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Visualizza Versione Completa : La metafisica della montagna



Orazio Coclite
13-04-02, 00:10
Vorrei aprire questo ‘thread’ ad uso di coloro i quali, seguendo l’esempio o gli scritti di un Julius Evola, o di un Domenico Rudatis, conoscono l’eterea fascinazione, il totale appagamento e la trascendenza con l’essenza stessa del Divino che vagare per vette e alture sa infonde nell’animo umano.

Il primo libro di Evola che in assoluto mi capitò per le mani (ma esiste veramente il caso?) fu proprio ‘Meditazioni delle vette’. Quale migliore inizio? Un compendio di scritti evoliani sulla montagna e sui suoi simboli perenni. Le sue meditazioni delle vette, il suo amore per l'alpinismo e la montagna come esperienza interiore. Inutile dire che da subito ne fui attratto irresistibilmente. E da allora la montagna ha iniziato a essere, per me, un luogo di continuo ritorno, l’unico luogo in Terra ove potessi finalmente incontrare me stesso, lontano dallo smog delle metropoli, dal clangore delle macchine, dai palazzi di cemento e ferro che svettano alti a coprire il sole. Finalmente lontano da Mordor stessa e dalle sue folli devianze. Lassù, fra i picchi innevati, fra le foreste e i ruscelli, è possibile ritrovarsi, è possibile incontrarsi, è possibile rispondersi in cuor proprio del senso di un’esistenza tanto frenetica quanto spesso scevra di alcun autentico valore. Come spiegare a chi è cieco cosa significhi veramente ‘vedere’? Altrettanto, come spiegare un cielo di stelle come soffitto e la gelida, eccitante bellezza di dormire sotto le stelle? Come far capire a chi ti ascolta le ore passate sui picchi a scrutare il volo degli uccelli all’orizzonte in attesa di un segno dagli Dei della montagna? Come far capire a chi vive nel vuoto, il significato contenuto nel pieno? Come far capire l’importanza e la magniloquenza della solitudine a chi nella vita ricerca continuamente la confusione e la compagnia? A chi non conosce il mondo interiore, a chi non è in grado di trovarsi in se stesso? La montagna è tutto questo, riavvicinamento alla pura essenza della vita, elevazione, trascendenza vera e comunione col sacro.

Solitudine, silenzio e contemplazione. A tal senso mi sovvengono delle bellissime parole che lessi anni fa. Da pagina 66 di 'Militia' di Leon Degrelle:

“Beata solitudo

Il più delle volte la compagnia non è che agitazione, rumore, disturbo della propria solitudine.

Ricercare costantemente quella che viene chiamata l'animazione, significa aver paura di trovarsi in presenza di sé stessi. Significa, in effetti, sotto il profilo morale, prendere la fuga”.

Se qualcuno ha materiale inerente al tema trattato, è allora vivamente incoraggiato a partecipare a questo ‘thread’ con il proprio apporto. Di seguito una bibliografia minima sull’argomento. Sono ben accetti suggerimenti e consigli di nuove letture tematiche riguardo l’”alpinismo dello spirito”.

Bibliografia

aa.vv., Il regno perduto. Appunti sul simbolismo tradizionale della Montagna, a cura di E. Longo, Il Cavallo alato, Padova 1989.

Daumal R., Il monte analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, a cura di C. Rugafiori, Adelphi, Milano 19938.

Evola J., Meditazioni delle vette, a cura di R. del Ponte, SeaR, Borzano R.E. 1997.

Evola J. - Samivel, Il sorriso degli Dèi. Note su Uomini di Montagna e Montagne degli Dèi, Società Editrice Barbarossa, Milano 1996.

Guénon R., Simboli della Scienza sacra, tr. it. di F. Zambon, Adelphi, Milano 1984 (in part. pp. 189-192: «La Montagna e la Caverna»).

Jorio P.C., Il magico, il divino, il favoloso nella religiosità alpina, Priuli e Verlucca, Torino 1986.

Longo E., Il fuoco e le vette. Lungo i sentieri dell’arcaica Tradizione ariana, Il Ventaglio, Roma.

Longo E., Samivel e il mito primordiale della montagna, (in Orion 75/90).

Rudatis D., Liberazione. Avventure e misteri nelle montagne incantate, Nuovi Sentieri, Belluno 1985.

Rudatis D., Alcune domande a Domenico Rudatis (a cura di R. del ponte e H. Hakl), 1985. (in Arthos n° 29, pp. 158-162).

Spada D., La Caccia Selvaggia, Editrice Barbarossa, Milano 1994.

Vecchio O., Murelli M., Cavalcare le vette, Editrice Barbarossa, Milano 2002.

Wolf D., A convegno sul Brenta, Il Cavallo Alato, Padova 1990. (edizione limitata in 500 esemplari numerati)



“Ma non si può sempre restare sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro, allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto.”
[René Daumal]

Orazio Coclite
13-04-02, 00:19
Tratto da: Dario Wolf, A convegno sul Brenta, Il Cavallo Alato, Padova 1990.



Dario Wolf

A CONVEGNO SUL BRENTA

Lo spirito degli amici mi aspetta sulla vetta dei monti, tra i campanili e le guglie altissime d’opale-argento, d’oro-cristallo, di zaffiro e di giada.
Da tempo li ho lasciati, anzi, loro hanno lasciato me, per raggiungere l’Immensità, possente di luce e colore: ora, lassù, tra le vette, mi attendono.
Il loro invito mi sospinge all’ascesa: mi avvio solo al convegno.

Le scarpe ferrate risuonano sulla strada di pietre coperta, tra le case ancor nere, dalle ultime ore della notte.
Rapidamente mi trovo in aperta campagna, al limitare del bosco, sulle ultime pendici del monte che portano alla conca del lago. Lago immoto, occhio glauco della terra madre dei monti, delle vette…, di noi.
Mi soffermo ad osservare la muta vita del piano che si sveglia: l’accarezzare delle prima luce scialba del giorno, le forme varie, grandi e piccole, vicine e lontane.

Il gallo canta.
E’ giunta l’ora di muovere il primo passo verso l’alto.
A torso nudo, rapidamente m’innalzo.
Forze misteriose del bosco mi sospingono: più su, più su: è tempo.
Ti attendono al di là del verde, là sulle rocce.

(continua...)


+ Dario Wolf [Trento 3 dicembre 1901; Trento 29 luglio 1971]

Orazio Coclite
13-04-02, 00:21
http://www.orionlibri.com/negozio/prodotti/Ilregnoperduto_t.jpg

Tratto da: aavv 'Il regno perduto' (Edizini di AR), pag. 13/14, Renato Del Ponte "La montagna, "cuore del mondo" e saggiatrice di caratteri



<< Tutte le estati, sempre, da quel giorno, sono quindi tornato alla montagna. Dapprima solitario, per molti anni ho vagato, con modesta attrezzatura e pochi viveri, per lande semideserte delle Alpi Occidentali, scelte accuratamente fra le meno famose, le meno conosciute, quindi le meno frequentate. Incontri ogni tanto un pastore, un camoscio, l'aquila severa tra uno squarcio di nubi. Si dorme in luoghi di fortuna, in baite semidiroccate o in caverne o direttamente all'aperto.

Di fronte, a perpendicolo, sull'asse che da te si leva sino all'eternità del cosmo, ruota la volta celeste. Arcani meccanismi scandiscono il lento trascorrere di divini asterismi nel pieno silenzio notturno. Avete mai sentito pulsare il cuore dell'Universo? Ebbene, passate una notte, all'aperto, sotto il cielo sereno, in una quota fra i tremila e i quattromila metri sopra il livello del mare: lo sentirete e vi sembrerà che il suo cuore sia il vostro cuore, il che poi è la stessa cosa. Fatevi guidare dai battiti del respiro universale e perdetevi nel labirintico meccanismo della volta stellata: sarà come un benefico perdervi in voi stessi e voi sarete Orione, il gigante, che col fedele Sirio trascorrerà per le sterminate praterie del vostro mondo interiore. Non passerete, certo, la notte nel sonno, ma in uno stato oscillante fra la veglia e l'assopimento: in quella condizione si è ben disposti, come è noto, agli incontri e alle visioni più strane. Rumori improvvisi di città lontane centinaia di chilometri, figure care di esseri che si sono amati o solo sognati e la fredda, fisicamente gelida sensazione della solitudine assoluta.

In quei luoghi e in quelle condizioni si può sperimentare, infatti, allo stato più nativo, la condizione crudamente fisica di una sensazione psichica. Il freddo si identifica con l’essere soli, mentre il vuoto cavo del silenzio si riempie di cascate di acque cristalline sgorganti da recessi che paiono esistere solo nella vostra mente. Ma ecco che il sole, preceduto dai serpeggianti dragoni aurorali, si è manifestato sullo scenario sottostante alle scarne quinte del mondo, tra la chiostra delle vette lontane, e la sua apparizione vi è servita a compensare, a solidificare in termini concreti ciò che lì, dove vi trovavate, sullo sperone ghiacciato di una roccia, non potevate che definire in termini negativi: il vuoto. Il vuoto è un nulla che i raggi del Sole riempiono del loro valore significante. Prima era solo notte e volta celeste, ora vi è una grande cavità luminosa che, senza quella luce che ormai piove dall’alto, nulla sarebbe. E le vette che circondano questa cavità esistono solo in quanto a te permettono di raggiungere quella luce, che annulla il vuoto che è in te. E’ allora che può avvenire l’identificazione suprema: tu sei la montagna e tu la luce che annulla ogni contraddizione. Sali sempre più in alto e ti pare di dimenticare la tua corporeità. Sono trascorsi diversi giorni: nutrito d’aria, di neve e di grandi visioni, sei alfine potuto scendere a valle, dal momento che la montagna ormai pulsa dentro di te.>>

Orazio Coclite
13-04-02, 00:25
http://www.orionlibri.com/negozio/prodotti/Cavalcarelevette.jpg

Omar Vecchio - Maurizio Murelli
Cavalcare le vette
Società Editrice Barbarossa
F.to 17 x 24 copertina telata
Con sovracopertina in quadricromia
pp. 558 + 32 pp. Con foto a colori
Edizione in mille copie numerate
Euri 36 (lire 69.700)


Nell’estate del 2000 mentre in Pakistan scalava il Diran Peak (7266 m.) moriva, travolto da un seracco, Omar Vecchio, già redattore di “Orion” e di cui la Società Editrice Barbarossa ha stampato due libri. Omar Vecchio era giunto alla comunità umana che anima la redazione di “Orion”e le Edizioni Barbarossa dopo singolari esperienze adolescenziali: in un seminario di Padri Passionisti, dove ancor prima di leggere Nietzsche coglie il nesso fra nichilismo e cristianesimo e si persuade che”Dio è morto”; e poi, conclusi il ginnasio e la passione passionista, nei licei "caldi”di Milano dove vive all’insegna della sregolatezza più metodica e si definisce “dadaista”, credendo di cogliere nell’arte contemporanea, più ancora che nella letteratura, la possibilità di forzare i limiti della società "borghese". L’esperienza militare in una delle armi meno nobili dell’esercito gli provoca un’ulteriore crisi propedeutica a quella che lo investirà allorché, in un viaggio a Parigi, in una libreria esoterica, scoprirà i libri di Julius Evola. Fatalmente attratto dal pensiero della Destra Radicale ne esplorerà via via gli autori di punta - Mishima, Junger e, in particolare, Drieu La Rochelle. E a questo punto (1985) che Omar, partecipando con Maurizio Murelli ad un trekking in quota, impara a conoscere la montagna e le opportunità che vanno oltre il mero dato sportivo. Si iscrive all’Associazione paracadutisti di Milano dove, iniziato un processo di trasformazione radicale e profondo che gli consente di evolvere dalla condizione essenzialmente intellettuale e di riscattare la precedente esperienza militare, scopre la dimensione verticale dell’alpinismo. Nell’ottica di Omar; l’alpinisnio, al di là della dimensione semplicemente sportiva, consente la pratica dell’unica vera ed autentica”arte marziale” occidentale: riallacciandosi alla concezione dell’alpinisnio eroico degli anni Trenta, nell’ottica di Julius Evola e Domenico Rudatis che ne hanno lumeggiato anche gli aspetti esoterici, nel solco delle memorie di alpinisti come Emilio Cornici e Giusto Gervasutti diventa un fortissimo ed intraprendente scalatore. In montagna ci va spesso da solitario nella miglior tradizione di Eugenio G. Lammer, definito agli inizi del secolo "il Nietzsche dell’alpinismo”: da questa esperienza scaturiscono riflessioni e appunti: è il materiale destinato a diventare un libro e che invece resta incompiuto. Nel 1998 Omar convoca un gruppo di amici per presentare uno strano libro. Si tratta di una Antologia commentata di versi di un suo amico poeta che, già docente universitario, viveva da clochard nei dintorni di Brera, quando era ancora, in qualche modo, il quartiere degli artisti. Questo poeta, che con altri due amici aveva segnato profondamente la giovinezza di Omar, si è dato la morte in forma perversa; degli altri due, uno si è anch’esso suicidato e l’altro è ireversibilmente segnato dalla malattia derivata dall’uso dell’eroina. Omar è invece uscito indenne dalle esperienze limite fatte in gioventù scoprendo la sua “via”. Nel corso della presentazione Omar si rammarica della perdita dei manoscritti dell’amico e lega con una promessa Maurizio Murelli: se con il paracadutismo o con l’alpinismo troverà la morte, Maurizio dovrà occuparsi dei suoi scritti. Così nasce questo libro. Non era ancora stato rimpatriato il feretro di Omar che già la devastazione del suo archivio e della sua biblioteca era iniziata. Vincolato dalla promessa fatta all’amico, Murelli riesce a salvare dalla dispersione alcuni manoscritti, le corrispondenze, una parte dei diari, una versione di Appunti di un escursionista solitario. Altro materiale verrà recuperato in giro per l’Europa. In quindici mesi di incessante lavoro e attorno a quel materiale viene redatto Cavalcare le vette il cui titolo non è affatto casuale, ma volutamente riprende due noti testi di E vola che insieme danno il tono della concezione alpinistica del protagonista. Dopo aver raccontato l’ultima avventura di Omar costellata di presagi e magiche atmosfere, il libro racconta Omar attraverso scampoli di diari. Si può così seguire l’itinerario di un giovane investito da una crisi mistica che, una volta persa la fede, approda all'avanguardia più esasperata dalla quale, diversamente dai suoi amici di un tempo, riesce a tirarsi fuori battendo la pista dei valori della Tradizione. Il libro, diviso in cinque parti, dedica le ultime due alla visione eroica ed esoterica della montagna partendo dagli incompiuti Appunti: frutto di un pegno di amicizia e cameratismo, questo libro è stato redatto secondo i ritmi di un' ascensione alpinistica con l’intenzione di fornire un esempio di storia vissuta, una storia eccezionale dei tempi nostri, una storia tanto esemplare da poter essere definita pedagogica.


OMAR VECCHIO
Nato a Milano il 14/1/62, dopo la crisi della prima adolescenza che lo spinge in seminario dove -ancor prima di leggere Nietzsche -coglie il nesso fra nichilismo e cristianesimo e si persuade che "Dio è morto", concluso il ginnasio vive gli anni successivi all'insegna della sregolatezza più metodica. Ma, con la fine del liceo, si stanca delle provocazioni post-avanguardistiche e si dedica ad una sorta di ricapitolazione del proprio itinerario che porta al suo primo libro. Nel frattempo, essenzialmente deluso dall'istituzione scolastica, decide di non iscriversi all'università e comincia a lavorare nel settore televisivo. Fino al momento della sua scomparsa ha continuato a scrivere ed a collaborare con riviste e gruppi di studio in Italia e Francia, proseguendo il proprio studium con un rigore poco apparente ed accettando il ruo!o di intellettuale per vocazione (non professionale). L'evento fondamentale nel pensiero (e nell'esistenza) di Omar Vecchio è la perdita della fede cattolica. Il suo lavoro intellettuale è inteso inizialmente a darsi ragione ed a tratteggiare i contorni del baratro in cui è caduto, insieme all'intera civiltà occidentale. In un secondo tempo il tentativo è quello di fondare (innanzitutto a proprio beneficio) una morale possibile, dopo il nichilismo e a partire da esso. Risultati in tal senso cominciano ad essere conseguiti negli ultimi anni di vita attraverso la pratica intensiva del paracadutismo e dell'alpinismo solitario ed eroico.

Bibliografia: Nel 1980 stampa in proprio la rivista "191", nel 1988 pubblica Essenza nichilistica dell'Occidente cristiano e nel 1994 Visioni di un uomo in armi, entrambi per le edizioni Barbarossa. Per Traccedizioni nel 1998 pubblica Gino Porcheddu -Antologia minima. Realizza diversi cortometraggi tra cui I giuocatori e La guerra di Ettore.

Milano 14/1/62 - Diran (Pakistan) 31/7/2001

Epitaffio

“Infine comprendo il mio destino (...) E' la mia ultima parola*’’

Questa "parola ultima" Omar l' ha pronunciata scalando quell'Oriente di neve e ghiaccio" dove il suo spirito ha preso per sempre il volo". Ora egli contempla quell'Unica Verità dell'Essere, di cui aveva fatto l'obiettivo della sua "esperienza del limite" e del senso della vita; Essa sarà ora e per sempre il senso della sua morte. Riposa in pace, camerata, i nostri cuori sono tristi, ma sappi che la tua morte non sarà stata vana, il ricordo del tuo esempio, la memoria del tuo pensiero, resteranno come una luce per tutti coloro che, senza timore,e con quel coraggio audace che ti caratterizzava, dirigeranno i loro passi verso l'ascesa delle cime che permettono di contemplare, nel suo mistero, il volto della Realtà essenziale.

(*) da Visioni di un uomo in armi (Società Editrice Barbarossa)


MAURIZIO MURELLI
Nato a Milano (12/lO/54), oggi vive e lavora nell' hinterland nel settore delle arti grafiche e editoriali. Nel 1979 fonda la casa editrice Barbarossa. Nel 1984 fonda la rivi- sta "Orion" che da allora -anche con il supplemento "Origini" -esce tutti i mesi. A partire dai primi anni '90 partecipa alle "università d'estate" promosse da uomini impegnati nell'elaborazione di un pensiero non conformista. In Italia è stato tra i primi a promuovere un'indagine sulla trasformazione del Potere denunciando l'avvento del Mondialismo e della globalizzazione economico- finanziaria in tempi nei quali questi stessi termini lessicali venivano persino equivocati -lo slogan da lui lanciato "II mondialismo ti uccide" apparso sui muri di Milano alla fine degli anni '80 venne scambiato per una posizione avversa ai mondiali di calcio di "Italia '90". Coerente col radicalismo che ne caratterizza da sempre le posizioni, ha mantenuto negli anni un atteggiamento scevro da partigianerie e facili partitismi, approdando alla convinzione che nel momento presente soltanto un serio lavoro su se stessi possa permettere di attraversare indenni le secche del nichilismo, convinzione che appunto lo accomuna all'amico Omar.

Orazio Coclite
13-04-02, 00:32
Da: http://www.claudio-rise.it/incontri/relazione.htm



L’alpinismo eroico - Relazione a cura di Antonello Vanni

Giovedì 27 settembre 2001 si è tenuta presso il Circolo Culturale Sole e Acciaio la presentazione del libro Cavalcare le vette a cura di Maurizio Murelli, (Edizioni Società Editrice Barbarossa, orionseb@tin.it oppure 0266400383). Il libro è stato presentato con un dibattito tra il curatore e Claudio Risé.

Cavalcare le vette è stato costruito da Murelli attorno agli scritti (diari e riflessioni) ed alla vicenda umana di Omar Vecchio (Milano, 1962-Pakistan, 2000), giovane intellettuale passato in breve tempo dall’esperienza del seminario all’incontro con il dadaismo e l’esperienza della regia cinematografica. Omar avvicinò importanti studiosi come Evola e si dedicò all’arditismo ed all’alpinismo eroico, estremo e solitario, che lo condusse fino all’ultima tappa in Pakistan. L’intenzione del curatore, Murelli, è di natura pedagogica: un libro per i giovani alla ricerca di una via formativa forte ed estrema.

Presentiamo una breve relazione della presentazione del libro e del dibattito seguito ad essa.

Murelli: «Ho curato un lavoro su Omar Vecchio, scomparso l’anno scorso scalando una vetta in Pakistan. Omar entrò in un seminario di Padri Passionisti, presso Erba, e fu proprio questo il momento in cui si accorse, nonostante la sua esperienza quasi mistica della religione, che “Dio era morto” e che il Sacro aveva cessato di esistere. Nei pressi del seminario conobbe Luciano, un amico che lo guidò nella lettura di psicanalisi, politica, così come nell’uso delle droghe. Omar lasciò presto il seminario e si spostò a Milano dove conobbe l’avanguardia dadaista, il pensiero di Evola e di La Rochelle, di Heidegger e Nietzsche. Diventò dunque un giovanissimo ma brillante intellettuale e si cimentò in varie dimensioni artistiche.
Intuì però il dramma occidentale (vedi Essenza nichilista dell’Occidente cristiano, Seb editore) e soprattutto iniziò a chiedersi quale potesse essere la via di uscita. Furono le letture di carattere esoterico sulla montagna (lo stesso Meditazioni delle vette di Evola, ad esempio) che lo spinsero verso una pratica della natura capace di insegnare all’uomo il senso del limite e del superamento attraverso l’esperienza delle proprie capacità. In particolare Omar si interessò all’alpinismo eroico, di tradizione tedesca, inteso come unica arte marziale occidentale idonea al superamento della condizione nichilistica. Un alpinismo, quello eroico, non tecnico e da palestra, ma senza guide, attraverso vie dirette, sempre con a fianco la morte ed il dramma».

Risé: «Cosa rappresenta per il maschio la spinta verso l’alto? Possiamo riferirci a Pound: «Il femminile è migliore negli atti utili e di salvaguardia della vita; al maschile appartengono gli atti folli, l’irrealizzabile, gli atti nuovi». Ma perché nel mondo ha luogo la spinta verso l’alto, che rasenta la follia? La spinta verso l’alto contiene un forte elemento della dimensione psicologica umana; un esempio a riguardo è il simbolo della croce che è costituita da braccia orizzontali, parallele alla materia mentre il tronco va verso l’alto (e il basso). Per capire il significato di questa figura nella storia psicologica umana ricorriamo ad un mito africano: il cielo stava sopra la Terra e questo abbraccio soffocava l’uomo. Le donne con il loro alzare i pestelli per schiacciare i semi ferirono il cielo che decise di alzarsi. Ma i pestelli lo ferirono troppo ed il cielo, cioè Dio, si allontanò, morì. La spinta verticale dunque incalza la psiche umana. L’innalzamento è però sempre accompagnato dalla caduta: una sigaretta vede il fumo alzarsi e la cenere cadere. Spesso l’uomo sale perché teme di scendere. Questa dinamica è stata ben descritta dal filosofo Bachelard: le due forze, salita e caduta, si rinforzano l’una con l’altra. Più si va in alto, più il basso attira giù.
Un altro aspetto interessante, sottolineato anche da alpinisti come Emilio Comici, è che il desiderio di salire è ricerca di leggerezza: Comici arriva alla vetta e si sente così leggero da…voler salire ancora.
Di fronte a questo incontro di tensioni l’uomo si trova nella necessità di stabilire un patto. Castiglioni, altro noto alpinista, dapprima rappresentò l’azione, l’eroismo, la verticalità; poi nel corso della sua vita si innamorò del basso, della materia, della natura, della montagna in senso fisico. Alla eccessiva tensione verso l’alto deve corrispondere infatti il ritorno verso il basso, l’umanizzazione, l’incarnazione della visione.
Nota Leonardo da Vinci nei Quaderni che «la leggerezza nasce dalla pesantezza». Bisogna cioè mantenere la consapevolezza sul gioco dei pesi, della varietà delle forme. Se la pesantezza viene rimossa il rischio è che essa ci metta le mani addosso quando meno ce l’aspettiamo».

Domanda del moderatore (il Presidente del Circolo Culturale Sole e Acciaio, Francesco Martinez) a Claudio Risé:

«Secondo Lei esiste una relazione tra il Manifesto di Unabomber, il passaggio al bosco e la via dell’alpinismo eroico?»

Risé: «La sfida del nostro tempo è sopravivere al carattere meccanico ed automatico della società tecnologica. Tale condizione porta infatti alla tortura e violenza nei confronti dell’uomo e della natura vivente. Nella storia delle religioni compaiono due archetipi, oggetto di ricerca dell’antroposofia di Steiner. Il primo è la verticalità come spinta verso l’alto e ricerca della luce che può incarnarsi nell’archetipo luciferico. Questo archetipo avrebbe accompagnato le rivoluzioni borghesi che volevano portare la luce all’uomo ma nello stesso tempo bruciavano e lo bruciavano nei drammi del ventesimo secolo. Una forza collettivizzante tipica dei movimenti di massa.
Il secondo è la forza archetipica del diventare pietra, senza sangue e cuore cioè Ariman, figura dello zoroastrismo. Ariman vuole togliere la vita dal mondo trasformandolo in un mondo di macchine. Egli usa forze specifiche per cancellare la vita sulla Terra, ed in particolare il silicio che non a caso è presente nei circuiti di televisori, pc, et cetera. Rappresenta cioè la volontà dell’assolutamente inorganico.
Queste furono osservazioni fatte anche da Fukuyama a proposito della fine della natura (ma vedi anche il manifesto di Una Bomber, in cui è presente l’invito a lasciar scorrere il sangue nella vita, per salvarsi dalla pietrificazione)».

Domanda del moderatore a Murelli: «Qual’ è il messaggio dell’alpinismo eroico per chi ricerca una via di superamento del nichilismo?»

Murelli: «Sperimentare il proprio limite, giocare la vita e rischiare, stare comunque alle regole del gioco che non ammette il bluff. Soprattutto mettere alla prova il destino, attraverso la solitudine perché in montagna si sale se sei solo, ed in ciò cogli veramente te stesso»

Domanda dal pubblico a Risé:

«Riesce a salire solo chi sente che il volo è connaturato alla salita? Caduta e volo sono connaturati. Per tutto il Novecento vi è stata la tensione verso l’alto. La domanda di Mishima – appartengo al cielo o alla terra? – non significa forse che la realtà dell’uomo è tra due poli?»

Risé: «La capacità di essere creativi, la capacità di proposta agli altri, sta infatti nella possibilità di stare tra due poli, a metà, nel mezzo, in continuo dialogo con entrambi. . E’ necessario integrare la pesantezza, in una costante tensione verso la luce. Simone Weil diceva: ci sono solo due forze: la pesantezza e la luce. Un organismo che realizza molto bene l’integrazione tra verticalità e orizzontalità, luce e pesantezza, è l’albero, che la terra nutre e la luce trae verso di sé. L’uomo può come l’albero trovare un suo centro tra alto ed basso ma deve confrontarsi con una sua peculiarità che è il movimento, l’erranza. Il rischio, per la personalità, è l’unilateralità: rimanere sul piano orizzontale, o diventare prigionieri della vetta e dei suoi miraggi. In questo senso l’esperienza estatica di chi sale, , può anche non essere benefica. A volte non si riesce a tornare. E’ invece necessario tornare, non restare persi nella visione, non smarrirsi nei miraggidella verticalità. Cian Bolpìn ad esempio, da una leggenda alpina della saga dei Figli del Sole (che io racconto ne Il Maschio Selvatico, red ed.), rimase imprigionato nello sguardo di una figura femminile delle vette argentate, che lo chiuse fuori dal tempo e dallo spazio.».

Orazio Coclite
13-04-02, 00:36
http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/D/I/DAUMAL_monte0.gif

Tratto da: René Daumal “Il Monte Analogo. Romanzo d'avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche “ (Le Mont Analogue [1952] ), Edizione Adelphi, Milano, 1991 [1968], gli Adelphi 23



Sotto le parvenze di un romanzo d'avventure, "Il Monte Analogo" ci offre una "metafisica dell'alpinismo" che è anche un itinerario minuzioso, lentamente maturato nelle esperienze dell'autore, verso un "centro", verso una vetta dove ciascuno possa diventare ciò che è.



Pagina 30 [ capire, vita, morte ]

- Tutto questo, ci riempie lo stomaco, ma non di più. Con un po' di soldi, si arriva comodamente a trarre dalla civiltà ambiente le poche soddisfazioni corporee elementari. Il resto è falso. Falsità, trucchi, tic, ecco tutta la nostra vita tra il diaframma e la volta cranica. Il mio Superiore aveva detto bene: io soffro di un bisogno inguaribile di capire. Non voglio morire senza aver capito perchè ho vissuto. E lei, ha mai avuto paura della morte?



Pagina 47

- Riassumo - disse - i dati del problema. In primo luogo, il Monte Analogo deve essere molto più alto delle più alte montagne finora conosciute. La sua vetta deve essere inaccessibile con i mezzi finora conosciuti. Ma, in secondo luogo, la sua base deve essere accessibile per noi, e le sue pendici più basse devono essere già abitate da essere umani simili a noi, giacchè esso è la via che unisce effettivamente il nostro regno umano attuale a regioni superiori. Abitate, dunque abitabili. Che presentano dunque un insieme di condizioni di clima, di flora, di fauna, di influenze cosmiche di ogni genere, non troppo diverse da quelle dei nostri continenti. poichè il monte stesso è estremamente alto, la usa base deve essere abbastanza larga per sostenerlo: deve trattarsi di una superficie grande almeno come quella delle isole più vaste del nostro pianeta - della Nuova Guinea, del Borneo, del Madagascar - forse anche dell'Australia.
Ammesso questo, sorgono tre questioni: come mai questo territorio è sfuggito finora alle investigazioni dei viaggiatori? Come penetrarvi? E dove si trova?




Pagina 76 [ ghiacciai ]

... i ghiacciai sono essere viventi, in quanto la loro materia si rinnova con un processo periodico in una forma quasi permanente. Il ghiacciaio è un essere organizzato: con una testa che è il suo nevaio, con cui bruca la neve e ingoia dei frammenti di roccia, testa ben divisa dal resto del corpo dalla crepaccia terminale; poi un enorme ventre, in cui si compie la trasformazione della neve in ghiaccio, ventre inciso da profondi crepacci e da solchi, canali escretori dell'acqua superflua; e nella sua parte inferiore rigetta, sotto forma di morena, i rifiuti del proprio nutrimento. La sua vita è ritmata dalle stagioni. D'inverno dorme e in primavera si risveglia, con scoppi e scricchiolii.

Orazio Coclite
13-04-02, 00:37
Da: http://www.zuccagialla.com/keltic/nuova_pagina_8.htm



AVVENTURE E MISTERI NELLE MONTAGNE INCANTATE

Di Edoardo Longo


Il continuo accelerarsi della secolarizzazione contemporanea ed il consolidarsi di uno stile di vita materialistico ed “americanizzato” hanno ormai quasi espunto il senso del sacro della dimensione quotidiana della vita. Ma a dispetto di tutto ciò, la radicata/radicale esigenza di dare un senso alla vita che non sia improntato ai valori di una civiltà meccanizzata anche nello spirito e votata ad uno splengleriano declino, riaffiora nonostante e contro tutto anche oggi, soprattutto laddove il clangore delle tolkeniane fumiganti fucine di Mordor si affievolisce. Fuori dalla caoticità metropolitana, esistono ancora spazi di libertà: la solitudine può essere ricca di significati e foriera di liberazione interiore e maturazione spirituale. “L’uomo teme tutte le solitudini con timore strano e profondo, del quale non sa rendersi conto, ma spesso ritrova anche in esse un non so che di inesprimibile che lo affascina e che talvolta, misteriosamente, lo esalta. Vi è una solitudine in cui la natura si esprime con suggestioni più chiare e possenti che in ogni altro luogo: la solitudine delle vette. Essa è essenzialmente la Grande Solitudine”. Queste parole, che racchiudono in se molte delle ansie della nostra età del nichilismo compiuto, furono scritte ancora del 1930 da Domenico Rudatis, sulle pagine de LA TORRE, “Foglio di espressioni varie e di tradizione una” di Julius Evola. “LIBERAZIONE” è la prosecuzione ideale e la compiuta esposizione di quanto intuito da Rudatis ormai oltre cinquant’anni fa, ai tempi della sua collaborazione con Evola. Nel testo esoterico Liberazione, Ed. Nuovi Sentieri, Belluno, 1985, l’unico testo di Rudatis assieme ai saggi contenuti nell’antologia “Il Regno Perduto”, Ed. Il Cavallo Alato, Padova, 1990, tuttora edito, vengono affrontati i temi della evoliana metafisica della montagna, secondo il profilo interpretativo del grande alpinista di Alleghe, lungo quella linea di riflessioni sospese nella nostalgia della “dimensione perduta” del vivere umano, immersa fra il senso del rischio, del sacro, della sfida, del destino. In questa ottica l’alpinismo non si riduce a mera espressione sportiva, dilatandosi invece ai confini dell’esperienza umana più totale e coinvolgente, infatti, Rudatis, precursore negli anni trenta dell’alpinismo più spericolato ed estremo, venne nominato “il profeta del sesto grado”, prestigioso esponente del Club Alpino Accademico, fu anche pregevole scrittore ed un conoscitore profondo delle più segrete dottrine esoteriche e, in senso più lato, dell’intero mondo dei valori della tradizione. L’alpinismo per Rudatis, come per Evola, non è mera esperienza sportiva: “Bisogna saper ricavare dall’arrampicamento, ben più del record sportivo, bisogna tendere a compirlo come uno sforzo, come interiore violentamento dei propri limiti, come mediazione di un atto di potenza, per trascenderlo, per purgare l’azione dalla brama, dall’emozione, dalla passione e risuscitarla come arbitrio, come libertà e come gioco”. Rudatis non si è mai arrampicato solo per passione sportiva, né scrive solo per raccontar le sue imprese. L’incontro con la montagna (realtà e simbolo assieme), è l’occasione per un incontro con qualcosa di più, qualcosa che trasforma una semplice ascesa in una vera e propria Ascesi: “Vi è una solitudine in cui la natura si esprime, con suggestioni più chiare e possenti che in ogni altra solitudine. La solitudine delle vette assurge a forme di rito, di compimento, di simbolo. Chi riuscirà ad essere possentemente solo nella Grande Solitudine, si sentir° Uno, e più si sentirà Uno, più si riconoscerà Tutto “ (D.Rudatis, da La Torre, pagg. 14377, Ed. Il Falco, Milano, 1977). L’alpinismo quindi, per dirla con Rudatis, ha una chiave di lettura esoterica: diviene quasi Alpinismo Metafisico, sulla falsariga di quanto scritto da Evola (Meditazioni delle Vette) da Daumal (Il Monte Analogo) e da autorevoli Indianisti, quali Michel Hulin (sulla caduta in montagna, in Risguardo IV°, Ed. Ar, Padova, 1985). Del resto secondo un antico detto orientale, la montagna non è forse il luogo dove si celebrano le nozze tra il cielo e la terra? Non è quindi un caso che Rudatis abbia collaborato con Evola a quello straordinario esperimento di cultura anticonformista e tradizione, che fu LA TORRE. Lo stile avvincente, i racconti di esperienze alpinistiche fuori dall’ordinario (“Tre anime vere, una breve separazione ed una valida conquista”; “Il bivacco incantato”; “La traversata del labirinto”; “Gli spazzacamini dell’infinito”), le numerose fotografie e le esoteriche illustrazioni di Nicholas Roeriche e di Dario Wolff ne fanno un piacevole romanzo, una saga affascinante e misteriosa. Non si tratta però di esperienze personali, scelte per la loro clamorosità, quanto di ricordi di imprese alpinistiche, ricche soprattutto di potenzialità e valenze simboliche e furono in grado di avviare l’Autore, vivendole attraverso un’ottica simbolico-tradizionale, sulla via della propria liberazione. L’influsso che Rudatis ha esercitato nel mondo della cultura legato all’alpinismo fu notevole, come riconosce Pietro Spirito, intervistando l’Autore sulle pagine di Alp (n. 1, maggio 1985), in occasione dell’edizione di questo volume: “(…), tanto che gli articoli di Rudatis scossero profondamente gli ambienti alpinisti nostrani sollevando un vespaio di proteste e consensi. La sua straordinaria concezione di vita, un misto di dottrina taoista e filosofia nietscheana, fu la spinta ideologica per molti alpinisti italiani”. La seconda parte del volume assurge a temi e toni più metafisici ed elaborati che, dopo aver conquistato l’anima romantica del lettore con i racconti di avventure al limite dell’umano, Rodatis ne conquista anche lo spirito, illustrando con la penna sicura di chi ha vissuto queste realtà in prima persona, i numerosi riferimenti tradizionali al simbolismo dell’ascesa alla montagna nelle dottrine Tao, Zen, Yoga; nelle tradizioni religiose del Buddismo tibetano e nel Cristianesimo medioevale. Si leggano in proposito i capitoli “La ricerca della liberazione”, “Dai misteri del Tao e del Nirvana alla liberazione”, “Come la montagna e lo yoga convergono nella grande liberazione”. L’avventura per Rudatis è la testimonianza di una lunga ricerca alla conquista della Liberazione dai lacci della modernità mercantile, cioè alla ricerca di una metafisica “soglia”, attraverso le pareti di roccia del proprio Io, per ri/scoprire il senso più vasto dell’essere, al fine di fondere con esso la propria individualità, raggiungendo interiormente “il centro della ruota”: il punto che, immobile, governa il movimento della vita. Allora per Rudatis, “La liberazione è il fiore dell’avventura”: le rocce, i boschi, i ghiacci, le vette, divengono lettere di un alfabeto fantastico attraverso le quali è possibile leggere le recondite armonie fuori del tempo. La Via della Grande Liberazione, della Grande Opera, è sempre la stessa e già diceva il grande Al Guazzali: “Fa che il tuo sogno sia confidente con l’eternità, abitua i tuoi occhi all’abisso dello spazio, a tutto il temibile ignoto al di là del solito limitato coraggio dell’uomo”. Chiave della diuturna ricerca dell’Autore, è la scoperta delle possibilità concesse al moderno uomo, tramite l’alpinismo, di riscoprire il senso più profondo del proprio destino. Per il Profeta del Sesto Grado, la spericolatezza dell’Avventura non è fine a se stessa: attraverso il rischio, la sfida, la costruzione del proprio destino, la riscoperta di un “eretico” senso del sacro, è possibile forzare se stessi e giungere a conoscere misteri ed armonie profonde, ritmi segreti, creati prima del tempo, fino a varcare la soglia di una effettiva Liberazione dalla catena del divenire, per giungere, finalmente, ad Essere. Alla fine questa profonda verità corrisponde a quella ricordata da un’antichissima e misteriosa iscrizione numerica: “Il vero figlio dell’abisso è il vero figlio di Dio”. È un’espressione che piacerebbe a Ernst juenger: in essa è racchiuso il destino dell’uomo moderno.

