Originally posted by Lepanto
Ieri "Il Foglio", nella vicenda di Terrasanta, è per principio schierato compatto dalla parte di Israele. Libertà. Ma anch'essa ha un limite. E' serio scrivere che "capofila del partito palestinese ora è il Vaticano"? E metterci vicino il solito Vincino, che disegna il Papa che invoca: "Crociata! Contra Judeos etiam!" A parte il latino - va scritto "Judaeos" - qui l'errore è di cervello, e infatti subito sotto c'è uno zabaione storico-politico che mescola Craxi, Andreotti, Moro, Gronchi, Liberazione, Enrico Mattei, Bin Laden, Pierferdinando Casini e Di Pietro con Arafat... Tutti in lacrime da un solo occhio, tutti in Crociata contro Israele e appresso al Papa? Suvvia!
L'esagerazione de "Il Foglio" è evidente. Tuttavia ho la sensazione che - in questa occasione - la saggia politica moderata ed equidistante del Vaticano abbia vacillato. Intendiamoci, Israele ha alcuni torti molto evidenti in questa vicenda. Ma proprio il Vaticano, per una questione di stile, avrebbe dovuto sottolinearli con minore vigore....
dalla rete:
"All'islam sfugge la singolarissima comunione di fede e di
cultura che esiste tra cristianesimo ed ebraismo, tra
Chiesa e Israele, tra Antico e Nuovo Testamento.
Bisogna tener presente anche questo per capire un certo
"terrorismo islamico": esso nasce da una "teologia della
sostituzione" [...].
Il "terzo monoteismo" ha superato e sotto-messo i due
precedenti, dei quali ha occupato il posto.
L'esempio architettonico più drammatico di questa teologia
sostitutiva è visibile nelle due moschee erette sul Monte
del Tempio ebraico, a Gerusalemme.
Si tratta di un'incomprensione islamica della parentela
ebraico-cristiana, in cui potremmo riconoscere una forma
di "gelosia", quella di Ismaele per Isacco e i suoi
discendenti .
Questo atteggiamento trova un'analoga corrispondenza in
un'altra forma di "gelosia", che avverto in alcuni
cristiani palestinesi nei confronti dei cristiani
occidentali.
Come ho sopra accennato, anche i cristiani palestinesi
condividono, a loro modo e per punti di vista propri,
quella incomprensione islamica.
Ritenendo il compimento messianico della profezia ebraica
da parte di Gesù nei termini "dialettici e sostitutivi",
ai quali ho accennato, essi non riconoscono a Israele
alcuna significanza teologale, che sentano rilevante per
la loro fede, come invece avviene a noi - almeno a molti
di noi - in Occidente.
Non solamente le radici ebraiche della fede cristiana, ma
il fatto stesso che Gesù fosse, e rimanga ebreo per sempre,
non sembra comportare per loro alcuna risonanza spirituale,
occupati e preoccupati, come sono, dalla tragedia del loro
popolo e della loro patria.
In essi, al contrario, può far presa una certa ideologia,
anche teologica, dell'arabismo, derivante dalla loro
profonda e sincera inculturazione in esso.
Segnalo questa contestualizzazione teologica degli eventi
socio-politici della conflittuale situazione
israelo-palestinese, perché essa influenza il dialogo
ebraico-cristiano in loco, in modo nuovo e, a mio giudizio,
molto serio per tutte le Chiese dell'area mediorientale.
Per non cadere in un banale e vieto "marcionismo", infatti,
che neghi ogni valore di "parola di Dio" a tutto l'Antico
Testamento, alcuni teologi palestinesi sono generosamente
impegnati in una revisione dell'esegesi cristiana delle
Scritture, che scaturisce da una più ampia "teologia
palestinese della liberazione", che da anni viene proposta
da centri culturali cristiani, sia protestanti sia cattolici.
In un recente articolo apparso in un fascicolo dedicato al
tema The Gospel in Context (cioè il Vangelo
contestualizzato): "Meeting Jesus Again in the First Place.
