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Visualizza Versione Completa : I Classici del Pensiero Politico (1). Thomas Hobbes



Sir Demos
22-04-02, 20:38
E' mia intenzione provare ad istituire un piccolo angolo letterario dove ripercorrere e riprendere i Filosofi che hanno fatto Nobile la Politica...

Inizio con la cronologia della vita di Hobbes, spero vogliate partecipare... Ciao.

1588
5 aprile: nasce Thomas Hobbes a Malmesbury.

1607
Consegue ad Oxford il diploma da baccelliere delle arti.

1608
È introdotto nella famiglia del barone William Cavendish di Hardwicke, più tardi (1613) conte di Devonshire, come precettore del figlio.

1610

1613
Col suo discepolo compie il primo viaggio all’estero, visitando la Francia e l’Italia.

1613
Al ritorno del viaggio rimane presso il barone Cavendish come segretario privato, e si dedica per lunghi anni liberamente agli studi umanistici.

1628
Morto il suo ex-discepolo, che era succeduto al padre nella contea tre anni prima, viene licenziato dalla famiglia.

1629
Esce la sua prima opera, la traduzione inglese delle Storie di Tucidide.

1629

1630
Compie un secondo viaggio in Francia quale precettore del figlio di Sir Gervase Clifton, nobiluomo scozzese. Cade in quest’epoca la sua conoscenza con l’opera di Euclide che dà un nuovo orientamento alla sua vita di pensiero, trasferendola dalla cultura umanistica a quella scientifica.

1631
Viene nuovamente assunto dalla contessa di Devonshire quale processore del primogenito.

1634

1637
Ha luogo il terzo viaggio in Francia e in Italia col giovane pupillo della Famiglia Cavendish: entra in dimestichezza a Parigi col padre Marino Mersenne, e a Firenze avvicina Galileo.

1637
Al ritorno del viaggio lascia la famiglia dei suoi protettori.

1640
Conclude la sua prima opera filosofica, che contiene già in germe gran parte del suo sistema. Gli Elements of Law Natural and Politic; rimasta inedita ma diffusa tra gli amici, suscita contro il suo autore le reazioni dei nemici del re. Si reca in volontario esilio in Francia poco prima dell’inizio del lungo Parlamento.

1641
Scrive la Obiectiones ad Cartesii meditationes de prima philosophia.

1642
Esce a Parigi in edizione privata il De cive.

1646
È incaricato di insegnare le matematiche al principe di Galles rifugiato a Parigi.

1647
Esce la seconda edizione del De cive, accresciuta di una prefazione ai lettori e da note, ad Amsterdam, mentre egli dimora ancora a Parigi.

1651
Esce a Londra l’edizione inglese del Leviathan.

1652
Avvenuta la rottura con gli esiliati monarchici, instaurata in Inghilterra la repubblica di Cromwell, ritorna in patria, donde non promuoverà più per il resto della vita.

1653
Accetta l’invito del conte di Devonshire, suo antico discepolo, di stabilirsi presso di loro in campagna, dove d’ora in poi trascorrerà gran parte dell’anno.

1654
Esce a cura di un giovane anticlericale, John Davies, e senza l’autorizzazione dell’autore, il primo scritto sulla libertà in polemica col vescovo Bramhall, dal titolo Of Liberty and Necessity.

1655
Esce a Londra la prima parte del sistema: De corpore.

1656
Appare a Londra, col consenso dell’autore, un’opera che raccoglie tutti gli scritti costituenti l’intera controversia col vescovo Bramhall dal titolo The Questions concerning Liberty, Necessity and Change.

1658
Esce a Londra la seconda parte del sistema: De Homine.

1659
Compone la Historia ecclesiastica carmine elegiaco concinnata di 1123 distici latini, che sarà pubblicata soltanto qualche anno dopo la sua morte, a cura di Thomas Rymer. È soprattutto una storia dell’eresia in polemica con la chiesa e in dispregio della teologia.

1660
Avvenuta la restaurazione monarchica, egli si reca a Londra a ricevere al suo ingresso Carlo II, il suo antico discepolo di matematica, ed è accolto benevolmente, e favorito di una pensione.

1662
Scrive le Considerations upon the Reputation, Loyalty, Manners and Religion, per difendersi dall’accusa di aver scritto il Leviathan allo scopo di sostenere Cromwell, accusa che gli era stata mossa da John Wallis, professore ad Oxford, suo perenne antagonista in questioni matematiche.