Orazio Coclite
14-04-02, 17:21
Da: http://www.treadstone.ie/bytelibera/byte_sito/s_cultura_bl/01_97_cultura_s/02_ago_bl/004_cultura.html



Nicolai Roerich (1874-1947) e la sua "arte del silenzio montano"

Nel complesso e discutibile panorama editoriale che costeggia l'ambiente neo-spiritualista più prossimo al filone New Age, talvolta può essere possibile incontrare libri e testimonianze di non poco valore. In questo caso si tratta della recentissima pubblicazione del primo volume del libro del pittore, archeologo e poeta russo Nicolai Kostadinovitch Roerich (1874-1947), intitolato "Shambhala la risplendente" (ed. Amrita, To.). Di Roerich, fece menzione, uno fra i primi in Italia, Julius Evola in un breve articolo del 1931, pubblicato sulla "Rivista mensile del C.A.I." ed intitolato "Un'arte delle altezze: N. R.". In effetti, come felicemente ravvisato da Evola, nel caso di Roerich si può parlare di una "arte del silenzio montano", essendo stai i monti del Tibet e dell'India il suo soggetto principale, in particolare l'Himalaya. Nei quadri del pittore russo traspare la prodigiosa ebbrezza dell'ascesa montana, una purezza cristallina che rimanda al senso di liberazione che scaturisce dall'altitudiane, tanto da doversi riconoscere nelle montagne dipinte da Roerich un vero e proprio paesaggio interiore. Ma quel che interessa ora è il libro da cui abbiamo preso le mosse. Si tratta di una

raccolta di brevi articoli ed appunti di viaggio scritti con uno stile semplice, colloquiale diremmo, intorno alla seconda metà degli anni '20. Roerich esordisce riportando un prezioso dialogo avuto con un anonimo Lama tibetano circa il significato della risplendente "Shambhala", il cui mistero non deve essere rivelato. Una testimonianza talmente significativa, dalla quale emerge il cuore della sapienza buddhista nei suoi punti d'incontro con le analoghe dottrine occidentali, da meritare la dovuta attenzione. Il filo conduttore del dialogo è il rapporto occulto tra il regno celeste di Shambhala e la sua corrispondente manifestazione terrestre, ai più non visibile e appannaggio del Reggente del Mondo. In questa direzione non può non apparire evidente il richiamo alla nozione di un luminoso centro polare da cui si irradia la spiritualità primordiale che è andata via via occultandosi coll'avanzare delle tenebre dell'età oscura (Kali-Yuga), ma che, come brace che cova, non ha perso la sua valenza simbolica e la sua azione direttrice effettuale. Così, il Lama tibetano, abbandonando l'iniziale reticenza di fronte alla purezza di spirito del suo interlocutore, può descrivere la Shambhala come il sacro luogo al quale non è dato accedere se non a pochi e attraverso caverne con lunghi passaggi inesplorati, nel quale "di notte o all'alba, prima che si alzi il sole, il Reggente del Mondo arriva al Tempio, entra, e tutte le lampade si accendono da sole, contemporaneamente". In questo luogo, cui è ricondotto anche lo statuto della Green-Land boreale, " i Lama si riuniscono in profonda venerazione, ascoltano con la massima attenzione le profezie del futuro: una grande epoca si avvicina. Il Reggente del Mondo è pronto a combattere" per l'incedere di una Nuova Età. Tale riferimento è relativo al volgersi di un ciclo, al declino dell'età oscura che prelude ad una nuova età aurea: il Satya-Yuga, in cui il supremo centro nascosto, l'inviolabile e inaccessibile "Agarrtha", secondo Guénon, riacquisterà la sua manifestatività. Non a caso il prezioso libro in cui Guénon sviluppa le sue vedute, sempre sub specie traditionis, circa quanto accennato, si intitola "Il Re del Mondo" e rappresenta un compiuto tentativo di rintracciare dietro miti e leggende, sovente narrate in modo confuso e fantastico, il corpo di una Tradizione Primordiale Iperborea legata ad un polo spirituale originario, l'omphalos del mondo ( la Tule iperborea o terra di Avalon, il monte Olimpo e il santuario di Delfi ellenici, il monte Meru in Tibet etc. ) la cui essenza è sapientemente custodita e la cui funzione ordinatrice sarà ristabilita da Maitreya, secondo la tradizione buddhista, quel Kalki-Avatara nativo di Shambhala: "Di fuoco è colmo lo spazio. Già il lampo dell'Avatar Kalki, il Maitreya predestinato, illumina l'orizzonte". Ciò avverrà in seguito a sconvolgimenti e battaglie, nella cui predizione, così come nel suo libro Roerich conferma inconsapevolmente, è confermato l'orientamento autenticamente guerriero che fa da sfondo al buddhismo che, in questo senso, si qualifica più come disciplina iniziatica propria della casta combattente ( gli Kshatrya ) che come religione ut sic, e cioè a dire nel suo aspetto egualitario e devozionale. Le stesse nozioni sono peraltro reperibili nella stessa sapienza iranico-zoroastriana, come nelle leggende del ciclo di Re Arthur e della ricerca del Graal. Tornando al Roerich, va detto ancora che alla descrizione di Shambhala fa seguito una splendida descrizione delle catene montuose dell'Himalaya, di quello "oceano cosmico delle nuvole sottostanti" che i suoi quadri rappresentano. A ciò si aggiunge la coraggiosa denuncia dello stato di decadenza in cui versava - già negli anni venti... in particolar modo dopo la scomparsa del Tashi Lama, il solo depositario della scienza magico-teurgica - la tradizione buddhista tibetana, il più delle volte ridotta ad oggetto di speculazioni commerciali ai danni di superficiali cultori dell'esotico, ovvero involutasi in forme sub-spirituali di stregoneria e di contraffazione del sacro. Preziose sono anche le descrizioni delle suggestive opere d'arte tibetane, della loro valenza geomantica (e, anche qui, della trascuratezza e dell'abbandono in cui versano i Templi della tradizione delle origini ) e degli spaccati di vita dei luoghi così ben noti al viaggiatore russo. Significativa è anche la corretta interpretazione dello Swastica quale simbolo cosmico e igneo-solare allo stesso tempo. Alcune precisazioni, per concludere, vanno comunque fatte circa alcuni aspetti sostanzialmente problematici relativi a Roerich. L'artista russo nella sua pur indiscutibile comprensione dell'essenza della spiritualità orientale, si lascia talvolta andare in divagazioni utopistiche da cui traspare un umanitarismo ambiguo ed un pacifismo femineo facilmente equivocabile. Che ciò sia perfettamente congeniale alla New Age - rispetto alla cui dimensione spirituale rimandiamo ad un nostro contributo già apparso su "L'Umanità" e ripubblicato su "I Quaderni del Veliero", n. 0, pp.47-51, "La Nuova Era e la crisi del Cristianesimo" - vale appena la pena dirlo: prova ne è la prefazione dell'edizione americana di "Shambhala" in cui il direttore del Nicholas Roerich Museum di New York farnetica intorno a nuove sintesi, Grandi Madri dell'universo... Resta comunque il fatto che in Roerich, nei suoi scritti come nei suoi dipinti, si riscontra - come controparte rispetto agli sfaldamenti parossistici dianzi considerati - un eroico culto della bellezza, della "semplicità e dell'audacia" non disgiunta da una visione aristocratica della dimensione della trascendenza; E' d'altronde implicita in più luoghi del libro di Roerich quella massima orientale secondo la quale "Quando il discepolo è pronto anche il maestro è pronto" e stante ad indicare la durezza e la pericolosità di una autentica via di realizzazione interiore, una via che tutto ha in comune con l'ascesa e le meditazioni delle alte vette.

Alessandro Giuli
L'Umanità - Il Quotidiano Indipendente

Orazio Coclite
14-04-02, 17:23
Nicholas Roerich Museum

http://www.roerich.org/

Orazio Coclite
14-04-02, 20:40
“Nicholas Roerich “ una delle colonne della cultura russa” (Mikail Gorbaciov, ex Presidente dell’Unione Sovietica). “La visione di Roerich “ un inno panteistico all’unione dell’uomo e della natura” (New York Times). Questa è“ la cronaca delle spedizioni himalayane di Nicholas Roerich, che in più di cinquanta monasteri raccolse un’eredità spirituale da trasmettere all’Occidente; la sua spedizione, impensabile per i primi anni del Novecento, valicò trentacinque passi montani, studiò le antiche migrazioni e le culture spirituali ancora intatte, l’arte e la ricchezza di un popolo del quale resta una delle ultime testimonianze prima dell’invasione cinese.



http://www.amrita-edizioni.com/images/00080.jpg

Tratto da: Nicholas Roerich 'Il cuore dell’Asia' (Edizioni Armita)

Capitolo 1
Il cuore dell’Asia batte o è soffocato dalla sabbia?

Dal Brahmaputra all’Irtysh, dal Fiume Giallo al Mar Caspio, da Mukden all’Arabia, è tutto un impietoso, terribile susseguirsi di onde di sabbia. Il crudele Taklamakan è una minacciosa apoteosi di morte, che indebolisce la parte centrale dell’Asia. L’antica strada imperiale cinese è nascosta dalle dune mobili; i tronchi di quella che una volta fu una possente foresta alzano al cielo le loro braccia rinsecchite da colline sabbiose; come scheletri deformi, i muri di antiche città divorati dal tempo si allungano a lato della strada.

Forse proprio qui vicino passarono i grandi viaggiatori, le nazioni migratrici: qui e là l’occhio cattura isolati kereksur, menhir, cromlech, e pietre allineate, silenti guardiani di culti antichi.

Senza alcun dubbio le terre estreme dell’Asia combattono una gigantesca battaglia con le maree degli oceani, ma è vivo, il cuore dell’Asia? Quando gli yogi indù fermano le loro pulsazioni, il loro cuore continua a svolgere le sue funzioni interne. E così è per il cuore dell’Asia: nelle oasi, nelle yurte, nelle carovane, ancora vive un pensiero caratteristico; queste masse che vivono in assoluto isolamento rispetto al mondo esterno e ricevono pochi e distorti messaggi degli eventi che in esso si svolgono, e dopo molti mesi, non sono morte: come vedremo, esse accolgono ogni segno di civiltà come un messaggio positivo, da molto tempo atteso; invece di respingere le possibilità, questa gente cerca di adattare la sua religione alle nuove condizioni di vita, come vediamo chiaramente ascoltando le opinioni delle genti dei deserti più remoti sui capi del mondo civile e sulle ideologie umanitarie.

Il nome di Ford, ad esempio, è penetrato fin nelle più remote yurte e province; tra le sabbie del Taklamakan, un musulmano dalla lunga barba mi chiede:

«Dimmi, una Ford supererebbe la vecchia strada cinese?»

E vicino a Kashgar mi chiedono:

«Un trattore Ford può arare i nostri campi?»

Nella cinese Urumchi, fra le steppe dei Calmucchi, in Mongo-lia, la parola “Ford” è sinonimo di forza meccanica. Un Antico Credente delle selvagge montagne dell’Altai, un uomo con la barba grigia, e anche un giovane della cooperativa dicono con invidia:

«Voi, in America, avete Ford. Noi no»; oppure:

«Se soltanto Ford fosse qui».

Anche sulle alte terre tibetane, la gente sogna di trasportare i pezzi di una macchina Ford su per i passi di montagna. Mentre attraversano fiumi possenti, chiedono:

«Ma la vostra Ford, ce la farebbe?», e scalando ripidi pendii, ancora:

«E una Ford, si arrampicherebbe fin quassù?», come se parlassero di un mitico gigante che può superare tutti gli ostacoli.

Ma un altro nome americano è penetrato fin nelle terre più remote: in un lontanissimo punto dell’Altai, nella capanna di un contadino, nell’angolo più venerato della casa, dove venivano tenute le immagini sacre, potreste riconoscere un volto familiare, un ritratto ingiallito dal tempo, presumibilmente ritagliato da una rivista. A ben guardarlo, scoprireste che si tratta proprio del presidente Hoover.

L’Antico Credente dice:

«È lui che dà da mangiare al popolo; sì, esistono persone rare, notevoli, che non soltanto nutrono la loro nazione, ma anche altre genti. Sebbene la bocca del popolo non sia piccola».

Il vecchio non ha mai ricevuto una razione di sussistenza americana, ma la leggenda vivente ha attraversato i fiumi e le montagne proclamando la generosità del gigante di buon cuore, che distribuisce cibo e nutre le nazioni del mondo.

Non ci si sarebbe mai aspettato che notizie del mondo esterno potessero penetrare oltre i confini della Mongolia, ma in una yurta derelitta, un mongolo vi racconterà di un grand’uomo che vive da qualche parte, al di là dell’oceano, e nutre quelli che muoiono di fame. Pronuncerà il suo nome in un modo un po’ strano, che vagamente ricorderà Hoover o Koovera, la divinità buddhista dell’abbondanza e della buona fortuna. Nei posti più inattesi, il viaggiatore che conosce la lingua locale può imbattersi in affascinanti leggende sui grandi che lavorano per il bene comune.

Attraverso le Istituzioni Rockefeller, anche il nome di Ro-ckefeller ha raggiunto città lontanissime. Fiere e soddisfatte, le persone parlano della loro collaborazione con queste istituzioni e di come, a loro volta, ne sono state aiutate. La generosità di questa mano americana ha creato un senso diretto e vasto di gratitudine e amicizia.

Il quarto nome che emerge culturalmente fino ad essere conosciuto nella vastità dell’Asia, è quello del senatore Borah*; una sua lettera è considerata ovunque un buon passaporto. Talvolta in Mongolia, o nell’Altai, o nel Turkestan cinese, può accadervi di sentire il suo nome storpiato: «Boria è un uomo potente!»

Così, la saggezza popolare tiene in gran conto i leader dei nostri tempi. E questo per noi ha un grande valore, è prezioso sapere che l’evoluzione umana, in modi inspiegabili, compenetra il futuro.

La bandiera americana ci accompagnava ovunque, legata ad una lancia mongola; ci ha accompagnato nel Sinkiang, nel Gobi mongolo, nello Tsaidam, e in Tibet. È stata il nostro stendardo durante l’incontro con i selvaggi Panagi; ha accolto principi, governatori tibetani e i loro generali; ha incontrato molti amici, e ben pochi nemici, e anche quei pochi erano di un tipo speciale: ad esempio, il governatore della fortezza settentrionale del Tibet, Nagchu, convinto che ci fossero al mondo soltanto sette nazioni; e Ma, il Tao-tai del Khotan, un ignorante totale, famoso solo per i suoi assassinii.

Gli amici, invece, sono stati molti: se soltanto l’Occidente potesse vedere con quale grande interesse sono state esaminate le fotografie dei grattacieli di New York, con quanta avidità la gente ci ha ascoltato raccontare dell’America, gli Occidentali sarebbero felici nel constatare che queste masse di persone semplici sono attratte dalle realizzazioni culturali.

Orazio Coclite
14-04-02, 20:50
Sempre dello stesso autore, e sempre su Amrita Edizioni (http://www.amrita-edizioni.com), sono disponibili anche i seguenti volumi:


http://www.amrita-edizioni.com/images/00065.jpg

Nicholas Roerich 'Shambhala, la risplendente - vol. I'


http://www.amrita-edizioni.com/images/00072.jpg

Nicholas Roerich 'Shambhala, la risplendente - vol. II'


“Lama, parlami di Shambhala!” “Ma voi Occidentali non sapete nulla di Shambhala, e non desiderate conoscere nulla sull’argomento. Le vostre domande altro non sono, probabilmente, che curiosità; e pronunciate questo nome sacro senza alcun rispetto...” Così inizia, con grande reticenza, il lungo dialogo fra Roerich e un lama tibetano che chiederà di restare anonimo, ma che ben presto, scoprendo il profondo rispetto del suo interlocutore, dirà su Shambhala più di quanto sia mai stato detto. Siamo nel 1928, e l’archeologo russo (ma anche pittore celeberrimo e letterato) si sposta ormai da anni con una spedizione nei paesi himalayani. Della spedizione fa parte anche il figlio, che parla correntemente il tibetano. Oltre a questo ormai famosissimo dialogo su Shambhala, e all’altrettanto famoso capitolo sui Popoli che vivono nell’interno della Terra, i due volumi contengono una singolare raccolta di leggende e tradizioni indo-tibetane, nonché una spietata descrizione del Tibet ormai giunto alla sua decadenza nei primi anni del secolo, ove tuttavia ancora sussiste, lontana dai palazzi del potere, la più pura spiritualità.

Orazio Coclite
14-04-02, 21:33
E sempre riguardo agli artisti che hanno saputo trasporre in immagini quella Sophia Perennis che emanano le vette e la vita montana, in questo breve compendio non potevo certo mancare di citare il nostrano Giovanni Segantini. Di cui rimando ai seguenti siti:

http://www.segantini.it

http://www.segantini-museum.ch/

Orazio Coclite
16-04-02, 10:03
Da: http://www.studifilosofici.it/Leonardo_da_Vinci.htm

Eugenio Pesci

Paura e desiderio. Leonardo da Vinci, le montagne e la memoria minerale del mondo

http://www.studifilosofici.it/verginerocce.jpg
Leonardo da Vinci 'La Vergine delle Rocce, 1483' (Parigi, Museo del Louvre)

L’interesse di Leonardo da Vinci per le montagne e per il paesaggio alpino è evidente e ben noto agli storici dell’arte.

La corrispondenza estetica fra le montagne, luogo espressivo delle grandi forze naturali, e l’animo umano, teso alla conoscenza dell’ignoto, è percepibile in varie celebri tele leonardesche, al punto che questa comunicazione fra microcosmo umano e macrocosmo della natura aveva colpito anche uno spirito attento come quello di Baudelaire:

Leonardo da Vinci, specchio profondo e cupo,

Dove angeli incantevoli con un dolce sorriso

Carico di mistero, appaiono all’ombra

Di ghiacciai e di pini che chiudono il paesaggio.[1]

Tuttavia nel cinquecento non mancano numerosi esempi pittorici di interesse specifico per le montagne, come nel caso dei pittori di Ratisbona, ad esempio Lucas Cranach il Vecchio nel suo periodo viennese, o Albrecht Altdorfer: in tele come la sua Battaglia di Alessandro, emerge in modo esplicito l’influsso culturale e tecnico di Dürer e della mistica tedesca, la cui ascendenza filosofica è fondamentalmente platonica e neoplatonica. L’universo è specchio totale e tutto ciò che si trova in esso è parte viva di quell’anima del mondo già teorizzata da Platone nelle pagine cruciali del Timeo. [2]

Così il pittore non guarda più agli elementi naturali secondo una logica di pura oggettività inerte, ma osserva la realtà cercando di trascenderla alla ricerca delle sue origini e della connotazione delle forze che la animano. Le montagne, le rocce, le caverne, sono ora il simbolo perfetto di quell’energia vitale che fluisce nell’universo, determinando le condizioni della vita e scatenando l’immane e spesso arcana dialettica degli elementi, che nei mari, nelle montagne e nei cieli, come nell’animo umano, provocano inspiegabili, irrazionali disordini. [3]

Anche nei pittori fiamminghi, come Pieter Bruegel il Vecchio, che nel 1551 si reca in Italia attraversando le Alpi, troviamo i segni di una nuova sensibilità per il paesaggio alpino: nei suoi disegni sono presenti temi curiosi, ma non anacronistici, come la “nascita delle Alpi”, non dissimili da quelli raffigurati da alcuni suoi contemporanei come Joos de Momper, che Van Dyck soprannominò addirittura Pictor montium. [4]

Ma accanto ad una sensibilità pittorica che comincia a mutare, troviamo anche testimonianza della medesima ricerca interiore di una potenza generale che governi in modo diretto le azioni della natura, anche in altri personaggi della cultura del tempo, come accade nel caso dello svizzero Benedikt Marti che, nel 1557, scrive:

Se vuoi vedere delle cose antiche, vi troverai monumenti delle antichità più remote, precipizi, rocce, pareti che strapiombano, voragini profonde, abissi prodigiosi, caverne ben nascoste… Questo è proprio il regno del Signore pieno di ogni specie di monumenti antichi e delle meraviglie della sua mirabile Saggezza e della sua Potenza creatrice. [5]

In questo caso siamo però in un contesto di assoluta ortodossia cristiana, entro cui la potenza universale coincide ancora completamente con la potentia Dei absoluta di medioevale memoria: qui l’elemento più interessante, che testimonia la circolazione di questi temi entro la cultura europea del cinquecento, è di sicuro quello della esplicita istituzione di un legame fra la realtà poco conosciuta delle montagne, la nascente definizione del loro paesaggio e il fattore temporale. Anche per Marti, come già per Leonardo, nelle montagne è racchiuso il segreto dell’antichità del mondo, ed in esse si realizza, in modo oscuro ed immane, una parte essenziale del grande ciclo cosmico che lega insieme roccia, acqua, cielo e ventre della terra.

La cultura popolare appare ancora del tutto lontana da queste raffinate considerazioni frutto della penna di scrittori colti: è del 1606 la deposizione davanti al giudice da parte di Magdelaine des Aymards, tredicenne francese rimasta vittima di una sorta di sabba infernale a sfondo sessuale. La giovinetta confessa agli inquirenti di essere stata visitata più volte dal diavolo, che la conobbe carnalmente e che, in seguito, trasmutatosi ora in gatto ora in cane nero, finì per consegnarle una scopa magica e le ordinò di porsi sotto il camino della sua casa. Da qui “avendo dietro la schiena il detto manico di scopa e tenendolo con le mani, subito fu sollevata… e trasportata per l’aria su una montagna molto lontana. … sulla montagna trovò un gran numero di persone, uomini e donne, di ogni specie e condizione: una folla grande come la moltitudine che si riunisce nelle chiese cattoliche per ascoltare le prediche…. C’erano uomini e donne di tutte le specie, alcuni nudi ed altri abbigliati e vestiti”. [6] Questa curiosa riunione si trasforma presto in un’orgia animata da danze, adorazioni del diavolo ivi apparso e accoppiamenti sfrenati.

Emerge dunque una montagna intesa ancora come luogo completamente appartenente alla dimensione dell’irrazionale, del magico e del simbolismo di marca comunque religiosa. Prima che quest’immagine della montagna scompaia dall’immaginazione popolare dovranno passare quasi altri trecento anni.

Del tutto distante, per propria natura, dalle convinzioni dei più, Leonardo da Vinci non mostra solo un interesse teorico per le montagne, ma le va ad esplorare di persona, facendosi a suo modo alpinista, forse memore delle esperienze del suo predecessore Petrarca. In un brano famoso egli descrive la sua principale ascensione, compiuta, si ritiene oggi, nella zona del Monte Rosa, talora anticamente chiamato Momboso:

Dico, l’azzurro in che si mostra l’aria, non essere suo proprio colore, ma è causato da umidità calda, vaporata in minutissimi e insensibili atomi, la quale piglia dopo sé la percussion de’raggi solari e fassi luminosa sotto la oscurità delle immense tenebre della regione del fuoco, che di sopra le fa coperchio. E questo vedrà come vid’io, chi andrà sopra Momboso, giogo dell’Alpi che dividono la Francia dalla Italia, la qual montagna ha la sua base che partorisce li quattro fiumi, che rigan per quattro aspetti contrari tutta l’Europa: e nessuna montagna ha la sua base in simile altezza. Questa si leva in tanta altura, che quasi passa tutti li nuvoli, e rare volte vi cade neve, ma sol grandine di state, quando li nuvoli sono nella maggiore altezza; e questa grandine vi si conserva in modo, che, se non fosse la rarità del cadervi e del montarvi nuvoli, che non accade due volte in una età, egli vi sarebbe altissima quantità di diaccio, innalzato dalli gradi della grandine. Il quale di mezzo Luglio vi trovai grossissimo; e vidi l’aria sopra di me tenebrosa; e’l sole, che percotea la montagna, essere più luminoso quivi assai, che nelle basse pianure, perché minor grossezza d’aria s’interponea in fra la cima d’esso monte e’l sole. [7]

Ma questa non fu certo l’unica esperienza fatta da Leonardo in ambiente alpino, dato che proprio a questo periodo della sua vita risalgono alcuni brevi viaggi compiuti da Milano, ove era tornato per la seconda volta, verso la Brianza e le montagne prealpine.

Del resto già in età giovanile, nell’epoca del soggiorno a Firenze (1452-1482), Leonardo aveva avuto modo di entrare in contatto con gli squarci di natura montana dell’Appennino e ne era rimasto affascinato, cosicchè le rocce, le cime, i boschi, sono già presenti in alcuni dipinti famosi. [8]

La più significativa rappresentazione alpina leonardesca risale comunque al secondo periodo milanese: dobbiamo attendere una tranquilla e soleggiata giornata dei primi anni del sedicesimo secolo, presumibilmente il 1511. Leonardo, che ha ormai cinquantanove anni, e che è ritornato a Milano nel 1506, raffigura un gruppo montuoso dai contorni precisi, in un piccolo disegno a sanguigna, oggi conservato presso la collezione di Windsor. [9]

Recentemente il noto alpinista e studioso milanese di storia dell’alpinismo Angelo Recalcati, esperto bibliofilo, ha dimostrato, con validi argomenti, [10] che le montagne rappresentate sono in questo caso le Grigne, celebre gruppo montuoso ubicato circa cinquanta chilometri a nord di Milano, e sin dalla fine del XIX° secolo rientrante nel novero delle montagne più frequentate delle Alpi.

Per quanto di dimensioni ridotte, e di importanza artistica molto minore rispetto ai grandi capolavori del maestro toscano, questo piccolo disegno rappresenta un momento cruciale per l’evoluzione dell’idea di montagna e per la costituzione di un’estetica del paesaggio alpino.[11]

Se infatti confrontiamo il disegno con altri precedenti quadri celebri, raffiguranti paesaggi alpini, come ad esempio La pesca miracolosa, dipinto eseguito nel 1444 dal pittore tardo-gotico Konrad Witz, notiamo una differenza di impostazione raffigurativa e concettuale estremamente marcata: nel quadro di Witz, sullo sfondo della scena evangelica, ambientata presso il lago di Ginevra, si notano per la prima volta le cime ghiacciate del Monte Bianco, ma, come ben nota Recalcati “in questo pur bellissimo olio le montagne sono solo scenografia lontana che risente ancora delle stilizzazioni gotiche”, [12] mentre nella raffigurazione delle Grigne, come del resto in altre opere precedenti di Leonardo, emergono in modo originale novità cruciali legate alla sensibilità per il soggetto alpino[13].

Nel disegno a sanguigna ritroviamo innanzitutto il soggetto alpino considerato, per la prima volta nella storia artistica occidentale, come realtà a sé stante, e non descritta come studio propedeutico per un soggetto minore da inserire in opere successive e di più ampio respiro. Inoltre il tratto usato è eccezionalmente preciso e secco, frutto di un particolare rapporto fra artista e oggetto raffigurato, basato sulla rappresentazione della realtà visibile costruita in base a specifiche considerazioni scientifiche: niente in questo caso viene concesso all’arbitrio soggettivo, e la mano del pittore diviene artefice di una descrizione “assoluta” di ciò che l’occhio vede. Leonardo rappresenta qui l’elemento alpino considerando i fattori fisici e variabili della luce, della prospettiva, dell’ora del giorno, della densità dell’aria, dell’altitudine, come parti costitutive essenziali della realtà naturale osservata. Ben prima dell’illuminismo settecentesco Leonardo trasporta la montagna in un contesto tecnico e finemente descrittivo, con un’operazione possibile solo a chi, come lui, aveva avuto esperienza diretta di escursionismo alpino nelle zone osservate. [14] Come giustamente sottolinea ancora Angelo Recalcati, questo disegno, insieme ad altri due quasi gemelli, [15] può essere considerato “il primo vero ritratto delle Alpi” e “la ragione per cui le montagne di Leonardo ci appaiono così vere è che egli è il primo pittore che ne ha studiato a fondo la morfologia e la natura geologica, proprio come non sarebbe possibile ritrarre efficacemente e realisticamente un corpo umano non conoscendo l’anatomia”. [16]

Per comprendere appieno l’evoluzione della sensibilità leonardesca per il paesaggio alpino è tuttavia necessario analizzare l’impianto generale del pensiero naturalistico di Leonardo, poiché in esso sono presenti elementi fondamentali di un nuovo modo di penetrare culturalmente i segreti dei fenomeni dell’universo, soprattutto in relazione al tema, ben presente nel rinascimento, della metamorfosi della natura e della terra.

In primo luogo deve essere ricordato che la cultura naturalistica del tardo quattrocento nel Timeo platonico e nella Fisica di Aristotele le sue fonti privilegiate. [17] Ma più che a queste complesse opere filosofiche – che pur conosceva - Leonardo attinse, nella costruzione della propria cultura, a fonti più diversificate, e talora di minor impegno culturale, come lo Speculum naturale di Vincent de Beauvais, o come le fantastiche descrizioni tardomedioevali contenute nel Tractato delle più maravigliose cosse e più notabili che si trovano in le parti del mondo, redatto da Giovanni de Mandevilla (John de Mandeville). [18]

Oltre alla Historia naturale di C. Plinio secondo, tradocta di lingua latina in fiorentina per Cristophoro Landino, (Venezia, Janson 1476, spesso poi ristampata), costituente un impegnativo banco di prova per molti umanisti, Leonardo consultò quasi certamente le Metamorfosi di Ovidio, da cui fra l’altro derivò molti spunti originali inerenti al problema del diluvio universale e sulla successione delle ere geologiche. [19] Allo stesso modo egli dovette conoscere bene la trattazione cosmografica di Tolomeo, opera classica che ebbe edizioni in latino a Bologna nel 1477, a Roma nel 1478 e nel 1490.[20]

Fra le opere più specificamente legate a tematiche protogeologiche o analiticamente naturalistiche vanno ricordate infine il Liber secretorum, de virtutibus herbarum, et lapidum et animalium quorundam, et de mirabilibus mundi, opera enciclopedica che indicava l’opera omnia di Alberto Magno (Venezia, Erhard Ratdolt, ante 4 IV 1486), e soprattutto il cosidetto “libro di Filone de acque”, identificabile probabilmente con gli Pneumatica di Filone di Bisanzio, autore arabo vissuto alla fine del secondo secolo, la cui opera circolava in una traduzione latina manoscritta, presente sotto forma di breve compilazione in varie biblioteche. [21]

L’interesse leonardesco per l’origine dei movimenti naturali e per il vasto tema della metamorfosi del mondo risale già all’età giovanile, come ben mostra la centralità degli elementi arborei in opere celebri come l’Adorazione dei Magi, risalente al 1481, o ad un disegno del 1483 (RL 12395), in cui appare evidente il significato simbolico dell’albero, e soprattutto il suo rapporto concettuale con la funzione delle radici, messe a nudo da Leonardo, a significare il legame con la trasformazione della terra. [22]

Lo stesso motivo della fisiognomica, tanto importante per Leonardo, è sicuramente legato all’interesse per il mutamento dei caratteri: volto degli uomini, volti della natura, misteri del cielo e delle acque, trasformazione della luce, sono i temi che affascinano l’artista Leonardo non meno che il Leonardo scienziato.

Da un punto di vista generalmente teorico-filosofico Leonardo sviluppò una propria forma di pensiero naturalistico che unisce -secondo uno schema peraltro comune a molti all’inizio del cinquecento - elementi neoplatonici, di evidente derivazione ficiniana, con la trasposizione in chiave personale delle teorie aristoteliche concernenti la fisica e l’astronomia. Nel f.203 v.a. del Codice Atlantico Leonardo identifica e divide due tipi di movimenti, dei quali “l’uno è materiale e l’altro spirituale, perché non è compreso dal senso del vedere; ovvero diremo l’uno essere visibile l’altro invisibile”.

Questa distinzione, che affonda le proprie origini nella complessa trasposizione rinascimentale dell’antica convinzione classica che nega al mondo sensibile – già negli atomisti, ma poi per converso ed opposizione anche nel platonismo – la causalità primaria nella formazione della natura, si fonde nell’artista toscano con l’idea aristotelica ed ortodossa della divisione della natura nei quattro elementi materiali, acqua, aria, terra e fuoco, disposti uno sull’altro a seconda della densità che li rende più o meno lievi. [23] Questo aristotelismo si trova però legato ad uno spiritualismo neoplatonico, nel momento in cui cerca di spiegare la ragione ultima dei movimenti dei corpi. Gli elementi tendono “ a stare con sé stessi”, nel senso che le singole parti di ogni elemento, qualora siano allontanate, mirano a ricongiungersi. Tuttavia “nessuno elemento semplice ha gravità o levità nella sua propria sfera, e dunque nessuno elemento ha in sé la gravitas, ossia un peso”. [24]

Come ha notato Augusto Marinoni, [25] la gravità non è più un evento naturale, cioè ordinario, ma è solo accidentale, cioè eccezionale nel senso che, come conclude Leonardo, “gravità è una potenzia creata dal moto, il quale mediante la forza trasporta l’un elemento nell’altro, ed essa gravità ha tanto di vita quanto esso elemento pena a rimpatriarsi”. [26]

Questa concezione ibrida del movimento conduce Leonardo ad inserire nella naturale ed aristotelica immobilità degli elementi la presenza spirituale di una forza. Essa è “una virtù spirituale, una potenza invisibile”, che agisce nei corpi inanimati, rendendoli simili a quelli viventi, “la qual vita è di meravigliosa operazione, costrigniendo e stramutando di vita e di forma tutte le create cose corre con furia a sua disfazzione…”. [27]

Il mondo è dunque animato da una forza spirituale che unisce tre elementi cruciali della visione leonardesca della realtà fisica e, di conseguenza, dell’immagine che Leonardo ha del paesaggio e dell’ambiente alpino. Questi elementi sono quello del perenne moto della natura, quello della misteriosa origine del movimento stesso, e quello della differenziazione dei fenomeni naturali in base alla loro “maravigliosità”; in quest’ultimo caso il criterio differenziativo è quello dell’arcana relazione dei fenomeni osservati con il decorso temporale di una natura che detiene in sé, e nei suoi elementi costitutivi, la memoria della propria ragion d’essere.

Leonardo appare allora affascinato dal gioco degli elementi, costretti, entro l’oscura dinamica dello scontro di forza e peso, di materia ed energia, ad urtarsi gli uni con gli altri, a scardinarsi reciprocamente, nella ricerca di un originario equilibrio. Così l’artista è colpito dai volti della natura, ed in particolare dal filo rosso che unisce le loro continue e percepibili trasformazioni. Egli appare continuamente richiamato dall’estrinsecarsi unitario del procedere della natura lungo l’asse verticale, dal cielo alle vette, dalle acque alle pianure, e dal suo appena intuito – ma colto come misterioso – coincidere con la manifestazione del destino temporale delle cose.

Le mutazioni di stato, le meravigliose forme naturali si giungono dunque al fattore temporale, già presente nella fisica di Aristotele, tanto da portare Leonardo a verificare sperimentalmente la crescita del pianeta terra attraverso un piccolo esperimento condotto in un vaso di terra, ove sono deposti dei semi, che generano vegetali i quali producono altri semi e muoiono cadendo sulla terra da cui nascono. Poiché la terra visibilmente aumenta di volume in breve tempo tramite essi, Leonardo ritiene possibile stabilire con un calcolo la crescita universale della terra. [28]

Nella già citata Adorazione dei Magi è ben visibile, proprio nella rappresentazione del paesaggio, la volontà dell’artista di legare in unico concetto visivo i fattori della temporalità, della trasformazione terrestre e del mondo vegetale, in una dimensione in cui la ruina mundi si incarna nelle vestigia di una civiltà precedente, lontana, che chiama i testimoni del presente dal mistero del passato.

Anche nella sua opera più celebre in relazione ai temi del paesaggio, La Vergine delle Rocce, Leonardo ripropone questa tematica fondamentale della percezione del paesaggio montano come luogo di osservazione privilegiato della metamorfosi geologica e temporale del mondo. Come è stato giustamente osservato:

Mai prima un dipinto di soggetto sacro aveva raffigurato il mondo fisico con altrettanta evidenza. Leonardo ha rappresentato la forza con cui i monti riescono a innalzarsi, vincendo il peso che, in alcuni punti della volta della grotta, sembrerebbe farli ricadere in basso, attraverso l’antro e le crepe, determinatesi in modo analogo in lontane ere geologiche, filtra, dal fondo lontano, la luce. [29]

Il motivo delle rocce, per altro previsto dai committenti, è essenziale all’opera e coniuga perfettamente le necessità simboliche con quelle legate al motivo religioso del mistero della Immacolata Concezione. Ma la particolarissima connotazione geologica delle rocce raffigurate, levigate e lontane dalla maniera fiamminga, è indice di una attenzione per il paesaggio alpino che trascende il dettaglio tecnico, ma che anzi assegna ad esso una posizione centrale entro la poetica leonardesca dello spazio ed entro l’immagine complessiva delle trasformazioni naturali. [30]

La partecipazione del paesaggio alla vita della natura è acuita dalla complessa dialettica di forza, peso e luce: è il primo segno, in Leonardo, del passaggio ad una ricerca delle cause delle cose. Egli inizia qui un viaggio nel cuore delle forme naturali, non tanto con l’intento di rappresentarle, ma soprattutto con quello di giungere a coglierne le leggi intime, i segreti.

Siamo ormai fuori dal contesto dell’armonia platonica che domina buona parte del quattrocento, e l’antica corrispondenza fra microcosmo e grande universo inizia a frantumarsi entro il mistero della natura. La bella solarità statica della città ideale del rinascimento si perde nell’intuizione della arcana realtà delle forze naturali che dominano il ciclo della vita: si tratta qui di una importante forma, più culturale in senso lato che strettamente filosofica, di reinterpretazione del protoempirismo aristotelico, entro cui alle splendide geometrie della logica del Timeo si sostituisce, all’improvviso, il senso drammatico della modestia dell’esperienza umana alla fine del medioevo.

A questo proposito si può notare che l’interesse leonardesco per la luce è solo in parte legato a problemi pittorici, dipendendo particolarmente dal problema della densità dell’aria e quindi in definitiva da quello della percezione fisica: oscurità e luce rappresentano i due poli opposti di una metamorfosi naturale che colpisce continuamente l’occhio. [31]

Ma accanto a questo legame fra luce, aria e forza, troviamo anche la coscienza vitalistica della struttura materiale della terra, che è essenzialmente un grande vivente, la sintesi di ogni nascita e morte:

Nessuna cosa nasce in loco, dove non vi sia vita sensitiva, vegetativa e razionale: nascono le penne sopra gli uccelli, e si mutano ogni anno; nascono li peli sopra li animali e ogni anno si mutano, salvo alcuna parte, come li peli delle barbe de’ lioni e gatti e simili; nascono l’erbe sopra li prati e le foglie sopra li alberi, e ogni anno in gran parte si rinnovano; adunque potremo dire, la terra avere anima vegetativa, e che la sua carne sia la terra, li sua ossi sieno li ordini delle collegazioni de’sassi, di che si compongono le montagne, il suo tenerume sono li tufi, il suo sangue sono le vene delle acque; il lago del sangue, che sta dintorno al core, è il mare oceano, il suo alitare e ‘l crescere e discrescere del sangue per li polsi, e così nella terra è il flusso e riflusso del mare, e ’l caldo dell’anima del mondo è il fuoco, ch’è infuso per la terra, e la residenza dell’anima vegetativa sono li fochi, che per diversi lochi della terra spirano in bagni e in minere di solfi e in vulcani, a Mon Gibello di Sicilia e altri lochi assai. [32]

Questo passo importantissimo dei Pensieri introduce alla dimensione del mondo inteso come immane sistema geologico ed idrologico, in cui roccia e acqua costituiscono gli elementi cardinali che devono essere avvicinati per comprendere i segreti della natura.