Palestinian Christians and the Bible" (Interpretation. A
Journal of Bible and Theology, 55 (2001) 400-412), Lance
D. Laird descrive come alcuni teologi cristiani
dell'intifada (B. Sabella, M. Raheb, N. S. Ateek, ecc.)
cerchino di liberare il loro popolo da una lettura della
Bibbia che ancora ammetta le interpretazioni storiche ed
"esclusive" dell'elezione divina e delle promesse divine
a Israele - specialmente la promessa della terra -,
dell'esodo egiziano, della conquista di Canaan,
del ritorno dall'esilio, ecc.
Sostenendo, a ragione, una "inclusività" dell'elezione
d'Israele, essi sembrano annullarne di fatto la portata
storico-messianica, interpretandola "storicamente" -
insieme alla promessa della terra - come una generica
predilezione di Dio per i deboli e gli oppressi.
Come è già avvenuto altrove ai nostri giorni, per alcuni
altri "teologi della liberazione", la teologia
dell'alleanza si ridurrebbe alla promozione della giustizia
della creazione, e la teologia dell'esodo e della
croce-risurrezione attualmente concernerebbe specialmente
la umiliata e crocefissa popolazione palestinese, che
resiste all'occupazione israeliana e attende il
riconoscimento e l'affermazione dei propri diritti.
L'esegesi della Bibbia fatta dai cristiani occidentali, che
a essi appare elaborata in un vacuum, al di fuori del
contesto dell'attuale intifada palestinese, correrebbe il
pericolo di risultare "alienata e alienante", facendo in
realtà il gioco del fondamentalismo "sionista", con
profonde conseguenze negative sia per gli ebrei sia per gli
arabi.
Con l'immenso rispetto che nutro per la passione dei
cristiani palestinesi e per la sofferta ricerca di una loro
originale autenticità cristiana, a me sembra che ogni
cristiano legga nelle Scritture una parola di Dio valida
integralmente per tutti i tempi.
Essa, per gli occidentali come per gli orientali - ma prima
di tutto per gli orientali! - non si è incarnata affatto in
un vacuum - disponibile a tutte le interpretazioni di
convenienza -, ma nella storia e nella coscienza del popolo
di Israele e di Gesù, Messia di Israele, e poi anche delle
genti (Rm 15, 7-13).
Mi sembra che la Bibbia, che per la fede ebraico-cristiana è
tutta parola di Dio, tenga già conto in se stessa dei
condizionamenti e delle contestualizzazioni che ne
impediscano una lettura ideologizzata o ideologizzabile, sia
da parte di "esegeti fondamentalisti israeliani", sia da
parte di "esegeti contestuali palestinesi".
Essa resiste ai tentativi di coloro che pretendano
manometterla a loro piacimento per "liberarla" da tutte
quelle connotazioni storiche, che sembrino non favorire, qui
e adesso, degli interessi socio-politici, anche legittimi;
come pure essa resiste ai tentativi di chi, altrettanto
ingiustamente, pretenda interpretarla fondamentalisticamente,
come fanno quegli esegeti israeliani, che presumono di
dedurre oggi da essa un diritto divino che li autorizzi a
realizzare una colonizzazione totale e incondizionata del
loro Paese, indipendentemente dalla presenza plurisecolare
in esso delle popolazioni arabe palestinesi, cristiane e
musulmane.
Non spetta al contesto socio-politico dettare ciò che vada
ritenuto e ciò che vada lasciato cadere nell'interpretazione
della parola di Dio (The Gospel in context), ma, al
contrario, quel contesto, lungo i secoli, andrà riletto e
ricompreso ogni volta dai credenti nella totalità delle
Scritture (The context in the whole Bible), alle quali nulla
dovrà essere aggiunto e dalle quali nulla dovrà essere tolto
(Dt 4,2; 5,32; 13,1; Gs 1,7; Mt 5,17-19).
Da una tale rilettura i credenti deriveranno, poi, un
discernimento per la loro condotta, senza rinunciare
all'elezione, alle promesse e alle alleanze del Signore con
Israele, alla conquista della terra di Canaan e al ritorno
dall'esilio, ecc., come pure tenendo ben conto di tutti i
contesti socio-politici, anche odierni, senza cadere nelle
strumentalizzazioni delle ideologie di turno.
