benny3
08-04-02, 12:59
Quando Dio invade
la storia dell'uomo
di BERNARDO VALLI
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IL CRONISTA onesto giudica i protagonisti di una vicenda per quel che fanno non per quel che sono. La verità di sua competenza è quella del momento. Quella che si svolge sotto i suoi occhi. La quale è molto fragile, perché può mutare da un istante all'altro, ed è sottoposta all'influenza di una verità ben più pesante e ambigua. Quella carica dei pregiudizi creatisi nei secoli, nei millenni. Insomma, dettati dalle varie interpretazioni della storia. Il cronista non ne è immune. Nelle stagioni di acuta sensibilità, le parole gli si appesantiscono tra le mani. Possono anche diventare macigni.
E' un po' quel che accade da alcuni mesi. Da quando, in seguito all'11 settembre, negli avvenimenti quotidiani politica e religione si confondono, ed è difficile tracciare i confini tra quel che è temporale e quel che è spirituale. Da quando dio è arrivato sui teleschermi e sulle prime pagine, e le storie rivelate invadono di nuovo la storia degli uomini.
Quando in autunno il terrorismo islamista ha ferito New York, la Città dell'Occidente, il sospetto si è abbattuto sull'intero mondo musulmano. Nel raccontare i fatti il cronista contribuiva inevitabilmente ad accendere la già forte diffidenza nei confronti di chiunque, in un caffè di Londra, in una trattoria di Roma, a bordo di un aereo in volo sull'Atlantico, in una periferia di Parigi, avesse le caratteristiche somatiche di un arabo, o comunque di un individuo proveniente da un paese a maggioranza musulmana. Il razzismo prevalente nella nostra epoca, quello anti-arabo (l'arabo non solo emigrante, quindi povero, ma inquietante messaggero di una religione giudicata incompatibile con l'Occidente democratico, e per di più incline al terrorismo), ha raggiunto in quei giorni le punte più alte. Senz'altro allarmanti. Tanto che George W. Bush, che aveva parlato di "crociata", si rimangiò l'espressione; e tutti i politici e i mass media responsabili si affrettarono a respingere la catastrofica idea di uno scontro tra civiltà. Tra Islam e Occidente.
L'allarme per un ritorno all'antisemitismo, questa volta l'antisemitismo tradizionale rivolto contro gli ebrei (anche gli arabi sono semiti), in seguito agli avvenimenti mediorientali, rende di nuovo incandescenti le parole tra le mani di chi deve raccontare i fatti. Chi si occupa di quel dramma da decenni sa quanto possono scottare. Bruciano soprattutto quando nei momenti più forti le passioni, spesso accese dalle sue cronache, si riversano nelle piazze e alimentano manifestazioni in cui gli slogan travolgono i limiti imposti dalla memoria storica.
Bene hanno fatto i sindacati e i dirigenti Ds a ritirarsi dalla manifestazione romana in cui si esaltavano le azioni dei kamikaze palestinesi e si scandivano insulti contro lo Stato di Israele. Non si coltiva il culto di un martirio che uccide in modo indiscriminato e non si bolla con condanne altrettanto indiscriminate un paese in cui vive una società articolata. All'interno della quale, tra l'altro, coraggiose minoranze, che domani potrebbero diventare maggioranze, si oppongono democraticamente all'insensata azione del governo.
Condanne in blocco di questo tipo possono in effetti assumere forme odiose. Inaccettabili. Per questo si può contestare il diritto di cronaca?
Condivido quanto dice Jean Daniel. Il quale giudica sconcertante il parere di coloro che trovano negli attentati di oggi (alle sinagoghe francesi, o a istituzioni ebraiche) sintomi annuncianti persecuzioni o addirittura pogrom simili a quelli che hanno macchiato la storia europea del '900. Stando a questa tesi la maschera congiunturale dell'antisionismo nasconderebbe il volto eterno dell'antisemitismo. Ma la società europea non è più quella che precedette e condusse al nazismo. L'aggiornamento conciliare compiuto dalla Chiesa è stata una rivoluzione che Jean Daniel considera (giustamente) importante quanto quella dell'89. Il cattolicesimo ha accettato il principio che si possa trovare la salvezza nelle altre religioni monoteiste. Le riforme compiute da Giovanni XXIII, per quanto riguarda il rapporto con gli ebrei, e i gesti di pentimento fatti da Giovanni Paolo II, sono stati accettati e assorbiti dall'Europa cristiana. La giudeità di Gesù non è mai stata tanto sottolineata; né la continuità giudeo-cristiana tanto celebrata. Lo scetticismo laico su questi punti equivarrebbe a uno snobismo dettato dall'ignoranza.