Ma l’uomo degli inizi del cinquecento, per quanto epicamente proteso, come nel caso della mente geniale di Leonardo, verso la comprensione della natura, non è ancora pronto ad una percezione serena e distaccata delle forze che la dominano: ciò avverrà solo con l’illuminismo, quando le montagne, gli oceani lontani, i luoghi deserti abitati da popolazioni mai viste, verranno esplorati usando prevalentemente le rassicuranti lenti della scienza razionalistica.

Leonardo parte dal tema dell’accrescimento della terra e giunge all’esplicita dichiarazione di una volontà conoscitiva, espressa ora entro una grandiosa descrizione fantastica. L’esperimento del vaso lo trasporta a quelle montagne dove giace sepolta la memoria minerale del mondo e dove la terra assume al suo massimo grado la propria arcana forma di essere vivente ineffabilmente vetusto:

Or non vedi tu negli alti monti i muri delle antiche e disfatte città essere da l’accrescimento della terra occupate e nascoste? Or non s’è veduto le sassose cime de’ monti, la viva pietra per lungo tempo col suo accrescimento avere inghiottito una appoggiata colonna, e scalzata co’taglienti ferri, e, quella tràttane, avere lasciato nel vivo sasso la sua accanalata forma? [33]

La montagna diventa viva e si trasforma in un fantastico mostro marino che, come di rado è capitato nella cultura occidentale, fissa in un’immagine spaventosa la tesi della crescita della terra. [34]

Città sepolte ed inghiottite dal suolo, fossili marini ritrovati sulle montagne ed ossa che si suppone abbiano appartenuto al mostro marino antidiluviano, sono riunite da Leonardo entro l’immagine finale dell’immenso animale, perduto nell’origine dei secoli, quando ancora nuotava fra le onde:

O quante volte fusti tu veduto in fra l’onde del gonfiato e grande oceano, a guisa di montagna quelle vincere e sopraffare, e col setoluto e nero dosso solcare le marine acque, e con superbo e grave andamento! O quanti popoli corsono ai nostri liti per veder te, quando orribile apparisti infra l’onde del gonfiato e grande oceano! [35]

In un altro testo di ispirazione fantastica (Codice Arundel , f. 155 r.), Leonardo ripropone questo tema e presenta un’immagine analoga, in cui il mostro marino scompare ma riappare trasfigurato in armatura della montagna, in scheletro geologico della terra, ossia come grotta, tenebrosa caverna al cui ingresso l’artista è attirato dalla bramosa voglia di vedere “la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifitiosa natura”. Qui giunto egli rimane stupefatto e perplesso, e

Spesso piegandomi in qua e illà per vedere se dentro vi disciernessi alcuna cosa, e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era, e stato alquanto, subito salse in me 2 cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se la entro fusse alcuna miracolosa cosa.

In questo desiderio di entrare nei segreti della natura, e in questa paura di fronte al mistero delle forze ignote che la governano è contenuta la motivazione profonda che permette a Leonardo di dare, per primo, al paesaggio alpino, ai luoghi elevati, e alla ancora sfuggente realtà delle rocce una dignità culturale nuova, essenziale per l’intero processo secolare di scoperta e umanizzazione della montagna in occidente.

Il tema della caverna giunse probabilmente a Leonardo attraverso i complessi esiti rinascimentali della tradizione ermetica: l’ermetismo divenne molto di moda nel tardo quattrocento, e se ne conoscono varie volgarizzazioni.[36]

In particolare l’immagine dell’antro è legata all’idea secondo cui la natura è animata da ragioni che ne determinano il meraviglioso corso necessario: questa teoria, di origine stoica, venne in parte condivisa e diffusa da Leon Battista Alberti, e si fonda sulla nota identificazione di rationes seminales, intrinseche alla materia in movimento. Queste ragioni ultime delle cose sono soffio vitale, forza, energia: esse sono entità vitali che presiedono alla metamorfosi del mondo, e sono metaforicamente nascoste nel ventre della terra che inseminano, nel buio misterioso della caverna.

Proprio in un volgarizzamento delle Pistole di Seneca leggiamo una descrizione del tema della caverna assai simile a quella di Leonardo:

Della grotta di Napoli, e che non paura, ma una maraviglia spaventosa cade in uomo savio… Quivi non si vede alcun lume, anzi v’è l’oscurità spessa e tenebrosa… Noi sofferimmo…due pene diverse l’una dall’altra in un medesimo cammino…Quella scurità mi diede materia nondimeno di pensare alcuna cosa.

I’ senti’ un movimento d’animo sanza paura per lo spaventamento di quella grotta. [37]

Ma fra i quadri leonardeschi che meglio esprimono l’interesse dell’artista per il paesaggio alpino va sicuramente annoverato anche la Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con l’agnello, (Parigi, Louvre), probabilmente dipinto fra il 1510 e il 1513, [38] opera in cui la struttura piramidale e del tutto equilibrata del gruppo in primo piano si inserisce su uno sfondo paesaggistico di rara bellezza, caratterizzato da una prima cima rocciosa maggiore – forse identificabile con la pala calcarea della Corna di Medale, sopra Lecco – a sua volta posta a capo di uno sfumato e fantastico insieme di dirupi che si ergono da zone lacustri velate da una tenue atmosfera trasognata, che conduce lontano ad intuibili nevai azzurrognoli. Queste montagne, figlie del silenzio, appaiono sospese in una dimensione quasi atemporale, ma tuttavia sono descritte con precisione di tratto e realistico senso delle strutture geologiche. In realtà la natura è qui, come ben osserva Carlo Vecce, [39] abisso assoluto, ove è tutto è ancora da scoprire, da comprendere, forse da temere.

Questo medesimo sentimento di paura e desiderio spinge Leonardo a cercare nel paesaggio alpino un appiglio per indagare la realtà delle rocce: le lunghe analisi che egli dedica ai monti nelle pagine del suo Trattato della pittura, mostrano bene come in essi identifichi definitivamente la chiave di volta del ciclo idrogeologico che genera la vita della terra: nel brano numerato 793. Pittura che mostra la necessaria figurazione delle alpi, monti e colli, le montagne sono generate dai fiumi, a loro volta formati dalla pioggia, dalla neve e dalla grandine e dai ghiacci sciolti dal sole estivo. I ruscelli scendono a valle ingrossandosi e “si convocano al gran mare oceano”, formando le valli stesse, segnandole, ma, non contenti, producono la consumazione delle radici dei monti, e la vendetta di questi ultimi porta alla conversione forzata dei fiumi in laghi. Così, conclude, negli altissimi gioghi dei monti, dove l’acqua è poca e non è profonda, vi è minore consunzione delle vestigia della natura e della civiltà: ed i monti hanno maggiore eternità in quota rispetto alle loro radici, vittime continue della furia delle acque. [40]

L’importanza di queste ultime è esplicitamente sottolineata da Leonardo in numerosi brani dei Pensieri. Il fisicismo qualitativo che lo affascina negli anni della maturità e che emerge da molte tele importanti trova qui il suo riscontro concettuale e letterario. L’artista addirittura propone un paragone fra uomo e mondo, per cui l’uomo, microcosmo, [41] ha in sé, in quanto avente corpo composto dai quattro elementi, la medesima struttura della terra e “se l’omo ha in sé ossa, sostenitori e armadura della carne, il mondo ha i sassi sostenitori della terra”, e “l’acqua, che surge ne’ monti è il sangue, che tien viva essa montagna”. [42]

La perenne metamorfosi dell’elemento minerale, la sua dimensione problematica, la posizione particolare delle montagne e del mare entro la vita e lo spazio della natura conducono Leonardo ad identificare proprio nel mondo delle rocce ed in quello delle acque i paesaggi estremi del mondo. Essi rappresentano le sfere privilegiate d’ indagine empirica, i luoghi ove la natura esprime meglio l’energia convulsa del proprio cuore pulsante e, al contempo, essi racchiudono quella zona d’ordine protetta, più sicura, che è la civiltà.

Così nel Trattato della pittura [43] alla mente del pittore è attribuito il supremo potere mimetico di discorrere delle diverse essenze, ossia di rappresentare ogni cosa, ed in particolare “ruine di monti, luoghi paurosi e spaventevoli, che danno terrore ai loro risguardatori”, luoghi intermedi e soavi, piacevoli e dilettevoli, ma anche, all’altro capo del ciclo spaziale il mare che “con le sue procelle contende e fa zuffa co’venti…levandosi in alto con le superbe onde, e cade, e di quelle ruinando sopra del vento che percuote le sue basse; e loro rinchiudendo e incarcerando sotto di sé, quello straccia e divide, mischiandolo colle sue torbide schiume, con quello sfoga l’arrabbiata sua ira…”[44]

La comune radice dei segreti del cosmo e della civiltà, della natura e dell’uomo pare strutturalmente nascosta proprio nella convergenza delle dimensioni spaziali e temporali di questi paesaggi estremi: non a caso in un’opera pittorica importante, come le due diverse tele della Madonna dei fusi, Leonardo tematizza le figure sacre inserendole in due diversi contesti di paesaggio: le montagne, forse dolomitiche o carniche, nel quadro più importante, oggi a New York, e il mare, forse quello Adriatico, nell’altra tela – la tavola Buccleugh – che si trova a Drumlaring Castle in Scozia. [45]

Nell’acqua, nell’oceano, giacciono le passate e future trasformazioni della terra, le impronte perenni del mutamento, come nel cuore delle montagne, nelle cupe caverne o nel centro cristallino dei ghiacciai. [46]

E’ dunque nei terremoti, nei maremoti e soprattutto nei diluvii che l’uomo ha la possibilità di ricercare la traccia della terra vivente. Nello studio di questi fenomeni grandiosamente catastrofici, lontani, immani, Leonardo intuisce la possibilità di risalire a millenarie realtà perdute e si pone, all’inizio dell’età moderna, fra i primi spiriti umani realmente interessati ai “segni del tempo e alla storia della terra”. Come di recente è stato notato, [47] il maestro toscano formula una “lucida e grandiosa visione del trascorrere delle ere geologiche”, quasi evolutiva, legata proprio ad una interpretazione radicalmente antifissista della formazione del territorio e più in generale del mondo fisico, in cui rientra anche la nota teoria dei quattro fiumi europei che sgorgano dalle Alpi, così che queste ultime appaiono ora come il fulcro delle dinamiche idrogeologiche del continente.

Anche nel paragrafo 795 del Trattato della pittura, inerente la Pittura nel figurare le qualità e membri de’ paesi montuosi, Leonardo insiste nel sottolineare come presso le sommità dei monti il mondo minerale, vegetale ed animale sprofondi nel mistero della radice dei tempi, adombrando così l’idea, cruciale per la storia del paesaggio alpino, secondo cui la montagna è al contempo terreno dell’ignoto e dell’affascinante. Forse già qui, similmente al Petrarca, ma in un contesto culturale ben più complesso, Leonardo lega per primo la dimensione fisica della montagna con quella psicologica della scoperta.

Nel celebre brano Il Diluvio, l’artista, nell’estremo tentativo “di andare oltre i confini della pittura”, [48] sintetizza tutti questi elementi concettuali legati ai cicli naturali nell’immagine rovinosa del primordiale cataclisma entro cui

le montagne, denudandosi scoprino le profonde fessure fatte in quelle (le radici delle piante, n.d.c.) dagli antichi terremoti. [49]

L’interesse leonardesco per l’ambiente alpino raggiunge anche la sfera più puramente immaginativa nelle pagine del brano Al Diodario di Soria. [50] Qui Leonardo immagina di essere stato inviato dal Diodario di Siria, “locotenente del Sacro Soldano di Babilonia”, a studiare il fenomeno della curiosa luminosità notturna tipica del Monte Tauro, identificabile con una cima della catena del Caucaso.

Durante la missione si verificano inondazioni, diluvi e nevicate e, nel movimento degli elementi naturali, rovina del monte e rovina della città assumono un destino naturale comune.

Leonardo vorrebbe presentare al Diodario la descrizione scientifica “con bona forma” della natura del sito e della causa “di si gran effetto”, ma alla fine sottolinea soprattutto che il raggiungimento dell’alta cima è impossibile “per l’aspra e pericolosa sua salita”.

Se da una parte dunque l’uomo trova nelle “ruine di monti, luoghi paurosi e spaventevoli” legati da sempre al mistero della conversione elementare di forza e materia, [51] dall’altra è spinto “ad abbandonare le proprie abitazioni della città, e lasciare parenti ed amici, ed andare in luoghi campestri per monti e valli” dalla naturale bellezza del mondo “la quale, se ben consideri sol col senso del vedere fruisci….” [52]

Ma è nelle riflessioni dei Pensieri, che il tema generale dell’acqua, della memoria minerale del mondo e del diluvio si traduce in una concreta ricerca scientifica, indirizzata all’approfondimento della complessa questione dei fossili. Parlando di uno di questi, Leonardo cuce, entro un’unica considerazione, i precedenti accenni al mostro marino, alla temporalità, e soprattutto al rapporto fra ossa e armatura dei monti:

O tempo, veloce predatore delle cose create, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti, e quante mutazioni di stati e varii casi sono seguìti, dopochè la meravigliosa forma di questo pesce qui morì per le cavernose e ritorte interiora (del monte, n.d.c.),… Ora, disfatto dal tempo, paziente giaci in questo chiuso loco; colle spolpate e ignude ossa hai fatto armadura e sostegno al soprapposto monte. [53]

L’attenzione per i fossili, che chiama nichi, con termine riferito prevalentemente ai fossili marini - Cefalopodi, Lamellibranchi, Brachiopodi, Gasteropodi, alghe, coralli e spugne – va oltre il mero interesse paleontologico, e si inscrive nella critica alla tradizione dogmatica che pone nel Diluvio Universale, nella sacra pagina, e spesso nell’esoterismo, l’origine del mondo e il suo passato.

Leonardo è evidentemente a conoscenza delle teorie più in voga che la tradizione stessa riportava nel rinascimento intorno all’origine dei fossili: essa faceva capo a Plinio ed Aristotele, [54] e quest’ultimo già aveva intuito l’origine marina dei fossili, legata al ricorso di cicli inondativi in cui la terra viene mutata “dal vigore e rilassamento” degli elementi. Avicenna (Ibn-Sina, 980-1037 d.c.), in un’opera sulla conglomerazione delle pietre, ritiene che le montagne si formino per due cause: o per il sollevamento del suolo, come avviene nei terremoti, oppure attraverso l’effetto dell’acqua corrente e del vento che scavano i terreni molli lasciando le rocce dure sporgenti come montagne in modo che:

Quel che prova che l’acqua è stato il principale agente nel produrre queste trasformazioni della superficie è la presenza in molte rocce di impronte di animali acquatici e… forse originariamente questi materiali erano nel mare che copriva tutta la terra.

Le cosidette Glossopetre, o denti fossili di squalo (Lamma, Carcharodon, Odontapsis elegans), sembravano confermare questa acuta intuizione, che fu tuttavia snaturata nella trasformazione medioevale di Ristoro d’Arezzo, il quale pone come origine dei fossili, nella più totale ortodossia pedagogica cristiana, il Diluvio Universale. [55]

Leonardo si trovava quindi di fronte a due distinte ed opposte correnti interpretative, l’una legata all’ortodossia scolastica e alla tesi del diluvio, l’altra, di origine alchemica e avicenniana, orientata a ritrovare nei fossili soprattutto delle capacità plastiche utili a fini terapeutici. [56]

L’interesse di Leonardo per i fossili risale al periodo 1482-1506 e la sua opinione sulla loro origine si definisce subito in aperta opposizione alle spiegazioni ortodosse precedenti. Egli rifiutava l’idea secondo cui i nichi, che conosceva bene fin da giovane, e che abbondavano nella zona toscana (Mare Pliocenico Toscano), erano giochi della natura, dovuti ad una “forza creativa latente nella Terra, la vis plastica, che provocava la loro nascita e la loro crescita spontanea nella roccia, senza però la possibilità di una vita organica”. [57] Allo stesso modo non condivideva le altre principali teorie sull’origine dei fossili, fra cui ricordiamo quella che li voleva nati da forze occulte e sperimentalmente non verificabili, o quella che li legava a congiunzioni astrali e a radiazioni cosmiche fecondanti (forse di memoria ermetica), o quella che li voleva addirittura frutto di antichi insuccessi del Creatore, ancora inesperto. Ma Leonardo si oppone principalmente alla tesi dell’eziologia dei fossili dal Diluvio Universale: nel Codice Leicester, e nel Manoscritto F (Bibl. de l’Institute),

troviamo numerosi appunti di notevole acume scientifico, dedicati a rimarcare come molti motivi sperimentali e di senso comune neghino questa funzione originaria al diluvio, e capaci di suggerire una soluzione alternativa, a sua volta basata su una geniale “interpretazione della tettonica e della stratificazione delle falde”. [58] I fossili sono prodotto di movimenti geologici, di alluvioni e della formazione di antichi mari e vanno inquadrati – per la prima volta nella storia della scienza – entro il contesto paleontologico, come emerge esplicitamente dal seguente brano:

Nichi e loro necessaria figura.

Quando la natura viene alla generazione delle pietre, essa genera una qualità d’omore viscioso il quale, col suo secarsi congela in se ciò che dentro a lui si rinchiude, e non li converte in pietra, ma li conserva dentro a se nella forma che li à trovati. E per questo le foglie son trovate intero dentro li sassi nati n’è le radici de’monti, con quella mistione di varie spezie, sì come lì lasciaron li diluvi de’ fiumi, nati alli tempi delli altunni, dove poi li fanghi delle inondazioni succedenti le ricopersero, e questi tali fanghi poi si collegoron del sopradetto omore e convertissi in pietra faldata a gradi, secondo le gradi d’esso fango. [59]

Questa geniale interpretazione riassume tutti i punti nodali che Leonardo aveva esaminato nel suo lungo percorso esplorativo sui fossili e sul significato cosmico della realtà delle rocce in relazione al fattore temporale. Su questa strada scientifica si metteranno, nei medesimi anni e poco dopo, Girolamo Fracastoro, allievo ventenne di Leonardo, e il grande francese Bernard Palissy. [60]

La profondità e la intima unità di percorso, realizzata in un grandioso connubio di arte e scienza, fanno dunque di Leonardo una figura assolutamente cruciale nella storia dell’idea di montagna, in quella dell’evoluzione della sensibilità per il paesaggio alpino e in quella relativa alla esplorazione dei segreti celati nei mutamenti della natura. Proprio in questa scia, che conduce ad indagare i rapporti materiali fra montagne e evoluzione della terra, dovrà muoversi la scienza pre-illuminista, e solo attraverso queste basi concettuali sarà possibile approdare ai “segni del tempo”, svelando poco alla volta la natura delle montagne, svuotate lentamente del loro arcaico e muto permanere inerte, alieno, e allo stesso modo riportate, dalla sensibilità e dalla ricerca scientifica, verso l’indagine oggettiva della ragione umana. Solo attraverso questa lunga evoluzione, nel cinquecento e sino alla metà del settecento, sarà possibile arrivare a quella che Philippe Joutard ha brillantemente definito “l’invenzione del Monte Bianco”.



NOTE

[1] Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal, “Les Phares”.

[2] Su questi temi vedi soprattutto il complesso studio di Luc Brisson, Le même et l’autre dans la structure ontologique du Timée de Platon. Un commentaire systématique du Timée de Platon, Klincksieck, Paris 1974, con particolare riferimento alle pagine 270-353.

[3] Cfr. Joutard, op. cit. pag. 36.

[4] Ibidem, pag. 38. In generale sullo sterminato tema dell’iconografia alpina vedasi in primo luogo la grande opera di J. Grand-Carteret, La montagne à travers les âges; role jouè par elle, façon dont elle a étè vue, Grenoble 1903-1904, così come U. Christoffel, La montagne dans la peinture , CAS 1963, trad. it. di G. Curonici, La montagna nella pittura, CAS 1963. A. Steinitzer, Der Alpinismus in Bildern, München 1913.V. Bredt, Die Alpen und ihre Maler, Leipzig 1910; sui pittori fiamminghi vedi Y. Thiery, Les peintres flamands du paysage au XVII siècle, Bruxelles 1987.In italiano segnaliamo anche Immagini e immaginario della montagna, 1740-1780, Museo Nazionale della Montagna, Torino 1989, che si presenta come traduzione del catalogo della mostra Sentiment et dècouverte de la montagne, 1740-1780, Annecy 1986. Più recente ed utile per una visione di insieme sul periodo moderno e contemporaneo è però il catalogo della mostra tenutasi a Torino, presso Palazzo Bricherasio nel 1998: Le seduzioni della montagna da Delacroix a Depero, Electa, Milano 1998. In questo testo si trova anche una bibliografia specifica sui singoli pittori facenti parte della mostra. In ambito italiano, fra i pittori del periodo rinascimentale che più hanno contribuito alla definizione del paesaggio alpino vanno certamente ricordati Bbenozzo Gozzoli (Il corteo dei re magi, 1460 c.), Andrea Mantegna (Gesù nel giardino degli ulivi), Filippino Lippi (L’infanzia di giovanni Battista).

[5] B. Marti, Courte Description du Stockhorn et du Niesen, montagnes situées chez les Bernois en Suisse, et des plantes qui croissent, in Coolidge – Simler , Les origines…, pag. 315: seguiamo la traduzione italiana a cura di Pietro Crivellaro, Cfr. Joutard, op. cit., pag. 43.

[6] Cfr. Robert Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, trad. it. di Giovanni Ferrara, Laterza 1979, vol. I, pag. 91.

[7] Leonardo da Vinci, Frammenti letterari e filosofici, a cura di Edmondo Solmi, Firenze 1979, pagg. 225-226. Si tratta con molta probabiltà del Monte Bò, cima di 2556 metri posta fra la Val Sesia e la zona di Biella, come già notava il Coolidge, Les origines…, pag. 49.

[8] E’ nota la diffidenza di Leonardo verso gli umanisti, considerati in fondo dei teorici, che “non sanno che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza, che d’altrui parole,” Frammenti, cit., pag. 88. Recenti ricerche tendono ad identificare nella Val di Chiana lo sfondo di alcune opere di Leonardo. In particolare è stata rivalutata l’ipotesi, formulata nel 1993 da Cesare Maffucci – ed in seguito studiata da Carlo Starnazzi – che identifica nei luoghi di Ponte a Buriano, presso Arezzo, lo sfondo paesaggistico della Monna Lisa.

[9] Si tratta del disegno catalogato come RL 12410 (10,5x16cm).

[10] Angelo Recalcati, “ Le Prealpi Lombarde ritratte da Leonardo”, in Achademia Leonardi Vinci. Journal of Leonardo Studies and Bibliography of Vinciana, edited by Carlo Pedretti, vol. X, 1997, Giunti, pagg. 125-132.

[11] Sino allo studio di Recalcati si pensava che le montagne raffigurate nel disegno fossero le cime del Monte Rosa, e si riteneva erroneamente che il disegno si riferisse a vette coperte di neve, mentre invece ritrae con abilissimo gioco di chiaro scuri zone montuose illuminate dal sole e unicamente rocciose. E’ possibile fare un interessante raffronto di tecnica pittorica e di concezione della lettura dell’ambiente, affiancando l’immagine leonardesca delle Grigne, 1511, a quella delle immani pareti rocciose della zona del Monte Olimpo su Marte, elaborate da John Hinkley attraverso Vistapro. In generale, sulle Grigne, l’opera di riferimento, sotto il profilo tecnico ed ambientale è: Eugenio Pesci, Le Grigne. Guida dei Monti d’Italia. CAI- TCI 1998.

[12] Recalcati, op. cit., pag. 127.

[13] Come notato, Leonardo sin dall’epoca giovanile aveva mostrato un interesse particolare per i soggetti alpini, con particolare attenzione per il binomio naturale di acqua e roccia: si veda ad esempio il Paesaggio con la Valle dell’Arno, datato 1473, penna e bistro su carta con ombre a quarellate, 19,6x28cm, Firenze, Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi. Già nella tavola della Annunciazione, 1474 c., 104x217cm, Firenze, Uffizi, in lontananza ma al centro del quadro, al di là di alcuni elementi arborei, l’artista pone uno sfumato paesaggio di montagne e paesi, adagiato verso un lago, raffigurato con tratto ben lontano da quello di Witz, ed al contrario estremamente preciso ed analitico. D’altra parte, come vedremo, l’interesse per l’elemento alpino è dominante in molte opere leonardesche e sembra costituire il legame fondamentale fra la mente di Leonardo e la tematica del paesaggio. Infatti Leonardo non si limita affatto ad inserire le montagne nei suoi quadri, ma le pone spesso a soggetto di argomento scientifico, come in alcuni brani del Trattato della pittura, sia di pagine di fantasia letteraria, come quelle della celebre Lettera al Diodario di Soria.

[14] Fra le zone visitate da Leonardo ricordiamo, nella zona valsassinese, a nord di Lecco, proprio le pendici del Grignone, e certamente la Grotta della Ferrera, in Val Mèria, poco sopra Mandello del Lario. Quest’ultima talora confusa dalla critica con la più distante ghiacciaia del Moncòdeno, ubicata a quota superiore e di raggiungimento più complesso, fattore questo che depone contro un’eventuale visita da parte di Leonardo.

[15] Coll. reale di Winsor, RL 12414 (15,9x24cm), RL 12411 e 12413 (5,4x18,2cm; 7,2x14,7cm).

[16] Op. cit., pag. 128.

[17] Su questo tema si possono utilmente consultare almeno i classsici R. Klibansky, The continuity of the Platonic Tradition during the Middle Ages, London 1981. Eugenio Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Bibliopolis 1983, in particolare pagg. 67-96. C. B. Schmitt, Filosofia e scienza nelle Università italiane del XVI° secolo, in AA. VV. Il Rinascimento. Interpretazioni e problemi. Laterza 1979.

[18] Per tutte le informazioni biografiche e sulle fonti dell’opera leonardesca rimandiamo al recente ed esaustivo Carlo Vecce, Leonardo, Salerno Editrice 1998; in particolare, per l’elenco dei libri leonardeschi steso intorno al 1495, vedasi pagg. 157-159. L’opera del Mandevilla (o anche Mandavilla), uscì con il titolo latino di Itinerarius, e venne tradotta in volgare a Milano, Pietro da Corneno, pr. kal. aug. (31 VII), 1480. Ne vennero stampate edizioni successive a Bologna nel 1488 e a Venezia nel 1491 e nel 1496.

[19] Quest’opera venne tradotta in volgare nel 1497, a Venezia, Zoane Rosso Vercellese, con il titolo di Ovidio Metamorphoseos vulgare in prosa tradotto da Giovanni de’Bonsignori di Città di Castello.

[20] Ptolemaeus, Claudius Cosmographia, Vicenza, Hermann Liechtenstein 1475.

[21] Le principali informazioni sulla biblioteca di Leonardo si ricavano da una lista che si trova nel Codice di Madrid II (MS 8396) e dal Codice Atlantico, c. 210 r, dove sono però elencati solo quaranta titoli. Sul complesso problema delle fonti del pensiero di Leonardo si veda anche il dettagliato saggio di Eugenio Garin, “Il problema delle fonti nel pensiero di Leonardo”, in La cultura filosofica del rinascimento italiano, Sansoni 1979, pagg. 388-401. In questo studio, pubblicato in origine nel 1953, si sottolinea come proprio la Fisica di Aristotele contenga numerosi riferimenti ad autori presocratici, come Anassagora , e come in generale risulti difficile attribuire a Leonardo letture tecniche di contesto filosofico accademico .Ciò vale per la poco robusta tesi che vede Leonardo ispirato dal Cusano, poco noto in Italia, o per la lettura vinciana di certi testi scientifici di Alberto Magno. “Quei temi… che si possono ricondurre al neoplatonismo, Leonardo poteva accogliere, e credo che accogliesse, da scritture volgari fiorentine, e magari dai commenti di quel povero maestro di scuola che fu Cristofero Landino, delle cui fatiche ben sappiamo che si valse. e a Firenze li poteva sentire nella casa stessa di quel Benci che fu traduttore del Trismegisto in lingua toscana; e poteva leggerli nel Ficino volgare; e poteva sentirseli propinare in prediche, sermoni, e pubbliche orazioni…”Ibidem, pag. 395.

[22] Illustrazioni similari si trovano in opere botaniche del tardo quattrocento, come l’Erbario, ovvero dei segreti e virtù delle erbe, Firenze, Biblioteca Laurenziana, Ms. Redi 165, 44v.

[23] Specificatamente sul tema atomistico della causalità naturale vedasi V.A. Alfieri, Atomos Idea. L’origine del concetto dell’atomo nel pensiero greco, Firenze 1953. Lo stesso Alfieri, Atomismo, in Enciclopedia Filosofica, Venezia-Roma 1957, vol. I, pag. 452 ricorda che “Atomi e Vuoto non sono oggetti di percezione sensibile ma principi puramente razionali, destinati a spiegare causalmente la molteplicità sensibile”. Gli atomi sono stoicheia, che assumono significato nell’ambito di una eziologia naturalistica. Sulla simbologia medievale dello specchio e dell’albero vedasi C.M. Edsman , Arbor inversa. Heiland, Welt und Mensch als Himmels planzen. In Festschrift W. Batke, Weimar 1966. R. Bradley, Backgrounz of the title Speculum in de medieval Literature. In Speculum, XXIX, 1954, vol. I pagg. 100-115.

[24] Codice F, f.56 v.

[25] Leonardo da Vinci, Scritti letterari, a cura di Augusto Marinoni, Rizzoli 1991, pagg. 16 e seguenti.

[26] Codice Arundel, f. 151 v.

[27] Codice Atlantico, f. 302 v.b.

[28] L’interesse di Leonardo è qui tutto legato al tema della metamorfosi: l’elemento terra si è fatto vegetale, e si è ritrasformato in elemento.

[29] Domenico Laurenza, Leonardo. La scienza trasfigurata in arte. Allegato a Le Scienze, Milano 1999, pag. 29.

[30] Su quest’opera, eseguita nell’esemplare ora al Louvre, fra il 1483 e il 1485, confronta le interessanti considerazioni svolte da Carlo Vecce, op. cit., pagg. 82-83, in cui si nota fra l’altro che “all’interno di una composizione piramidale, le linee rette che congiungono i gesti, l’orizzontale che taglia la scena dall’indice dell’angelo alle mani giunte di san Giovannino, e la verticale che scende dalla mano della Vergine alla mano benedicente del Bambino, creano l’icona della croce, profezia della Passione…. Leonardo proietta dunque in avanti, verso la Passione, verso la morte, l’assunto di partenza, che doveva essere tutto dedicato all’origine della vita, e inscrive gli eventi in una dimensione ciclica, di eterno ritorno: e segni della Passione sono allora anche i radi elementi floreali che spuntano dall’arido scenario geologico: la palma, il velenoso aconito, l’iris lancellata”.

[31] Cfr., su questo tema, Laurenza, op. cit., pagg. 40 e seguenti, ove si nota come la tradizione medioevale sul problema della luce fosse legata alla teoria della similitudine o specie, in cui quest’ultima è l’immagine di un oggetto, “concepita come una sua emanazione, simile a un’onda di calore che emessa da un fuoco raggiunge il nostro corpo attraversando l’aria. E’ una realtà sensibile priva di materia, un’entità semi – spirituale, impalpabile ma con una sua realtà fisica perché capace di agire sull’occhio.” Sul tema della luce nella storia della scienza, vedasi Vasco Ronchi, Storia della Luce. Da Euclide a Einstein, Laterza 1983, in particolare pag. 79 ove si mette in relazione l’intuizione leonardesca della similitudine occhio - camera oscura con la fine dell’ottica medioevale.

[32] Leonardo, op. cit., pag. 127, il corsivo è dell’autore del presente saggio.

[33] Codice Atlantico, f. 715. Cit. in Vecce, op. cit., pag. 69.

[34] Cfr. Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Einaudi 1988, pag. 76.

[35] Codice Atlantico, f. 715 r.v.

[36] Cfr. Eugenio Garen, op.cit.,pag. 397.

[37] Ibidem, pag. 399, nota 2, ove si identifica nell’VIII trattato del Pimandro la fonte ermetica per l’immagine della caverna.

[38] Vedi però Vecce, op. cit., pag. 201, per la genesi remota dell’opera.

[39] Op. cit., pag. 293.

[40] Cfr. Leonardo, Trattato della pittura. Introduzione di Ettore Camesasca, TEA Arte 1995, pag. 381.

[41] Questa espressione è presente, esplicitamente in Democrito (Diels – Kranz, 68 B 34), implicitamente in Platone e negli stoici, nella Fisica di Aristotele, ma soprattutto nell’anonimo Pitagorico di Fozio (Fozio, Biblioth., cod. 249, 440 a 33 e seguenti = Thesleff, pag. 240, 7 e seguenti), ove si afferma che l’uomo è un mondo in piccolo “non perché è composto dei quattro elementi… ma perché possiede tutte le potenze del cosmo”. L’uomo inteso come brachis ouranòs, cioè “piccolo cielo” è presente in Filone, Opif., 82, poiché la natura umana ha in sé “molte nature simili alle stelle, attraverso le arti, le scienze e le gloriose conoscenze che sono richieste ad ogni virtù”. Cfr. Giovanni Reale, Storia della Filosofia antica. V. Lessico indici e bibliografia, con la collaborazione di Roberto Radice, Vita e Pensiero, Milano 1980, pag. 174.

[42] Leonardo, op. cit., pagg. 128-129.

[43] Cit., par. 65, “ Piacere del pittore”, pag. 59.

[44] Ibidem.

[45] Cfr. Vecce, op. cit. , pag. 204. Sul secondo quadro vedasi anche E. Möller, Leonardo’s “Madonna with the Yarn Winder”, in The Burlington Magazine, XLVII, 1926, n. 281, pagg. 61-68, cit. in Vecce, op. cit., pag. 407, nota 31.

[46] Su questo tema vedi E. H. Gombrich, “La forma del movimento nell’acqua e nell’aria”, in L’eredità di Apelle, Torino 1986, pagg. 51-79, e soprattutto E. Maccagno, “Analogies in Leonardo’s studies of flow phenomena”, in Studi vinciani in memoria di N. De Toni, Brescia 1986, pagg. 19-49.

[47] Francesco P. Di Teodoro, “Leonardo e le Alpi Occidentali”, in Le Alpi, storie e prospettive di un territorio di frontiera, CELID, Torino 1997, pagg. 89-95.

[48] Cfr. Vecce, op. cit., pag. 312 e nota 19, pag. 421.

[49] Scritti letterari, cit., pag. 176.

[50] Ibidem, pagg. 194 e seguenti.

[51] Trattato della Pittura, cit. pag. 59.

[52] Ibidem, pag. 17.

[53] Frammenti letterari e filosofici, cit. pag. 131 (LXXVIII, Su una conchiglia fossile).

[54] Plinio, Naturalis Historia, 37, 12, 49; Aristotele, Meteorologica, I, 14; Strabone, Geographia, XVII.

[55] Ristoro d’Arezzo, De compositione mundi. Giovanni Boccaccio nella sua relativamente poco nota opera in latino intitolata De montibus, silvis, fontibus et maris (recentemente riedita in una prestigiosa edizione curata da Manlio Pastore Stocchi , Milano 1999) ribadisce i concetti dell’aretino, nel contesto di una più generale analisi del paesaggio, condotta però con intenzione storico letteraria e erudizione scevra da moralismi.

[56] Presso la chiesa di San Rüprecht, a Vienna, e nel quartiere ebraico, si trovava la zona privilegiata per il commercio di amuleti e pezzi rari. Nel cinquecento gli astrologi usavano rocce di forma curiosa come base in polvere per pozioni, ad esempio il calcare nummolitico, o pietra giudaica, per guarire i calcoli renali.

[57] Giancarlo Ligabue, Leonardo da Vinci e i fossili, Neri Pozza, Vicenza 1977, pag. 12. Seguiamo questo testo, decisamente tecnico, che compie una analisi approfondita della questione dei nichi leonardeschi, fornendo anche una bibliografia.

[58] Ibidem, pag. 25.

[59] Manoscritto F, Parigi folio 80 recto, cit. in Ligabue, op. cit., pag. 28.

[60] Vissuto fra il 1510 e il 1589, di professione vasaio, Palissy è considerato uno dei padri della scienza geologica in virtù della sua opera principale, dal titolo: Discours admirables de la nature des eaux et fontaines, tant naturelles qu’artificielles, des métaux, des sels et salines, des pierres, des terres, du feu et des émaux; avec plusiers autres excellents secrets, des choses naturelles. Plus un tratè de la marne fort utile et nècessaire à ceux qui se mellent de l’agricolture. Le tout dressè par dialogues, ès quels sont introduits la thèorique et la practique, Paris 1580.



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AUTORE: Eugenio Pesci si è laureato in Filosofia nel 1986, presso l'Università degli Studi di Milano, con una tesi concernente l'acquisizione dei testi platonici e aristotelici nelle enciclopedie latine del 1200. Dal 1983 al 1987 ha collaborato con la Cattedra di Filosofia Morale I della suddetta università. Dal 1986 insegna continuativamente Filosofia e Storia nei licei, ove è titolare di cattedra dal 1995. Attualmente collabora con Massimo Venturi Ferriolo e Lorenzo Giacomini ai corsi di Estetica presso il Politecnico di Milano, Campus Leonardo, svolgendo ricerche inerenti l'estetica del paesaggio. In particolare, conformemente a una attività alpinistico-sportiva ormai più che ventennale e di rilevanza culturale nazionale, si sta attualmente occupando della sensibilità per il paesaggio alpino nella storia della cultura. Oltre a svariati articoli tecnici sulle maggiori testate europee di sport e cultura alpina, ha pubblicato i seguenti testi: Solitudine sulla est. Ettore Zapparoli e il Monte Rosa romantico, Vivalda 1996. Le Grigne. Guida dei Monti d'Italia, CAI - TCI 1998. Con Massimo Venturi Ferriolo e Lorenzo Giacomini: Estetica del Paesaggio, Guerini 1999. Infine ha recentemente dato alle stampe il volume La montagna del cosmo. Per un'estetica del paesaggio alpino, CDA 2000, dal quale è tratto il testo qui presentato.

