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Visualizza Versione Completa : L'operazione Mindbuster (acchiappa-cervelli)



Sir Demos
15-04-02, 12:43
L’operazione Mindbuster è bloccata per “intervenuti gravissimi problemi di bilancio nell’anno 2002”. Più che di strangolamento nella culla si tratta di vero e proprio aborto: “Il progetto Mindbuster non è mai partito, ci hanno fatto lavorare per nulla. Io ho presentato la domanda di finanziamento lo scorso 14 settembre. Ma nei sei mesi successivi non sono nemmeno state formate le commissioni di valutazione delle domande, fino all’annuncio del blocco di tutta l’operazione - spiega Roberto Defez, ricercatore dell'Istituto di Genetica e Biofisica Buzzati Traverso di Napoli, già portavoce dell'appello degli scienziati per la libertà di ricerca.

Defez, comunque, nega che il progetto Mindbuster avesse le potenzialità per contrastare il cosiddetto fenomeno dei “cervelli in fuga”: “É stato presentato in grande spolvero come se fosse il sistema giusto per far tornare chissà chi dall'estero. Ma in realtà le cifre stanziate e, soprattutto, le voci interne sull'entità dei finanziamenti ai quali si poteva ragionevolmente ambire non erano tali da far tornare assolutamente nessuno da nessuna parte. L’ordine di grandezza era di 125mila euro (circa 240 milioni di lire) a progetto per ciascun consorzio di ricerca. Nel caso di otto componenti, per esempio, il finanziamento sarebbe stato di 30 milioni a testa all’anno: sono cifre con le quali non si riesce a fare nulla.

Un ricercatore serio tornerebbe in Italia in presenza di finanziamenti duraturi, della possibilità di pagare per davvero il personale, ma anche di strutture, spazi, laboratori, tutte cose che in Italia non ci sono, né nelle università né al Cnr. L’operazione Mindbuster, insomma, non avrebbe fatto tornare nessuno. Avrebbe solo permesso ai laboratori italiani di vivacchiare con un po' di soldi per un altro anno". Ma non succederà neanche questo, perché come si è visto il progetto non è mai partito.

Allo stesso modo sono stati bloccati i quattro Progetti finalizzati in corso, fra cui quello dedicato alle biotecnologie. “Questo è un caso che ritengo più grave del Mindbuster, perché interrompe finanziamenti già in atto, brevetti già depositati, licenze già concesse. Gli investimenti fatti fin qui vengono vanificati in modo autolesionistico - dice Defez.

La colpa è dei tagli operati dal Governo al bilancio del Cnr. O meglio, del mancato stanziamento di nuovi fondi per far fronte all'aumento di spese dovuto all’immissione in ruolo di 2000 nuovi dipendenti e al rinnovo del contratto. “Una parte delle nuove assunzioni viene dai finanziamenti per il mezzogiorno del 1989: quindi saranno vicende fatte di lunghissimi anni di precariato per ricercatori, tecnici e così via. Il contratto rinnovato, poi, era già scaduto nel 2001...” dice Defez. Insomma, non si tratta certo di voci improvvise e impreviste. Eppure i soldi per coprire queste nuove spese sono stati presi dalle già esangui casse dei laboratori. L’orazione funebre per la ricerca italiana è stata autorevolmente celebrata dall’astrofisico Margherita Hack, pungente come sempre: “Pace all'anima della ricerca italiana, subdolamente uccisa dalla famosa esperta di ricerca scientifica Ministra Moratti. Questo governo ricco di illustri ingegni è riuscito finalmente a tappare tutti i buchi lasciati dai Œcomunisti”, tagliando quelle inutili spese per l'università. Tanto c'é la televisione che fornisce cultura a tutti con i suoi quiz, e l'Italia è comunque fra i Grandi per il suo impegno guerriero, anche se spende per la ricerca e l'università meno di un terzo degli altri Grandi. Requiescat in pace".

Sir Demos
15-04-02, 12:48
“Cervelli in fuga” è il titolo di un libro a cura dell’Adi, l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Si tratta di una raccolta di storie di ricercatori italiani emigrati all’estero, raccontate in prima persona da loro stessi. Sullo sfondo c’è sempre la grande difficoltà nel trovare opportunità di ricerca in Italia, la sostanziale mancanza di meritocrazia nelle università e nei centri di ricerca. Per dirla con Piero Angela, autore della prefazione: “La scienza è un po’ come lo sport: per vincere contano i giocatori, contano i risultati. É per questo che negli Stati Uniti, per esempio, i laboratori sono pieni di stranieri: ricercatori di tutti i paesi (italiani compresi), spesso direttori di ricerca, o in posizioni di prestigio. Ma ve la immaginate voi una università italiana in cui vengano inseriti nell’insegnamento e nei laboratori (addirittura in posizioni chiave) degli stranieri? O dove vengano aperte le porte, così come sta avvenendo ora negli Stati Uniti, al massiccio arrivo di scienziati indiani o cinesi? Anche noi facciamo la stessa cosa, ma nel calcio... Qui vengono effettivamente scelti i migliori giocatori. Perché l’importante è che la squadra sia forte, e che vinca. Se riuscissimo a trasferire, anche solo in parte, nella ricerca scientifica quei criteri di selezioni e di meritocrazia che applichiamo nel pallone, saremmo un Paese straordinario...”.