In quanto alle critiche rivolte alla politica israeliana è ingiusto definirle a priori antisioniste e indecente definirle antisemite. Indecente perché non pochi ebrei, dentro e fuori Israele, le promuovono e le condividono.
Quando scrivo di Israele ho sempre a portata di mano i giudizi di Yeshayahu Leibowitz, uno dei grandi intellettuali israeliani e uno dei più interessanti pensatori del secolo scorso (che ha vissuto quasi interamente, nascendo nel 1903 a Riga, in Lituania, e morendo novantatrè anni dopo a Gerusalemme). Leibowitz definiva una catastrofe il nazionalismo ("senza cultura") di Arik Sharon e di Rafael Eytan, un suo ministro. E giudicava inaccettabile per un ebreo occupare i territori oggi percorsi da Tsahal.
Ammetteva persino il rifiuto di fare il servizio militare, con tutti i rischi, anche morali, che tale rifiuto può comportare in un paese come Israele. Nei nostri giorni un cronista giudica gli israeliani per quel che fanno e non per quel che sono. Gli antisemiti aggredivano o sterminavano gli ebrei per quel che erano. Quando Ytzhak Rabin, ricorda Daniel, riuscì a concludere gli accordi di Oslo, diventò subito uno degli uomini più popolari d'Europa. Per Arik Sharon non accade la stessa cosa.
Nessuno Stato o organizzazione, ebraica o musulmana, può vantare diritti temporali nel nome di una legittimità spirituale; né può inventare una geografia di interessi nel nome di una storia rivelata. Né un popolo può imporsi a un altro popolo invocando come attenuante o giustificazione le proprie tragedie passate. Aggiungo ancora quel che ti dicono in Israele i rabbini liberali: che la giustizia vale più della terra; e che la morale è più importante della tradizione; e che il dovere dell'uomo conta più dell'onore della tribù. Penso siano anche le regole cui deve richiamarsi un cronista, quando le parole cominciano a scottare. Coloro che in autunno, dopo l'11 settembre, parlavano di scontro tra civiltà, e che oggi leggono nelle critiche all'azione del governo Sharon una minaccia per il mondo civile, sono in definitiva da mettere sullo stesso piano.
la storia dell'uomo
di BERNARDO VALLI
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IL CRONISTA onesto giudica i protagonisti di una vicenda per quel che fanno non per quel che sono. La verità di sua competenza è quella del momento. Quella che si svolge sotto i suoi occhi. La quale è molto fragile, perché può mutare da un istante all'altro, ed è sottoposta all'influenza di una verità ben più pesante e ambigua. Quella carica dei pregiudizi creatisi nei secoli, nei millenni. Insomma, dettati dalle varie interpretazioni della storia. Il cronista non ne è immune. Nelle stagioni di acuta sensibilità, le parole gli si appesantiscono tra le mani. Possono anche diventare macigni.
E' un po' quel che accade da alcuni mesi. Da quando, in seguito all'11 settembre, negli avvenimenti quotidiani politica e religione si confondono, ed è difficile tracciare i confini tra quel che è temporale e quel che è spirituale. Da quando dio è arrivato sui teleschermi e sulle prime pagine, e le storie rivelate invadono di nuovo la storia degli uomini.
Quando in autunno il terrorismo islamista ha ferito New York, la Città dell'Occidente, il sospetto si è abbattuto sull'intero mondo musulmano. Nel raccontare i fatti il cronista contribuiva inevitabilmente ad accendere la già forte diffidenza nei confronti di chiunque, in un caffè di Londra, in una trattoria di Roma, a bordo di un aereo in volo sull'Atlantico, in una periferia di Parigi, avesse le caratteristiche somatiche di un arabo, o comunque di un individuo proveniente da un paese a maggioranza musulmana. Il razzismo prevalente nella nostra epoca, quello anti-arabo (l'arabo non solo emigrante, quindi povero, ma inquietante messaggero di una religione giudicata incompatibile con l'Occidente democratico, e per di più incline al terrorismo), ha raggiunto in quei giorni le punte più alte. Senz'altro allarmanti. Tanto che George W. Bush, che aveva parlato di "crociata", si rimangiò l'espressione; e tutti i politici e i mass media responsabili si affrettarono a respingere la catastrofica idea di uno scontro tra civiltà. Tra Islam e Occidente.