Orazio Coclite
16-04-02, 11:49
Da: http://www.studifilosofici.it/inspiegabile_montagna.htm

Lorenzo Giacomini

L’inspiegabile montagna, radici di una strana passione

http://www.studifilosofici.it/TN_everest.jpg
Hillary Step, Monte Everest

1. Strane rocce

Visto da un alto osservatorio planetario, sublime e «non-organico» per così dire, il vivente potrebbe anche sembrare qualche «strana roccia»[1] sulla superficie terrestre. Strana come la roccia alla quale Prometeo - sostiene Franz Kafka - titano benefattore dell’umanità e traditore degli dèi, dilaniato dalle aquile si sarebbe «addossato sempre più», «fino a diventare con essa una cosa sola»[2]. «Inchiodato al Caucaso» perché il suo tradimento fosse ricordato e punito in eterno, Prometeo - così asserisce la terza della quattro «leggende»[3] tramandate da Kafka - fu in realtà dimenticato: dagli dèi, dalle aquile, da sé stesso. Nel corso di millenni «ci si stancò di lui che non aveva più motivo di essere». Rimase solo «l’inspiegabile montagna rocciosa», nella quale «deve terminare» una leggenda come questa, che «tenta di spiegare l’inspiegabile». Doppiamente paradossale, questo Prometeo di Kafka: al primo paradosso, implicito, secondo Hans Blumenberg, nella figura stessa del titano, «mito della fine di tutti i miti»[4], si sovrappone poi un secondo paradosso, specificamente kafkiano. Soggetto per eccellenza, inchiodato per così dire in eterno alla propria coscienza, acuita da un dolore inestinguibile, il Prometeo kafkiano svanisce alla fine in quella «scena statuaria» sul Caucaso dove si è consumata e rovesciata interamente la sua storia, «come se questa non fosse mai esistita». Kafka fa letteralmente «sparire» l’azione nella natura, «nella sua forma immobile, indistruttibile e non storica per antonomasia, la montagna rocciosa»[5]. «Solo l’inorganico dura oltre la storia. In cambio esso è l’inspiegabile, per il quale ad ogni modo non c’è più nessuno per esigere la spiegazione»[6].

http://www.studifilosofici.it/_derived/inspiegabile_montagna.htm_txt_everest.gif
Lakpa Sherpa sulla vetta dell'Everest

2. Rimanere su

A pochi passi dal tetto del mondo, in cima allo Hillary Step - la cresta sommitale del monte Everest - lo scalatore nepalese Lakpa Sherpa (cfr. la foto qui a lato), nell' immagine offerta gratuitamente come screensaver da un grande sito alpinistico statunitense[7], potrebbe essere visto come «strana roccia»: ripreso da molto lontano, nell’immenso scenario non è in effetti altro che un trattino nero sulla coltre di neve che ricopre la vetta, e la cosa che impressiona o affascina, più ancora del contrasto delle dimensioni, è in realtà la sensazione che lassù qualcosa possa muoversi.

Immortalato, come si suol dire, sul «punto finale» ovvero sul «punto radioso»[8] - come si esprime Reinhold Messner - non sembra inconcepibile che possa avere in mente di fermarsi «a sedere lassù in una sorta di oblio», «forse per sempre»[9].

Sulla vetta del Nanga Parbat il 9 agosto 1978 scrissi: «Ho spesso pensato come sarebbe se io rimanessi semplicemente a sedere su un ottomila. Rimanere su non è forse il segreto senso dell’alpinismo? Non far più ritorno al mondo che si è appena lasciato faticosamente dietro di sé?».

Ancora oggi non so quali siano le profonde motivazioni per la salita sulla cima di un ottomila. Però, una volta lassù, devo fare uno sforzo per ridiscendere[10].

La montagna di Messner, che alla base si estende tra due formule, limite della vita e zona della morte[11], si eleva quindi restringendosi fino a due semplici parole, rimanere su, per poi lasciar svettare infine la sua cima nel nirvana - emblema in cui si perdono le distinzioni tra soggetto e oggetto, essere e nulla, oriente e occidente.

Con la discesa non di rado comincia ad aprirsi un vuoto dentro di me – una perduta utopia – che non può essere colmato nemmeno dalla consapevolezza del successo. Sulla vetta stessa spesso ho esperito un altro vuoto, un vuoto liberatorio che prendeva tutto il mio essere. Nel mio libro Due e un ottomila ho descritto così questo stato:

«Eravamo seduti sulla vetta, al centro di un infinito spazio vuoto. Giù in fondo le valli erano velate da un vapore lattiginoso. L’orizzonte intorno cresceva come il senso di vuoto dentro di me e i miei respiri profondi si condensavano in immagini spontanee entro una pura sfera di visioni. Preso da un’indescrivibile sensazione di serena indifferenza mi risvegliai da quello stato di armonia, da quella specie di nirvana».

Fui colto dallo stesso stato d’animo nel giardino di sassi di Kyoto, un’opera d’arte giapponese che consta di una superficie grande come un campo da tennis coperta di sabbia a solchi e alcune grosse pietre ed è concepito come luogo di meditazione. Forse sulle alte vette ero troppo esausto per rendermi conto di questa pace interiore, di quest’essere immerso nell’universo[12].

La trama di questo «complesso del Nirvana»[13] regge tutta la struttura della filosofia alpinistica di Messner: la corsa verso gli ottomila, in cui viene violata ininterrottamente la cosiddetta zona della morte (il territorio al di sopra dei 7500 metri di quota), è interpretata come mezzo per uno sconfinamento in aree di esperienza che sono normalmente inaccessibili all’umano. Sentiero «tra la tomba e la vetta»[14], l’alpinismo osa varcare il limite della vita per veder brillare quelli che Eugen Guido Lammer definiva «bagliori magici dell’al di là»[15]: e in ciò l’utopico, ecologico, ludico Messner segue pur sempre le orme del suo luciferino, superomistico predecessore ottocentesco, sostenitore dell’eroico «duello col monte», pronto a gettare la sua vita come «un bastone da montagna rotto»[16]. Così va alla ricerca di esperienze estreme come quelle, sorprendentemente concordi, dei sopravvissuti alle cadute (sviluppando i risultati già prodotti da Albert Heim verso la fine del secolo scorso) che hanno sperimentato la morte per così dire da vivi, e la «piacevole» cancellazione dell’Io che essa produce prima ancora della vera e propria fine[17]; parla tranquillamente degli invisibili «compagni fantasma» che hanno favorito la sua ascensione solitaria al Nanga Parbat nel 1978, «da metà parete in poi»[18]; mostra di credere non solo ad uno scambio di pensiero telepatico alle altissime quote, ma addirittura alle testimonianze medianiche, «sogni di verità», nella ricostruzione dettagliata di vicende memorabili dell’alpinismo[19]; riferisce con tono a metà tra lo scientifico e l’ironico l’esempio del suo stesso sdoppiamento in una situazione tipica di rischio estremo:

Dopo due giorni e una notte in una tendina frustata dalla tempesta a ottomila metri di altezza al Colle Sud, il terrore di rimanere di notte senza tetto si dileguò. Una tenda si era già distrutta durante la prima notte di bufera. Alle domande preoccupate del capo spedizione Wolfgang Nairz dal campo base, risposi via radio tranquillizzandolo: «Ora è tutto a posto. C’è uno fuori che rinforza la tenda». E poco più tardi: «Quello fuori sono io stesso». In quel momento ero nel sacco piuma e parlavo per radio, i due sherpa giacevano impauriti accanto a me. L’uragano infuriava sul nostro campo con una velocità di quasi 200 chilometri all’ora. Più di 40 gradi sotto zero. Eravamo senza apparecchiatura per l’ossigeno e non dormivamo da ormai quasi quaranta ore. Se la tenda si fosse strappata per noi sarebbe stata la morte[20].

Se per il temerario Lammer il pericolo di morte doveva essere «cercato apposta» in quanto «dono degli dèi»[21], lo stesso Messner trova che l’importante, nel gesto di oltrepassamento del confine con la zona della morte, non sia l’attingere una sorta di divinità delle altitudini, bensì la «conoscenza della vita conseguita per mezzo della fine, per mezzo della propria morte»[22]. Benché tacciato di «cattivo gusto alpino»[23], trattato da «testa di turco» e fatto oggetto di una puntigliosa avversione ideologica e persino politica[24], Lammer dimostra anche per mezzo della stessa polemica di Messner la continuità di una moderna tradizione e della sua «fenomenologia». E nel descrivere la conclusione della celebre caduta al canalone Penhall sul Cervino, che gli toccò nel 1887 insieme ad August Lorria, Lammer ricorre proprio alla parola-chiave preferita dal suo interprete e censore:

Anni trascorsero nella caduta e secoli.

Ed ecco il rombo della valanga, simile ad una cascata, si attenuò e il sibilo si esaurì. Aprii gli occhi: uno stupore senza limiti mi sommerse, nessuna gioia, nessuna gratitudine, nessun pentimento. Ora però la bella passività e il dolce Nirvana erano alla fine. La vita mi prese ancora sotto al suo gioco: pensieri, progetti, opere, la triade famigerata[25].

3. Le delizie del precipizio

«Che cosa è poi questo alpinismo? Che differenza c’è se mi trovo a un’altezza di trecento metri oppure di tremila metri? La differenza sta nel fatto che è più pericolosa la seconda impresa della prima, la prima non è davvero una prova di grande abilità mentre l’altra – a quanto pare – è una prova di grande abilità»[26]. Schiette parole di Thomas Bernhard nel suo primo romanzo, Gelo, pervaso da paesaggi e climi di montagna, pensieri e sensazioni di montagna. E non si tratta di senso comune, né di boutade letteraria: se leggiamo le prime righe di un’ottima e aggiornata Storia dell’Alpinismo, c’imbattiamo subito nella medesima definizione, che ora perde tutta la sua ironica ovvietà:

Dove finisce il turismo in montagna? Dove comincia l’alpinismo?

Possiamo dire che l’alpinismo ha inizio nel momento in cui l’ascensione di una montagna, di una falesia o di una cima secondaria, in poche parole di un qualsiasi rilievo della crosta terrestre, diventa pericolosa per la sua stessa struttura o per fattori climatici.

Sono unicamente il pericolo e la tecnica creata dall’uomo per affrontarlo che costituiscono ciò che chiamiamo comunemente alpinismo [...].

Al contrario del turista che desidera soprattutto distensione e bellezza, l’alpinista si compiace nel confrontarsi con la difficoltà, nell’affrontare il pericolo, nella lotta appassionata contro gli elementi e la natura. I turisti sono moltissimi! Al contrario, solo una minoranza può definirsi alpinista; perché chi espone consapevolmente la propria vita al pericolo, ricercandolo, ma con l’idea ben radicata di dominarlo con la propria intelligenza e forza morale, usando i riflessi e la forza fisica, appartiene obbligatoriamente a una «élite»[27].

Non è un problema classificatorio, non si tratta tanto di individuare una peculiarità alpinistica nel vasto campo delle attività sportive, quanto di prendere atto realisticamente di un inoppugnabile dato di fatto, che andrebbe senz’altro precisato e approfondito ma che rappresenta in ogni caso un punto di partenza imprescindibile. Dato di fatto è, per esempio, che tra i «50 grandi nomi dell’alpinismo» passati in rassegna in un capitolo della Storia suddetta, ben quindici sono scomparsi in azione[28]. Come statistica è assolutamente casuale, ma trattandosi di «grandi nomi» è senza dubbio significativa. In gioco dunque c’è sempre il pericolo, «marchio d’origine» dell’alpinismo che le tendenze sportive più recenti - come appariva dalle immagini del celebre Grido di pietra di Werner Herzog[29] - non hanno potuto cancellare: dal tragico episodio della cordata Marinelli[30], travolta da una valanga lungo l’omonima via sul Monte Rosa nell’estate del 1881, che provocò persino interpellanze in Parlamento che chiedevano il divieto della «pratica insensata»[31] - come la definiva pochi anni fa un appassionato - alle più commerciali ma non meno spaventose storie di incaute ascensioni himalayane narrate nel bestseller di Krakauer, Aria sottile[32]; fino all’impresa quasi soprannaturale progettata dal compianto Patrick de Gayardon - per estendere il discorso a quegli sport «estremi» che dell’alpinismo sono degni discendenti - ovvero il lancio con tuta spaziale dai confini (36.500 metri) dell’atmosfera terrestre[33]. Ci troviamo sempre di fronte alla continua ricerca di una «marginalità» del pericolo, alla ricerca di un rischio residuo che oltrepassi tutto ciò che è stato già ridotto a tecnica. Questo margine è stato cercato prima in alto, e più in alto ancora dalle Alpi all’Himalaya, poi nella difficoltà pura fino all’altro capo del pianeta (Patagonia)[34], per finire nell’«estremo» generalizzato, nell’oltrepassamento di ogni limite come principio.

Da due secoli a questa parte, l’audacia di una «élite» ha aperto progressivamente un nuovo ambito dell’esperienza umana, rendendolo man mano praticabile da masse molto meno interessate ai suoi caratteri più «seri» e autentici che alle «possibilità di gioco»[35] e di profitto che ne deriveranno.

Pensate che razza di sviluppi, di ripercussioni ha avuto appunto questo sentimento, questo amore della montagna, di cui le Alpi sono indiscutibilmente la patria: nel giro di poco più di un secolo ha trasformato, si può dire, il volto delle valli, ha dato ossigeno a organizzazioni gigantesche, ha creato meravigliose strade, sentieri, impianti di ogni genere, ha fruttuosamente dilagato nella letteratura e nell’arte [...] [36].

Così Dino Buzzati tratteggiava - nel proporre la sua «piccola teoria»[37] dell’alpinismo che riteneva peraltro capace di «spiegare tante cose» - quella «invenzione estetica delle Alpi»[38], com’è stata di recente esattamente definita, in seguito alla quale ha preso avvio un fenomeno di vera e propria «colonizzazione»[39]: alla metà del Settecento si diffonde «un sentimento che non concerne più piccoli gruppi o poche personalità, ma le élite europee sempre più numerose e di livello sociale sempre più modesto [...]; visitare le montagne diventa un vero e proprio fenomeno sociale che crea una nuova economia e trasforma alcune valli»[40]. Si tratta di un fenomeno storicamente nuovo, del «vero e proprio lancio di una sensibilità»[41] che nonostante un lungo elenco d’illustri precursori risalente fino all’ascensione di Petrarca al Mont Ventoux del 26 aprile 1336[42], potrebbe essere proficuamente analizzato come una caratteristica figura inaugurale del moderno[43], se non altro per la suggestiva e significativa coincidenza tra la data (8 agosto 1786) dell’«avvenimento fondatore»[44] dell’alpinismo, la conquista del Monte Bianco, e il rivoluzionario ‘89.

Ma quale sarebbe, in fin dei conti, la cosa inventata in quella seconda, travagliata metà del diciottesimo secolo? In un capitolo del suo grandioso libro sulla storia del paesaggio Simon Schama ha nominato, o meglio, circoscritto i termini costitutivi di una denominazione per qualcosa che in effetti - prima di quella decisiva epoca - non esisteva. Imperi verticali, abissi della mente[45], questi i confini di una cosa che non si lascia facilmente «confinare» né come sentimento estetico, né come gusto artistico, né come nuova rete di concetti filosofici e interessi scientifici. Si tratta in fin dei conti di una dimensione psichica che ha bisogno di tradursi in varie forme di esperienza (l’alpinismo sarebbe quella più diretta e radicale), dimensione che trova la sua formula nell’«ossimoro del piacere dell’orrido»[46] nel quale confluiscono teorie, scoperte, opere d’arte, poesie, viaggi, storie sociali e storie personali. Dopo aver già raggiunto un alto grado di sistematizzazione nell’Inchiesta (1757) di Edmund Burke[47], il «delizioso orrore» del sublime verrà elevato dalla terza Critica kantiana (1790) al rango di emozione degna di rappresentare l’indipendenza, la superiorità e la destinazione ultima della ragione umana:

Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta d’un gran fiume, etc., riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al disopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura[48].

E che le «rocce minacciose» di cui parla Kant non fossero lontane dallo spirito dell’epoca e dalle contemporanee vicende del protoalpinismo, è rivelato poco dopo dalla celebre menzione di «quel buono e peraltro intelligente contadino savoiardo (di cui parla il signor di Saussure)» che definiva «pazzi senz’altro tutti gli amatori delle alte montagne»[49].

Questa duplicità paradossale che emerge dalle pagine kantiane - per cui una «facoltà» che esalta le virtù della ragione trova limpida espressione in circostanze che al senso comune apparirebbero al contrario intollerabili e pazzesche - non è un tratto casuale, ma una connotazione tipica di quegli «imperi verticali, abissi della mente» dove il secolo si stava avventurando. La strada verso l’alto, indicata da Kant, ci porta alla scoperta di «una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura» e di una «superiorità che abbiamo su di essa, da cui deriva una facoltà di conservarci ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in pericolo dalla natura esterna; perché in virtù di essa l’umanità della nostra persona resta intatta, quand’anche dovessimo soggiacere all’impero della natura»[50]. Inteso in questo senso, il sentimento del sublime viene prodotto da «un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione, delle forze vitali» dove l’animo, «alternativamente attratto e respinto» dall’oggetto, si rinsalda superando la vertigine[51]. Seguace di questa tendenza sarà, per esempio, Georg Simmel che nel saggio Le Alpi (1911) parlerà del «paradosso dell’alta montagna», sul quale «si fonda la sensazione di salvezza che il paesaggio nevoso ci trasmette in alcuni momenti solenni».

L’impressione che ci fa l’alta montagna è per noi simbolo e presentimento del fatto che la vita si redime, potenziandosi al massimo in ciò che non entra più nella sua forma, e che piuttosto la sovrasta e le sta di fronte[52].

Questa tendenza «positiva» corrisponde senza dubbio a componenti che hanno avuto molto peso nell’evoluzione del pensiero e della pratica alpinistica: da quella spinta «enciclopedica»[53] tipica di una «eccellente»[54] figura del razionalismo settecentesco come De Saussure (vero artefice della storica conquista del Monte Bianco), e dalla quale si è evoluta la «classicità moderna dell’alpinismo»[55], come la definiva Massimo Mila; a quell’impulso «libertario» e puramente atletico dal quale trae alimento l’attuale «arrampicata sportiva», che vorrebbe in fondo «cancellare alla fonte il rischio mortale dell’alpinismo», divenuto «elemento di disturbo» della prestazione atletica[56].

Ma l’altra strada che emergeva dalle pagine kantiane - quella adombrata dall’«intelligente contadino savoiardo» e che conduce giù, dentro gli abissi della mente di quei pazzi «amatori delle alte montagne» - ha avuto nel complesso una maggiore risonanza in una lunga tradizione fatta non solo di romanticismo, letteratura e rappresentazione artistica, ma in fin dei conti anche di imprese sempre più incredibili che sembrano convalidare la diagnosi dell’«uomo rozzo»[57]. Un suggestivo esempio di questo nesso immediato tra paesaggio e psiche, separati - nel folgorante titolo di Schama - da una semplice virgola, viene offerto dalla «pura follia pittorica» dell’acquerellista inglese John Robert Cozens (1752-1797) che, nelle sue ipnotiche vedute di Alpi italiane, tentò di esprimere secondo Schama un sentimento di «estatica meraviglia, non dissimile dalla pazzia»[58].

Alla sua visione delle montagne, sconvolgente come nessun’altra, John Robert Cozens era giunto con un’ardua ascesa attraverso la seconda metà del XVIII secolo. I pionieri del sublime alpino, Gray e Walpole, si erano baloccati con rischi calcolati, spingendo quelli che erano venuti dopo di loro ad avvicinarsi all’orlo del precipizio. Finché era stato diligente allievo di suo padre, John Robert non si era accostato a quel precipizio altro che per transitare sui passi [...]. Ma tutto questo era avvenuto da lontano. Quando si trova davvero ad affrontare le vette, la visione imperiale che avrebbe dovuto offrirsi a ogni fiduciosa mente illuminata del XVIII secolo gli sfugge di mano. La sua testa comincia a girare. Il pennello si libra vaporoso sulla pagina. La sua arte vola alto. E quando ha compiuto i suoi capolavori, John Robert Cozens impazzisce[59].

Questo splendido schizzo, dove Schama tratteggia in poche righe l’intreccio fatale di una vita e dove tutto si gioca sul crinale sottilmente metaforico tra precipizio naturale e precipizio mentale, evoca un’intera galleria di spunti letterari. Basta sfogliare, per esempio, le stesse pagine del libro di Schama per incontrare «l’immagine-simbolo», quasi l’archetipo visivo di un’intera sensibilità epocale, la Morte di Empedocle nella voragine del secentesco pittore napoletano Salvator Rosa, dove l’abisso naturale e quello psichico raggiungono l’identità nella figura leggendaria del filosofo, colto nell’«attimo di sospensione» prima della caduta nel cratere dell’Etna[60]. Folle visione di oltrepassamento reale di quell’«orlo del precipizio» intorno al quale si svolgeva il gioco estetico del piacere dell’orrido, il suicidio di Empedocle rappresentò per Hölderlin «l’incarnazione ante litteram delle verità più profonde dell’idealismo romantico»[61]: un razionale «sacrificio metafisico»[62], per così dire, nel quale Hölderlin - tanto nella tragedia La morte di Empedocle quanto nel commento a se stesso intitolato Ragione dell’«Empedocle»[63] - vide «drammatizzata» la conciliazione estrema mediante l’estremo conflitto di soggetto e oggetto, arte e natura, individuale e universale, organico e inorganico («aorgico»), categorie supreme dell’«essere in assoluto»[64].

Da suggestioni e immagini del tutto analoghe sono pervase anche le pagine degli altri due grandi Romantici Novalis (1772-1801) e Ludwig Tieck (1773-1853). Il primo, in quel poema naturale nonché trattato di fisica poetica che è il romanzo allegorico incompiuto I discepoli di Sais, vede i pericoli della moderna indagine sulla natura che rincorre le «infinite scissioni» dei fenomeni fino «alla pazzia vera e propria, alla vertigine sul ciglio spaventoso dell’abisso», come l’Empedocle di Hölderlin:

E la Natura arrivati a questo punto diventa un terribile mulino della morte; ovunque straordinari avvenimenti, un infinito susseguirsi di vortici, un regno dell’intemperanza, della violenza più dissennata, una smisurata estensione di miserie e di sciagure; i pochi punti luminosi rivelano ancor più chiaramente l’orrore della notte, terrori di ogni specie angosciano colui che assiste a questo spettacolo, sino a fargli perdere i sensi. La morte sta a lato dell’umanità disperata come un rifugio, poiché senza morte il più pazzo sarebbe il più felice. Nel desiderio stesso di scandagliare questo gigantesco ingranaggio è presente l’attrazione per l’abisso, l’inizio della vertigine; infatti a ogni impulso il vortice sembra gonfiarsi sino a impadronirsi interamente dell’infelice e a trascinarlo lungo un’orribile notte. E’ in ciò il tranello più insidioso teso alla ragione umana che la Natura cerca di annientare come il suo peggiore nemico. [...] Il continuo contatto con le forze della Natura, con animali, piante, rocce, onde e tempeste dovrebbe necessariamente assimilare gli uomini a queste cose e una tale assimilazione, trasformazione, una tale dissoluzione del divino e dell’umano in forze indomabili sarebbe lo spirito stesso della Natura, di questa spaventosa forza divoratrice: e tutto ciò che noi vediamo non sarebbe già un furto fatto al cielo, un terribile crollo di passati splendori, lo scarto di un banchetto odioso? [...]

Il naturalista dovrà essere un generoso cavaliere disposto a gettarsi nella voragine spalancata pur di salvare i propri compagni[65].

Molto ispirate da questa sensibilità «abissale», le «metafore montane»[66] riempiono e sostengono l’impianto narrativo di alcune celebri fiabe di Tieck - coetaneo e amico di Novalis - come Eckart il fido e il Tannenhäuser (1799) e La montagna runica (1802)[67]. Le ambientazioni «alpestri» dei racconti tieckiani sono tanto più notevoli se si considera che fanno da cornice a queste fiabe «romantiche»[68] che rappresentano una tipica invenzione estetica moderna, una sorta di preludio del genere «fantastico»[69] in significativa coincidenza, a fine secolo, con l’«invenzione estetica» del mondo alpino. L’inquieta soggettività che anima queste narrazioni viene trascinata verso l’autodistruzione da una prodigiosa e irresistibile vertigine, perdendo e facendo perdere al lettore la capacità di distinzione tra sogno e realtà, interno ed esterno, psicologia e magia, follia e incantesimo. E in questo viaggio dalla quotidianità «normale» dell’epoca dei lumi ad una primordiale e catastrofica atmosfera soprannaturale, i protagonisti sono ininterrottamente accompagnati da paesaggi che rispecchiano tutte le sfumature dei loro sentimenti.

«Come siete venuto a finire in questa montagna?» chiese quello. «Nativo di qui, non lo siete!»

«Ah» sospirò il giovane «su questo punto molto c’è da dire, e tuttavia non val la pena parlarne; è stata quasi una potenza estranea al mio io che mi ha strappato ai miei genitori, alla cerchia dei miei parenti: il mio spirito non riusciva a dominar se stesso. [...] Abitavamo lontani di qui in una pianura; lo sguardo che spaziava tutt’intorno non incontrava monti: soltanto, a mala pena, una collina: pochi erano gli alberi che adornavano la piana verdeggiante, ma prati e rigogliosi campi di grano e giardini si stendevano fin dove l’occhio poteva arrivare [...] Una volta sentii parlare mio padre di montagne, che quand’era giovane aveva esplorato, di miniere nascoste nelle viscere della terra e di scavatori, di cacciatori e della loro occupazione, e, d’un tratto, chiarissima in me si delineò la tendenza: sentii, d’un tratto, d’aver trovato un mio determinato modo di vivere. Giorno e notte fantasticavo figurandomi altezze di montagne, e caverne e boschi d’abeti; la mia immaginazione creava rocce gigantesche e mi pareva d’udir lo strepito della caccia, il suono dei corni, il latrar dei cani, i gridi della selvaggina: tutti i miei sogni, solo così, parevano realizzati, e non avevo più pace. [...] In questo modo trascinai la mia vita, finché una mattina presi la risoluzione di abbandonare per sempre la casa dei miei genitori. In un libro avevo trovato dei ragguagli circa la più vicina grande catena montuosa, nonché carte geografiche di alcune regioni. Verso quei luoghi mi incamminai. Erano i primi giorni della primavera ed io mi sentivo perciò allegro e leggero; corsi, soltanto per lasciar al più presto quella piana. Una sera vidi profilarsi lontani i contorni scuri dei monti. Riuscii a mala pena a prender sonno nell’albergo, tale era l’impazienza di calpestar il suolo verso il quale anelava il mio sguardo come verso la mia patria; prestissimo mi svegliai e ripresi la mia via[70].

Questo viaggio di Cristiano verso la sua «patria» si concluderà, oltre i sortilegi e le malìe del Runenberg, nell’ancor più misteriosa e perturbante «montagna di Venere», montagna maledetta dove «sono andati a rifugiarsi tutti i diavoli e si son messi in salvo nel centro della terra disabitato, quando la divina potenza della cristianità vittoriosa fece precipitare la cieca idolatria pagana»[71]. Posto sotto la custodia di «Eckart il fido», il Venusberg diventerà la patria del leggendario[72] «Tannenhäuser» che trascinerà con sé alla fine anche l’amico-rivale Federico, ultimo a precipitarsi «in furibonda corsa» dentro la «montagna incantata»:

Diceva la gente: «Chi è baciato da uno che venga dalla montagna non può resistere alla sua malìa che lo travolge e l’inghiotte violenta nelle voragini del suolo»[73].

Altro magnifico esempio di trasformazione del paesaggio montuoso da semplice sfondo a codice espressivo del tumulto di una psiche eccezionale è la novella Lenz di Georg Büchner (1813-1837), resoconto basato su testimonianza autentica di quella progressiva «pietrificazione» che spense le titaniche emozioni del poeta e drammaturgo Jakob Michael Reinhold Lenz (1751-1792), una delle figure più rappresentative dello Sturm und Drang. Questo ritratto di un uomo affacciato «sul ciglio dell’abisso dove una voglia folle lo spingeva a guardar dentro continuamente, e a rinnovare a se stesso quel tormento», di un uomo che si sentiva troppo grande per il mondo e che trovava il paesaggio così angusto da temere di «sbattere contro tutto», che traversava i monti con il «canto trionfale dell’inferno» dentro il petto e che credeva, dall’alto delle vette, «di poter serrare un pugno enorme contro il cielo e tirare giù Dio e trascinarlo fra le sue nubi; di poter stritolare il mondo con i denti e sputarlo in faccia al creatore» - questo ritratto dunque si dispiega dal principio («Il 20 gennaio Lenz traversò la montagna») alla fine in una specie di simbiosi tra montagna e mente, fino alla «fredda rassegnazione» con cui Lenz, chiuso nella carrozza che risale la vallata in direzione di Strasburgo, si lascia dietro i monti che si levano al tramonto «come un’onda turchina di cristallo»[74].

Erede dell’intera tradizione romantico-rupestre può essere considerato, malgrado la sua forte componente di cinismo ironico, lo scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989): e nel pittore Strauch, «uomo fantastico sospeso sull’abisso»[75], monologante e visionario primo attore del romanzo Gelo, si potrebbe intravedere quasi reincarnato il Lenz di Büchner, lo stesso labirinto di ossessioni dello spirito immedesimato nell’orribile immobilità delle altitudini («Dunque Lei non sente nulla, non sente la voce terribile che grida per tutto l’orizzonte e che di solito chiamano silenzio?»)[76].

Il pittore, credo, è un tipo così particolare che nessuno mai potrà capire. Nessuno. E’ un essere inclassificabile. Con quel suo esser sempre concentrato su se stesso e quel suo allontanare tutto da sé, lui ha fatto uso di ogni sua possibilità fino alla nausea. Guardare lui è come guardare i millenni... «Le montagne, sa, spesso sono degli amplificatori che permettono di vedere molto lontano». Oppure «in modo disumanamente umano»[77].

Si possono citare anche i pensieri dei due simbiotici fratelli del racconto Amras («abituati tutta la vita nei deliri febbrili d’alta montagna a sentire e a pensare ogni cosa -senza eccezione- esasperandola»), considerato dall’autore stesso il suo capolavoro:

La montagna è ostile agli uomini; la crudeltà con cui l’alta montagna schiaccia gli uomini... I Metodi dell’orrore della roccia che avanza nei cervelli degli uomini[78].

Ricche porzioni dell’eredità romantica sono state incamerate poi dal grande flusso letterario del fantastico, che per la quantità e la qualità dei temi in gioco esigerebbe una speciale indagine: si può comunque rammentare quell’ideale linea che collega Edgar Allan Poe (1809-1849), Jules Verne (1828-1905), Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) e che nel suo percorso lascia emergere vertiginose immagini di vortici, cadute, abissi marini, baratri polari, gravitazioni prodigiose o spaventosi e onirici paesaggi di soprannaturale ed insondabile altitudine[79]. Linea ideale che procede da Una discesa nel Maelström (1841), Manoscritto trovato in una bottiglia (1833), Le avventure di Arthur Gordon Pym (1837), Un racconto delle Ragged Mountains(1844)[80] - dove il romantico nesso tra paesaggio e psiche supera le frontiere della vita per inoltrarsi addirittura nei misteri della reincarnazione - di Edgar Allan Poe, alla Sfinge dei ghiacci (1897) di Jules Verne per poi trovare un esito in quelle Montagne della follia (1936) di Howard Phillips Lovecraft che rappresentano per molti aspetti il risultato di due secoli di gusto dell’orrore:

Era certo che ci trovavamo in uno dei punti più strani, misteriosi e terribili tra quanti ve ne sono sulla faccia della terra. Di tutte le terre esistenti quella era infinitamente più antica. [...] Eppure, esagerazioni di natura ancora più mostruosa sembravano a portata di mano. Ho detto che le cime di quei monti sono più alte di quelle dell’Himalaya; ma le sculture mi impediscono di affermare che siano le più alte del mondo. Quel truce onore è senza alcun dubbio riservato a qualcosa che una buona metà delle sculture esitavano a riportare, mentre altre trattavano il soggetto con ripugnanza e trepidazione evidenti. Sembra che una parte di quella antica terra, la prima parte emersa dalle acque dopo che il nostro pianeta aveva scagliato via la luna e gli Esseri Antichi erano riusciti a filtrare giù dalle stelle, fosse considerata come da evitare perché vagamente e indescrivibilmente malefica. Le città costruite là erano andate in rovina anzitempo ed erano state trovate improvvisamente deserte. Poi, quando il primo grande sconvolgimento aveva colpito la regione nell’epoca comancica, una spaventevole catena di montagne era balzata su improvvisamente tra strepito e caos infernali e la terra ebbe da quel giorno le sue montagne più eccelse e terribili.

Se la scala delle mappe era esatta, quei monti detestati avrebbero dovuto essere molto più alti di quarantamila piedi, superando nettamente anche le impressionanti montagne della pazzia che avevamo traversato. [...]

Alcuni degli Esseri Antichi, nei giorni della decadenza, avevano rivolto strane preghiere a quelle montagne, ma nessuno vi si era mai avvicinato o aveva osato azzardare delle congetture su ciò che stava dall’altra parte. Nessun occhio umano si era mai posato su di esse, e mentre studiavo le emozioni rappresentate dalle sculture pregavo che nessuno mai dovesse vederle[81].

Trascinati verso immemoriali antichità da questi tardi flutti del Romantico, si rischia di dimenticare l’essenziale; ma l’«amatore d’abissi» Samivel lo ribadisce in forma di definizione: «La pratica dell’alpinismo, sport consistente nello scalare cime di difficile accesso per il solo piacere di salirle, è un’attività molto recente, d’origine occidentale e legata a un certo stato di civilizzazione»[82].

Rivendicare questa peculiarità dell’alpinismo come fenomeno moderno e occidentale non vuol dire progettare qualche forma di esclusione, significa piuttosto evidenziare il senso autentico di questa prassi, senza la quale tutto un ambito della cultura umana perderebbe il suo radicamento storico. Tutto il cammino evolutivo di una nuova sensibilità, da Kant a Lovecraft, resterebbe sospeso nel nulla se non fosse sorretto, fisicamente sostenuto da un’attività che ha «fatto» le montagne che noi conosciamo: quelle che non sono più «materia grezza, non ancora illuminata dalla luce dello spirito»[83]. Ma sulle nuove, storiche radici si è innestato - non a caso - un elemento che Simmel definiva «atemporale»: «le Alpi sono, per così dire, prive di forma anche nei confronti del tempo; esse non sono l’immagine della negazione della vita - perché una tale negazione è sullo stesso piano della vita, dovendo ancora presupporla - ma del suo “Altro” tout court, del rimanere intatti dal passare del tempo, che è invece la forma della vita»[84]. A questo aspetto metafisico della montagna, come «paesaggio assolutamente “astorico”»[85], si sono collegate istanze premoderne, pezzi di tradizione distaccati dalla loro origine, profonde strutture «antropologiche», per dare una generica designazione di qualcosa che potrebbe estendersi dal campo della biologia a quella della teologia. Si è generata in questo modo una particolare configurazione culturale che non si può individuare facilmente, e che racchiude in sé qualcosa di paradossale, com’era già evidente nella figura kantiana del sublime e com’è bene espresso, per esempio, dall’antitesi nel titolo («Cupe montagne, splendide montagne»), ispirato dall’opera di Ruskin, della fondamentale indagine di Marjorie Hope Nicolson sullo sviluppo dell'estetica dell’infinito[86]. Tutte le terminologie che hanno cercato di denominare la «strana invenzione» - dal piacere dell’orrido alle lammeriane delizie del precipizio, fino agli imperi verticali, abissi della mente di Schama - hanno dovuto obbligatoriamente registrare questa ambiguità, tipicamente moderna, che va ben oltre le frontiere dell’estetica per abbracciare fin dalle origini, in una generale coincidenza degli opposti che caratterizza tutto il nuovo territorio, le principali coppie di categorie antitetiche: romanticismo-illuminismo, tradizione-moderno, serietà-gioco, terrore-piacere, tristezza-gloria, bello-brutto, organico-inorganico, vita-morte ecc.

La cosa che sostiene tutte queste opposizioni è poi la vita stessa nel momento in cui raggiunge e cerca volontariamente di varcare il proprio limite - come lo nominava Reinhold Messner - per accedere a «mondi transvitali»[87], a un’oltrevita il cui concetto viene enfatizzato, ma nello stesso tempo ben delineato dalla prosa di Julius Evola:

Nella lotta contro le altezze e le vertigini montane [...] quanto mai è prossima la possibilità di ridestare, attraverso ciò che sembra un semplice esercizio del corpo [...] un contatto con le forze primordiali chiuse dentro le membra: sì che l’agone fisico sia ad un tempo più che fisico, e nella riuscita vittoriosa sia quasi l’adornamento di qualcosa di non più umano. Se antiche mitologie misero nelle altezze il simbolico soggiorno degli «dei», ciò è mito, ma simultaneamente è espressione allegorica di un significato che è reale; e che può sempre rivivere in sede di interiorità.

Nella vita - come, dopo Nietzsche, l’ha rilevato il Simmel - vi è questo potere strano e quasi contraddittorio, di portarsi a degli apici in cui un «viver di più» (mehr leben), la più alta intensità di vita - si trasforma in un «più che vivere» (mehr als leben). In questi apici, come calore che si trasfigura in luce, la vita, per così dire, si libera da se stessa, non nel senso di una cessazione dell’individualità e di una specie di mistico naufragio, ma nel senso di un’affermazione trascendente di essa, nella quale l’angoscia, l’incessante tendere, bramare ed agitarsi, cercar fedi, appoggi e scopi degli uomini dà luogo ad uno stato di calma dominatrice. Nella vita, non fuori di essa, vive qualcosa di più che la vita. E questa esperienza - perché appunto non si tratta di questa o quella credenza o teoria, sempre vana e relativa, bensì di una esperienza che si presenta in modo così certo e indubitabile quanto, per es., quella del piacere o del dolore - questa esperienza eroica, diciamo, ha per caratteristica appunto l’esser valore in sé stessa, l’esser bene in sé stessa, laddove la vita comune non va che sotto la spinta degli interessi, delle cose esterne o delle convenzioni.

Appunto questa natura più profonda dello spirito che si sente infinito, sempre di là da sé stesso, sempre oltre ogni forma e ogni grandezza che trovi in sé o fuori di sé, anche se non in modo perfettamente conscio si sveglia e riluce nella «pazzia» di coloro che senza uno scopo materiale, senza una ragione, oggi in numero sempre crescente sfidano le altezze secondo una volontà che si impone alla fatica, alla paura, alla voce dell’istinto animale di prudenza e di conservazione[88].

Contraddittoria - ma forse inevitabilmente - è in fin dei conti anche la posizione dello stesso Evola, rappresentante di un’ampia corrente «tradizionalista» di filosofia alpinistica che mette sotto accusa la civiltà moderna, dove «tutto tende a soffocare il senso eroico della vita»[89]. La descrizione sopra riportata del fenomeno dell’«oltrevita», che rivela un’acuta consapevolezza della sua irriducibile novità storica, è una bella immagine della paradossale impresa di sfruttare a fini eroici, neotradizionali e antimoderni, la più anarchica, prometeica figura del moderno: l’alpinismo, prassi titanica per eccellenza. Tutta giocata su questo paradosso - estremizzato fino a tramutare il «simbolismo tradizionale della Montagna»[90] in oggetto materiale di conquista - è per esempio l’opera più consapevole di questa tendenza, il romanzo fantastico di René Daumal Il monte analogo[91].

Forse fu proprio l’impressione di un’irrimediabile paradossalità - più ancora della muta e disumana estraneità[92] dello scenario alpino come tale - a indurre il massimo campione della razionalità dialettica, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, a stare non soltanto ben lontano dai facili entusiasmi del suo tempo, ma addirittura a rifiutare nel modo più coerente la stessa possibilità della nuova emozione:

In queste masse informi né l’occhio né l’immaginazione trovano un punto qual che sia dove l’uno possa sostare con piacere o l’altra trovare un’occupazione o un giuoco. Solo il mineralogo trova materia per azzardare congetture zoppicanti sulla rivoluzione di queste montagne. Nel pensiero della durata di questi monti, o in quella sorta di sublimità che si ascrive loro, la ragione non trova nulla che le imponga necessariamente stupore e ammirazione. La vista di queste masse eternamente morte non mi ispirò nulla se non il commento uniforme, a lungo andare noioso: «E’ così»[93].