[...] Il dono della terra a un popolo particolare da parte
dell'unico Dio di tutti non crea in quel popolo alcun
"diritto esclusivo" di proprietà, quando la vocazione divina
designa lo stesso popolo a una funzione sacerdotale a
beneficio di tutti gli altri.
Né palestinesi né ebrei - e nemmeno italiani o
"extra-comunitari" - hanno diritto di possedere
esclusivamente un determinato Paese.
La terra è di Dio e noi siamo presso di lui come forestieri
e inquilini (Lv 25,23) .
Il dono della terra a Israele è sempre stato, attraverso i
secoli, legato ai contesti e ai condizionamenti
socio-politici del momento.
Oggi queste condizioni si esprimono nelle dichiarazioni
delle Nazioni Unite, che impongono una convivenza ai due
popoli sull'unica terra Israele-Palestina.
Si tratta di un dono che non mette fuori "gli altri",
chiunque essi siano.
Detto questo, però, nessuno che legga la Bibbia
ebrea-cristiana come parola di Dio può negare che Israele
abbia una sua, essenziale, relazione con questa terra e con
Gerusalemme.
Quando la radio e la Tv italiane parlano dei "soldati di Tel
Aviv" o del "governo di Tel Aviv", esse offendono il popolo
israeliano, per il quale l'unica Città capitale non può
essere un'altra da Gerusalemme.
Tale simbolismo teologale dell'Israele attuale (non
necessariamente di uno "Stato o dell'attuale Stato" d'Israele)
non è accettata né dai musulmani, i quali negano radicalmente
che vi sia un popolo particolare eletto da Dio (lo ha detto
chiaramente anche Bashar al-Assad, quando ha ricevuto il Papa
nell'aeroporto di Damasco), né, come si è visto, da numerosi
cristiani palestinesi.
Questo invece è quello che noi crediamo: la salvezza universale
dell'umanità è disegnata da Dio sull'unico Figlio, Gesù Messia,
profetato dal suo popolo ed evangelizzato dalla sua Chiesa (cfr
Rm 8, 29-30; 1Pt 1, 10-12).
L'esigenza universale della giustizia e dei diritti dell'uomo,
nonostante le apparenze, non può e non deve essere
conflittuale con il particolarismo dell'alleanza, che
congiunge le Chiese cristiane a Israele.
Secondo la Bibbia, certo, una tensione esiste tra l'economia
della giustizia della creazione e l'economia storica
dell'alleanza (cfr la gelosia delle genti per Israele), una
tensione che non è sempre chiara nemmeno alla coscienza di
molti cristiani occidentali.
Chi insiste di più sulla giustizia universalistica della
creazione sembra dimenticare e trascurare la dimensione
storica dell'elezione e dell'alleanza (e parteggia per i
palestinesi contro gli israeliani), mentre chi tiene di più
alla fede biblica sembra privilegiare il particolarismo
dell'elezione e dell'alleanza di Israele (e parteggia per
gli israeliani a scapito dei palestinesi).
[...]
Nel suo libro Yom Kippur. Guerre et prière (Gerusalemme,
1975), A. Hazan, un rabbino cappellano militare israeliano,
si lamenta con Abramo: "Perché, perché non hai atteso con
fede che nascesse Isacco da Sara, e prima di lui hai fatto
nascere Ismaele da Agar?
Ormai, anche Ismaele è stato circonciso, ed è dunque anche
lui, in qualche modo, un partner dell'alleanza". È questo
un altro modo per chiedersi dove collocare l'islam nel
piano di Dio?
Poiché non c'è dubbio, esiste un "mistero dell'islam", un
mistero che Paolo non ha potuto prendere in considerazione.
Dal punto di vista teologico e spirituale, bisognerebbe
integrare armoniosamente la fede nel Signore dell'alleanza
(il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio d'Israele e
della Chiesa, JHWH) con quella nel Dio creatore (Elohim),
e intendere le religioni come delle elaborazioni (in parte
umane) di quella fede divina nel Dio unico.
Difatti spesso molti che oggi si vogliono e si dicono più
intensamente religiosi, sembrano essere in realtà - come i
terroristi kamikaze, "martiri ciechi" che uccidono in nome
di Dio - meno credenti di altri, i quali, invece, senza
mostrarsi eccessivamente religiosi, appaiono più credenti
e giungono a conoscere il "vero martirio della pace e della
riconciliazione", come Anwar as-Sadat e Itzhaq Rabin,
uccisi da religiosi islamici ed ebraici.