L'allarme per un ritorno all'antisemitismo, questa volta l'antisemitismo tradizionale rivolto contro gli ebrei (anche gli arabi sono semiti), in seguito agli avvenimenti mediorientali, rende di nuovo incandescenti le parole tra le mani di chi deve raccontare i fatti. Chi si occupa di quel dramma da decenni sa quanto possono scottare. Bruciano soprattutto quando nei momenti più forti le passioni, spesso accese dalle sue cronache, si riversano nelle piazze e alimentano manifestazioni in cui gli slogan travolgono i limiti imposti dalla memoria storica.
Bene hanno fatto i sindacati e i dirigenti Ds a ritirarsi dalla manifestazione romana in cui si esaltavano le azioni dei kamikaze palestinesi e si scandivano insulti contro lo Stato di Israele. Non si coltiva il culto di un martirio che uccide in modo indiscriminato e non si bolla con condanne altrettanto indiscriminate un paese in cui vive una società articolata. All'interno della quale, tra l'altro, coraggiose minoranze, che domani potrebbero diventare maggioranze, si oppongono democraticamente all'insensata azione del governo.
Condanne in blocco di questo tipo possono in effetti assumere forme odiose. Inaccettabili. Per questo si può contestare il diritto di cronaca?
Condivido quanto dice Jean Daniel. Il quale giudica sconcertante il parere di coloro che trovano negli attentati di oggi (alle sinagoghe francesi, o a istituzioni ebraiche) sintomi annuncianti persecuzioni o addirittura pogrom simili a quelli che hanno macchiato la storia europea del '900. Stando a questa tesi la maschera congiunturale dell'antisionismo nasconderebbe il volto eterno dell'antisemitismo. Ma la società europea non è più quella che precedette e condusse al nazismo. L'aggiornamento conciliare compiuto dalla Chiesa è stata una rivoluzione che Jean Daniel considera (giustamente) importante quanto quella dell'89. Il cattolicesimo ha accettato il principio che si possa trovare la salvezza nelle altre religioni monoteiste. Le riforme compiute da Giovanni XXIII, per quanto riguarda il rapporto con gli ebrei, e i gesti di pentimento fatti da Giovanni Paolo II, sono stati accettati e assorbiti dall'Europa cristiana. La giudeità di Gesù non è mai stata tanto sottolineata; né la continuità giudeo-cristiana tanto celebrata. Lo scetticismo laico su questi punti equivarrebbe a uno snobismo dettato dall'ignoranza.
In quanto alle critiche rivolte alla politica israeliana è ingiusto definirle a priori antisioniste e indecente definirle antisemite. Indecente perché non pochi ebrei, dentro e fuori Israele, le promuovono e le condividono.
Quando scrivo di Israele ho sempre a portata di mano i giudizi di Yeshayahu Leibowitz, uno dei grandi intellettuali israeliani e uno dei più interessanti pensatori del secolo scorso (che ha vissuto quasi interamente, nascendo nel 1903 a Riga, in Lituania, e morendo novantatrè anni dopo a Gerusalemme). Leibowitz definiva una catastrofe il nazionalismo ("senza cultura") di Arik Sharon e di Rafael Eytan, un suo ministro. E giudicava inaccettabile per un ebreo occupare i territori oggi percorsi da Tsahal.
Ammetteva persino il rifiuto di fare il servizio militare, con tutti i rischi, anche morali, che tale rifiuto può comportare in un paese come Israele. Nei nostri giorni un cronista giudica gli israeliani per quel che fanno e non per quel che sono. Gli antisemiti aggredivano o sterminavano gli ebrei per quel che erano. Quando Ytzhak Rabin, ricorda Daniel, riuscì a concludere gli accordi di Oslo, diventò subito uno degli uomini più popolari d'Europa. Per Arik Sharon non accade la stessa cosa.
Nessuno Stato o organizzazione, ebraica o musulmana, può vantare diritti temporali nel nome di una legittimità spirituale; né può inventare una geografia di interessi nel nome di una storia rivelata. Né un popolo può imporsi a un altro popolo invocando come attenuante o giustificazione le proprie tragedie passate. Aggiungo ancora quel che ti dicono in Israele i rabbini liberali: che la giustizia vale più della terra; e che la morale è più importante della tradizione; e che il dovere dell'uomo conta più dell'onore della tribù. Penso siano anche le regole cui deve richiamarsi un cronista, quando le parole cominciano a scottare. Coloro che in autunno, dopo l'11 settembre, parlavano di scontro tra civiltà, e che oggi leggono nelle critiche all'azione del governo Sharon una minaccia per il mondo civile, sono in definitiva da mettere sullo stesso piano.