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NOTE

[1] Cfr. Martino Rizzotti, Materia e vita. Big bang, origine ed evoluzione del vivente, Utet, Torino 1991.

[2] Franz Kafka, «Prometeo» [1918], in Tutti i racconti, a cura di E. Pocar, vol. II, Mondadori, Milano 1979, p. 154.

[3] Ibidem.

[4] Cfr. Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, tr. it. a cura di B. Argenton, il Mulino, Bologna 1991, p. 700.

[5] Ibid., p. 760.

[6] Ibidem.

[7] «The Mountain Zone» all’indirizzo Internet http://www.mountainzone.com

[8] Cfr. Reinhold Messner, Il limite della vita, tr. it. di P.O. Antonioli, Zanichelli, Bologna 1980, p. 155.

[9] Ibid., pp. 155-156.

[10] Ibid., p. 155.

[11] Cfr. ibid., pp. 3-6.

[12] Ibid., pp. 155-156.

[13] Come lo definiva già nel 1937 il geniale saggista Roger Caillois (cfr. Il mito e l’uomo, tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 43), riprendendo peraltro le tesi freudiane di Al di là del principio di piacere [1920], tr. it. di A.M. Marietti e R. Colorni, Boringhieri, Torino 1975, p. 90. Sulla commistione con fondamentali categorie del pensiero orientale - come nel caso del Nirvana - si basa anche l’alpinismo «esoterico» di Domenico Rudatis: cfr. per es. il suo Liberazione. Avventure e misteri nelle montagne incantate, Nuovi Sentieri, Belluno 1985, pp. 305-313.

[14] Reinhold Messner, op. cit., p. 13.

[15] Ibid., p. 168.

[16] Ibid., pp. 59, 169.

[17] Ibid., pp. 23 sgg., 61 sgg.

[18] Ibid., p. 142.

[19] Ibid., pp. 135-139.

[20] Ibid., pp. 10-11.

[21] Ibid., pp. 40, 172. Cfr. E.G. Lammer, «Parole di un uomo sciolto dalle catene», in J. Evola – Samivel, Il sorriso degli dèi. Note su uomini di montagna e montagne degli dèi, Società Editrice Barbarossa, Milano 1996, pp. 145-148.

[22] Reinhold Messner, op. cit., p. 16.

[23] Ibid., pp. 161-169.

[24] Cfr. per es. ibid., p. 59.

[25] Ibid., p. 55. Leggendo questa evocazione della «beatitudine della caduta», per così dire, non sembrano del tutto infondate le accuse di quei «vecchi desolati» («Vedete! Egli predica le delizie dei salti nel precipizio!») da cui Lammer si difende («No, in verità! Io non predico né che uno debba andar solo, né che uno debba precipitare») nel testo citato più sopra. Cfr. J. Evola - Samivel, Il sorriso degli dèi, cit., pp. 146-147.

[26] Thomas Bernhard, Gelo [1963], tr. it. di M. Olivetti, Einaudi, Torino 1986, p. 107.

[27] R. Frison-Roche - S. Jouty, Storia dell’Alpinismo, tr. it. di O. Antonioli e A.L. Rochat, Corbaccio, Milano 1996, p. 8.

[28] Ibid., pp. 299-315.

[29] Pellicola del 1991.

[30] Cfr. Walt Unsworth, Enciclopedia dell’alpinismo, tr. it. di G. Palmieri, Zanichelli, Bologna 1994, p.163.

[31] Pietro Crivellaro, «E in montagna la vertigine è una droga», Sole 24 Ore, 8-9-1991. Davvero significative le dichiarazioni dell’autore in questa rapida rassegna bibliografica di saggi di «psicologia dell’alpinismo»: «[...] mi dedico alla pratica insensata dell’alpinismo senza essermene fatta ancora una ragione accettabile. L’alpinismo mette in gioco la pelle, non viene preso per quello che è, cioè una cosa da pazzi. Perché i “conquistatori dell’inutile” sono riveriti, o almeno tollerati, anziché essere perseguiti, come ad esempio i tossicomani? Questo rischio-droga meriterebbe un po’ d’attenzione da parte degli scienziati, che si sono prodigati a studiare ogni aspetto dell’organismo».

[32] Jon Krakauer, Aria sottile, tr. it. di L. Perria, Corbaccio, Milano 1998. Come sintomo del forte impatto di questo libro e delle sue tematiche cfr. il numero di Time del 20 ottobre 1997, con copertina interamente dedicata all’argomento, nelle immagini e nel titolo: «Fatal Attraction. A harrowing tale of death on Mount Everest».

[33] Cfr. il commovente articolo dell’amico e compagno d’avventure Adrian Nicholas, «Ancora e sempre Patrick», No Limits world, n. 66, ottobre 1998, pp. 146-149.

[34] Cfr. R. Frison-Roche - S. Jouty, Storia dell’Alpinismo, cit., p. 283 sgg. («All’altro capo del mondo: la Patagonia»).

[35] Per usare un’altra categoria di Reinhold Messner, op. cit., p. 40.

[36] Dino Buzzati, Le montagne di vetro. Articoli e racconti dal 1932 al 1971, a cura di E. Camanni, Vivalda, Torino 1989, p. 75.

[37] Ibid., p.78.

[38] Cfr. Paola Giacomoni, «Il fascino del selvaggio. L’invenzione estetica delle Alpi in epoca romantica e oltre», nel volume collettivo Pensare la natura. Dal Romanticismo all’ecologia, Guerini e Associati, Milano 1998.

[39] Sotto questo aspetto ha un suo momento di validità la connotazione dell’alpinismo come «geografia attiva» preferita da Massimo Mila: cfr. i suoi Scritti di montagna, a cura di A. Mila Giubertoni, Einaudi, Torino 1992, p. 26.

[40] Philippe Joutard, «La riscoperta della montagna nel Settecento. Nascita di una “moda”», in Le seduzioni della montagna. Da Delacroix a Depero, a cura di M.Vescovo, Electa, Milano 1998, p. 13.

[41] Paola Giacomoni, op. cit., p. 247.

[42] Descritta dal poeta stesso in un celebre testo, che si può leggere ad esempio in appendice al volume già citato di J.Evola - Samivel, Il sorriso degli dèi, p. 139 sgg. L’episodio del Monte Ventoso va considerato più precisamente come evento fondatore ed «epocale» della moderna relazione estetica con il paesaggio in generale: cfr. J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, a cura di M. Venturi Ferriolo, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 35-45. Sulla «preistoria» dell’invenzione settecentesca della montagna si può consultare il saggio già menzionato di Philippe Joutard, e dello stesso autore la monografia L’invenzione del Monte Bianco, tr. it. a cura di P. Crivellaro, Einaudi, Torino 1993.

[43] Nel solco già tracciato da autori che hanno sviluppato varie forme di archeologia del moderno, come Georg Simmel, Siegfried Kracauer, Walter Benjamin. Di quest’ultimo si può citare, come paradigma dell’intera «corrente», il grande affresco di Parigi, capitale del XIX secolo, a cura di R. Tiedemann, Einaudi, Torino 1986.

[44] Philippe Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, cit., p. 3.

[45] Simon Schama, Paesaggio e memoria, tr. it. di P. Mazzarelli, Mondadori, Milano 1997, p. 457 sgg.

[46] Ibid., p. 460. Nessuna sintesi è possibile, almeno in questa sede, per quell’intreccio di vicende e personaggi - magistralmente raccontato da Schama - che sta dietro alla suddetta formula del «piacere dell’orrido». Un’avvincente «mappa» di questo importante capitolo di storia della cultura occidentale è anche Il fascino della paura. L’invenzione del gotico dal rococò al trash di Raffaele Milani, Guerini e Associati, Milano 1998, che ne ricostruisce i nessi fino alla più stretta attualità.

[47] Edmund Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, ed. it. a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1985. Il sublime rappresenta una categoria fondamentale della storia dell’estetica e della storia delle idee, che getta un ponte dall’antico, anonimo trattato Il Sublime del cosiddetto Pseudo Longino (ed. it. a cura di G. Lombardo, Aesthetica, Palermo 1987) fino alla «postmodernità» divulgata dal filosofo francese Jean-François Lyotard (cfr. «L’interesse del sublime», tr. it. di G. Gabetta, aut aut, n. 231, 5-6/1989, pp. 33-56; Il postmoderno spiegato ai bambini, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1987 ). Sfondo immancabile dello «scenario» di montagna qui trattato, è tuttavia impossibile portarlo adesso in primo piano: possiamo richiamare una notevole rassegna che mette in evidenza anche la grande attualità di questo campo di ricerca («Sublime antico e moderno. Una bibliografia», a cura di G. Lombardo e F. Finocchiaro, Aesthetica Preprint, n. 38, 8/1993).

[48] Immanuel Kant, Critica del Giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, Laterza 1979, p. 112.

[49] Ibid., pp. 116-117. Su questa citazione «alpinistica» di Kant cfr. P. Giacomoni, op. cit., p. 246.

[50] I. Kant, op. cit., pp. 112-113.

[51] Ibid., p. 92. Su tale peculiarità del sublime kantiano cfr. la «Presentazione» di G. Sertoli che precede la citata Inchiesta sul Bello e il Sublime di Edmund Burke, p. 31.

[52] Georg Simmel, «Le Alpi», in La moda e altri saggi di cultura filosofica, tr. it. di M. Monaldi, Longanesi, Milano 1985, p. 120. Su Simmel come erede della «dimensione kantiana del sublime» cfr. P. Giacomoni, op. cit., pp. 258-259.

[53] Cfr. Massimo Mila, Scritti di montagna, cit., p. 23; R. Frison-Roche - S. Jouty, Storia dell’Alpinismo, cit., p. 24 sgg.

[54] Così designata, non a caso, da Kant nella pagina già menzionata della Critica del Giudizio (cit., p. 117).

[55] Massimo Mila, op. cit., p. 23.

[56] Cfr. Pietro Crivellaro, «L’alpinismo è una tigre di carta», Sole 24 Ore, 20-10-1991; Livio Sposito, «Miti romantici, miti atletici», Sole 24 Ore, 10-8-1997. Per la definizione tecnica ufficiale di questa disciplina cfr. per es. W. Unsworth, Enciclopedia dell’alpinismo, cit., p. 35.

[57] I. Kant, op. cit., p. 116.

[58] Simon Schama, Paesaggio e memoria, cit., p. 486. Cfr. Le seduzioni della montagna, cit., pp. 100-101.

[59] Simon Schama, Paesaggio e memoria, cit., p. 489.

[60] Ibid., pp. 463-467.

[61] Carlo Sini, «Prefazione» a Empedocle. I frammenti, tr. it. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 19912, p. 6. Tralasciamo qualsiasi paragone - che sarebbe comunque interessante - tra la biografia di Hölderlin (che visse dal 1806 al 1843 in una condizione di mite demenza) e l’analogo, già menzionato esito di quella di Cozens.

[62] Cfr. Cesare Lievi, «Introduzione» a Friedrich Hölderlin, La morte di Empedocle, tr. it. a cura di C. Lievi e I. Perini Bianchi, Einaudi, Torino 1990, pp. VI-VII.

[63] Compreso in Friedrich Hölderlin, Sul tragico, a cura di R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1980.

[64] Cfr ibid., pp. 51-63; Carlo Sini, op. cit., p. 7.

[65] Novalis, I discepoli di Sais - Die Lehrlinge zu Sais, a cura di S.M. Moraldo, Giovanni Tranchida Editore, Milano 1998, pp. 45-49.

[66] Su tale influsso di Novalis cfr. Ludwig Tieck, Schriften in zwölf Bänden, Band 6: Phantasus, a cura di M. Frank, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a.M. 1985, p. 1293.

[67] Tradotte in italiano in L.Tieck - Novalis - C.Brentano, Fiabe romantiche, a cura di I. Maione, TEA, Milano 1988.

[68] Sulla distinzione tra fiaba tradizionale e fiaba romantica cfr. György Lukács, Scritti sul romance, tr. it. a cura di M. Cometa, il Mulino, Bologna 1982, pp. 117-134.

[69] Il passaggio dall’universo ingenuo della fiaba alla letteratura fantastica moderna è limpidamente illustrato da Roger Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza, tr. it. a cura di P. Repetti, Theoria, Roma-Napoli 1985, pp. 18-22.

[70] Ludwig Tieck, «La montagna runica», in Fiabe romantiche, cit., pp. 38-40.

[71] Ludwig Tieck, «Eckart il fido e il Tannenhäuser», in Fiabe romantiche, cit., p. 68.

[72] Sugli elementi della tradizione popolare che collega la montagna di Venere e il trovatore medievale Tannhäuser - consacrata infine dall’opera omonima di Wagner - si possono consultare per es. i testi di Carlo Ginzburg, I benandanti, Einaudi 1965, p. 62 sgg.; Storia notturna, Einaudi 1989, pp. 86-87.

[73] Ludwig Tieck, «Eckart il fido e il Tannenhäuser», cit., p. 91.

[74] Georg Büchner, Lenz, tr. it. a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano 1989, pp. 59, 67, 57-59, 11, 79-81.

[75] Thomas Bernhard, Gelo, cit., p. 252.

[76] Georg Büchner, Lenz, cit., p. 79.

[77] Thomas Bernhard, Gelo, cit., p. 196.

[78] Thomas Bernhard, Amras, tr. it. di M. Olivetti, Einaudi, Torino 1989, pp. 25, 67. Capolavoro coronato, non a caso, da un esergo di Novalis: «La natura della malattia è oscura quanto la natura della vita».

[79] Cfr. la ricostruzione di questa «corrente» da parte di Mario Carini, «Fantastica Antartide. Il “mistero del Polo” in Poe, Verne e Lovecraft», Abstracta, n. 48, 5/1990, pp. 70-77.

[80] E.A. Poe, «Un racconto delle Ragged Mountains», tr. it. di D. Palladini, in E.A.Poe, Racconti di fantascienza, Newton Compton, Roma 1995.

[81] H.P. Lovecraft, «Le montagne della follia», tr. it. di G. De Luca, in Opere complete, SugarCo, Milano 1983, pp. 597-598.

[82] J. Evola – Samivel, Il sorriso degli dèi, cit., p. 113. Cfr. Samivel, Amatore d’abissi, tr. it., Zanichelli, Bologna 1984.

[83] Cfr. Massimo Mila, op. cit., p. 27.

[84] Georg Simmel, op. cit., p. 118.

[85] Ibidem.

[86] M.H. Nicolson, Mountain Gloom and Mountain Glory. The Development of the Aesthetics of the Infinite, University of Washington Press, Seattle and London 1997. Cfr. John Ruskin, Pittori moderni, a cura di G. Leoni, 2 voll., Einaudi, Torino 1998.

[87] Cfr. Paola Giacomoni, op. cit., p. 259.

[88] Julius Evola, Meditazioni delle vette, a cura di R. del Ponte, SeaR, Borzano R.E. 1997, pp. 31-32.

[89] Ibid., p. 30.

[90] Cfr. l’antologia di «tradizionalisti» Il regno perduto. Appunti sul simbolismo tradizionale della Montagna, a cura di E. Longo, Il Cavallo alato, Padova 1989. Sulla montagna come elemento universale delle cosmologie mitiche cfr. il grande atlante di Joseph Campbell, Le figure del mito, tr. it. di A. Sabbadini, red edizioni, Como 1991 (pp. 76-140: «La Montagna del Mondo»).

[91] René Daumal, Il monte analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, tr. it. a cura di C. Rugafiori, Adelphi, Milano 19938.

[92] Cfr. Paola Giacomoni, op. cit., p. 256.

[93] G.W.F. Hegel, Viaggio nelle Alpi bernesi (1796), a cura di G.A. De Toni, Lubrina, Bergamo 1990, pp. 55-56.



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AUTORE: Lorenzo Giacomini insegna Estetica con Massimo Venturi Ferriolo ed Eugenio Pesci, presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Il saggio qui pubblicato è tratto dal volume Estetica del paesaggio, a cura di M.Venturi Ferriolo - L.Giacomini - E.Pesci, Guerini e Associati, Milano 1999. L’Estetica del paesaggio delineata da Venturi Ferriolo rappresenta lo sfondo culturale sul quale sono in corso di elaborazione e pubblicazione le ricerche di Lorenzo Giacomini ed Eugenio Pesci sulla montagna come “oggetto filosofico” creato, soprattutto negli ultimi tre secoli, da una peculiare interazione tra pensiero e cultura materiale. Lorenzo Giacomini si è laureato in Filosofia a Milano con uno studio sul mito nel pensiero tedesco contemporaneo, come campo primordiale ma sempre attuale della coscienza e della cultura. Ha pubblicato saggi e articoli in volumi collettivi e riviste, su temi diversi ma ispirati da questo basilare interesse per il pensiero mitico come forza propulsiva originaria: tra l'altro su modernità e mito in Simmel, su Benjamin e la fiaba romantica di Tieck, sul "complesso dell'origine" nei romanzi di Thomas Bernhard, sull’antica medicina onirica del dio Asclepio, sui rapporti tra l'antica gnosi e la moderna New Age, sulle notevoli coincidenze tra l'immagine della natura proposta da nuove correnti del sapere scientifico e quella offerta dalla millenaria e molteplice tradizione della mantica. Su quest'ultima ricerca epistemologica ed ermeneutica concernente i rapporti tra scienza, filosofia e divinazione, sostenuta dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e già presentata su riviste, ha in preparazione uno studio monografico. E' stato tra i fondatori della rivista "Informazione Filosofica", promossa dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall'Istituto Lombardo per gli Studi Filosofici e Giuridici. Ha operato in campo giornalistico-editoriale come recensore, redattore e traduttore di testi filosofici dal tedesco. Ha ideato e realizzato il sito Internet http://www.studifilosofici.it

Orazio Coclite
05-05-02, 23:20
Da: http://www.intraisass.it/Kailas.htm



Kailas: la Montagna Sacra

di Alessandro Pellegatta


Il Kailas è il luogo sacro che ha influenzato maggiormente la cultura indiana: la sua influenza valica gli stessi confini geografici dell'India ed è presente in tutta l'Asia.
Attraverso un affascinante viaggio all'interno delle strutture archetipali dell'immaginario, è infatti possibile riconoscere il mito del Kailas nelle grotte di Ellora, così come nelle ‘shikhara’ (torri) del Khajuraho, nei ‘chorten’ del Tibet, o nelle pagode birmane, thailandesi e cambogiane, o nei templi di Bali o negli stupa-mandala di Borobudur in Indonesia...

La prima volta che mi sono misurato con il mito del Monte Kailas fu nel Rajasthan, la regione desertica posta a nord-ovest dell'India, e precisamente ad Ajmer: città non bella ma da vedere per almeno due ragioni, una delle quali è la visita al famoso tempio jainista di Nasiyan.
Nel tempio di Nasiyan, in un grande salone a due piani, è illustrata la rappresentazione del mondo secondo la mitologia jainista. Al centro dell'enorme plastico - che pare sia stato realizzato utilizzando oltre 800 chilogrammi di oro e svariate pietre preziose - campeggia il monte Kailas (che la mitologia induista identifica col Monte Meru), la Montagna del Mondo. Adinath, il primo Tirthankara (Santo) del jainismo, si dice abbia raggiunto il nirvana proprio al Kailas (chiamato dai jainisti ‘Ashtàpada’). Al tempio si recano in pellegrinaggio gli ‘Svetambara’, religiosi vestiti di bianco, e intere famiglie poverissime (e probabilmente semi-analfabete) che rimangono letteralmente stupefatte.

“V'era, un tempo, un picco del Monte Meru famoso nel trimundio. Questo picco traeva la sua discendenza dal Sole ed era chiamato Luminare; era ricco di ogni sorta di gemme, incommensurabile, inaccessibile a tutte le genti. Là, sul pendio montano adorato d'oro e di minerali, il dio Shiva stava assiso come su un divano, rifulgendo di intenso splendore...”(dal ‘Mahabharata’).

Tornano alla mente le solitarie pietraie intorno al Kailas, dove visse Milarepa, cibandosi di sole ortiche e radici e vestendosi di cotone nei rigori estremi del clima tibetano, grazie alla sua capacità di generare il ‘tumo’, il calore interiore che si sviluppa attraverso la meditazione. Milarepa non possedeva nulla e si sottopose a privazioni tremende. Lo stesso spirito di Milarepa anima l'ascetismo attuale del jainismo, i cui seguaci sono strettamente vegetariani e fanno penitenza digiunando.
Durante il mese sacro del Pajoshan i jainisti non consumano verdura in foglia, radici e acqua non bollita. Nell'ultimo giorno di penitenza chiedono perdono per avere offeso una qualsiasi creatura vivente. I ‘Digambara’ (‘vestiti di spazio’), in prevalenza monaci, trascorrono l'esistenza in un'ascesi totale, completamente nudi, rinunciando a tutti i beni terreni, mentre gli ‘Svetambara’ (‘vestiti di bianco’) indossano una mascherina che, coprendo la bocca, serve ad evitare di inalare accidentalmente gli esseri viventi...
Lo stesso Gandhi sentì in modo particolare l'influsso degli insegnamenti jaina. Aveva accettato l'Ahisma, l'arte del non far male, come base della sua politica e della sua vita; si accontentava di una semplice copertura ai lombi e poteva digiunare fino alla morte (presso i jaina, il suicidio per fame rappresenta la massima vittoria dello spirito sulla cieca volontà di vivere...). I jainisti possono pertanto riconoscerlo come uno dei loro Jina, il ‘conquistatore’, uno dei grandi Maestri a cui - come essi ancora credono - il fato ha ordinato di apparire a intervalli regolari per illuminare il popolo dell'India e del Mondo intero, l'incarnazione del Grande Spirito che periodicamente diventa carne per redimere...

Come è possibile che il Kailas, una montagna di appena 6000 metri, sia considerata così importante, quando ve ne sono di ben più alte e imponenti nella catena himalayana? Quali sono le ragioni che fanno del Kailas la montagna più sacra del mondo? Cosa contribuisce a fare di questa montagna un archetipo così radicato nell'inconscio collettivo dell'intero continente asiatico, a migliaia di chilometri di distanza dalla catena himalayana, fino ad Angkor e Borobudur ?

“L'Illuminato dice in verità che questa montagna di neve è l'ombelico del mondo...Qui si può raggiungere la Perfezione trascendente”. Dall'altopiano intorno al Kailas nascono il Gange, l'Indo, il Suthej ed il Brahmaputra. Sulle sue pendici cresce la famosa e mitica ‘soma’, la bevanda della non-morte, l'elisir di lunga vita che va raccolta nelle notti di luna piena e a cui sono stati dedicati ben 120 ‘Veda’, le antiche scritture sacre dell'India. La fase più antica dell'Induismo è rappresentata dalla religione Vedica (c. 1500 a.C.), durante la quale gli indiani veneravano divinità ritenute originariamente ‘mortali’, che si credeva avessero raggiunto l'immortalità bevendo, appunto, il succo divino della ‘soma’.
Recenti studi, avvalorati dalle letture dei ‘Rig Veda’, hanno accertato che dal Kailas sgorgava il Sarasvati, un fiume descritto come ‘enorme’ intorno al quale si sviluppò la civiltà vedica e che dopo un'eccezionale periodo di siccità durato per 300 anni (dal 2200 al 1900 a.C.) si disseccò completamente nelle sabbie desertiche del Thar.
La riscoperta del Sarasvati è davvero rivoluzionaria, in quanto contraddice le tradizionali teorie sulla cruenta invasione degli Ariani. Secondo recenti scoperte, illustrate da Olga Amman e Giulia Barletta in un affascinante libro (‘Tibet sconosciuto’, Armando Dadò Editore, Locarno 1994), gli Ariani non possono essere le presunte tribù di razziatori che avrebbero distrutto la cosiddetta ‘civiltà dell'Indo’ intorno al 1500 a.C., come hanno finora ipotizzato gli accademici. Questa civiltà sarebbe scomparsa col prosciugamento del Sarasvati, la ‘Madre dei fiumi’, che abbandonò l’antico letto a seguito di violentissimi terremoti e ripetuti movimenti tettonici accompagnati a sconvolgimenti climatici, perdendo i suoi affluenti (tra cui il Gange) e dissolvendosi nel deserto verso Occidente.

Il Kailas è al centro del mitico ‘Chaturdvipa’, il continente-mondo visto come un fiore di loto a quattro petali della cosmogonia vedica, ed è venerato da quattro religioni. Per l'Induismo, come sopra illustrato, è il regno di Shiva, il dio del ‘Lingam’ (fallo) e delle pratiche ascetiche, il grande Distruttore e Trasformatore. Per il Buddismo è la dimora di Sanvara, una manifestazione irata di Sakyamuni, ritenuta l'equivalente di Shiva. Il Jainismo venera il Kailas, in quanto il suo primo santo (Adinath, appunto) lì raggiunse il nirvana. L'antica religione ‘bòn’ del Tibet vede in esso la montagna dalla svastica a nove piani, sulla quale scese dal cielo il fondatore. Si racconta che Milarepa un giorno venne sfidato da uno sciamano ‘bònpo’ a salire sulla cima del Kailas. Lo sciamano raggiunse effettivamente la vetta, ma quando si accorse che Milarepa - che camminava ‘sul vento’ - era già lì, si lasciò sfuggire di mano il suo tamburo magico che, cadendo, tracciò quella lunga linea verticale che contraddistingue il versante sud-est della montagna.

Dalla stilizzazione della figura del Kailas e del suo ‘jojoba’, l'albero sacro da cui sgorga il Gange, hanno preso forma, oltre alle torri-pagode (dette ‘Meru’) dell'Indonesia e le splendide ‘shikhara’ (torri) del Khajuraho (vicino a Benares), gli stessi ‘stupa buddisti’.
Il devoto che si cimenta (sempre in senso orario!) nella ‘pradakshina’ di un Grande Stupa - che poi è la stessa immagine del Buddha - compie teoricamente anche il ‘parikrama’ del Kailas. Con molta probabilità, il pellegrinaggio intorno al Kailas, impegnando severamente ogni individuo, dovrebbe ottenere un coinvolgimento emotivo maggiore, e quindi risultati spirituali più profondi. Ma non è detto che uno ‘stupa’ e soprattutto il Grande Stupa di Sanchi, nell'India centrale, innalzato su una collina suggestiva e immersa nella quiete, non susciti il medesimo effetto. In fondo, tutto dipende dalla disposizione d'animo della persona: anche un viaggio al Kailas può risultare inutile e vano...

Il Kailas non è solo una montagna. E' una montagna con una sua ‘personalità’. Vibra di arcano, di miti e simboli, è lì che ti parla. Devi solo accettare il suo invito, e uscirai mutato dall'esperienza. Come con ogni montagna, bisogna passarle accanto percependone il sussurro, riconoscendo la sacralità dei luoghi e la sottile presenza del ‘genius loci’: bisogna avvicinarla con rispetto, tendendo l'orecchio alla sua voce più profonda, cercando di indirizzare lo sguardo oltre la realtà più scontata.

“O Madre Terra, ogni passo che facciamo su di Te dovrebbe essere fatto in modo santo...”, diceva Alce Nero, il grande sciamano sioux.

Orazio Coclite
05-05-02, 23:25
Da: http://www.intraisass.it/Dhaulagiri98.htm



Lassù abitano solo gli Dei

di Mario Vielmo

Himalaya, Dhaulagiri (8.167 m), versante Nord-Est: l'esperienza di un giovane himalaysta finalmente in vetta al suo primo ottomila. Spedizione italiana Dhaulagiri, maggio 1998.


Non potevo credere ai miei occhi quando, ancora con un piede sulla parete Nord e l'altro sulla pianeggiante cresta a sud, stavo immortalando il sogno della mia vita. Non so chi o cosa mi abbia spinto fin quassù, a oltre 8.000 metri di quota, senza bombole d'ossigeno, in un mondo che non appartiene a nessuno, in un mondo senza vita.
“Lassù abitano solo gli Dei”, avevo ascoltato perplesso dai racconti degli Sherpa che abitano lungo la valle Miagdi. Percepivo una strana energia, mentre i miei occhi indeboliti e stanchi per il forte vento e per il freddo potevano solamente guardare in basso. Tutt'attorno la terra segnava il confine dell'orizzonte tra un oceano di vette e nuvole.
Guardai in alto, ma non c'era più nulla da scalare. Era finita. Tutto il Dhaulagiri era finalmente sotto ai miei piedi e ancora più sotto la terra. Ero riuscito con le mie gambe ad arrivare fino al confine con la troposfera ed ora stavo toccando il cielo con un dito. Inoltre, l'aria sottile degli 8.000 mi trasmetteva una strana sensazione di potenza ed euforia. Anche se ero fisicamente debilitato dopo un mese di fatiche, lotte e tragedie vissute ai piedi di questa montagna, ora che finalmente ero arrivato in vetta potevo caricarmi e dare un senso e una spiegazione al motivo per cui mi trovavo lassù.
Bastava guardare attorno: la mia vista osservava il vicino massiccio dell'Annapurna e sconfinava verso l'altopiano del Tibet, mentre la mia mente ascoltava strani suoni. Mi trovavo in un ambiente magico, forse abitato da strane energie; finalmente ero appagato, non c'erano più dubbi. Appena fissai su un chiodo alcune bandierine buddiste che avevo custodito nella tasca della mia giacca in piumino, ritornai sui miei passi e raggiunsi Tarcisio Bellò che mi stava precedendo. Decidemmo di scendere alla svelta: nella zona della morte oltre i 7.600 metri è meglio non rimanere a lungo. Inoltre
gigantesche muraglie di nuvole che si innalzavano dalle foreste del Teraj si stavano ammassando contro la montagna spinte da venti fortissimi. La tempesta da lì a poco si sarebbe avvicinata, e farsi trovare lassù era una trappola mortale senza alcuna via di scampo. Presi in mano la piccozza ed iniziai a scendere lungo il ripido canalino che conduce nell'aperta parete Nord. Bisognava stare molto attenti e concentrati al massimo: un minimo errore sarebbe stato fatale. Bastava appoggiare male un piede per ritrovarsi a precipitare in un volo senza fine, lungo i 3.500 metri della parete. Per fortuna tutto andò senza intoppi. Ero un po' stanco, ma mente e corpo rispondevano bene. Mi ero addirittura scordato di quelle strane fitte di dolore che ormai da diversi giorni avvertivo alle costole ad ogni colpo di tosse. Pensavo solo a scendere, scendere velocemente. Arrivai al campo 3 verso le 17, da solo. Mi infilai in tenda ed iniziai subito a sciogliere della neve per fare acqua per me e per il mio compagno. Dovevamo bere, eravamo completamente disidratati per la rarefazione dell'aria e sentivo che presto perfino le nostre cellule si sarebbero rivolte contro. Mezz'ora dopo arrivò Tarcisio, mentre fuori si stava scatenando la solita bufera serale. Tarcisio, con il volto decisamente stanco e sofferente, entrò a carponi dentro la tenda senza togliersi nemmeno i ramponi. Rimase per un quarto d'ora ansimante e senza dire una parola. Gli offrii subito un po' di the caldo che non esitò un attimo a bere. Gli chiesi se era disposto a scendere velocemente fino al campo 2, visto che quel tratto era stato attrezzato con delle corde fisse.

Pensavo che un'altra notte in quell'inferno che si stava scatenando al campo 3 ci avrebbe messo di nuovo a dura prova. E poi il mio istinto mi consigliava di fuggire più che rimanere. Ma il mio compagno non volle saperne, era troppo stanco per muoversi ancora. Dopo un po' rigettò fuori quel poco di the bevuto, poi si mise tranquillo nel suo sacco piuma. Arrivò la notte e fu l'esperienza più allucinante di tutta la mia vita. La bufera si scatenò con tutta la sua violenza. Io rimasi sempre seduto con le mani tese verso le astine portanti della tenda ormai semidistrutta e piegata dalle raffiche di vento. La tenda al campo 3 si trovava in una posizione molto scomoda ed esposta al vento, era montata e fissata su alcuni chiodi su un piccolo terrazzo, in un tratto molto ripido della cresta Nord-Est. Il bordo esterno della tenda sporgeva in fuori verso l'immensa e profonda parete Nord. Eravamo sull'orlo del precipizio, tra la vita e la morte. Se solo uno dei tiranti esterni della tenda avesse ceduto quella notte, ora io non sarei qui a raccontarvi questa storia. Con la mia mente avrei voluto fuggire lontano da quell'inferno. Sognavo le bianche e calde spiagge dei luoghi esotici e mi chiedevo in continuazione cosa ci facessi lassù. Passai delle ore, tra una raffica di vento e l'altro, a pensare su tutta la mia esistenza.

Il nero pensiero della morte mi tenne compagnia, mi sentivo impotente di fronte alla grande montagna. Pensavo all'amica francese Chantal Mauduit, una delle alpiniste più forti del mondo. L'avevamo trovata alcuni giorni prima senza vita assieme al suo sherpa Ang Chiring, uno tra i più forti portatori d'alta quota dell'Himalaya. Si trovavano dentro la loro tenda quando una maledetta valanga li sorprese nel sonno. Pensavo poi al ragazzo greco che vicino al campo volò via con una raffica di vento; pensavo a quel povero alpinista svizzero il cui corpo riposa appena sotto la vetta da 4 o 5 anni. Quante volte ho odiato questa montagna. Sapevo benissimo, ancora prima di partire, dei rischi che avrei corso in questa spedizione, ma la tentazione era fortissima e avevo un conto aperto con gli ottomila.

Nell'estate del ‘96 nel Karakorum pakistano avevo tentato la scalata del Broad Peak, 8.046 metri, vicino al famoso K2. Ero giunto a 7.500 metri con il famoso alpinista basco Koke Lasa. Ci trovammo al nostro quinto bivacco in parete, pronti per partire all'una di notte per raggiungere la vetta. Eravamo senza sacchi a pelo, li avevamo sotterrati in un buca duecento metri più in basso della tenda, visto che dovevamo alleggerirci per tentare l'ultima chanche. Fu una lunga notte fredda; ero seduto dentro la tenda con l'unico pensiero rivolto a quel sacco a pelo. Quando l'alba arrivò, dopo ore che sembravano eterne, prendemmo l'amara decisione di scendere. Il pericolo di valanghe ci fece ragionare sulla giusta scelta.
L'anno seguente, in allenamento per questa scalata, andai nel Pamir russo assieme ad Enrico Salvetti. Salimmo in 15 giorni il Pik Lenin, 7.176 metri, facendo la prima discesa con gli sci da telemark. Fu una bella esperienza e riacquistai la necessaria fiducia in me per affrontare il Dhaulagiri, ‘la montagna delle tempeste’.

Alle prime luci dell'alba la tempesta ci diede tregua, Tarcisio stava meglio e non esitammo un attimo a scendere. Eravamo stracarichi di materiale, considerato il doveroso compito di smantellare il campo 3. Dopo alcune ore arrivai al campo 2. Infilai lo snowboard ai piedi e iniziai a scendere per 2.000 metri attraverso ripidi pendii ghiacciati ed immensi crepacci. Quando arrivai ai piedi della montagna mi vennero incontro Franco Brunello e Passang, il nostro cuoco. Si congratularono per la vittoria e mi diedero una mano a portare il pesante zaino fino al campo base.
Quella sera facemmo festa ed il nostro cuoco riuscì perfino a preparare una torta di cioccolato. Solo allora capii che io e Tarcisio ce l'avevamo fatta. Era proprio vero, come avevo letto e sentito dai grandi personaggi dell'alpinismo: un ottomila è tuo solamente quando arrivi al campo base sano e salvo.

Arrivai al campo base con il fisico completamente debilitato. Mi accorsi di questo quando mi rilassai: il giorno dopo non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi. Le fitte al torace che avvertivo giorni prima si erano trasformate in pugnalate alle costole. Una settimana dopo, quando rientrai in Italia, seppi che si trattava di una costola fratturata. Quel giorno chiesi via radio l'intervento del medico della spedizione slovena che si trovava a quindici minuti dal nostro campo base. Ne seguì un episodio vergognoso: il medico non venne mai a farmi visita, anzi chiedeva se potevo raggiungerlo al suo campo, cosa assurda visto il mio stato. E così fece una cosa saggia, mi mandò tramite uno sherpa delle pillole di un potente antidolorifico. Queste, una volta prese, fecero più danni di prima, ebbi delle terribili coliche allo stomaco proprio il giorno che lasciammo il campo per ritornare a valle, salendo per il Passo dei Francesi.
Fu un'altra esperienza allucinante, e pensare che avevo rischiato la vita assieme ai miei compagni per soccorrere un alpinista sloveno colpito da edema cerebrale a 7.000 metri. Impiegammo una giornata intera per calarlo dallo sperone e salvargli la vita. Questa fu la loro riconoscenza.

Raggiunta la valle Kaligandaki, dopo un mese vissuto sui ghiacciai, capii che la spedizione al Dhaulagiri era stata un'esperienza meravigliosa. Riscoprii i colori e i profumi della vita e sperimentai la sensazione di rinascere e di abitare in un nuovo mondo.

(Settembre 1998)

Orazio Coclite
05-06-02, 13:45
Da: http://www.marcovalerio.com/testi/bellunos.html



LA MONTAGNA ROMANTICA
PERCORSI DI RIFLESSIONE TRA FILOSOFIA E ALPINISMO
Convegno di studi organizzato dal Comune di Belluno
e dall’Istituto Italiano per gli Sudi filosofici
Belluno, 28 ottobre 2000

Ciro Sbailò

Il Nòmos della Montagna
Metafore della Legge e filosofie della crisi


Da sempre la montagna evoca l’idea della Legge.

La montagna è il luogo dove la legge viene rivelata, custodita, imparata e insegnata, o discussa. La montagna è la scenografia dei grandi patti costitutivi delle nazioni: spesso essa custodisce la memoria storica di un popolo, di una nazione o di una comunità. È il luogo della Legge in quanto luogo della Memoria.

Il più mediterraneo dei popoli — punto di incrocio dei principali flussi culturali, politici e artistici dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia — il popolo maltese, colloca i suoi luoghi della memoria e della legge lontano dal mare, in alto. Non a Valletta, città di battaglie e di commerci, ma nella "silente" Mdina, nell’interno, su una delle rare alture dell’isola, in uno scenario per metà greco-arcaico e per metà veterotestamentario.