Una religiosità povera di fede diventa, infatti, fatalmente
integralismo fanatico.
Chi non riconosce e non esulta per la presenza davanti a
lui dell'altro da sé, come l'uomo di fronte alla donna
(Gen 2, 23-25), non santifica il Nome dell'unico Dio.
Pensiamo ai taleban e alla loro vergognosa cancellazione
delle donne dalla loro società!
Dal punto di vista politico, credo che niente sia stato
detto di più chiaro di quanto, tra altre cose, ha detto il
Papa Giovanni Paolo II, il 10 gennaio 2002, al Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede:
"Nessuno può rimanere insensibile all'ingiustizia di cui
il popolo palestinese è vittima da più di cinquant'anni.
Nessuno può contestare il diritto del popolo israeliano
a vivere nella sicurezza.
Ma nessuno può nemmeno dimenticare le vittime innocenti
che, da una parte e dall'altra, cadono ogni giorno sotto
i colpi e gli spari.
Le armi e gli attentati cruenti non saranno mai strumenti
adeguati per far giungere messaggi politici agli
interlocutori.
Neanche però la logica della legge del taglione è adatta
per preparare le vie della pace...
Soltanto il rispetto dell'altro e delle sue legittime
aspirazioni, l'applicazione del diritto internazionale,
l'evacuazione dei territori occupati e uno statuto
internazionalmente garantito per le parti più sacre di
Gerusalemme, sono in grado di avviare un processo di
pacificazione in questa parte del mondo, spezzando la
catena infernale dell'odio e della vendetta...
Gli israeliani e i palestinesi, gli uni contro gli
altri, non vinceranno la guerra.
Gli uni insieme con gli altri, possono vincere la pace".
Più modestamente, ma non meno esplicitamente, un numeroso
gruppo di ebrei italiani ha firmato una lucidissima
lettera aperta, pubblicata su La Repubblica del 23
dicembre 2001:
"Siamo solidali con il popolo israeliano così duramente
colpito dal terrorismo palestinese, che punta
all'eliminazione dello Stato d'Israele. Siamo solidali
con il popolo palestinese che da decenni soffre sotto
occupazione israeliana e aspira al riconoscimento dei
propri diritti, all'indipendenza, alla terra, alla
dignità. Noi pensiamo che la dirigenza palestinese,
rompendo le trattative nell'inverno 2000-2001 e
ricorrendo all'intifada, abbia distrutto nella
maggioranza degli israeliani la speranza nel processo
di pace, e abbia favorito l'ascesa di Sharon, propenso
a liquidare l'autonomia palestinese. Noi pensiamo che
l'ininterrotta politica israeliana di espansione degli
insediamenti nei territori occupati abbia minato tra i
palestinesi la speranza nel processo di pace come via
per la propria indipendenza territoriale e statuale.
Le rappresaglie e il blocco militare dei territori
hanno, con alto prezzo di vite umane, costretto Arafat
a intervenire finalmente contro il terrorismo. Ma
questo risultato rischia di vanificarsi senza una
svolta da entrambi i lati: da parte palestinese
l'impegno nei fatti per sconfiggere il terrorismo, da
parte israeliana il blocco degli insediamenti in vista
della loro evacuazione ci sembrano le condizioni per
ricostruire la fiducia nel negoziato. Ora le forze
della pace in Israele e tra i palestinesi sono in
terribile difficoltà. Tanto più riteniamo necessario
appoggiarle: non c'è alternativa a che due popoli e
due Stati convivano nella sicurezza e nella dignità.
Ci riconosciamo nell'azione coraggiosa di esponenti
politici come Iossi Beilin, Iossi Sarid, Yael Dayan
da parte israeliana, Yasser Rabbo, Ziyad Abu Ziyad,
Hannan Ashrawi da parte palestinese, che hanno
riconfermato l'impegno per un'azione comune di pace.
Dopo l'11 settembre le ripercussioni globali del
conflitto israeliano-palestinese si sono moltiplicate.
