recita: “ Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”.
Anche il 1° emendamento della Costituzione U.S.A. è per noi positivo: “ Il Congresso mai potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, tanto meno proibirne il libero culto”.
Pertanto ribadiamo con fermezza che il laicismo professato dal P.R.I. non è indifferenza di fronte alla esigenza religiosa dello spirito umano; questo atteggiamento nasce invece da una concezione religiosa della vita umana, che rispetta la personalità nei suoi diritti individuali ( libertà civili) e nelle formazioni sociali ( famiglia, partito, associazione, chiesa).
Dalle cose dette fin qui, allora, il P.R.I. è un partito mazziniano? Solo al Vate si ispirano tutti coloro i quali in questo partito operano?
Certo, nella cultura repubblicana in alta considerazione sono tenuti gli insegnamenti mazziniani, ma come ben sanno i tanti che in questo partito militano, nel P.R.I. è ben presente l’illuminismo di Cattaneo, così come non sono mai stati cestinati i contributi di Bovio con il suo idealismo, il positivismo di Ghisleri e Conti, il patriottismo militaresco di Pacciardi. Se si riconosce la funzione portante del Mazzini per l’unità d’Italia, e si è laici e democraticamente portati al confronto culturale delle idee, oltre che favorevoli alla divulgazione ed allo sviluppo della ricerca scientifica, si può benissimo essere repubblicani.
Non è invece possibile essere repubblicani del P.R.I. e marxisti, repubblicani e anarchici, come invece è possibile essere repubblicani e credenti, facendo fare al cervello un sano lavoro di selezione con il sale del ragionamento.
Un altro concetto respinto dal repubblicanesimo italiano è quello di sovrastruttura: diritto, morale, arte non sono sovrastrutture dell’unica determinazione economica, ma categorie universali e permanenti, anche se i contenuti variano secondo una precisa evoluzione storica. Nell’ambito di questa concezione antimaterialistica, antideterministica, antimeccanicistica c’è ampio spazio per il liberalismo economico di Cattaneo, come per molti postulati del socialismo democratico nord europeo. Contro il concetto totalitario : “Tutto nello stato, tutto per lo stato, nulla contro lo stato”, il repubblicano contrappone il motto mazziniano: “ Tutto per l’associazione nella libertà”.
Secondo l’etica repubblicana non è l’economia la forza trasformatrice del mondo ma l’educazione e la conoscenza, entrambe incentrate nel sistema scolastico prima e nelle forme associative ( circolo, partito, sindacato) e istituzionali ( enti locali, legislazione statale, pubblica e privata gestione delle risorse. L’educazione scolastica resta fondamentale e spetta allo stato, almeno nella fascia dell’obbligo, per formare i futuri cittadini ed abituarli a capire il mondo che li circonda.
Possiamo dunque concludere che il P.R.I. è l’opportunità della cultura laica per il senso dello stato e garanzia primordiale, perché senza repubblica non c’è piena democrazia, non c’è piena libertà, non c’è progresso sociale, non si risolvono i disagi civili e le problematiche di sviluppo del mezzogiorno.
Quale funzione può avere oggi il P.R.I.?
Esiste una continuità di comportamenti dei partiti politici italiani sul proscenio partitico; tuttora il consenso viene ricercato secondo il principio del voto di scambio. Il cittadino elettore domanda soddisfazioni: la promozione nel posto di lavoro, l’aumento di stipendio, la pensione, l’occupazione dei rampolli, la licenza edilizia, la pratica di condono, il posto al ricovero per l’anziano genitore, e le mille e mille altre soluzioni ai problemi di tutti i giorni. E le segreterie politiche si organizzano e promettono l’interesse e la probabile soluzione.
Il P.R.I. offre agli elettori la possibilità del “ voto della ragione” come Giovanni Spadolini definiva il consenso che al P.R.I. arrivò nel primo lustro degli anni “80”, quando venne superata la vetta altissima del 5%.
Già Ghisleri Conti Pacciardi e La Malfa avevano identificato per il P.R.I. una funzione illuministica, contro ogni genere di fanatismo e ogni minaccia all’unità nazionale.
Ghisleri diceva che “…il P.R.I. è depositario di una dottrina più culturalmente avanzata perciò liberatrice ed antagonista di quella marxista e di quella cattolica”, ponendolo in prima linea contro il male maggiore di oggi, che è quel modo di agire reso celebre dal principe di Lampedusa e dal recente film Il Vicerè. Ricordate? Cambiare tutto per non cambiare nulla.
Brigare così, parlando di voler procedere a fare riforme, per poi partorire sgangherate soluzioni a vantaggio dei soliti noti, non porterà alcun vantaggio al Paese.
Dall’una e dall’altra parte delle sponde del bipartitismo si continua a parlare e a discutere dell’aria fritta e del sesso degli angeli.
Sta al Partito repubblicano Italiano rompere ogni indugio e porre all’elettorato risoluzioni al modello di società, di economia, di organizzazione dello stato per l’energia, l’ambiente, il sociale, il diritto al lavoro e ad una vecchiaia serena.
Oltre che un patrimonio da salvaguardare abbiamo una reputazione da difendere!

Renato Traquandi

Quest'articolo, che Renato Traquandi ci ha inviato, e' stato pubblicato anche sulla Voce Repubblicana di Mercoledi 2 e Giovedi 3 gennaio 2008