La montagna garantisce il distacco necessario per dare una risposta alle moltitudini: "Vedendo che c’era tanta gente, Gesù salì verso il monte". Ma per questo, la montagna è il luogo della solitudine e del rischio — luogo dell’esperienza prometeica o edipica, o luogo del ritiro, per una silenziosa opera di ricostruzione della memoria: a Delfi, sul monte Parnaso, la pulsione dionisiaca si stempera nel "mitigante abbraccio di Apollo" e da "quel monte a cui Cassino ne è la costa", dove prima sorgeva un tempio ad Apollo, comincia una nuova diffusione della "verità che tanto ci soblima". Accedere alla montagna è pericoloso. Soprattutto se vi si accede alla ricerca del Fondamento, di Dio, della "copia originale" del contratto della nostra comunità. Il coraggio non basta. Ci vuole calma, umiltà, una certa dose di fatalismo. L’esperienza spirituale più difficile è quella dell’esser giunti in cima. E qui che ci rendiamo conto con quale spirito abbiamo compiuto il percorso. Il giovane Giordano Bruno, come racconta nel De Infinito, una volta raggiunta la vetta del Vesuvio, si rende conto che "a’ Muntagna" (con la "m" maiuscola: così noi vesuviani chiamiamo il nostro vulcano), che prima gli pareva una massa desolata e misteriosa nella sua lunare lontananza, non è tanto diversa dal resto del mondo: vi si trovano gli stessi frutti, legumi e fiori che crescono tra Nola e Ottaviano. Arrivati in cima, dunque, vediamo che dio non c’è. Ovvero, ci rendiamo conto che se è sulla montagna, allora è anche nell’orto di casa mia. Dio è terra per ceci. Dio è morto. A questo punto, si può scendere dalla montagna, appunto per dire che "dio è morto". Oppure per mentire, per dire che abbiamo visto dio, il quale ci ha dato la chiave per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Ma qui tertium datur. E se l’esperienza di Dio — del fondamento — fosse proprio nel darsi di quell’assenza? Se egli si presentasse proprio nella solitudine che abbiamo incontrato arrivando in cima? Si tratta di fare l’esperienza della solitudine radicale. Un’esperienza che una sola volta è stata fatta in maniera compiuta: sull’aspra altura detta "Golgota". Lì, scrive Hegel, "la più alta finitezza non è la vera vita temporale; bensì la morte, il dolore della morte è la più alta negazione, la più astratta, lo stesso limite naturale, la finitezza nel suo più alto estremo. L'esistenza temporale, piena dell'idea divina, viene intuita nel presente solo nella morte di Cristo. La più alta alienazione dell'idea divina: ‘Dio è morto, Dio stesso è morto’". La montagna è il luogo della rivelazione e della morte di dio, ma anche il luogo della nascita del "nuovo patto". Il Nuovo e il Vecchio Patto sono accomunati dal riferimento cruciale alla Montagna, al cammino verso l’alto.

A notarlo è Tertulliano, che, oltretutto, fu fine giurista, al di là della sua identificabilità o meno con l’autore citato nel Digesto: "Egli [Gesù] prende tre dei suoi discepoli come testimoni della visione futura e della sua parola (…) Si allontana sul monte. Riconosco le caratteristiche del luogo. Infatti anche il suo popolo primitivo il creatore lo aveva istruito con la sua apparizione e la sua voce presso il monte". Tertulliano si riferisce a due episodi biblici: il dono della Torah sul Monte Sinai e la trasfigurazione di Cristo sull’"alto monte" del Tabor, "dove non c’era nessuno". Dopo aver parlato della morte e della resurrezione, Gesù "prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare". Pietro, davanti a quello spettacolo, non capisce, e dice: "Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia". Il povero Pietro vorrebbe costruire "tre tende". Inconsciamente, forse, vuole ancorare la trascendenza alla terra, renderla familiare. Il suo atteggiamento è certo più ingenuo e benigno rispetto a quello dei suoi antenati, i quali avrebbero voluto salire sul monte Sinai, e che stanchi di aspettare si costruirono "un vitello d’oro". Ma alla base di entrambi gli atteggiamenti c’è una medesima angoscia di fronte all’ineffabile, il desiderio di "vedere" e di "toccare" il fondamento. Laddove il Legislatore, che è stato all’Oreb, "la montagna di Dio", sa che il fondamento è un "cespuglio che brucia ma non si consuma", che non può essere neanche nominato.

Epperò, se il fondamento è ineffabile, esso prescinde dalla sua stessa rivelazione. E dunque, esso è accessibile anche al di fuori dell’esperienza storica del popolo eletto. Ecco, dunque, il significato della presenza della "montagna" nel vecchio e nel nuovo patto: "Riconosco il luogo". Nella sua polemica anti-giudaica Terulliano scrive: "Infine, io sostengo che prima della legge di Mosè, scritta su tavole di pietra, esisteva una legge non scritta, che era intesa secondo natura ed era osservata dai padri. Infatti, come si poté trovare giusto Noé, se non lo precedeva la giustizia della legge naturale?". Qui comincia la critica moderna al Fondamento. Da questo piccolo — quasi invisibile — seme nasceranno tanto il razionalismo giuridico moderno, quanto lo scetticismo che lo distruggerà.

Ma l’immagine della Montagna come luogo della Legge e del patto, non solo accomuna Vecchio e Nuovo Testamento, ma anche Gerusalemme e Atene, mondo giudaico-cristiano e mondo greco. L’immagine della Montagna è presente all’inizio della storia del diritto greco. Platone racconta che Minosse fu il migliore legislatore dell’antichità perché frequentava l’antro di Giove, sul Monte Ida, a Creta. Sullo stesso monte si recava Epimenide, tra i più trandi "esperti di diritto" dell’antichità (la sua presenza fu invocata da Solone ad Atene, per risolvere una grave crisi politica e religiosa). E qui le acque del mito si mescolano con quelle della storia. Epimenide il cretese, "uomo divino", è posto all’origine della civiltà giuridica ateniese. Egli "non divinava sulle cose future, bensì su quelle passate, ma sconosciute". Egli, cioè, istituisce le norme del "parlare inntribunale".Egli, dunque, conosce l’origine della legge. Ed è insieme ad Epimenide che Pitagora , altro grande legislatore, si reca quasi in pellegrinaggio al Monte della Legge, il Monte Ida. Pitagora è il primo a chiamarsi "filosofo", ed è il primo filosofo politico. Il suo stesso nome, secondo alcune fonti, sarebbe il segno di questo destino. Pitagora, infatti, potrebbe derivare dalla fusione di pythios e agoreyein. La prima prima parola significa "pitico", cioè uomo della Pizia — la sacerdotessa dell’oracolo di Apollo a Delfi. La seconda parola — agoreyein — significa "annunciare", ma è legata a un’altra parola, a noi familiare, che è agorà, vale a dire la piazza, il luogo del mercato, della discussione civica e dei grandi eventi politici — lo spazio "liquido" che si distende ai piedi dell’altura dell’Acropoli. Il Mediterraneo, questo "mare tra le montagne", ospita la nascita del concetto occidentale di legge.

La contrapposizione tra la "legge" greca e "legge" mosaica — la prima "naturale" e la seconda "rivelata" — mostra oggi per intero la propria debolezza. L’una e l’altra ci risultano, nell’età della secolarizzazione, accomunate da una caratteristica essenziale: sono senza Fondamento. I luoghi dove esse sono state insegnate o dove sono state rivelate sono oggi delle attrazioni turistiche. Sulla montagna non c’è nulla.

Tanto il diritto naturale quanto il diritto positivo risultano infondati dal punto di vista della scienza giuridica contemporanea. Nell’ambito del diritto internazionale, ad esempio, vengono sempre più spesso utilizzati paradigmi di tipi giusnaturalistico. Dal processo di Norimberga fino all’arresto di Pinochet nel Regno Unito o all’intervento della Nato nel Kosovo, sia in sede giuridica che politica, l’interpretazione delle norme positive viene — implicitamente, ma molto spesso anche esplicitamente — subordinata a principi umanitari universali. Al tempo stesso, sul piano scientifico, l’impossibilità di ricavare norme da principii naturali, ad esempio, come quella dell’unicuique suum, appare oggi insuperabile.

Ma proviamo a rifare il percorso all’indietro, cominciando dalla contrapposizione tra nòmos e Torà.

Scrive Hermann Cohen: "Una differenza caratteristica tra la religione mosaica e il politesimo consiste certamente nel fatto che il Dio unico non trasmette soltanto singoli comandi a singoli uomini, ma impartisce comandamenti che devono valere per tutti gli uomini come leggi". "Il monoteismo invece mantiene la parete divisoria tra Dio e uomo in tutti i concetti". L’unico, tra i Greci, a mantenere questa parete divisoria, è Platone. "All’interno delle leggi di Dio e, sulla loro base, anche all’interno della stessa religione, viene dunque riconosciuta la differenza tra le leggi che, in quanto leggi morali, riguardano la vita umana nel diritto e nello Stato, e quelle che riguardano soltanto o anzitutto l’ambito interno del servizio divino". Questo significa che nulla si sottrae alla legge del Sinai. "La legge abbraccia l’intera vita con tutte le sue azioni. Come nessuna di queste può sottrarsi all’unità della vita, così anche la legge non può essere esclusa da nessuna di queste". Di qui una conseguenza grande e pericolosa: "Viene eliminata la differenza tra sacro e profano". Nessuno fa eccezione, neanche il profeta può sottrarsi alla legge. La "sovranità della legge" "non può tollerare eccezioni".

Non è già qui il seme della secolarizzazione del diritto, della demolizione degli antropomorfismi della "sovranità"? E non è già qui la distruzione di ogni giusnaturalismo? ma anche la risposta a questa distruzione in una chiave non relatitivistica? Le leggi, dice Cohen citando Mainonide, valgono solo in quanto sono deducibili dalla "legge fondamentale". Per questo, la legge non può avere una spiegazione "causale". La legge si comprende in base alla sua "ragione", ovvero al suo "fine" (in senso etico). Ma anche le ragioni e i fini delle leggi, da un punto di vista razionalistico—monoteistico, non possono essere concepite che come "mezzi". Il razionalismo monoteistico accoglie dentro di sé l’istanza normativa del razionalismo greco, ma ne risolve le aporie. Per il razionalista classico si pone il problema della "finalità" e della "giustificazione" della norma positiva. Il problema viene risolto attraverso il concetto del "diritto naturale". Parallelamente, nell’ambito religioso, la religione rivelata viene giudicata sulla base della religione naturale. Ma, paradossalmente, sia la religione che il diritto, proprio in quanto "naturali", risultano aperti a sempre nuove — di volta in volta, "definitive" — fondazioni. In altre parole, il riferimento ultimo a un dato naturale e di per sé auto-evidente, apre la strada all’arbitrio e, in ultima analisi, alla tirannia. Questo rischio, di cui il pensiero greco non è inconsapevole, come si evince dalla Leggi e dal Minosse di Platone, si manifesta in maniera sensibile solo nell’età contemporanea, ma è da sempre ben presente nella coscienza ebraica: "Per il razionalista del monoteismo [Maimonide], però, la religione naturale, così come il diritto naturale, non può fornire un fondamento sufficiente; per lui sussiste soltanto la religione del Dio unico (…) le leggi stesse non possono essere pensate come mete in cui si realizzino dei fini. Tali mete sono soltanto Dio e la sua moralità Ma se allora le leggi non possono avere un valore proprio in sé concluso, in cui conoscenza e azione raggiungano la propria meta, anche le ragioni non potranno affatto essere concepite logicamente, né in generale soggettivamente, come fini: esse potranno essere concepite soltanto come mezzi".

Una volta arrivati in vetta, il cammino non è finito. È lì che comincia la parte più difficile. Non c’è un punto d’arrivo. La meta è il cammino. Per questo tra le leggi vi può essere una gradazione, ma mai una differenza qualitativa: tutte leggi sono "leggi tra uomini e Dio". È qui la differenza tra l’universalità della legge giudaica e l’universalità della legge greca: "Ciò che i greci chiamarono legge non scritta gli ebrei lo chiamarono dottrina scritta". Ma è qui anche il fondamento della relatività dell’opposizione tra diritto naturale e diritto positivo. In entrambi i casi c’è "la presupposizione di qualcosa di eterno rispetto alla transitorietà di tutte le istituzioni terrene e di tutte le rappresentazioni umane".

Il fondamento della ragione, ovvero la salvezza dal divenire cercata dal greco, è per l’ebreo la mattan Torà, il dono della Legge sul Sinai, la rivelazione: "Nemmeno un Mosè, tanto poco quanto un Solone o un Licurgo, ha dato la legge traendola dal suo spirito, ne essa deriva semplicemente dai patriarchi, ma ciò che deriva immediatamente da Dio in quanto essere unico deve essere contrapposto a tutte le potenze storiche. Sia il greco che l’ebreo non si trovano davanti a una legge determinata — "naturale" o "positiva" — ma alla norma fondamentale, che consiste nel divieto originario di risolvere antropomorficamente lo sgomento che si prova di fronte all’assenza di fondamento. Divieto mosaico, certo. Ma anche greco. E anzi, eleatico. Parmenide, in questo senso, in cima alla collina di Velia che guarda al mare, "ha espresso la parola d’ordine". L’attività legislativa e teorerica di Parmenide — è stato poi successivamente dimostrato — è parte integrante della lotta del mondo greco contro il caos politico-linguistico-legislativo minacciato dal diffondersi di visioni panteistiche e immanentische: "La creazione è necessaria affinché non continui a sussistere il pregiudizio dell’essere cine divenire, pregiudizio nel quale il panteismo trova la sua radice logica". La "norma" è ordine in quanto distinzione, responsabilità, scelta.

Ecco, dunque, il senso profondo del legame che, al di là di ogni differenza sul piano etico e teologico, accomuna Atene e Gerusalemme davanti alla Legge. Ecco il senso del rapporto tra il Sinai e il m onte Ida. La modernità ha trovato il deserto sulla Montagna. Sia sulla Montagna dei greci che su quella degli ebrei. Atene e Gerusalemme continuano a confrontarsi, nel corso dei secoli. E le loro radici si intrecciano. Con la Grande Guerra, scriveva Cohen, l’uomo occidentale s’è trovato di fronte al potere immenso e terribile dello stato nazione e all’infondatezza della norma. In quell’epoca la scienza giuridica è come arretrata d’un passo, sul ciglio della voragine apertasi al posto del Fondamento, della Norma fondamentale.

Ma alcuni coraggiosi si sono avvicinati alla voragine, vi hanno guardato dentro. Questi esperti scalatori del diritto si chiamano Carl Schmitt e Hans Kelsen. Giuristi tra loro contrapposti, prima ancora che sul piano giruidico, su quello teologico; filosofi accomunati dalla medesima determinazione a non ignorare la voragine — Schmitt e Kelsen hanno il medesimo problema: la dissoluzione del fondamento dell’ordinamento legislativo.

Entrambi si sono trovati soli sulla montagna, Davanti alla Legge, ovvero davanti alla sua assenza.

Per Kelsen, ebreo della Mitteleuropa, laicizzato e di radicate convinzioni liberal-democratiche, quell’assenza è l’esaurirsi del "mito" del fondamento. Egli porta alle estreme conseguenze il razionalismo moderno, riconducendo tutto all’Uno, alla norma fondamentale. Per Schmitt, cattolico della Vestfalia, animato da un radicalismo anti-liberale che lo porterà ad aderire per un breve periodo al nazismo, invece, quell’assenza è il limite del Moderno, ovvero il fallimento del razionalismo. Egli a tale fallimento reagisce attraverso il primato della decisione, e opponendosi a ogni formalismo. Ma non cerca — ormai non è più possibile — un nuovo fondamento ontologico. Nel Nomos della terra Schmitt stabilisce un nesso essenziale tra lo spazio — la terra — e il diritto. Attraverso gli atti della conquista del territorio e la sua distribuzione, la terra mostra la propria giuridicità. La Terra ha una funzione giuridica universale. Ma al movimento moderno dello sradicamento e della deterritorializzazione, Schmitt non oppone un nuovo radicamento, una riconquista del territorio da parte della politica, bensì una radicalizzazione dello sradicamento, anzi una scelta per la violenza come apertura dell’ordine. Egli conosce il destino dell’Occidente — il destino del "livellamento", della dissoluzione dei monti, delle colline e delle responsabilità, ovvero il destino dello sradicamento moderno. Egli sa che l’Occidente vuole il mare liscio, "infecondo", come dice Omero, o apportatore di corruzione, come dice Platone, e origine della potenza, come dice Tocqueville.

Del resto, è sotto gli occhi di tutti la dissoluzione delle metafore montane e silvestri nel linguaggio dei giuristi (nel senso più ampio, compresi i sociologi del diritto) — il "tronco" e i "rami", il "vertice" e la "base" di un sistema, la sua "saldezza" o la sua possibilità di "franare" — con locuzioni dal sapore marinaro: i "nodi" da sciogliere, l’"orientamento" della dottrina, la "tenuta" del sistema. Nell’età della globalizzazione nessuna "valle" è al sicuro. La globalizzazione della politica coincide con la sua giuridicizzazione, fino alla trasformazione del conflitto tra stati in "guerra civile", e infine alla neutralizzazione di questa attraverso operazioni di polizia internazionale volte a garantire la "pace" e il rispetto dei diritti umani. La spazialità marina vince così su quella montana. La dissoluzione dello jus publicum europaeum coincide con la deterritorializzazione della politica — ovvero, dal punto di vista di Schmitt, con l’annientamento della politica, con la soppressione dei vincoli tra potere e responsabilità, comando e obbedienza, leadership e rischio. È a tutto ciò che Schmitt contrappone la sua decisione.

Opposto è il sentiero di Kelsen. Alla dissoluzione del fondamento, Kelsen risponde con la definitiva riduzione del diritto a tecnica. La scienza del diritto non dice nulla su ciò che sia giusto o meno, e neanche sulle ragioni storiche e sociali, o sulle conseguenze effettive, di una norma giuridica. Il diritto è una tecnica, come la strategia militare o la propaganda politica. Chi voglia conseguire determinati fini di carattere sociale, deve dominare quella tecnica. Molto s’è detto e scritto sull’aporia della "norma fondamentale". Essa appare, nel sistema kelseniano, una norma atipica. Non è prodotta, per definizione, da un’altra norma. E di conseguenza, la sua validità resta affidata alla sua efficacia, ovvero, in ultima analisi, alla forza.

Ma il paradosso è del tutto apparente. Esso nasce dal fatto che, di fronte al problema dell’"ultimo anello della catena giuridica", si ha il bisogno di trovare un fondamento, un punto ultimo. Ma la "norma fondamentale" non è "qualche cosa", bensì un concetto trascendentale. Essa è la condizione di pensabilità delle norme. Essa si sottrae per essenza all’analisi. Se noi potessimo "descriverla", per assurdo, essa non sarebbe già più la norma fondamentale. La descrizione di una norma può darsi solo sulla base del presupposto di una norma fondamentale. La norma fondamentale non ec-siste, non ci è, né in senso storico-naturale, né in senso giuridico.

La definizione della natura della norma consente a Kelsen di superare tutti gli "antropomorfismi" del diritto, ovvero tutte quelle distinzioni e contrapposizioni, quelle gradazioni e gerarchizzazioni, escogitate dagli "uomini a doppia testa" — come direbbe Parmenide — per rendere maggiormente "visibile" il diritto. Kelsen combatte contro le ipostatizzazioni concettuali delle convezioni linguistiche. Egli porta alla luce la natura linguistico-convenzionale della gran parte dei concetti metafisici del diritto, come ad esempio la suddivisione del diritto in norme "primarie" e norme "secondarie". La cd norma secondaria altro non è che una forma abbreviata della norma "primaria". Ordinare un comportamento (norma "secondaria") è un modo più rapido per esporre una serie di enunciazioni di nessi condizionali tra una determinata condotta e un atto coattivo. Sicché il "dover essere" giuridico viene spogliato di ogni significato metafisico. Una proposizione concernente il "dover" qualche cosa, ha senso, all’interno del linguaggio del diritto, solo in presenza di determinate norme. Il giurista, dunque, conosce l’infondatezza ontologica ed etica del diritto. Anzi, il suo mestiere è appunto quello di mantenere in vita il senso di questa infondatezza. Poiché solo coltivando tale infondatezza, il diritto può essere preservato dal dissolvimento dentro l’empiria. Qualsiasi fondamento sarebbe una condanna del diritto a quella dissoluzione, poiché non esiste fondamento che non sia destinato — in quanto fondamento — a dissolversi. Per questo, non si può, con argomenti giuridici contestare la tesi anarchica, la quale vede nel diritto esclusivamente la "forza". Quella contestazione può essere mossa solo dalla sociologia o dalla scienza politica, mai dal diritto: "La possibilità della validità di un ordinamento che sovrasti il diritto positivo rimane per essa [la dottrina pura del diritto, nda] fuori questione".

Così, Kelsen supera il dualismo tra diritto "oggettivo" e diritto "soggettivo", e dunque tra Stato e diritto, tra pubblico e privato, eccetera. Parlare di diritto, infatti, significa parlare di un "sistema di norme positive". L’attribuzione di un cd "diritto soggettivo" avviene necessariamente nell’ambito di queste norme. E dunque il cd "diritto soggettivo" non può vantare — dal punto di vista della scienza giuridica — alcuna originarietà: "Nessuno può attribuire diritti a se stesso". Kelsen denuncia dunque la natura "ideologica" di questo dualismo, che altro non è che una particolare forma di giusnaturalismo. Il compito del giurista puro — dello scienziato — è per l’appunto quello di portare alla luce tale natura ideologica. Ma come si porta alla luce la natura ideologica di un processo culturale? Lo si fa mostrando la Weltanschauung da cui origina tale processo. E infatti: "Si tratta di sostenere l’idea che il diritto soggettivo, cioè la proprietà privata, sia, di fronte al diritto oggettivo, una categoria trascendente". Il dualismo tra diritto soggettivo e diritto oggettivo nasce nell’ambito della Weltanschauung capitalistica. Lo "smascheramento" di Kelsen ci mostra che il diritto è una pura tecnica, del tutto neutrale a qualsiasi finalità sociale o politica. E tale ostensione è possibile solo attraverso una "critica" di tipo sociologico alla concezione metafisica del diritto. In ultima analisi, la edstinazione ultima della dottrina pura del diritto rivela una insospettabile politicità.

D’altra parte, la stessa Grundnorm non va ipostatizzata. Essa è un principio, un arché nel senso originario del termine. La Grundnorm non ha esistenza nel senso proprio del termine (non è descrivibile). Essa è "soltanto l’espressione del presupposto necessario per comprendere positivamente il materiale giuridico". Con essa si rileva, "attraverso l’analisi dei procedimenti effettivi, le condizioni logico-trascendentali del metodo, sinora usato, della conoscenza giuridico-positiva". Lo stesso carattere "formale" ha il concetto di "pura applicazione" della norma — che si trova all’inizio della gerarchia che culmina nella "norma fondamentale". In Kelsen si dissolve la distinzion e tra "norma" e "applicazione della norma". La "sentenza" altro non è che una "norma individuale". L’atto esecutivo è una "pura applicazione". Ma esiste — da un punto di vista puramente giuridico — una "pura applicazione"? Ovvero, il linguaggio della dottrina pura del diritto può descrivere qualcosa come un "atto esecutivo"? No. All’interno del linguaggio della dottrina pura del diritto, lo stesso atto esecutivo si risolve in una serie di concatenazioni di norme. L’atto esecutivo è esso stessa espressione di un presupposto necessario, ovvero condizione trascendentale.

Kelsen attacca ogni "rappresentazione" del fondamento — ogni tentativo di costruire un "vitello d’oro" — a partire dal concetto di "sovranità", o dalla distinzione tra "diritto pubblico" e "diritto privato". In particolare, concentrandosi su quest’ultima, egli la mostra come il fondamento della distinzione tra diritto e stato, e dunque il concetto stesso di "stato". Lo stato altro non è che l’insieme delle norme giuridiche. Il diritto, infatti, non si riduce all’insieme delle "leggi", bensì delle "norme" (e quindi, oltre alle "leggi", il negozio giuridico, le sentenze, eccetera). Tutti, dunque, partecipano alla formazione del diritto, e non solo quel particolare tipo di potere indicato come "il legislatore". Una norma di "diritto pubblico" altro non è che un insieme particolarmente complesso di concatenazioni di norme di diritto "privato".

Il dualismo tra "diritto" e "stato" ha una natura teologica (Dio e mondo) e una funzione ideologica. Esso serve a legittimare lo stato attraverso il diritto.

Ma se lo stato altro non è che il diritto, come può allora accadere che talune azioni umane vengano riferite allo stato e non a chi le compie direttamente? Ciò accade perché lo stato è un punto di imputazione giuridica "che lo spirito conoscitivo dell’uomo incline all’intuizione è troppo facilmente indotto a ipostatizzare".

In coerenza con quanto dice Kelsen possiamo dire che in una prospettiva puramente giuridica, il punto di imputazione altro non è che una regione in cui si incontrano una serie di concatenazioni di norme. Il punto di impotazione non esiste, è una funzione.

Alla base del concetto di "stato" vi è la metafisica del soggetto:

"Il dogma della sovranità dello stato, col conseguente primato dell’ordinamento giuridico del proprio stato, corrisponde completamente a una visione soggettivistica che nelle sue ultime conseguenze cade nel solipsismo e che vuole concepire l’individuo particolare, cioè l’io, come centro del mondo e quindi il mondo soltanto come volontà e rappresentazione dell’io".

Il moderno stato—centrismo, dunque, ha il suo fondamento nella metafisica del soggetto. Questa, a sua volta, ha tra i suoi capisaldi la teoria giusnaturalistica. Il giusnaturalismo moderno, infatti, nell’attribuire al soggetto una serie di diritti originari e inalienabili, lo pone al centro dell’ordinamento giuridico. Ma tale centralità a sua volta si sviluppa nella centralità dello stato, che è la proiezione del soggetto.

Kelsen si pone l’obiettivo di una "dissoluzione teoretica del dogma della sovranità". La sovranità nazionale deve dissolversi dentro il diritto cd "internazionale". In altre parole, occorre arrivare al superamento del dualismo tra diritto nazionale e diritto internazionale. Ma per questo è innanzitutto necessaria la dissoluzione della sovranità, ovvero del soggetto. Kelsen, nella sua gigantesca opera di riduzione del diritto a tecnica — ovvero nel suo tentativo di sottrarre il diritto al destino della dissoluzione dei fondamenti epistemologici della scienza moderna — descrive l’orizzonte concettuale in cui ci stiamo oggi muovendo.

La dissoluzione della sovranità non è più una teoria, ma una realtà. La società globale si presenta — sia spazialmente che temporalmente — come una società "orizzontale", dove i soggetti non sono più "incardinati in un ordine normativo definito da una territorialità" coincidente con lo stato, ma vivono in una sorta di poligamia di luogo. Sembra, dunque, che ci si possa dar pace: lo spazio "liquido" ha eliminato ogni struiatura. Ma anche questa convinzione appartiene a un mondo di certezze che non c’è più. Il "mito" della globalizzazione — la globalizzazione come mito — si dissolve nel dispiegarsi stesso del processo di globalizzazione.

Si presenta così, oggi, in una forma nuova, l’originario — per la civiltà europea — conflitto terra/mare. La civiltà terrestre è civiltà della misura, della delimitazione e della distribuzione. Lo spazio in cui opera il soggetto terrestre è delimitato entro stabili confini, giustificati a partire da solide radici terrestri. Ma nel mare non è possibile tracciare confini. Lo spazio marino è aperto, in-determinato, dai confini mobili. Lo spostamento del centro della storia dal Mediterraneo all’Atlantico — la "decadenza mediterranea" come la chiama Braudel — ha segnato la fase più acuta del processo di deterritorializzazione. Le potenze marittime non cercano l’espansione territoriale e lo sfruttamento delle risorse del suolo, bensì il controllo delle vie di comunicazione. Ora viviamo nella fase "dell’Oceano", che è un "legame, un’unità, un vasto sistema urbano dalle stazioni unite le une alle altre".

Viviamo nell’età della fluidificazione dei rapporti giuridici e della deterritorializzazione della politica, ma tutti i movimenti migratori che si svolgono per "terrestri" ragioni — ricerca di lavoro, emancipazione sociale, fuga dalla guerra — sono sottoposti a sempre più rigidi controlli. Mai come in questi anni, l’attività di polizia alle frontiere è stata così intensa. La de-regolamentazione dell’accesso al territorio non sembra essere nell’agenda di alcun governo. Mai come in questi anni di affinamento tecnologico della strumentazione e della strategia militare, i conflitti militari si risolvono solo quando le truppe da sbarco e la fanteria cominciano a calpestare il suolo. E del resto, gran parte di questi conflitti riguarda questioni "territoriali" e "terrestri": confini, spazi vitali, luoghi della memoria. Mai come in questi anni si spara per il controllo di pochi metri quadrati, in nome di una tomba, di un luogo sacro agli antenati, di un’antica battaglia. Questo significa che la globalizzazione è un mito? Oppure significa che alla politica viene lasciata la gestione degli elementi perturbatori del mercato, ovvero degli elementi "terrestri" e "umani", ma pochissimo o quasi nessun controllo sui flussi delle risorse finanziarie, ovvero sugli aspetti "fluidi" del processo di globalizzazione? Le corporazioni transnazionali — "apolidi" e con processi di affiliazione a struttura "diasporica" - sono in grado di ricattare i governi, minacciando di spostare i loro investimenti altrove. E assegnano agli stati nazionali la funzione di razionalizzare i flussi migratori. Che la politica debba scomparire, appare il destino essenziale del processo di globalizzazione. Con la dissoluzione della terra viene meno il senso ultimo dell’agire politico, vale a dire la possibilità di decidere o evitare un conflitto armato. La strutturazione reticolare dei rapporti sociali globali fa sì che si indebolisca il principio — fondamentale per la politica moderna — della congruenza e della simmetria tra agenti decisori e ambiti in cui la decisione ha effetto.

Nel cuore del processo di fluidificazione, dobbiamo constatare l’indissolubilità dell’elemento terrestre. Più avanza la deterritorializzazione, più si diffonde la tendenza verso lo "stato etnico". Originariamente la legittimazione interna dello stato territoriale non è che l’altra faccia della sua legitimazione esterna. La sacralizzazione del territorio attraverso lo spostamento della sovranità dal re, legittimato da Dio, al popolo, che prima legittima il re e poi legittima l’Assemblea — insomma l’affermarsi dell’idea di "nazione" — è impensabile senza il riconoscimento esterno da parte di altri stati nazionali — esattamente come il soggetto moderno presuppone l’intersoggettività originaria. Questo doppio processo di legittimazione razionalizzava la questione della "terra" Qualsiasi demarcazione, infatti, contiene un elemento arbitrario, la violazione di un qualche diritto di una qualche minoranza. L’idea di dedurre i confini dello stato territoriale dai confini "naturali" è sempre stata e rimane un’utopia. I confini naturali di uno stato sono quelli che il sovrano riesce a imporre ai sudditi e agli altri sovrani. Sicché, nello svolgersi del destino dello stato nazionale, riappare il mito del confine "naturale" — ovvero dello "stato etnico". L’utopia etnica si sviluppa con l’indebolimento delle tradizionali forme di legittimazione della sovranità politica territoriale. Sicché le "striature" — secondo l’espressione che Schmitt utilizza per indicare la caratteristica della spazialità terrestre in contrapposizione agli spazi "lisci" del mare — riemergono in maniera imprevedibile.

Occorre, dunque, guadagnare un punto di vista più altro per comprendere il corso delle cose.

Abbiamo cominciato con il Vesuvio, e finiamo con il Vesuvio. In Leopardi, come già in Bruno, l’esperienza di quella vetta descrive la parabola del disincanto. Lì, nel contatto immediato con la natura, si "vede" l’ineliminabilità della violenza dalla vita e la follia delle ideologie universalistiche e umanitarie. Di qui, vicino all’"Odorata ginestra / Contenta dei deserti", si vede quanto sia "sciocco" questo "secolo", che, sognando la libertà, ha asservito nuovamente il pensiero all’utopia. Evidentemente, solo guardando le cose dall’"alto", come Jaffier dal campanile di San Marco nella Venezia salva di Simone Weil, è possibile vedere quanta devastazione il "sogno" possa produrre nella polis. U-topico e dunque devastante è ogni tentativo di tornare alla terra, di ristabilire i confini, di chiudere le frontiere, salvare le identità. Se è vero che "la fola dell’amore universale (…) ha prodotto l’egoismo universale", è anche vero che non è possibile far tornare gli déi. L’esilio di Eros — il disincanto — non è un avvenimento tra gli altri, ma l’essenza stessa della civiltà: l’innocenza perduta non potrà mai essere recuperata.

L’uscita dal disincantamento è impensabile. Una volta che la verità ha fatto la sua comparsa nel mondo, è impossibile restaurare l’originaria innocenza. Non solo, ma ogni tentativo di andare oltre la verità ci mantiene in una condizione di violenza e di follia.

Viviamo in un’età di grande incertezza giuridica. In particolare, il problema riguarda l’Europa continentale. Con l’avanzare del processo di globalizzazione, i nostri modi di intendere la "giurisdizione", la "certezza del diritto" o anche la "prevedibilità dell’esito della transazione", si mostrano del tutto inadeguati per la comprensione delle nuove dinamiche sociali. Potrebbe allora farsi strada la tentazione di chiudersi nella valli, di opporsi alla globalizzazione. Ma sarebbe come tentare di combattere l’acqua alta chiudendo il portone di casa. A furia di sbatacchiare il nostro diritto alla ricerca di un fondamento, ci troviamo tra le mani un diritto esausto, che non ha risposte: ormai, quando ci muoviamo sul piano transnazionale utilizziamo il common law. È questo, dunque, il nostro destino? Le nostre amate striature — le montagne europee che si raccolgono intorno al Mediterraneo — saranno del tutto sommerse in una specie di Waterworld, come nella — costosissima e non tanto ben riuscita, ma per certi aspetti efficace — metafora del film di Kevin Reynolds, interpretato da Kevin Costner? O non abbiamo, forse, proprio nel cuore mediterraneo delle nostre montagne il know-how — come si dice adesso — per rispondere alla globalizzazione senza smarrirci nell’Oceano? La debolezza della cultura — giuridica, ma non solo — eurocontinentale viene indicata nell’incapacità di fare a meno del "fondmaneto". Ma tutta l’area a sud della Manica è da considerarsi "eurocontinentale"? Che ne è della regione mediterranea? La questione, a questo punto, è centrale. La consapevolezza che l’ordine politico può essere garantito solo rispettando la conflittualità umano, e facendo leva non sulla "ragione" ma sulla "passione", è l’intuizione solitaria del poeta sul Vesuvio, o invece una componente essenziale della coscienza mediterranea? Nell’invito nietzscheano a costruire "case sul Vesuvio" non c’è, anche, la protesta di uno spirito antico e "inattuale" che guarda con sovrano disprezzo a un mondo dominato dalla lotta — per usare un’immagine hobbesiana cara a Schmitt — tra Leviatano e Behemot, tra le "potenze marittime" e le "potenze terrestri", tra la civiltà atlantica e quella eurocontinentale? E del resto, srestando nei pressi del Vesuvio, non era già Vico che spiegava come le "illusioni" — su cui si fonda il diritto — non siano semplici inganni, ma le "verità" fatte dagli uomini. La conoscenza delle "finzioni" degli antichi da cui nasce il diritto, dunque, mentre ci libera dal mito dell’inganno e da tutte le "dietrologie storiche", ci affranca pure dall’affannosa — e suicida — ricerca del Fondamento, di ciò che è "oltre". Sicché è possibile anche liberarsi dei miti dell’"armonia tra i poteri" e della "stabilità": le "divisioni [tra i poteri e tra le parti politiche] sono necessarie", paradossalmente, alla conservazione dell’ordine politico. Il diritto è infondato, ovvero non è deducibile né dalla ragione, né dal calcolo di convenienza, ma nemmeno dal miracolo o dalla volontà. La sua infondatezza è insuperabile. Essa descrive il perimetro dell’agire umano. In altre parole, non si dà superamento dell’infondatezza del diritto, né attraverso la ratio, né attraverso la decisione.

Siamo abituati a sentire i monti che circondano il Mediterraneo come il confine esterno dell’Europa del Nord. Ma la storia — anche la storia naturale — ci dice che è esattamente il contrario: questi monti sono il confine interno dell’Europa del Sud. Qui, del resto, a Belluno, nella Valle, tra le Prealpi a sud e le Dolomiti a nord, ciò appare ancora più chiaro: il paesaggio si raccoglie nello sguardo mentre ci si volge a mezzogiorno. Lo svolgersi del conflitto tra civiltà euro-continentale e civiltà atlantica s’è accompagnato alla decadenza della regione mediterranea, che da cuore della civiltà è diventata area periferica di manovra. Ma forse questa è l’epoca in cui la civiltà di questo "mare tra i monti" — un mare a cui fanno da "frangia non soltanto il paesaggio di vigneti e oliveti, ma anche, ben vicina, aderente, quest’alta rozza regione, questo mondo appollaiatio, irto di baluardi, cone le sue rare case, i suoi nords à la verticale" — insomma, la civiltà medi-terranea possa non solo trovare una propria dimensione giuridica e politica autonoma, ma anche indicare al mondo globalizzato nuovi sentieri e nuovi "passi" da percorrere dopo il crollo dei grandi sistemi e delle grandi verità.

Ciro Sbailò insegna Sociologia del Diritto alla Link Campus — University of Malta, Roma

Orazio Coclite
19-06-02, 13:11
Da: http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/M/MESTRE-M_alpi.htm

http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/M/I/MESTRE-M_alpi0.gif

Michel Mestre
Le Alpi contese
Centro Documentazione Alpina, Torino, 2000,


Pagina 9, Introduzione:

In questo saggio si studiano le relazioni tra l'alpinismo e l'ideologia nazionalista dal 1850 al 1950, nel contesto geografico delle Alpi. Prima della metà del XIX secolo sono pochi gli eventi significativi per la storia dell'alpinismo, e quasi tutti di interesse aneddotico. Si possono citare l'ascensione del Monte Ventoux compiuta dal Petrarca il 26 aprile 1336, quella del Rocciamelone a opera di Rotario d'Asti il l° settembre 1358, la traversata dei Krimmler Tauern di Rodolfo IV d'Austria nell'inverno del 1363, le escursioni in montagna dell'imperatore Massimiliano d'Austria verso il 1500 o quelle di un certo Jakob von Payersberg nel 1552.
In territorio francese assume rilevanza particolare l'ascensione del Mont Aiguille di Antoine de Ville nel 1492. Sul margine est dell'altopiano del Vercors si trova questo colosso (2086 m) di roccia calcarea dalle ripide pareti, sormontato da un pianoro erboso lungo circa un chilometro. Menzionato fin dal 1211, il monte è al centro di numerose leggende. Nel 1349 il Delfinato, e quindi il Mont Aiguille, era stato annesso alla Francia; nel 1483, morto Luigi XI, saliva al trono il figlio Carlo VIII, già governatore della provincia. Nel 1490 questi incaricò uno dei suoi ufficiali, Antoine de Ville, di scalare la montagna: il 26 giugno 1492, una squadra composta da esperti di fortificazioni, un carpentiere e un tagliapietre raggiunse la vetta. Questo evento alpinistico, che venne debitamente registrato, ha suscitato l'attenzione degli studiosi.

Non sfuggirà al lettore la contemporaneità dell'evento con la scoperta dell'America, come alcuni ricercatori hanno evidenziato investendo l'ascensione di un valore simbolico. L'impresa - si trattasse o no dell'ordine del re - indubbiamente costituì un atto di rilievo politico. Per quell'epoca non è possibile parlare di nazionalismo; d'altra parte "gli intenti non avevano nulla di sportivo né di romantico", criteri giustamente pertinenti alla definizione dell'alpinista. Risultano invece, in quel fatto, due tratti caratteristici della relazione alpinismo-politica: il patrocinatore illustre, perché "la portata simbolica dell'ascensione di un monarca o di un letterato è molto più evidente di quella di un ignoto montanaro", e la presenza di una cima particolare per forma, collocazione geografica o qualsiasi altra caratteristica suscettibile di assumere valore emblematico. Fondamentale è il fatto che una delle prime ascensioni non sia stata conseguenza della libera scelta di uno scalatore, ma abbia avuto un committente, ciò che le conferisce valore simbolico.