Ci uniamo a quanti si appellano all'Ue, agli Usa,
alla Russia, perché intervengano con più decisione per
interporsi alla violenza e per spingere le due parti a
riprendere il negoziato".
Mi sembra questo uno splendido esempio di come
l'ebraismo della diaspora possa influire sull'ebraismo
della patria, in vista della pacificazione del conflitto.
Non potrebbe avvenire altrettanto da parte dei
palestinesi della diaspora più illuminati, nei confronti
del loro popolo in patria?
Infine, la vera soluzione, a lungo termine, starà in
un'educazione nuova che venga impartita nelle scuole,
sia palestinesi sia israeliane; un'educazione capace,
come a Nevé Shalom, di riconoscere e di far comprendere
all'uno, non tanto i diritti, quanto le ragioni
dell'altro.
Insegnare che non si può pensare al possesso o alla
riconquista della terra con l'esclusione o
l'eliminazione dell'altro, ma al contrario facendo
apprezzare l'amicizia dell'altro e la comunione con lui
come un tesoro ben più prezioso di un pezzo di terreno.
Francesco Rossi de Gasperis sj
(C) Mondo e Missione n° 03 anno 2002 -Asia- Israele "
Di fatto nelle scuole israeliane si è insegnato per anni a rispettare i palestinesi, comunque si è cercata una cultura del dialogo e della pace, in quelle palestinesi si è insegnato l'odio, la violenza e si sono ripresi tutti gli stereotipi del peggior antigiudaismo occidentale.
Shalom!
Originally posted by Lepanto
E dall'altra la maggioranza degli israeliani e favorevole alla "politica dei carri armati"...
Mi chiedo se si possa continuare in questo modo. Perchè alimentare l'odio? Sono motivazioni sufficienti per scatenare una spirale di odio e violenza che potrebbe avere una tragica fine?
Sì, è vero, gli israeliani non hanno la vocazione al martirio, ossia a farsi sterminare dai kamikaze e terroristi palestinesi, ma sono così "testardi" (come al solito) dal volere difendere la propria esistenza di Stato nazionale indipendente, e la vita dei propri civili. Vogliono frequentare luoghi pubblici, scuole, asili, discoteche, ristoranti, autobus....senza correre il rischio di saltare in aria. Hanno chiesto invano all'Autorità Nazionale Palestinese di intervenire contro i terroristi in modo da bloccare ogni azione criminale. Nono solo Arafat ha rifiutato di farlo, ma ad Hamas si sono uniti, nelle ultime settimane, i kamikaze del SUO partito.
Tempo fa...una nave piena di armi proveniente dall'Iran fondamentalista è stata sequestrata, e Arafat ha avuto qualche imbarazzo a dare spiegazioni....
Si possono certamente avanzare molte critiche anche al governo di Unità Nazionale israeliano di Sharon e Peres, considerare eccessive alcune misure, tuttavia occorre tenere bene presente il gravissimo contesto e prendere sul serio il fatto che Israele ha riconosciuto ufficialmente, per bocca dei suoi "falchi" il diritto dei palestinesi di avere un proprio Stato. Ma questo non può costituire una minaccia per Israele e i suoi cittadini, non può nascere come territorio sovrano dal quale i terroristi suicidi possano partire ancora indisturbati per colpire gli ebrei a Gerusalemme o Telaviv. Purtroppo sono gli arabi che ancora non riconoscono il diritto all'esistenza dello Stato di Israele, tanto è vero che persino la moderata Arabia Saudita fa del riconoscimento una sorta di merce di scambio con Israele per l'avvio di un processo di pace (una proposta, dal punto di vista della real politic, indubbiamente interessante), e questo fin dal 1947.
Se uno stato palestinese non esiste è perchè nel 1948, quando fu proclamata l'indipendenza dello Stato di Israele, in applicazione di una precisa risoluzione del CdS dell'ONU (voluta da americani, sovietici e tutti quanti salvo l'inghilterra che si astenne) gli arabi, anzichè dare applicazione alla costituzione di uno Stato arabo-palestinese, come previsto dalla medesima risoluzione, attaccarono in forze Israele per DISTRUGGERLO, con le Nazioni Unite inerti, capaci solo di proclami.
Shalom!
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