Ecco una delle vicende tratte dal volume “Cervelli in fuga”, edito da Avverbi edizioni e curato da Augusto Palombini: quella di Riccardo Giovanelli, astronomo cavaliere del lavoro. Intrisa, come le altre, di nostalgia per l’amato-odiato Belpaese natio. Riccardo Giovanelli è nato il 30 agosto 1946 in Parmigiano-Reggiano-land. Laurea in fisica (Bologna 1968), Ph.D. in astronomia (Indiana 1976), servizio civile in El Salvador (1973-75). A Bologna nel 1976, ritorna negli Stati Uniti l’anno successivo e diventa capogruppo di astronomia e direttore dell'Osservatorio nazionale di Arecibo. È professore ordinario a Cornell University dal 1991. Medaglia Draper in Cosmologia (1989, National Academy of Sciences) e Cavaliere della Repubblica Italiana per meriti scientifici (1997).

Il cordone ombelicale che ci lega alle nostre radici culturali è assai robusto, ben più che quello materno. Dopo avere passato la maggior parte della mia vita a fare lo zingaro, sono ancora le canzoni cantate con gli amici dei vent'anni, i profumi di pane fresco, prosciutto e malvasia, a prestare i colori più forti e gioiosi alle mie esperienze. Quando si emigra, è impossibile tagliare tutti i ponti. Non importa quanto sia esaltante l'avventura, né quanto temerario sia lo strappo che la inizia: rimane sempre una traccia d'accento, la vulnerabilità a risonanze emotive, sensuali, e alle conseguenze del vedere il mondo in un modo che, inevitabilmente, sarà sempre un po’ anomalo. Quando ero studente all'Università di Bologna, negli anni Sessanta, non avevo né abbastanza buon senso né buon consiglio per valutare la qualità del mio percorso educativo. Nella mia famiglia non c'era esperienza utile al riguardo, e l'anonimato andava d'accordo con la mia timidezza e con le scarse opportunità d'interazione con chi di queste cose ne sapeva più di me. Mi facevo i fatti miei, passavo gli esami con i soliti patemi, marciavo per le cose che mi sembravano giuste, vivevo in pensioni squallide e studiavo in condizioni che, viste in retrospettiva, erano piuttosto tristi. Ma ciò era normale, così facevano pure i miei compagni. Mi laureai nel 1968 con la lode e mi ritrovai con una borsa di “addestramento alla ricerca”, nello stesso istituto dove avevo studiato abbastanza anonimamente.

Ricordo che un mattino mi guardai allo specchio e mi dissi: “Complimenti, sei finalmente un impiegato statale”. Non era esattamente vero, diciamo che ero sul trampolino per diventarlo. Comunque fosse, la cosa non mi entusiasmò. Neppure le direzioni di ricerca che mi si prospettavano mi esaltavano tanto. Da un compagno di studi parecchio più anziano, che era stato vari mesi in America, avevo imparato la frase: “Go west, young man”. L'idea di sprovincializzarmi mi faceva gola, così quando un giorno vidi un annuncio di borsa di studio per l'Indiana University nella bacheca del mio istituto, non troppo seriamente compilai la domanda. Qualche mese dopo, appresi di avere vinto la borsa, in parte finanziata dal Fondo Fulbright. Solo allora mi informai su quel che si faceva all'Indiana, e mi piacque quello che lessi. Andai dal direttore dell'istituto e gli dissi che intendevo andarmene per un anno in America. Mi chiese stupito “Ma questa borsa, chi gliel'ha fatta avere?”.