Tuttavia, trattandosi di un evento isolato, non si può considerare la scalata del Mont Aiguille come termine a quo. Occorre attendere l'8 agosto 1786, con la prima ascensione del Monte Bianco a opera di Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard e la pubblicazione, l'anno seguente, del Voyage dans les Alpes d'Horace Bénédict de Saussure, perché la conquista di una montagna abbia vasta eco. Di questa impresa, i dettagli cronologici precisi e le figure dei protagonisti permettono di delineare il ruolo svolto dagli inglesi e anche quello d'Horace Bénédict de Saussure. Essa offre inoltre allo studioso molti elementi utili alla definizione della prima forma accertata di alpinismo, quella dell'alpinismo scientifico, e, ancora, illustra come la conquista della vetta abbia raggiunto una dimensione simbolica di rilievo grazie a un fenomeno di mediatizzazione (per quanto il termine possa qui sembrare inappropriato) senza precedenti. La pubblicità contribuì a rendere il Monte Bianco di gran moda. Philippe Joutard ha potuto parlare al riguardo di una "mise en littérature" dell'alta montagna, a dimostrazione "che l'alta montagna era essenzialmente un fenomeno culturale".

Qui il termine "alto" riguarda più le caratteristiche simboliche che quelle geografiche, apparendo come la "manifestazione territoriale di un sistema di valori". All'epoca il Monte Bianco era il luogo "alto" per eccellenza, per il suo carattere glaciale, la sua altezza, perché scelto come luogo privilegiato di un'attività scientifica e per la sua verginità.

All'inizio del XIX secolo l'attenzione degli alpinisti si spostò dal Monte Bianco a cime raggiungibili per vie più facili (vie normali), come quelle del Grossglockner nel 1800, del Mont Perdu nel 1802, dell'Ortles nel 1804, con un vero sviluppo dell'alpinismo. Ma era ancora poco rispetto all'esplosione degli anni 1840-50, preludio all'alpinismo sportivo e alla creazione dei club alpini. Tra le 81 date significative ricordate nella Grande Encyclopédie de la montagne, tre (3,7%) risalgono al periodo 1492-1700, cinque (6,1%) a quello 1700-1800 e dodici (15%) a quello 1800-1840, per un totale di venti imprese (25%) in un arco temporale di quattro secoli. Tra il 1840 e il 1900 sono menzionate 35 date, un po' più del 43%. È chiaro dunque che l'alpinismo si è sviluppato a partire dalla metà del XIX secolo, quando fu fondato il primo club alpino, l'Alpine Club, che segnò il passaggio da un alpinismo di circostanza a un vero movimento alpino. Di qui muove la presente ricerca.

Essa si estende fino a comprendere il periodo del fascismo e del nazismo, e quindi la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945 si è assistito a una mondializzazione dell'alpinismo con lo sviluppo, fra l'altro, dell'himalayismo e di nuove tecniche. Le prime spedizioni all'Himalaya risalgono alla metà del XIX secolo, ma l'ascensione della prima vetta superiore agli 8000 metri è avvenuta solo nel giugno 1950 con la conquista dell'Annapurna a opera di Louis Lachenal e Maurice Herzog. Tre anni più tardi Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing scalavano la più alta vetta della Terra, l'Everest.

Nella seconda metà del XX secolo il rapporto dell'alpinismo con il nazionalismo si è nettamente attenuato. A partire dagli anni sessanta tutti i grandi alpinisti hanno trascurato, a torto o a ragione, le Alpi, salvo poi ritornarvi: esse hanno perso molto del loro interesse non essendo più gli unici punti di riferimento per le imprese di alto livello.

È stata così scelta la data del 1950 come termine ad quem della ricerca. Le due date di inizio e di termine non si riferiscono dunque ad avvenimenti determinati e vanno interpretate come approssimazioni cronologiche.

L'alpinismo è un'invenzione europea. Al principio è stato praticato quasi esclusivamente nelle Alpi; anzi, per lungo tempo ci sono stati soltanto tre grandi centri alpinistici: Chamonix, Zermatt e la regione di Grindelwald nell'Oberland bernese. Non sorprende quindi che la prima denominazione sia stata "alpinismo". Il termine "pireneismo" ha faticato a imporsi; "andinismo" e "himalayismo" sono apparsi più tardi, quando alpinisti europei sono andati a cercare in quelle montagne ciò che pensavano di non trovare più nelle Alpi, cime vergini. Tutte le lingue europee usano termini derivati dalla base "Alpi", anche se in tedesco ad Alpinismus si affianca il sostantivo composto Bergsteigen, in cui al più circoscritto "Alpi" viene sostituito il più generico "Berg".

L'entità geografica delle Alpi non corrisponde tuttavia a un'unica entità politica, bensì a più stati, i cui alpinisti hanno partecipato in diversa misura alla storia dell'alpinismo: anche se gli inglesi, non appartenenti a uno stato alpino, agli inizi hanno svolto una funzione predominante, al successivo sviluppo hanno contribuito soprattutto gli austro-tedeschi, gli italiani, i francesi e, in modo un po' diverso, gli svizzeri.

Alcune linee di confine degli stati alpini corrono sulle Alpi. Il loro tracciato è stato spesso modificato in seguito a conflitti bellici, con importanti variazioni dopo la prima guerra mondiale, in particolare tra l'Austria e l'Italia. Le questioni di frontiera hanno coinvolto anche gli alpinisti, e ciò spiega la scelta del tema qui trattato.

Nel condurre la ricerca si è dovuto andar oltre alle dichiarazioni degli alpinisti e dei protagonisti dell'ambiente alpino. Lo scopo non era infatti soltanto quello di dimostrare che l'alpinismo è o fu un fenomeno nazionale, né che o questo o quell'alpinista era fascista o nazista, ma soprattutto di analizzare il contesto storico-sociale del movimento alpino, della sua organizzazione e del suo sviluppo in momenti e luoghi determinati. L'alpinismo non è unicamente un fatto di personaggi che percorrono le montagne per piacere o per altre ragioni, ma è anche un movimento strutturato che, in quanto tale, ha accolto due aspetti della nostra civiltà. Il primo è il bisogno dell'uomo di scoprire luoghi nuovi, cercare, esplorare, osare, a qualunque prezzo, compresa la morte. Fu così che nel corso della storia Marco Polo, Cristoforo Colombo, Fridtjof Nansen, David Livingstone, per citarne solo alcuni, sono diventati grandi esploratori. Il secondo è rappresentato dal configurarsi di un nuovo rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero, che ha permesso a una piccola élite, di ricchi inglesi, tedeschi, austriaci, francesi, italiani e svizzeri, di inventare e praticare tale attività.

Ma su quale pianeta vivono gli alpinisti, questi strani esseri apparentemente al di sopra di ogni contingenza materiale, indipendenti da ogni sfondo sociale tangibile? Sono davvero distaccati dal reale, da ogni legame familiare e da ogni gruppo sociale? Non è questa, piuttosto, un'immagine che si è voluta dare, che gli alpinisti hanno voluto darsi, ma che è soltanto un aspetto di una realtà più vasta e più complessa? Perché, in definitiva, che cosa è la montagna se non un mucchio di sassi dalle forme più o meno estetiche, dal clima spesso poco clemente, luogo di pericolo e di sofferenza? Il fatto che l'uomo l'abbia potuta personificare proiettando su di essa gioie e dolori, paure e fantasmi, e l'abbia così trasformata e plasmata, ha condotto a una mistificazione, che a sua volta ha dato vita a un'ideologia o ha facilitato il compito di uomini politici fornendo loro argomenti ad esempio sulla natura dell'uomo. Diventa dunque fondamentale individuare con esattezza quando e perché sia avvenuta questa "apologia della finzione".

Orazio Coclite
19-06-02, 13:26
Da: http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/C/CASSIN-R_capocordata.htm

http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/C/I/CASSIN-R_capocordata0.gif

Riccardo Cassin
Capocordata. La mia vita di alpinista
Edizione Vivalda, Torino, 2001


Pagina 13
COSÌ FU IN PRINCIPIO [...]


Sul Resegone

Fu proprio il Resegone che segnò l'inizio della mia passione per l'alpinismo. Era naturalmente una domenica, perché gli altri giorni della settimana si lavorava, quando partimmo per salire sulla cima principale, detta Punta Cermenati. Quel giorno né io né gli amici eravamo attrezzati. Il nostro unico sacco era un tascapane da alpino avuto in prestito, e stando al colore e ai rattoppi poteva essere appartenuto a un veterano. I nostri scarponi non erano certo chiodati, lusso eccessivo per il magro borsellino; quanto ai vestiti, avevamo quelli meno buoni per non sciupare gli altri.

C'erano le stelle quando partimmo, con il passo veloce e incontrollato dei giovani, sempre frettolosi, quasi non avessero tutta la vita da percorrere. Dentro la Valle della Comera, il cielo cominciò a sbiancare. Non faticammo a trovare il sentiero, là dove termina la strada, e risalendo per la costa ripida osservavo per la prima volta quelle pareti bianche di calcare prendere le tinte del giorno appena nato. Quella massiccia potenza parlava al cuore un linguaggio nuovo: un desiderio d'ascendere urgeva in noi, un bisogno d'essere sempre più in alto, di penetrare dentro i canaloni affinché più intimamente la montagna penetrasse in noi, di dominare anziché essere dominati... Nella luce ormai viva ogni cosa prendeva forma e colore, mentre lontanissima una striscia bianca scintillava. Ce l'additammo a vicenda: i ghiacciai!

Oggi i tempi sono un po' mutati, ci si sposta con facilità, non si cammina più di notte come facevamo noi per arrivare presto in parete. Si preferisce l'automobile, o addirittura l'elicottero, alle lunghe marce d'avvicinamento. Se si sente parlare del Resegone, magari si arriccia il naso perché "non è alto nemmeno tremila metri". So però che c'è ancora chi apprezza queste cime minori, le ama e le frequenta assiduamente. Sono pochi, è vero, ma anche noi eravamo pochi. E se appena si praticava un po' d'alpinismo, si finiva per conoscerci tutti. Avevamo molto pane e un po' di stracchino quel giorno, e prima d'arrivare in vetta era già tutto divorato. Sulla cima, un'esultanza senza limiti si impadronì di noi. Ci pareva di avere conquistato chissà che cosa. Scendemmo per il Canalone di Val Negra e per il Passo del Fò (faggio) fino alla capanna Stoppani, sempre perseguitati da una fame da lupi.

Credo che questi ricordi lontani siano come un tesoro che nessuno può rubare: è ricchezza immagazzinata dentro di noi. Così mi capita di ripensare volentieri a quella mia prima volta in montagna, un po' come fosse un primo amore. Ne sono certo: la gita al Resegone segnò una svolta decisiva nella mia vita. Fu anche l'inizio di una "malattia" ben nota agli alpinisti, dalla quale non sono più guarito.


In Grigna

Accadde infatti che dopo questa escursione, altre ne seguirono. Il lavoro durante la settimana mi sembrava allora più leggero e quasi divertente, perché sapevo che presto sarei tornato fra i bricchi, staccandomi dalla vita e dai pensieri quotidiani.

Purtroppo non tutte le domeniche potevo permettermi tanto lusso. Lavoravo undici, anche dodici ore al giorno, arrotondando con gli straordinari la busta-paga. Vivevo in stretta economia: la sera cucinavo il cibo per la cena e il mezzogiorno del dì seguente, la domenica facevo il bucato e rammendavo la biancheria, sempre per risparmiare qualche soldo da mandare a mia madre. Guadagnavo, non lo nego, ma in quella benedetta età più si mangia e più si ha fame!

Conosciuto il Resegone, volli andare in Grigna. Si dice semplicemente "andare in Grigna", o magari si usa un vezzeggiativo, "in Grignetta", per distinguerla dal "Grignone". Ma la Grigna non è una cima, la Grigna è un mondo. Poche montagne hanno formato intere generazioni di alpinisti ed esercitato un fascino tanto prepotente. Dove trovare una così ampia gamma di itinerari di roccia, dai più facili ai più impegnativi? Qualcuno ride dei "paracarri della Grigna", eppure non soltanto noi alpinisti lecchesi vi abbiamo trovato le pareti più adatte per l'allenamento: basti ricordare Comici e Gervasutti, e anche re Alberto del Belgio volle conoscerla.

Il mio contatto con la Grigna avvenne esattamente due settimane dopo la salita al Resegone. Risalimmo di buon mattino l'incassata Val Calolden, come si usava prima che si costruisse la strada carrozzabile dei Piani Resinelli. Sopra di noi certi nuvoloni carichi di acqua si andavano addensando, nulla promettendo di buono. Tornare indietro, però, manco a parlarne: per quindici giorni la gita aveva costituito l'argomento principale dei discorsi, e a nessun costo eravamo disposti a rinunciarvi. «Forse il tempo cambia», dicevamo fiduciosi, e via con gamba lesta in mezzo al bosco.

Purtroppo avvenne quel che era facile pronosticare: a un tuono ne segui un altro, e appena sopra il rifugio Porta, dove il faggeto cessa e cominciano i prati, il temporale ci investì furioso. Di corsa ripiegammo, ma prima di trovare riparo sotto un tetto eravamo inzuppati fino al midollo: un bucato di un genere un po' diverso da quello abituale di ogni domenica!


Pagina 77
SALITA A DOPPIA CORDA E STAFFE

Torrione centrale dei Magnaghi, parete est
Nel 1933 la stagione sciistica finisce tardi, e con la primavera si passa subito alla roccia. Il mutevole cielo d'aprile ci vede già impegnati nelle Grigne, allo Zuccone di Campelli, al Resegone: c'è ancora tanta neve, specie nei canali dove si è sfogata qualche valanga irosa, e nelle vallette a bacio, ma in compenso i prati impazziscono in una fioritura variopinta che allieta il cuore e l'animo.

Dopo le scalate d'allenamento, alla fine di maggio, insieme a Rizieri Cariboni, con il quale già ho ripetuto la mia via sullo spigolo del Sigaro, traccio un itinerario sulla parete est del Torrione Magnaghi Centrale, seguendo la gran fessura che nettamente lo incide. I Magnaghi, ben visibili dalla pianura lombarda, sporgono prepotentemente dalla piramide della Grignetta come una poderosa dentatura.

La nostra parete non manca di maestosità e la via che tracciamo si contiene nel quarto grado e richiede tre ore di bella arrampicata, dapprima lungo una fessura, poi per una fessura-camino assai strapiombante e levigata, con qualche passaggio particolarmente delicato che mi fa alquanto penare, ma dà sapore all'impresa: infatti, più la progressione si rallenta a causa degli ostacoli, più si sente l'ebbrezza della scalata, esattamente al contrario di quanto avviene nella corsa, dove il godimento aumenta in proporzione della velocità. Quando si prosegue palmo a palmo, tracciando un itinerario sul sasso intatto, e per piantare un chiodo si fatica a lungo, il tempo adotta una diversa misura, i pensieri mutano, pare che l'universo assuma il ritmo dei nostri movimenti, o che i nostri movimenti si intonino a quelli dell'universo. Null'altro ormai più esiste oltre la parete da scalare e la volontà di scalarla.


Arriva Comici

Con l'ascensione al Magnaghi, l'anno alpinistico appare favorevole fin dagli inizi. Poi la signora Varale mantiene la promessa e lo rende eccezionale, giungendo in Grigna con Emilio Comici, lo scalatore triestino dallo stile perfetto che concepiva l'arrampicata come arte superiore, un che di armonioso, pari - diceva - a «un pezzo musicale, in cui ritmi e movimenti variano modulandosi a seconda della qualità e dell'asprezza della roccia». Già famoso per diverse vie di largo respiro, era considerato lo stilista per eccellenza, non solamente per il modo d'arrampicare, ma anche per la scelta degli itinerari il più vicino possibile alla perpendicolare, sintetizzata nella cosiddetta "linea della goccia cadente".

Poter vedere arrampicare Comici, ascoltarne i consigli, penetrarne la mentalità fu per noi fortuna rara. Lo considerammo maestro. Molto alla mano e sempre cordiale, Comici fece sì che i rapporti fossero improntati a schietto cameratismo, come si usa in montagna. In seguito tra lui e me fiorì una sincera amicizia, sempre più rinsaldata con il trascorrere degli anni.

La progressione artificiale, che per noi della Grigna era un semplice "sentito dire", già costituiva per Comici il gioco preferito che gli consentiva un notevole risparmio di energia, permettendogli contemporaneamente di passare là dove fino ad allora era proibito. Mentre noi con minore assicurazione salivamo a forza di muscoli, lottando accanitamente in posizioni precarie quando la parete avara di appigli ci respingeva, Comici stendeva un ricamo di funi su placche, canne d'organo e strapiombi, ricorrendo alla doppia e tripla corda con il sistema che prende nome di "salita a forbice" o anche 'tira-molla", facendosi quasi "carrucolare" e usando staffe.

Al Jof Fuart, alla Cima di Riofreddo, al Montasio, alla Madre dei Camosci, insieme ai triestini, tra i quali primeggiava Giordano Bruno Fabian, già Comici aveva lasciato una non lieve impronta. Passato dalle Alpi Giulie alle Dolomiti Orientali, con Fabian aveva tracciato sulla parete nord-ovest della Sorella di Mezzo, nel gruppo del Sorapis, la prima via italiana di sesto grado, e si era fra l'altro unito in cordata con Domenico Rudatis, appassionato e tenace sostenitore dell'orientamento, nettamente sportivo, che l'alpinismo andava assumendo e che non ci dispiaceva: in quell'epoca caratterizzata da infiammate e mordenti polemiche, noi giovani seguivamo attraverso le riviste le battaglie e le nuove vie di Rudatis e Tissi, Videsott, Sandri e più tardi di Faè, dei due Andrich, di Carlesso. Ammiravamo le superbe realizzazioni di Comici e dei suoi compagni, persuasi che l'alpinismo si preparava a superare se stesso.

Nell'agosto del 1931 Comici aveva aperto con Benedetti una via che i benpensanti definivano "folle" su quella che Rudatis chiamava "la regina delle pareti", la nord-ovest del Civetta, proprio dove con l'impresa di Solleder aveva avuto inizio l'epoca del sesto grado. Comici aveva cercato la perpendicolare perfetta ma, superate le strapiombanti canne d'organo, si era accorto d'aver preso un abbaglio: ciò che guardando dal lago Coldai gli sembrava una linea retta in realtà non lo era, e se ne doleva. Questo dimostra quanto in lui dominasse il senso estetico.

Orazio Coclite
19-06-02, 13:30
Da: http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/C/CAMANNI-E_mattini.htm

http://web.genie.it/utenti/t/tecalibri/C/I/CAMANNI-E_mattini0.gif

Enrico Camanni
Nuovi Mattini. Il singolare sessantotto degli alpinisti
Edizione Vivalda, Torino, 1998


Pagina 26
I FALLITI

Il manifesto di un'intera generazione di alpinisti inquieti, la denuncia spietata e sincera del suo migliore interprete. Eccone una sintesi.

[...] Ma ancora non bastava. Bisognava toccare il fondo. Vuoi per un certo crepuscolarismo di balorda qualità, che ogni tanto affiora nei miei giorni peggiori, vuoi per una certa "voluptas dolendi" che ogni tanto esercita il suo fascino, assunsi la parte dell'uomo deluso e finito e cominciò una recita piuttosto grottesca. Per giustificazione o per meglio mascherare il mio fallimento agli occhi degli altri, mi atteggiai a ribelle nei confronti della società, cercai di entrare nella parte dell'anarchico che disprezza i comuni mortali, che odia la normalità, dell'uomo finito a vent'anni, dalle idee tenebrose e cupe, dai lunghi silenzi. E anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto posati.

Con il risultato che il mio cervello non tollerò più oltre e mi assestò il colpo definitivo.

Esaurimento nervoso di grossa portata, con perdita completa del sonno ed un sacco di disturbi fastidiosissimi. Smisi naturalmente di andare in montagna, in tutti i sensi, anche su quella facile e non feci che aggravare le cose.

... Oggi, oggi invece, seppur da un piccolo spiraglio, comincio a rivedere la luce. Ho capito l'errore; troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove ho chiuso ermeticamente le finestre e le porte e lì, da solo, nel buio mi sono illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi, una finestra si è leggermente dischiusa ed un filo di luce vi è penetrato.

Seguirà un autunno incerto, un ritorno alla montagna timoroso, ma con animo diverso. Però non ancora tutto era chiarito: anche se cominciavo a star bene, qualcosa ancora nella mia testaccia non funzionava.

Incontrerò una sera di inverno Guido Rossa il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l'anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l'errore più grande è quello di vedere nella vita solo l'alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna, e perché? no; ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l'avventura e per stare in allegria insieme agli amici.

Io lo so e l'ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo.

E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò ad uno ad uno e che mi aiuteranno moltissimo a ritornare quello di prima...

[...]

E veramente, come disse Seneca, posso rivedere serenamente i giorni del passato. E rivedo tanti volti, tanti uomini per i quali oggi non posso provare che una profonda tristezza. Perché ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che avevano trovato nell'alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che avevano dato e che danno caparbiamente tutto se stessi alla montagna, con l'illusione di trovare un'affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita.

Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché nell'alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi, spauriti ed intimiditi, incapaci di intrecciare relazioni umane.

Ed eccoli allora portare a giustificazione del loro fallimento l'incomprensione altrui, la banalità ed il qualunquismo della gente, la superiorità di chi pratica l'alpinismo, la diversa sensibilità di chi ama la montagna. In realtà vi sono uomini sensibilissimi ed amanti della natura anche al di fuori del territorio alpinistico, vi sono uomini che cercano e trovano altrove l'avventura e che sanno comprendere; ma, purtroppo, nell'alpinismo troppi sono i falliti e troppi i condizionati [...]

Gian Piero Motti

"Rivista Mensile del CAI", settembre 1972.


Pagina 55
IL NUOVO MATTINO

La seconda parte dello storico scritto di Motti affronta gli aspetti filosofici e psicologici del modello californiano, e non trascura neppure la realtà più scabrosa: la droga.


Alpinismo come fuga dalla realtà

[...] Vediamo ora di andare un po' più a fondo e di analizzare le cause ed i riflessi etici e psicologici dell'alpinismo californiano. A questo proposito si è detto e si è scritto molto, a ragione e a torto; si è parlato di uso di droghe, di ricerca di introspezione dell'io, di filosofia orientale riveduta e corretta. Certo è che l'alpinismo californiano rappresenta un modello assai lontano e diverso da quello che ci è stato fornito in Europa dalla nostra letteratura. Pur non esprimendo alcun giudizio, mi permetterò di esaminare una situazione con i suoi relativi effetti.

È bene prima di tutto aver bene in mente il grado di alta civilizzazione, a volte persino esasperata, degli Stati Uniti d'America e soprattutto della California, dove le tensioni sociali, gli attriti e gli assurdi di una certa società si fanno sentire più che altrove. La reazione più giusta e più logica sarebbe quella di restare nell'ambito di questa società, di prendere un chiaro e preciso impegno politico per cercare di migliorare o modificare lo stato di cose. Invece in questo determinato ambiente è facile che insorgano fenomeni di fuga, di rifiuto e di opposizione. Non per nulla il fenomeno hippy è sorto e persiste con le sue più grandi comunità in California, non per nulla un certo genere di musica che spazia da una espressione di rifiuto e di rottura ad un misticismo psichedelico e profetico, ha incontrato qui particolare favore. L'alpinismo in certe condizioni può essere un mezzo di fuga davanti alla angosciosa realtà esistenziale di un modo di vivere pressante e caotico. D'altronde è significativo come l'alpinismo californiano tragga grande ispirazione dalla filosofia e da alcune discipline orientali, soprattutto dallo zen e da certi risvolti dell'induismo, sebbene riveduti e corretti ad uso occidentale. Alla base vi è dunque una forte esigenza di veder chiaro in se stessi, una indagine fine e profonda del proprio io, che accompagna l'azione propriamente detta. L'azione infine non sarebbe che un mezzo per il raggiungimento di una pace interiore e di una verità superiore o almeno presunta come tale. Su questi temi si è magistralmente espresso Doug Robinson nell'articolo Lo scalatore come visionario, cui rimando i lettori desiderosi di approfondire l'interessante problema. Tuttavia, per non generare confusione, mi preme chiarificare esattamente il concetto di visione espresso da Robinson. Il termine visionario non ha nulla a che vedere con il misticismo e non va assolutamente frainteso con l'interpretazione corrente e comune della parola, che richiama apparizioni e visioni di genere extrasensoriale, molto care a tutta la mistica cristiana e forse spiegabili in sede parapsicologica. Robinson per visione intende il potere maggiorato ed acquisito di vedere le cose nella loro integrità e di scoprirle nella loro intima essenza. Ossia, e qui calza il paragone con le discipline orientali, la concentrazione su un oggetto permette non solo di penetrare nell'interno del medesimo, non arrestandosi al suo aspetto esteriore, ma anche di conseguenza di possederlo. È un discorso indubbiamente di grandissimo interesse, che però per la profondità con cui deve essere condotto e per l'esame da svolgere, esula dal compito che ci siamo prefissati in questo scritto.

La diretta conseguenza trasferita a livello alpinistico di questi presupposti è un esasperato individualismo, che si manifesta da un lato con atteggiamenti antisociali e dall'altro con la pratica dell'arrampicata solitaria, molto diffusa tra i californiani, intesa non tanto come espressione sportiva e competitiva, ma soprattutto come fenomeno puramente individuale e come ricerca personale di sensazioni non altrimenti raggiungibili. Si tenga presente che una scalata sulle pareti della Yosemite Valley sovente può durare più di dieci giorni (Robbins rimase da solo 17 giorni in parete); è facile che in determinate condizioni di sforzo, isolamento, concentrazione, si possano sviluppare dei processi psichici, forse indagabili con un attento studio delle variazioni biochimiche del corpo, che assai da vicino ricordano quelli ottenibili con l'applicazione metodica delle discipline orientali. A tutta prima la cosa potrebbe sembrare assurda, in quanto lo yoga e lo zen sono proprio un mezzo per uscire dall'angoscia e per raggiungere una perfetta armonia che trova nell'inazione la sua espressione più significativa. Un alpinismo angoscioso e teso in una azione esasperata al conseguimento di un risultato ci sembra decisamente l'opposto. Ma ci pare invece che un certo tipo di alpinismo e un certo modo di concepire l'arrampicata, che per definizione indichiamo con il termine californiano, tralascino decisamente il risultato inteso come meta da raggiungere in un meccanismo autosuperante, caratteristica prima dell'alpinismo europeo di derivazione romantica ed idealista.


IL SOLE NASCE IN VALLE DELL'ORCO

Torino era la città più permeata dalle scorie del passato, Torino è stato il primo focolaio della ribellione.
Il suo sogno si è chiamato Nuovo Mattino, il suo filosofo Gian Piero Motti.

È lo scherzo peggiore che potessero giocargli: ne hanno fatto un Mito, di quelli con le iniziali maiuscole. Nelle intenzioni dei suoi protagonisti nasce innanzitutto come momento di rottura: basta con i codici di comportamento, con le gerarchie, con gli steccati che condizionano l'alpinismo torinese dell'epoca. Nelle interpretazioni che ne sono venute, è diventato una nebulosa tanto carica di significati e di valori da apparire irreale: un mito, appunto. Stiamo parlando del Nuovo Mattino, di quella corrente di azione e di pensiero che agli inizi degli anni Settanta dà uno scossone al mondo dell'alpinismo torinese. «[...] sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre [...]

Orazio Coclite
07-06-03, 23:20
Riprendo questo thread che da troppo tempo languiva senza aggiornamenti consigliando altre letture sul tema, scegliendole fra le ultime uscite. E parto proprio dal bellissimo ed affascinante volume "La montagna dell'anima" (Settimo Sigillo) di Vittorio Miozzi e Flavio Tarquinii. Un tomo avvincente nella sua semplicità, che pagina dopo pagina ci irradia della pura passione degli autori per la montagna. Un testo scritto da due ragazzi che hanno eletto come luogo dell'anima le vette degli Appenini del centro Italia, in particolar modo il monte Velino. Due ragazzi che narrano delle vicissitudini e delle vicende cui sono andati incontro durante quindici anni di passione per la montagna. Consigliato senza remore.


http://utenti.lycos.it/quirinus753/immagini/montagnadellanima.jpg

L'Appennino nel segno della Tradizione
Chiunque abbia vissuto l'emozione che la verticalità di una parete rocciosa duramente squadrata, o il candore sidereo di una vetta innevata, sono in grado di scatenare, oltre la staticità del comune esperire quotidiano, è bene a conoscenza del potere evocativo della montagna. Questo saggio è un atto d'amore non solo verso la montagna come palestra di vita, ma anche verso l'uomo differenziato che nell'ascendere trova la sua realizzazione.

Editore Settimo Sigillo
Formato 15 x 21
Collana Saggi
Autore V. Miozzi - F. Tarquinii
Argomenti Alpinismo, Tradizione
Tavole-Illustrazioni-Foto 32 fotografie
Anno 2002
Pagine 364
Prezzo: € 24

Orazio Coclite
07-06-03, 23:29
http://utenti.lycos.it/quirinus753/immagini/scarponeemoschetto.jpg

Scarpone e moschetto
Alpinismo in camicia nera
Roberto Serafin, Matteo Serafin
L’alpinismo degli anni Trenta attraverso le pagine de "Lo Scarpone" e di altri giornali d'epoca.
(€ 12,00, pagine 192, anno 2002 )

Trama
"Scarpone e moschetto" ricostruisce le vicende alpinistiche degli anni Trenta attraverso le pagine de "Lo Scarpone" e di altri giornali d'epoca, per restituire alla memoria una storia e una mentalità che è stata troppo frettolosamente rimossa una volta finita la guerra. Da quelle pagine, al di là delle vicende politiche che l'hanno determinato, emerge tutto un modo di concepire e di praticare gli sport di montagna che nonostante le evoluzioni e le "dissacrazioni" successive, è ancora oggi pià presente di quanto comunemente si pensi. Riesaminare con spirito critico ma sereno gli scritti di quegli anni, significa riscoprire le radici di una cultura alpinistica con cui ancora oggi occorre fare i conti quando si parla di montagna.

Autore
Roberto Serafin Giornalista, da una quindicina d'anni si prende cura de "Lo Scarpone" con il contributo del figlio Matteo. Ha curato a Milano la mostra "Alpi, spazi e memorie" e il relativo catalogo. E' autore di "Montagna primo amore", di due manuali sullo sci, e ha partecipato con il Museo della Montagna "Duca degli Abruzzi" all'allestimento della mostra "Picchi, piccozze e altezze reali". Matteo Serafin Giornalista, collabora con varie testate tra cui il mensile Alp. Da qualche anno tiene corsi di storia orientale e laboratori di giornalismo nelle scuole superiori. Ha curato "Capocordata", raccolta di scritti del famoso alpinista Riccardo Cassin.



Da: http://www.alpinia.net/libri/recensioni/stor_013scarpone.htm


Roberto Serafin e Matteo Serafin, Scarpone e moschetto. Alpinismo in camicia nera

"Molti giovani goliardi hanno lasciato le città e le valli, hanno lasciato i libri e la picozza, hanno impugnato il moschetto per la difesa dell'onore e della grandezza della patria."
Lo Scarpone, 16/11/1935
Questa frase apre alla lettura di Scarpone & moschetto, un nuovo interessante volume della collana Tascabili, diretta da Mirella Tenderini.

Gli autori sono Roberto Serafin, giornalista che da una quindicina d'anni si prende cura de "Lo Scarpone", ed il figlio Matteo.
La possibilitá di accedere agli archivi completi di questa importante rivista di alpinismo, la piú antica e ricca di tradizioni, ha stimolato i Serafin ad analizzare e a tracciare la storia della nascita e dello sviluppo di questo periodico, fondato in piena era del fascio.

Il "ventennio" ha proposto ed imposto molti modelli di comportamento, le figure e le attivitá nazionali sono state enfatizzate, utilizzando lo sport e l'attivitá fisica come un distintivo da esibire al pubblico delle nazioni avversarie e amiche.

Scarpone e moschetto ricostruisce le vicende alpinistiche degli anni Trenta attraverso le pagine de "Lo Scarpone" e di altri giornali d'epoca, per restituire alla memoria una storia e una mentalitá che é stata troppo frettolosamente rimossa una volta finita la guerra.

Da quelle pagine, al di lá delle vicende politiche che l'hanno determinato, emerge tutto un modo di concepire e di praticare gli sport di montagna che nonostante le evoluzioni e le "dissacrazioni" successive, ´ ancora oggi piú presente di quanto comunemente si pensi.

Riesaminare con spirito critico ma sereno gli scritti di quegli anni, significa riscoprire le radici di una cultura alpinistica con cui ancora oggi occorre fare i conti quando si parla di montagna.

Gli autori prendono in esame gli argomenti piú significativi imposti dal regime all'organo di stampa dedicato alla montagna: si inizia con i rapporti tra alpinismo e impero, negli anni della ricerca del "posto al sole", dell'alpinismo e il fascismo, con il suo compattamento intorno al Duce.


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Curiosa immagine di Mussolini al Terminillo: sciatore senza sci...

Un capitolo particolarmente ampio é dedicato ad Angelo Manaresi, soprannominato Il podestá delle altezze, presidente del CAI tra il 1930 e il 25 Luglio del 1943, che per oltre un decennio é stato il propugnatore dei desideri del regime nell'ambito dell'Associazione stessa, scrivendo anche molti articoli sulla rivista.

Una delle maggiori ambizioni del fondatore Gaspare Pasini é stata quella di avere sullo Scarpone una terza pagina che riuscisse ad ospitare alcune tra le maggiori firme giornalistiche dell'epoca, ponendosi come riferimento il Corriere della Sera, il giornale piú prestigioso d'Italia; ecco allora la corsa per avere sullo Scarpone giornalisti come Cesco Tomaselli, Renato Simoni, il musicista Ildebrando Pizzetti e infine lo scrittore Dino Buzzati, giovane ma giá famoso.


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Anche Dino Buzzati (a sinistra) tra gli autori dello Scarpone

Di certo una delle questioni maggiormente dibattute sulla rivista fu quella ambientale, con la polemica se fosse lecito lasciare coprire i monti dalle ragnatele dei cavi funiviari o della cementificazione del Breuil, dove Lo Scarpone fu tra i maggiori difensori della wilderness di allora.

Questo libro é sicuramente un documento interessantissimo sul periodo storico che tanto ha influito sulle vicende della nostra patria e che ha lasciato cicatrici che ancora oggi sono purtroppo visibili.

Gli autori sono grandi conoscitori della rivista e della sua storia oltre che di quella italiana; ne é cosí scaturita un'opera molto interessante che permette di conoscere uno degli aspetti forse poco noto, ma non meno importante della nostra storia e del CAI.

Viene in tal modo illustrato il desiderio di fare apparire il nostro paese e il suo governo come un qualcosa di forte e di invincibile, questo attraverso anche il dominio sull'Alpe...

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Pubblicitá, d'epoca sullo Scarpone

Orazio Coclite
08-06-03, 00:18
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La stagione degli eroi
Castiglioni, Comici, Gervasutti
E. Camanni, D. Ribola, P. Spirito
Castiglioni, Comici, Gervasutti. Una lettura nuova della loro vita e dei loro scritti.
(€ 14,98, pagine 168, anno 1994)

Tre alpinisti che ebbero in comune tre cose: vissero e arrampicarono nel ventennio fascista, morirono prima dei 40 anni e incarnarono la figura dell’eroe.

Trama
Ettore Castiglioni, Emilio Comici e Giusto Gervasutti ebbero in comune almeno tre cose: vissero e arrampicarono nel Ventennio, morirono prima dei quarant’anni e incarnarono la figura dell’eroe tanto da diventare altrettanti simboli di un alpinismo di lotta e di sublimazione. Interpreti autentici delle passioni e delle contraddizioni del proprio tempo, Castiglioni, Comici e Gervasutti sono stati considerati troppo a lungo monumenti a loro stessi, spesso scordando che anzitutto furono uomini sensibili e vulnerabili. A mezza via tra il saggio e il pamphlet, questo libro tenta dunque una lettura nuova dei tre alpinisti e dei loro scritti, utilizzando un metodo di ricerca interdisciplinare. Alla fine di questo viaggio nel mito, sorge spontaneo un parallelo con l’epoca laica dell’attuale alpinismo sportivo, dove – in assenza di eroi – si cerca di creare figure che non possono più essere.

Autore
Enrico Camanni Giornalista e alpinista, nel 1985 ha fondato il mensile Alp. Ha pubblicato uno studio antologico sulla letteratura dell’alpinismo, un saggio sulle guide alpine italiane e un libro – inchiesta sui rifugi della penisola. Nel 1989 ha raccolto e commentato gli scritti alpinistici di Buzzati (Le montagne di vetro, Vivalda) e nel 1994 ha aggiornato, per la collana I Licheni, la Storia dell’alpinismo di Motti. Sempre per la collana I Licheni ha pubblicato nel 1997 "Cieli di Pietra" e nel 1998 "La guerra di Joseph", vincitore del Cardo d'Oro 1999 al Premio Itas e ha curato le opere "Nuovi Mattini" del 1998 e "I falliti" di Motti, nel 2000. Camanni ha, inoltre, partecipato con un racconto all'antologia "Il cinquantesimo lichene", raccolta di inediti degli autori più rappresentativi dell'omonima collana, in questi giorni in libreria (2000). Daniele Ribola Laureatosi in filosofia a Milano, si è diplomato nel 1978 al C.G. Jung Institut di Zurigo con una tesi sulla psicologia della verticalità e dell’alpinismo. Da allora si occupa degli sport ad alto livello di rischio. Svolge la libera professione come psicoanalista a Lugano. E’ tra i fondatori della rivista La pratica analitica; collabora con la rivista Immediati dintorni e con la casa editrice Red di Como per la collana “Immagini dell’inconscio”. Pietro Spirito Giornalista professionista presso Il piccolo, vive e lavora a Trieste. Si occupa di cronaca culturale ed è collaboratore del mensile Alp. Ha pubblicato Il Giudice e la Chimera (Biblioteca del Vascello) e Trieste nelle immagini dell’Istituto Luce (Mgs Press). Per l’editrice Sellerio ha curato un’antologia delle Cause celebri ed interessanti di François de Pitaval. Sempre per la collana I Licheni, ha pubblicato nel 1995 "La grande valanga di Bergemoletto" e ha partecipato con un racconto all'antologia "Il cinquantesimo lichene" , raccolta di inediti degli autori più rappresentativi dell'omonima collana, in questi giorni in libreria (2000).

Orazio Coclite
08-06-03, 00:20
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Gli spiriti dell'aria
Kurt Diemberger
Lo spirito libero e nomade di Kurt Diemberger nella sua ricerca: dalle vette Himalayane alla stupefacente profondità del Grand Canyon.
(€ 19,11, pagine 384, anno 1997)

Trama
Questo libro è il caleidoscopio della vita di un nomade tra zero e ottomila metri, è il raffinato diario di viaggio di un alpinista anomalo e straordinariamente creativo. "Solo gli spiriti dell’aria sanno che cosa troverò dietro le montagne..." dice un proverbio groenlandese, e da sempre Kurt Diemberger segue le voci degli spiriti per scoprire i segreti nascosti nei paesaggi della Terra. È una ricerca inesauribile che si rinnova in forme sempre diverse: nel vuoto immenso del Grand Canyon, nei misteri della foresta amazzonica, nei bianchi deserti groenlandesi, nell’assurda tragedia del K2, oppure nello sguardo attonito di Nawang Tenzing sulla cima del Makalu e nell’ondeggiare delle luci di Los Angeles che sembrano gioielli della notte. La scoperta di questi segreti si potrebbe chiamare avventura, ma è qualcosa che scende nel profondo: a questa ricerca Diemberger ha dedicato la sua vita.

Autore
Kurt Diemberger è nato a Salisburgo nel 1932 ma risiede da molti anni in Italia. Alpinista, documentarista, scrittore, ha al suo attivo sei ottomila ed è l’unico alpinista vivente ad aver salito due ottomila in prima assoluta: il Broad Peak nel 1957, insieme a Hermann Buhl, senza portatori e senza respiratori d’alta quota, e il Dhaulagiri nel 1960, con una spedizione internazionale svizzera, sempre senza ossigeno. Diemberger non si è dedicato solo alle montagne; è stato attratto anche dalle foreste, dai deserti di ghiaccio e di sabbia, da tutto ciò che riserva un fascino ignoto. È sempre in viaggio, in bilico fra la famiglia e i continenti lontani. Quasi ogni anno parte ancora per un’esplorazione o un’ascensione verso segrete frontiere.

Orazio Coclite
08-06-03, 00:24
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Emilio Comici - Alpinismo eroico
276 pp., 1995, Vivalda, € 18,08

Tutti gli scritti di Emilio Comici, pubblicati postumi.

Orazio Coclite
08-06-03, 00:26
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Federico Borca
Horridi Montes. Paesaggi e Uomini di Montagna Visti dai Gallo-Romani
Edizioni Keltia
formato 15x20 - pagine 176
brossura, ill. con 15 tavole in b/n
€ 16,00

Nell'anno dedicato alla Montagna, Federico Borca ci offre un libro affascinante che attraverso la storia dei primi incontri dell'uomo con le Alpi, ci mostra come si sia evoluto il nostro rapporto con l'ambiente montano. "Se davvero vogliamo comprendere quale percezione gli antichi Romani avevano delle montagne, se siamo decisi a capire come essi vedevano e vivevano quei luoghi, e che cosa pensavano dei loro abitanti, allora dobbiamo sforzarci di adottare la loro prospettiva: dobbiamo, cioè, guardare e pensare le montagne con i loro occhi e i loro strumenti concettuali, adottando i parametri del loro codice culturale. Un simile atteggiamento richiede, in primo luogo, l'abbandono di immagini e idee per noi familiari e scontate quali, per esempio, la visione della montagna &endash; al suo stato naturale &endash; come paesaggio grandioso e sublime, dominio di una natura intatta, non ancora contaminata dall'uomo e dunque da preservare a qualsiasi costo, come luogo privilegiato per il ritiro e la riflessione".

Indice: Capitolo 1: Immagini del mondo e forme del paesaggio - Capitolo 2: Barbari e briganti fra le rocce - Capitolo 3: Tremendæ Alpes - Postfazione - Bibliografia

Orazio Coclite
08-06-03, 00:34
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Lionel Terray
I conquistatori dell'inutile
Introduzione di Enrico Camanni
Pagg. 333 con illustrazioni b/n
Vivalda Editori - 2002
Collana "I Licheni"
€ 19,50

Trama
La mia vita è stata una lunga e delicata partita d’equilibrio tra l’azione gratuita, con la quale perseguivo l’ideale della mia gioventù, e una specie di rispettabile prostituzione con cui mi guadagnavo il pane quotidiano. Quale spirito volgare oserà sostenere che la prostituizione utile valga di più delle imprese gratuite?ˆ Così scrive Lionel Terray tirando un primo bilancio della sua carriera di alpinista e guida alpina nelle prime pagine di questo libro emblematico e affascinante. Da quando è uscito da Gallimard nel 1961, è diventato un classico dell’alpinismo e il suo titolo una definizione proverbiale. Il valore dell’alpinismo dipende dalla sua gratuità. Questo è l’ideale adolescenziale che sorregge tutta l’attività di Terray e ne giustifica i rischi, i sacrifici, le illusioni, anche le delusioni. Un ideale che inevitabilmente si logora con la maturità, quando deve fare i conti con gli appetiti degli uomini, le meschinità, le invidie, i tradimenti.

Autore
Lionel Terray, nato a Grenoble nel 1921 da famiglia borghese, negli anni giovanili si mette in luce come una promessa dello sci. All’inizio della seconda guerra mondiale compie il primo tirocinio alpinistico nelle file di Jeunesse et montagne, dove stringe amicizia con il marsigliese Gaston Rébuffat. Entrambi diverranno le prime guide cittadine accolte nella prestigiosa Compagnie des Guides. Combatte nella resistenza. Nel 1945 conosce Louis Lachenal. Insieme formeranno una cordata leggendaria, che sfida i più duri banchi di prova dell’anteguerra. Nel 1950 la spedizione all’Annapurna, il primo Ottomila conquistato, segna una svolta verso mete extraeuropee (Fitz Roy, Makalu, Chacraraju, Jannu). Muore nel 1965, precipitando con il collega Marc Martinetti su una falesia dell’amato Vercors, presso Grenoble.



Da: http://www.intraisass.it/rec15.htm

I conquistatori dell'inutile recensione di Alberto Pezzini

E' difficile persino trovare le parole per descrivere l'intensità accecante che spira dalle pagine di questo riassunto di vita. Lionel Terray riesce a profondere una tale densità di emozioni nelle pagine scritte che diventa ardua impresa quella di concentrarle nelle parole rigide di una recensione. Di libri di montagna se ne leggono tanti e le emozioni si accompagnano a momenti, affetti, finestre su panorami tinti di azzurro e freddi come la tundra. Il libro di Terray è unico e profondo come un pozzo abissale dove l'acqua si indovina e le pareti risuonano di echi continui. Pubblicato per la prima volta per i tipi di Gallimard nel 1961, quattro anni prima della scomparsa del suo amato autore, viene ora rivisto nella traduzione vivacissima e tambureggiante di Andrea Gobetti, speleologo audace e scrittore godibilissimo che sa scrivere in modo maledettamente invidiabile. La scorrevolezza delle pagine di Terray - tradotte con la limpidezza di Gobetti - restituiscono le emozioni forti e coinvolgenti dei fumetti o dei romanzi di avventura che da bambino ti inchiodavano su una sedia nei pomeriggi piovosi e fuori a giocare non si poteva andare. Il coinvolgimento è pressoché totale ed ogni momento di libertà e divertissement viene già prenotato per la lettura fino a quando il libro termina all'improvviso e ti ritrovi con una pienezza straripante che vorresti comunicare ed un vuoto improvviso apertosi dietro le spalle. Un classico a cui non si può rinunciare e che si deve leggere per andare in montagna. Nelle pagine di Terray c'è la montagna in toto: dallo sci con cui inizia, giovane squattrinato, a cercare di trovare un momento di equilibrio nella vita anche sotto il profilo economico, alle prime arrampicate condotte con amici sempre diversi e poi in coppia con alpinisti indimenticabili. Passano con una velocità impercettibile montagne asperrime e taglienti come coltelli acuminati: viene vinto l'Eiger - anche durante quella spedizione di soccorso che vide l'autore affannarsi per salvare un italiano allucinato dalla montagna, Corti; ve lo ricordate nel libro bellissimo e toccante del CDA? - allo Sperone Walker e fino al Pizzo Badile, per arrivare all'Annapurna di Herzog ed al Fitz Roy, in una cavalcata alpinistica che non termina mai. Ciò che colpisce di Terray è la sua inesauribilità, il carattere terragno ed incrollabile di un cittadino innamorato visceralmente delle montagne fino all'ultimo spasimo. A volte la penna dell'alpinista - e c'è da domandarsi quando abbia trovato il tempo materiale di scrivere un libro del genere - lascia intravedere profondi e saggi squarci dell'anima dell'uomo che non sa darsi pace e non sa godere di un solo momento della propria vita in cui potersi fermare pochi battiti di ciglia e respirare la montagna nella sua purezza. Dove il cielo si confonde con la neve bianchissima e liliale delle cime più alte del mondo, quando l'aria è rarefatta e la sua semplice inalazione cagiona un dolore quasi fisico e fa sanguinare se non hai l'ossigeno, qui Terray sogna momenti di calma apparente. Torna poi alla casa, all'amata Grenoble ed appena il riposo è stato tale da restituire un poco di sostanza ad un corpo consumato dalla fatica e dalla tensione, vuole ripartire immediatamente. La narrazione della vita di guida ci dà uno spaccato sincero di chi è la guida veramente e di certi momenti in cui le guide avvertono quelle sensazioni che ti domandi sempre se vivano anche loro. Quando ti dai ad una guida l'affidamento diventa totale e soltanto la sua esperienza e capacità diventano i più veri lasciapassare per scalare una vetta. Le pagine più ammalianti - e bisognerebbe interrogare Freud per comprendere i sottili meccanismi che un libro così completo sa far scattare - sono quelle in cui rivive l'Annapurna e le spedizioni in Tibet e Nepal. Qui si può respirare ancora l'aria sottile e tagliente degli ottomila e provare per un solo attimo, terribile, l'angoscia assordante che si può toccare a quell'altitudine quando i tuoi compagni sono accecati dall'oftalmia, hanno la carne bruciata dal gelo che macina le articolazioni, il vento taglieggia le menti e gli occhi si fanno vitrei con le orbite svuotate. La marcia di avvicinamento, i campi insieme agli alpinisti più brillanti e versatili - c'è chi dopo un'esperienza così lancinante come l'Annapurna si dedicherà all'automobilismo estremo dove la tecnica verrà sfruttata fino all'ultima goccia quasi a voler sfidare e ricercare quella morte che tante volte ti eri ritrovato danzante davanti agli occhi inargentati dal ghiaccio vorace -, la vetta dove il vento unisce nel silenzio più profondo la montagna al cielo, diventano i momenti più catturanti di tutte le pagine. Se potessi starei tutta la notte ancora a a scrivere - male ovviamente - di queste pagine che sono la massima espressione dell'alpinismo e della letteratura di montagna e che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita. Guardate la fotografia che c'è in copertina: gli occhi stanchi di Terray sono pieni di un senso malinconico e potente di vita che nessuna montagna potrà mai far trascolorare. Ed è bello pensare che la montagna, che tanto ha dato a Terray, lo abbia voluto con sé anche nella morte per difenderlo da ciò che sarebbe potuto arrivare dopo. Ciò che gli ha dato ha richiesto un prezzo molto elevato ma, se ci pensate, un libro simile ed una esistenza così completa e piena non avrebbero potuto essere pagati meno cari.

P.S. La traduzione di Andrea Gobetti val bene una bottiglia del migliore Barbaresco di Gaja che possiate aver bevuto in tutta la vostra vita e per tradurre così è meglio ritornare sui banchi del liceo e passare i pomeriggi di aprile a leggere Gide dall'originale. Magari servisse a qualcosa e che invidia!

Alberto Pezzini
Sanremo, maggio 2002

Orazio Coclite
08-06-03, 01:00
Un breve accenno sull'"Eroe" dell'alpinismo anteguerra

Emilio Comici, nacque a Trieste nel 1901. Di estrazione popolare, frequentò le scuole elementari e medie prima di entrare come impiegato ai Magazzini Generali. Fu la speleologia ad aprirgli le porte della montagna, che visse da subito in maniera totalizzante e romantica. Di temperamento introverso e tendente alla malinconia, ma generoso interprete del gesto atletico in parete, portò l'arrampicata ad una raffinatezza quasi artistica, divenendo un personaggio pubblico amato dalla gente e innalzato a simbolo eroico dal regime.

Nel 1929 fondò la prima scuola di alpinismo d'Italia nella vicina Val Rosandra, scuola che negli anni sfornerà numerosi arrampicatori illustri. Nel 1932 si licenziò per trasferirsi sulle Dolomiti, e praticare la professione di guida, che purtroppo gli serbò non poche amarezze. All'inizio della guerra venne nominato commissario prefettizio a Selva Val Gardena, ma morì troppo presto, il 19 ottobre 1940, per una caduta da una banale parete. Nella sua carriera aveva tracciato itinerari mitici aprendo la via del sesto grado italiano.

Le sue innumerevoli salite rappresentano una tappa fondamentale nella storia dell'alpinismo; molte sono ormai delle classiche, altre non sono più percorribili, mosso da uno spirito esplorativo e malinconico il grande alpinista triestino, approfittando di ogni momento libero, fuggiva in "Valle" non solo per allenarsi ma anche per ricercare una tranquillità che solo i monti possono donare.



Emilio Leonardo Comici(1901-1940)

Nato a Trieste (allora non italiana) il 21 febbraio del 1901, Emilio Comici rappresenta una pietra miliare nella storia dell'alpinismo e dell'arrampicata.
Iniziò la sua carriera sportiva nelle file di una associazione polisportiva, la "XXX Ottobre", che ricordava la data in cui la città di Trieste fu riunita all'Italia. Eravamo subito dopo la Prima Guerra Mondiale, in un clima di euforia patriottica, ed il giovane Emilio aveva persino evitato di giustezza una chiamata alle armi sotto l'esercito asburgico!
L'attività prescelta allora dal Comici era la speleologia e praticata nel Carso con gli amici, in maniera totalmente autodidatta. Eppure i risultati non tardarono ad arrivare, tanto che il gruppo ne ricavò qualche modesto sostegno materiale da parte delle istituzioni, coronando la sua epopea nel 1926, con il conseguimento del record mondiale di "profondità": - 500 m, ottenuto proprio dal Comici.
Negli anni 1927-28 si ebbe il progressivo abbandono dell'attività speleologica da parte del Comici, in favore dell'alpinismo. Per quanto naturalmente predisposto a questo genere di attività, non gli mancarono le delusioni a causa della sua tecnica non ancora ben affinata. Proprio per questo alla vista delle pareti della Val Rosandra, a pochi chilometri dalla città, intuì subito il loro potenziale di "palestra di roccia" e la possibilità di sfruttarle creandovi una scuola di arrampicata.
E' del 1929 la sua prima grande via: la prima via nuova italiana classificata di VI grado. Si tratta della Nord Ovest alla Sorella di Mezzo nel gruppo del Sorapis.
Non è possibile in questa sede ricordare tutte le prime o tutte le vie aperte da Comici nella sua pur breve carriera. Basti ricordare che tracciò oltre duecento nuove vie sulle Dolomiti, molte di estrema difficoltà per l'epoca. Rincorreva non soltanto la vetta, ma la bellezza del gesto e della via: per questo non considerava l'alpinismo come uno sport ma come un'espressione artistica. Ciò non toglie che egli non risultasse esente dal fenomeno della corsa alla soluzione di certi grandi problemi alpinistici dei suoi tempi. Ebbe per tutta la vita il problema di trovare un adeguato compagno di cordata: ne trovò alcuni, altri lo trascinarono in polemiche e maldicenze, tanto che talune delle sue grandi imprese furono condotte in solitaria, proprio per chiudere ogni equivoco.
Nel 1932 Comici abbandonò Trieste ed il suo lavoro ai Magazzini Generali per trasferirsi a Misurina, esercitando il mestiere di guida alpina. Non fu un'esperienza fortunata: l'ambiente locale era chiuso nei suoi confronti, tanto che già la scelta di Misurina era un ripiego, dato che a Cortina non era stato accettato. I suoi migliori clienti venivano sempre dagli ambienti triestini, come pure i suoi compagni di cordata nelle aperture di nuove vie, che però si facevano sempre un po' più rare.
La sicurezza economica, che pare potesse coincidere anche con il giusto coronamento della sua principale storia d'amore, gli giunse nel 1938 grazie ai buoni uffici di un suo estimatore, che gli ottenne l'incarico di commissario prefettizio a Selva di Val Gardena, in pratica le funzioni di podestà. Mentre il rapporto con la popolazione, dapprima diffidente verso lo "straniero", migliorò rapidamente grazie alla sincera disponibilità di Comici nel cercare di risolverne i problemi, non altrettanto si può dire di quello con le locali guide, fatto salvo Giambattista Vinatzer, l'unico a cui Comici non "faceva ombra". Il lavoro di burocrate e la cronica mancanza di compagni di cordata si tradussero in una sola grande impresa (l'ultima) nel biennio 1938-40: la Nord del Salame, nel massiccio del Sassolungo, nell'agosto del 1940.
Il 19 ottobre 1940 il destino si accanì contro Emilio Comici che, non avendo voglia di arrampicare ed avendo pure del lavoro da sbrigare in ufficio, nel pomeriggio si lasciò comunque convincere a seguire degli amici verso una parete di allenamento. Non scalò la via strapiombante, ma in compagnia di una signorina aggirò ogni difficoltà e si portò in alto, all'uscita. Ma gli amici ebbero qualche problema e gli chiesero consiglio, così egli, per poterli vedere, prese un cordino da uno zaino a caso e, ricavatone un anello, vi si appese per sporgersi verso il basso. Ma quel cordino era lì solo per fungere da porta chiodi, era vecchio e marcio?



Tratto da: Emilio Comici, mito di un alpinista
di Spiro Dalla Porta Xidias (Nuovi Sentieri)

…Giorgio Brunner, nel breve corsivo premesso al capitolo "Alpinismo solitario" scrive: "...Comici non è certamente il primo alpinista che abbia osato scalare montagne da solo. Il fatto eccezionale e sbalorditivo è che egli abbia compiuto da solo una salita di difficoltà estreme, vincendo passaggi nei quali si impiegano generalmente staffe, doppia corda e manovre; passaggi dove l'aiuto dei compagni è necessario. E questa salita l'ha compiuta con rapidità eccezionale." Rapidità eccezionale. Anche questo fattore importantissimo non è stato forse mai sottolineato nella dovuta misura. Oggi addirittura si tende a confrontare l'orario della prima solitaria con quelli delle successive. Dimenticando il fatto che la seconda ebbe luogo quattordici anni dopo, quando ormai anche questa forma di ascensione aveva acquistato oltre ad una tradizione, anche una precisa tecnica, maturata nel corso di numerose arrampicate.

Ma quando Comici attacca la Nord della Grande, non ha nessun esempio davanti a sé, troppo diverse le imprese di Preuss e di Dülfer, che del resto egli non aveva mai avuto occasione di studiare. - E così la tecnica preordinata dell'autoassicurazione si dimostrerà poco pratica, tanto ch'egli vi rinuncerà, come vedremo, dopo una sola lunghezza di corda.
Rapidità eccezionale, dunque, specie se confrontata coi tempi medi delle cordate che generalmente superavano la via con un bivacco o impiegando l'intera giornata. Ora, confrontando l'orario d'un solitario con quello d'una formazione di due elementi, si potrebbe pensare equo, per questa, un tempo doppio in confronto a chi va da solo. L'errore sarebbe però, anche questo, doppio. Innanzi tutto perchè, ammesso che un capocordata impieghi lo stesso tempo d'un solitario, è ovvio che il "secondo", agevolato dalla trazione della corda, dalla sicurezza materiale e morale, ne adopererà molto di meno. Non si usa forse dire che un buon "secondo" deve ricuperare il tempo perso dal "primo"?
Poi un capocordata, mentre fa sicurezza, generalmente riposa, almeno fisicamente, quindi si troverà avvantaggiato quando riparte in confronto al solitario cui queste forzate pause non sono concesse.

Il tempo "lordo" impiegato da Comici per la salita è di tre ore e tre quarti. In realtà, per avere il suo tempo "netto" o "effettivo" – come si usa spesso segnare oggi - bisognerebbe detrarre dal totale i minuti persi dopo il primo innalzamento obliquo, quando dovette calarsi una decina di metri per recuperare un capo della corda di autoassicurazione, caduto nel vuoto che, dato il nodo in cima, non poteva passare attraverso il moschettone

... Con l'altra corda che rimaneva dovetti calarmi giù per la parete strapiombante, senza però giungere al nodo, perchè il tratto percorso, come dissi, era anch'esso in traversata. Fatica da matti: dondolarsi su quel vuoto per arrivare al nodo! Feci due, tre tentativi, prima di riuscirvi, con grande pericolo, perchè le braccia cominciavano a sentire lo sforzo, e a non tenere più.

A questo primo incidente ne va aggiunto un secondo che porta via altro tempo. Comici ha raggiunto al "Bivacco degli Italiani" la cordata austriaca Weissensteiner-Hòller che lo precedeva. Dopo aver conversato con loro e sgranocchiato qualche zolletta di zucchero, un pezzetto di cioccolata, riparte - "... Era già salito alcuni metri sopra di noi, quando un blocco di considerevoli dimensioni si staccò sotto di lui... Lanciammo un grido, ma fortunatamente il masso, precipitando nel vuoto, ci sfiorò e ferì solo leggermente il mio camerata Hòller. Comici, visto il masso cadere ed udendo il nostro grido, fu preso dal timore di una disgrazia ed immediatamente, in discesa libera, ci raggiunse. Noi lo accogliemmo con molta riconoscenza per il suo pronto cameratismo e per il suo alpinistico sentimento di aiuto: lo ringraziammo di cuore, lo assicurammo che nulla di grave era accaduto e lo lasciammo riprendere verso la sua alta meta." -

Questi due incidenti permettono quindi di accettare il giudizio di Comici quando dichiara di poter ripetere l'itinerario in tre ore e un quarto. Non ho certo fatto queste dichiarazioni sulla detrazione d'orario per definire un record, ma per sottolineare la straordinaria facilità con cui Emilio ha effettuato l'impresa. Con cui ha aperto un nuovo capitolo nella storia dell'alpinismo. Perchè, ripeto, penso che questa sua straordinaria superiorità sulle difficoltà tecniche incontrate, non sia stata ancora sufficientemente evidenziata. E costituisca un fattore importante per l'aura di leggenda che tuttora aleggia intorno a Comici.

Non esiste, per quanto ne sappia, un resoconto di Gianfranco Pompei, il solo che abbia assistito a quell'ascensione dalla base. Abbiamo quindi solo le poche righe stese da Weissensteiner che in pratica osservò il triestino in azione solo lungo i tratti prima e dopo il "Bivacco degli Italiani". Oltre naturalmente alla descrizione dello stesso Comici, pubblicato in "Alpinismo Eroico" nel capitolo "Alpinismo solitario". Vediamo innanzi tutto cosa scrive lo scalatore austriaco: - "... Con l'occhio lo seguimmo per un tratto, ricavandone facilitazione al nostro proseguire. La sua arrampicata fu rapida ma molto prudente e ci diede la massima dimostrazione della sua inarrivabile potenza, della sua squisita tecnica e del suo perfetto allenamento. Purtroppo in breve lasso di tempo egli era di nuovo scomparso alla nostra ammirazione." -

Si tratta di poche righe, l'intero capitolo scritto dall'alpinista austriaco non occupa che una facciata e mezzo del libro, ma sono sufficienti a darci un'idea chiara della facilità, della padronanza con cui il triestino compie la salita. Molto più esplicite, naturalmente, le indicazioni che possiamo ricavare dal testo di Comici. Non ha mai paura o dubbi, ma prova solo un senso di felicità:

... Difficilmente potrei spiegare quell'ebbrezza, quella gioia di sentirmi completamente solo su quella spaventosa parete... Che gioia! Gioia di vivere; soddisfazione; intimo orgoglio di sentirmi così forte da dominare da solo il vuoto e lo strapiombo. Che voluttà! Mi misi a cantare alto una canzone a me cara, un motivo che fin dalla mattina, appena svegliato, era dentro di me, come un ritornello della mia subcoscienza. E quando poi la fatica cominciò a strozzarmi il fiato, la mia canzone continuò a ripetersi ancora muta nel mio cuore.

E più sotto:

... Gianco di sotto, come mi disse poi, non aveva staccato un attimo gli occhi da me, e mi sentiva cantare. Mentre io godevo, lui soffriva.

E ancora:

... Ero ebbro, ma cosciente; perché mi sentivo la forza fisica di superare lo strapiombo, e la sicurezza morale di dominare il vuoto…ciò che si prova in quel momento è talmente sublime che vale il rischio...

Dal punto di vista strettamente tecnico, troviamo poche indicazioni dettagliate. Ma dall'insieme si ricava un tal senso di facilità, di gioia, da farci quasi dubitare che si tratti di una via estrema, considerata allora una delle più difficili in senso assoluto di tutte le Alpi. Non aveva forse dichiarato Peter Aschenbrenner, autore insieme al fratello Paul della prima ripetizione: "Non si potrà mai superare maggiori difficoltà tecniche di quelle che abbiamo incontrato in certi passaggi"?

I pochi richiami al reale livello della salita servono quindi a ricordare quale fosse effettivamente la difficoltà, ed insieme ad esaltare l'impresa del solitario, proprio perchè l'arrampicata, nel racconto, non assume mai tinte fosche, drammatiche, ma sempre la gaia, spensierata levità d'un gioco.

Il tratto iniziale della parete Nord è un'arrampicata da impensierire qualsiasi alpinista, anche se attaccato con doppia o tripla corda su tutti quei chiodi esistenti; anche se per vincere quel pezzo di traversata in strapiombo adoperi due staffe di corda da poggiare i piedi quanti alpinisti hanno battuto in ritirata, stremati di forze, con i polsi grossi per lo sforzo, o quanti sono volati su quei chiodi benedetti che hanno sempre tenuto!

Comici inizia l'arrampicata:

... Mi legai a metà corda di trenta metri; misi venti metri di cordino a tracolla; presi dieci moschettoni e dieci chiodi, martello ed una staffa di corda. Tutti questi attrezzi li presi principalmente per il caso che avessi dovuto ritornare indietro se non me l'avessi sentita di andare avanti.

Come abbiamo visto, egli compie la prima traversata ed il primo innalzamento obliquo autoassicurandosi sui chiodi; poi rinuncia a questa tecnica e prosegue del tutto in libera. Nessun dubbio, nessun incidente, se si toglie il momento in cui avendo le gambe "esageratamente aperte", un piede gli scivola...

Ma io prevedevo che non mi avrebbe tenuto, e mi fidai unicamente perchè avevo un buon appiglio in mano. In quell'attimo mi sentii tanto sicuro che invece di provare sgomento, si sprigionò dal mio interno una grande risata come di scherno.

La sua salita è così veloce, agevole, verrebbe da dire, che raggiunge i due austriaci al "Bivacco degli Italiani".

... Nel tempo che essi impiegarono per sorbirsi quella ventina di metri, io ne feci duecento.

Dopo una breve sosta sulla cengia con Weissensteiner e Hòller, dopo essere salito e ridisceso una decina di metri per assicurarsi che non erano rimasti feriti dal masso caduto, Comici riattacca definitivamente e compie in un'ora e un quarto la scalata del tratto superiore, lungo trecentocinquanta metri, "...con continuità di passaggi straordinariamente difficili". Arriva in vetta verso le due e tre quarti. Ha impiegato per l'intera salita meno di 3 ore e 45 minuti. Lorde.

Sono noti gli episodi caratteristici che Comici scrittore-conferenziere si concede, e che gettano luce particolare non solo sull'impresa incredibile per i tempi, ma anche sull'aspetto un po’ ingenuo di Emilio, sempre pronto, quando ne ha occasione a "fare teatro". In vetta ci sono quattro giovani tedeschi giunti per altro versante che vedendolo sbucare da Nord, lo salutano cordialmente. Emilio risponde, fa finta di niente, cava giubbetto, camicia e si sdraia tranquillo a prendere "beatamente il sole". I quattro gli chiedono se aveva fatto la Nord e si meravigliano molto per il fatto che una cordata sia giunta in cima così presto per quella via. Comici continua a fare lo gnorri.

...Dopo un po` di tempo vidi i Tedeschi inquieti borbottare fra loro; poi uno mi rivolse la parola in tedesco: - E i compagni non vengono ancora? – Non ho compagni, sono salito da solo - E qui altre fotografie e autografi di prammatica.

Prima di scendere egli annota l'ascensione sul libro-vetta:

Salito da solo su per la parete Nord, impiegando tre ore e tre quarti.

Una settimana dopo Comici torna sulla cima della Grande di Lavaredo per la Normale con una cordata di clienti e trova le sue parole scritte per la Nord cancellate con un tratto di matita e sotto

aggiunto a lettere cubitali: « ESAGERATO!» e poi un magnifico «BUM!».

E questo commento ineducato e denigratorio fa più piacere ad Emilio di qualsiasi elogio, gli dà la portata esatta della sua impresa

... perché il gesto di quello sconosciuto ha denotato una meraviglia così grande da trasformarsi in incredulità, e d'altro canto mi ha rivelato l'astrusità di quanto avevo fatto.

Orazio Coclite
08-06-03, 01:03
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Orazio Coclite
08-06-03, 01:05
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Tomás de Torquemada
08-06-03, 07:24
Un ringraziamento a Orazio Coclite per aver aggiornato questo bellissimo thread, carico di suggestioni... :)

Per inciso, qualcosina su Comici la leggevo proprio l'altra mattina su un Oscar del 1968 appena acquistato: Storia dell'alpinismo di Claire-Eliane Engel...

Orazio Coclite
08-06-03, 23:34
Originally posted by Tomás de Torquemada
Un ringraziamento a Orazio Coclite per aver aggiornato questo bellissimo thread, carico di suggestioni...
Prego.



Originally posted by Tomás de Torquemada
Per inciso, qualcosina su Comici la leggevo proprio l'altra mattina su un Oscar del 1968 appena acquistato: Storia dell'alpinismo di Claire-Eliane Engel...
Quelli erano uomini! Se invece penso alla mia esistenza passata fra 'avventurose' partite allo stadio, 'pericolosissimi' libri polverosi e tanta attività fisica al riparo di palestre e campi verdi dove al massimo si rimediava qualche occhio nero o costola rotta... Noi moderni non siamo degni dell'appellativo di 'uomini', siamo carne frolla, stomaci molli. E mi vengono i brividi a ripensare all'epopea dell'alpinismo della prima metà del secolo scorso: quattro chiodi, una piccozza, un paio di corde e via a dondolare dalle rocce, senza particolari protezioni, senza grosse precauzioni. Certo alcuni di questi uomini in Montagna hanno incontrato la morte, passando direttamente dal mito in vita alla leggenda in morte. Ma che dire allora delle nostre anonime esistenze? Noi di cosa possiamo andare orgogliosi?

Saluti caro amico della Trinacria.

Tomás de Torquemada
20-08-16, 22:40
La montagna e i suoi simboli

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/a/af/Gran_sasso_italia.JPG
Il Gran Sasso
Immagine dal sito https://upload.wikimedia.org/

Ramana Maharshi

La simbologia della Montagna è profondamente radicata in mol­te tradizioni e riporta sempre ai concetti di stabilità, elevazione, centro. È anche il simbolo dell’intera manifestazione nonché dello spazio propriamente umano. La forma grafica del triangolo iniziatico è pure una rappresentazione simbolica del Monte la cui base coincide con la terra, mondo della manifestazione corporea (bhUR), la cima tocca il Cielo, regno del non-manifesto (svaH) e lo spazio intermedio, l’atmosfera, raccoglie il mondo della manifestazione sottile (bhuvaH).

Questa triplice ripartizione, nell’uomo (microcosmo) cor­risponde al corpo, anima e spirito, e a livello macrocosmico prende il nome di mahAnga, o regno di tutta la materialità del Cosmo, mahAt­ma o anima universale e brahAt­ma o regno dello Spirito Divino. Ordinariamente l’uomo vive ai piedi della Montagna immerso in una realtà densa, frazionata, di di­spersione e lontano dalla perfezione. Proprio come nel dantesco “nel mez­zo del cammin di nostra vita” egli si ritrova in una selva oscura senza riuscire a scorgere la giusta via.

Allo stesso modo Arjuna, nel campo di battaglia, confuso, disperato, privo di ogni desiderio di vittoria, di regni o di piaceri, aggiogato dai suoi sen­timenti, chiede lumi a KRISHNA, il suo maestro e guida, perché gli indichi la via per intraprendere la giusta azione. Oltrepassare questa condizione ordi­naria significa intraprendere la scala­ta della Montagna il cui compimento rappresenta per l’uomo la completa realizzazione di tutte le sue possi­bilità. Si tratta di raggiungere non tanto un luogo ma uno stato in cui si riveste la funzione di Re del Mondo o Sovrano-Pontefice, cioè di colui che è capace di essere mediatore tra questo mondo e i mondi superiori.

Nello yoga, colui che ha raggiunto la cima del Monte realizzando, quindi, completamente la sua funzione regale è chiamato yogarUDha. GaruDa è l’aquila, capace di elevarsi oltre la cime, ove dimora, e di fissare direttamente il sole (lo Spirito Divino). Essa occupa infatti quel luogo centrale in cui avviene una comunicazio­ne diretta tra il mondo terrestre e quello divino. GaruDa è anche la cavalcatura di ViSNU, divinità solare, protettore dell’universo, guerriero e cu­stode della tradizione: la cima del Monte, come vedremo in seguito, è anche luogo della conser­vazione della Tradizione. Scopo del viaggio (e anche dell’iniziazione) non è solo quello di rag­giungere la vetta del monte, ma di proseguire il viaggio oltre, elevandosi a stati ancora superiori.

Al di sopra della montagna sacra oltre i tre mondi (bhUR, svaH, bhuvaH), si incontra­no infatti realtà non più connesse con il mon­do manifesto (mahah, janah, tapah e satya) che corrispondono alle gerarchie angeliche ove non vi è più nulla di propriamente “umano” e ancora oltre, verso l’obiettivo ultimo del viag­gio, verso Colui che è l’origine del tutto e dal quale tutto dipende, ossia “L’Amor che muo­ve il Sole e l’altre stelle” (Dante - Paradiso).

Nella cosmogonia indù, la montagna sacra è Meru che in certe rappresentazioni è col­locata al centro di un grande fiore di loto i cui sette petali costituiscono i continenti che nelle varie epoche storiche emergono rappresentando il mondo terrestre. Sette sono anche le direzio­ni nello spazio che in India sono i quattro punti cardinali, lo Zenith, il Nadir e il centro stesso. Pure ogni faccia di Meru ha un suo colore, il monte, nel suo insieme, è bianco e per questo è anche chiamato la Montagna Bianca. Il mondo terrestre (Jambudvipa), si dice sia posto al Sud del monte Meru, pertanto Meru mostra alla ter­ra il suo lato sud, di colore turchese ove la luce si riflette provocando il colore azzurro del cielo.

Così si legge in alcuni versi tratti dalla rac­colta “I centomila canti di Milarepa”:


“... Il prezioso monte Meru

lo Stupa al centro dell’Universo,

A Sud emana una luce di puro turchese;

Essa è il grande ornamento del

Firmamento di Zambuling”

Considerato quindi che l’alternato emer­gere del “mondo terrestre” in posizione sempre diversa attorno a Meru provoca un di­verso orientamento della Terra rispetto al mon­te, è comunque da rilevare che Meru conser­va in ogni caso la sua immobilità e centralità.

L’uomo, per intraprendere l’ascensione, deve pure dimorare al centro della pro­pria individualità e, attraverso un adeguato cammino, deve poter “scendere” nella pro­pria natura essenziale, punto di partenza per elevarsi verso la Cima. Anche Dante inizia il suo viaggio da una posizione di centralità sia temporale (“nel mezzo del cammin di nostra vita”) che spaziale, scendendo prima al centro della Terra e da questo risalendo verso il Cielo.

Il Centro rappresenta quindi l’Origine di tut­te le cose da dove, per la sua stessa poten­za (sHakti), si diparte l’intera manifestazione che gli ruota attorno, dispiegandosi in tutte le sue possibilità con un’azione centrifuga che trova ulteriori espressioni sempre più lontano dal centro stesso. Ritornare all’Origine delle cose significa riavvicinarsi al centro ritrovan­do la saldezza dell’immobilità e dell’eternità.

Questa idea di immobilità e di stabilità del monte è ancor più suggerita da certe imma­gini in cui Meru si erge su di un’isola circonda­ta da un mare agitato. L’acqua è simbolo della materia prima di prakRti, la Potenza creatrice, da cui ogni cosa manifesta ha avuto origine ed è il luogo dei continui mutamenti, delle cose assog­gettate alla temporalità. Ma questo mare agitato non toccherà la cima del monte, come il diluvio non potrà raggiungere il paradiso terrestre tro­vandosi questo al di là del mondo dei mutamenti.

La cima rappresenta anche il luogo in cui la Tradizione viene conservata: ma come il Pa­radiso Terrestre è divenuto inaccessibile, così lo può divenire la Tradizione, lontana e nascosta, come fosse perduta, ma conservata in alcuni cen­tri occulti, ovvero sulle Cime inaccessibili. Anche l’Arca può essere il luogo della conservazione della Tradizione e non solo nella cultura cristiana.

Nei testi puranici dell’India si narra di Satyavrata che, sotto le vesti di un pesce, dopo aver appreso dell’imminenza della di­struzione del mondo da parte delle acque, co­struisce un’Arca, come ordinatogli da ViSNU, ove poter conservare i germi del mondo fu­turo e, dopo il diluvio, portare agli uomini i Veda, cioè la Tradizione. È evidente l’analo­gia con la vicenda di Noè che salva il seme della vita nell’Arca, dimora protetta da Dio. Salire la montagna per raggiungere la vetta, comporta il progressivo abbandono dei mezzi che sono stati utili alla “scalata” ed anche il distacco da un mondo tutto esteriore fatto di nomi e di forme che velano la Realtà assoluta. Nella BhagavadgIta questo distacco implica necessariamente ‘l’azione senza desiderio’ (niSkAmakarma), la rinuncia ai frutti dell’azione.

La consapevolezza che nulla esiste al di fuori del Principio porta a quella “povertà spi­rituale” ritenuta da varie Tradizioni essenziale per poter ritornare alle proprie radici, alle ori­gini (qui rappresentate come la cima del mon­te). Solo nello stato di perfetta semplicità, ca­ratteristico del ritorno allo stato primordiale, ci può essere pura contemplazione che porta alla Conoscenza della ragione prima delle cose. “Questa “povertà” (in arabo el-faqr) con­duce, secondo l’esoterismo mussulma­no, a el-fana, cioè all’”estinzione” dell’“io”; per mezzo di questa “estinzione” si perviene alla “sta­zione divina” (el-maquam el-ilahi), che è il punto centrale dove tutte le distinzioni inerenti ai punti di vista esteriori sono superate, dove tutte le op­posizioni sono cancellate e risolte in un equilibrio perfetto.” (Guénon, Scritti sull’esoterismo isla­mico e il Taoismo, Ed. Adelphi - 1993 - pag. 48)

L’estinzione dell’io è il superamento del molteplice per il raggiungimento della Vetta, unico punto nel quale vi è comunicazio­ne, via di passaggio, verso il Cielo. Nel sim­bolismo evangelico, questa via di passaggio è anche una porta stretta, la “cruna dell’ago” attraverso la quale i “ricchi” non possono pas­sare in quanto sono stati incapaci di impove­rirsi delle loro “molteplicità” e pertanto non hanno saputo ascendere dal sapere distintivo alla Conoscenza unitaria rimanendo prigionie­ri indefinitamente dei cicli di manifestazione.

La montagna e i suoi simboli - http://www.ramana-maharshi.it/ (http://www.ramana-maharshi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=179:la-montagna-e-i-suoi-simboli&catid=37&Itemid=55)