Mi piacque la sensazione che questa borsa era solo mia e che non la dovevo alla magnanimità del professore. Ritornai a fare lo studente, parte di un gruppo di una trentina di dottorandi in astronomia, a Bloomington, nell'Indiana. Là scoprii che fare lo studente poteva essere un'esperienza bella e divertente. E mi resi conto che la strada più breve per diventare un ricercatore davvero indipendente era quella di seguire un paio d'anni di corsi e di fare un dottorato. Feci domanda per un internato nel più grande centro di radioastronomia degli Usa, il National Radio Astronomy Observatory (NRAO), e fui accettato per l'estate successiva. Il mio “anno” in America rischiava di prolungarsi. A Pasqua, tornai a Bologna e riferii al direttore sui miei nuovi piani. Mi disse: “Guardi: o torna quest'estate o a Bologna il posto non l'avrà più”. Gli sono ancora grato per l'esemplare chiarezza. Andai in giro per il dipartimento a chiedere ai colleghi più anziani consiglio sul da farsi. L'inchiesta non produsse argomenti conclusivi, finché uno dei ricercatori più giovani m'illuminò: “Ogni anno che stai fuori, perdi i contributi. Devi pensare alla pensione”. Cinque minuti dopo, ero di nuovo nell'ufficio del direttore: “Professore, la saluto. Forse ci si vede fra qualche anno. Dia pure la mia borsa a qualcun altro e grazie di tutto”. Tornai in Indiana, poi passai l'estate all'NRAO in Virginia, dove trovai un'atmosfera di eccitante fermento creativo. Vi tornai l'estate successiva, e poi vi entrai definitivamente per la ricerca durante il Ph.D.

Furono tre anni fantastici. A dicembre del 1972 dovetti interrompere per via dell'obbligo militare. Invece di tornare in Italia a fare il soldato, trovai un lavoro come insegnante di fisica alla Universidad Nacional de El Salvador, in Centro America, che mi valse come servizio civile. L'esperienza mi spinse a una profonda riflessione sulle mie priorità personali. Come astronomo, furono due anni e mezzo buttati via, ma durante quel periodo vissi gli episodi maggiormente formativi della mia vita. Nel 1975 tornai negli Stati Uniti e all'inizio del 1976 difesi la mia tesi di dottorato. A Bologna intanto era cambiato il direttore e c'era gente che teneva al mio ritorno e che mi aveva rassicurato sulle prospettive per “il posto”. Quando ci ritornai, nella primavera del 1976, le condizioni dell'università e dell'istituto erano assai instabili e anche le migliori intenzioni di chi mi apprezzava non erano sufficienti a garantirmi uno stipendio. Non mancarono i buoni amici, che resero le circostanze più tollerabili, né i consigli tecnici. Alcuni mi dissero che il campo di ricerca che avevo scelto era senza futuro. Altri, che sarebbe stato opportuno un cambio “tattico” di ricerca, adattandomi a lavorare con un gruppo già formato, che nell'unione c'è la forza. Mi si disse persino, assai cinicamente, che se si produce tot in mezza dozzina, si ha molto più impatto che se si produce lo stesso tot da soli. Per mezzo di creativi sotterfugi amministrativi, mi si pagava qualcosa e avevo una scrivania. Per arrivare alla sistemazione, mi si disse, all'inizio era questione di qualche settimana, poi di qualche mese. “Non ti preoccupare, i concorsi sono imminenti”. In autunno, cominciai a fare domande per tornare all'estero. Senza alcun rancore, ma esausto, a metà del 1977 ripartii. In America mi ero trovato bene prima e ritornando trovai la stessa gioia di lavorare. Negli oltre vent'anni da allora, ho avuto una carriera colma di soddisfazioni e di opportunità, di circostanze in cui l'iniziativa personale e l'autonomia di ricerca sono state premiate.

Essere uno straniero (ho ancora il passaporto italiano) non è mai stato un ostacolo. Questo è un Paese che accetta senza remore chi ci viene con talento o a lavorare sodo. Dieci anni dopo aver lasciato l'Italia, ero direttore del più grosso radiotelescopio del mondo. Forse l'aspetto più interessante della carriera scientifica in questo Paese è che gli argini non sono mai così alti da non poter vedere le possibilità oltre il corso in cui uno si trova al momento. Si ha la sensazione, o forse l'illusione, che il proprio destino non sia ineluttabile, che si può scegliere di alterarlo. Si lavora in un posto dove ancora è palpabile la mentalità del can do, del “si può fare”. Ma non è tutto gioia e fiori, si capisce. Il sistema accademico americano impone alti livelli di stress (più alti ora, in effetti, e specie per i giovani, che venti o trent'anni fa), costringe a un inizio di carriera da itineranti, induce a pratiche antipatiche come l'autopropaganda, con intense forze centrifughe nelle relazioni personali e un accento più forte sull'individuo che sulla famiglia. Dal 1977, non sono mancate opportunità allettanti per tornare a lavorare in Italia in forma permanente. Ogni volta, e non senza attraversare lunghe e difficili fasi di riflessione, decisi di non ritornare.

Non si è mai trattato di una questione di soldi, né di opzioni di ricerca. Piuttosto, la mia riluttanza è dovuta alle condizioni di lavoro, molte delle quali sono ingiustificate in un Paese ricco quale oggi è il nostro, e anche al fatto che ormai il fare lo zingaro ce l'ho nel sangue. In certe visite a sedi universitarie o di ricerca, dettagli difficili da digerire si presentano in dirompente successione: mentre cammino attraverso le brutture urbane che spesso sono le nostre università e i quartieri che le circondano, specialmente nelle città maggiori; quando mi confronto con la patetica e qualche volta anche boriosa inefficienza delle amministrazioni universitarie, con le bugie in latino nelle facciate degli edifici di stampo fascista; quando vedo gli studenti costretti, come trent'anni fa, a studiare al tavolino di un bar, perché non ci sono abbastanza spazi; quando verifico che gli stessi capi continuano a comandare da sempre (“non è poi così tanto male, quando sono bravi”, recita l'apologia del dittatore illuminato: sarà, ma spesso così bravi non lo sono, e poi alla lunga pure ai bravi ­ anche cari amici ­ può capitare di far la muffa), e che i giovani migliori si ancorano spesso sotto le ali dei potenti e quando sarà il loro turno per avere iniziative saranno creativamente spossati; quando constato le difficoltà dei giovani ricercatori a inserirsi dignitosamente nel posto di lavoro, mentre alcuni professori in absentia si fanno vivi solo per l'occasione, come quadri di un'esposizione; e gli impegnativi pendolarismi fra sedi diverse, che non possono giovare alla qualità dell'istruzione; e poi l'intransigenza corporativa, l'irrigidimento dei ruoli di servizio, gli orari assurdi. Tante volte mi è stato detto: “Ma professore, qui non siamo mica in America...” a proposito della dichiarata incapacità di svolgere spesso semplici funzioni. L'aspetto più disperante di questa frase credo sia l'aria superiore di compatimento, che spesso lascia trasparire chi la dice, per la mia ipotetica ingenuità. Tradisce uno fra i tristi difetti dell'Italia pubblica: la mentalità del “non si può”. Trasmette ai giovani il senso che non vale la pena di agitarsi e che anche se lo fanno le cose resteranno come sono. Il Gattopardo continua a vivere. In fin dei conti, quella di andare o restare è fra le scelte più squisitamente personali. Una scelta che idealmente dovrebbe essere fatta con la chiara consapevolezza non solo di quel che si lascia, ma specialmente di ciò a cui si va incontro. Più spesso, invece, non è una scelta, o lo è “di pancia” più che di testa. Considerando l'età in cui in genere la si fa, forse è anche naturale che sia così. Nella mia innegabile ignoranza, a volte mi domando se qualche sociologo abbia mai notato quale potente motore sociale sia la voglia d'avventura.

Il Bel Paese è davvero ricco di risorse e di bella gente. Viverci è, per tanti versi, un privilegio. Anche farvi ricerca o accademia, può essere bello e soddisfacente. Una volta “sistemati”, gli scossoni sono rari, risorse per lavorare in un modo o un altro arrivano e si ha il resto della vita per arrotondare il proprio buco nel formaggio. Certamente non c'è scarsità di esempi di splendido successo, né di merito premiato. Che però convivono con troppi meriti non premiati, premi non meritati, talento sprecato e iniziative spente. Società grassa, ricca, anche se dai servizi rudemente inefficienti, in bilico precario fra il buonismo previdenziale e il cinismo corrotto, provinciale e conservatrice, per tanti versi ridotta al ruolo di underachiever (chi si accontenta di rimanere al di sotto delle sue possibilità). Eppure l'Italia è un Paese relativamente soddisfatto: nonostante la sua ricchezza storica, e anche materiale, oggi non si pone grosse mete da raggiungere e guarda più indietro che avanti. Come nella vecchia casa di campagna che fu dei miei nonni: con un po’ di ristrutturazione ci si può vivere bene e a lungo. Se ve ne andate, non è però facile tornarci, non tanto perché dopo un po’ che siete via molti si saranno scordati di voi, ma piuttosto perché vi abituerete a lavorare in modo diverso, a chiedere e aspettarvi cose diverse dal vostro ambiente adottivo. Andando fuori, forse diventerete più competitivi, affilerete le unghie e vorrete di più da quel che vi circonda, avrete più fretta e diventerete professionalmente più incisivi e impazienti, forse anche arroganti. Avrete meno paura di cambiare: cambiare casa, città, lavoro, cambiare amici e forse anche famiglia. Perderete stabilità e vivrete a lungo in quasi continua crisi di deficienza giroscopica. Ne guadagnerete in eccitazione, in senso d'avventura e forse anche in creatività. E un giorno, quando qualcuno vi chiederà dove vorreste vivere la prossima avventura, vi potrebbe capitare di rispondere: “Dove non sono mai stato prima”. E la vostra mamma si preoccuperà assai. Buon viaggio


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