1665

1666
Per difendere il Leviathan dall’accusa di empietà, scrive An historical Narration concerning Heresy and the Punishement thereof, rimasta incompiuta. Come frutto degli studi giuridici, coltivati per sostenere la propria difesa, scrive A Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England, rimasto anch’esso incompiuto, in cui sostiene il primato della legge scritta (statute law) sulla consuetudine (common law).

1668
Compare un’edizione latina, corretta ed attenuata, del Leviathan, nella Opera philosophica quae latine scripsit omnia, ad Amsterdam. Scrive una storia del Lungo Parlamento intitolata Pehemonth. The History of the causes of the civil wars of England.

1672
Scrive un’autobiografia in versi, Vita carmine expressa, pubblicata subito dopo la sua morte, insieme con una Vita e un Vitae Auctarium, di tono apologetico, del medico Richard Blackborne.

1675
A ottantasette anni traduce dal greco per intero l’Illiade e l’Odissea. Così la sua lunga vita dedicata tutta quanta ad opere di pensiero si apre e si chiude umanisticamente con traduzioni di due tra i più celebri autori dell’antichità.

1679
4 dicembre: muore a novantun anni presso il suo protettore ad Hardwicke, e viene sepolto nella cappella di famiglia dei conti di Denvonshire.

Alberich
22-04-02, 21:33
al più presto scriverò qualcosa sul grande Hobbes, anticipatore del contrattualismo e pensatore interessantissimo.
salut

ARI6
22-04-02, 22:22
Per spiegare la filosofia di Hobbes ci vorrebbe troppo spazio, e un forum mi sembra inadatto.
Mi limiterò quindi a postare un breve sunto del suo pensiero politico, che è quello che a noi interessa più da vicino.



I presupposti che stanno alla bse della costruzione di Hobbes della società e dello Stato sono fondamentalmente due.

1) in primo luogo, il nostro filosofo ammette che, pur essendo relativi tutti i beni, vi sia fra di essi un primo e originario bene, che è la vita e la conservazione della medesima (e quindi un primo male che è la morte).

2) In secondo luogo, egli nega che esistano una giustizia e una ingiustizia naturali, dato che, come abbiamo visto, non ci sono "valori" assoluti, e sostiene che questi siano frutto di "convenzioni" stabilite da noi stessi, e che quindi siano conoscibili in maniera perfetta e a priori, insieme a tutto ciò che da esse scaturisce.

1) "Egoismo" e 2) "convenzionalismo" sono, dunque, i cardini della nuova scienza politica, che, secondo Hobbes, potrà dispiegarsi come sistema deduttivo perfetto, così come quello della geometria euclidea.

La nuova concezione politica di Hobbes costituisce il rovesciamento più radicale della classica posizione aristotelica. Lo Stagirita sosteneva, infatti, che l'uomo è "animale politico", cioè fatto per vivere con gli altri in una società politicamente strutturata; egli inoltre assimilava questo essere "animale politico" dell'uomo con lo stato proprio altresì degli animali, quali le api e le formiche, che desiderando e fuggendo le stesse cose e dirigendo le loro azioni a fini comuni, si aggregano spontaneamente. Hobbes contesta vivacemente la proposizione aristotelica e il paragone. Ciascun uomo, per lui, è profondamente diverso dagli altri uomini e quindi da esso staccato (è un atomo di egoismo). Pertanto ciascun uomo non è affatto legato agli altri uomini da un consenso spontaneo come quello degli animali, che si basa su un "appetito naturale". Il movente determinante dell'azione umana è invece l'utilità.

Lo Stato dunque, non è un fatto naturale, ma artificiale. Esso nasce nel modo seguente.

La condizione in cui gli uomini naturalmente si trovano è quella di guerra di tutti contro tutti. Ciascuno tende ad appropriarsi di tutto ciò che serve alla propria sopravvivenza e conservazione. E poiché ciascuno ha diritto su tutto, e non v'è limite posto da natura, ne nasce l'inevitabile sopraffazione degli uni sugli altri. E' in questo contesto che Hobbes usa la frase di Plauto homo homini lupus, che non denota tuttavia un'impronta di pessimismo morale, ma un rilievo sulla condizione naturale dell'uomo, derivante dalla necessità dell'autoconservazione.

In questa situazione, l'uomo rischia di perdere il bene primario, che è la vita, essendo in ogni istante esposto al pericolo di una morte violenta. Tutto ciò deprime ogni iniziativa ed attività produttive.

Da questa condizione l'uomo esce facendo leva su due elementi basilari:

a) su alcuni istinti e b) sulla ragione.

a) Gli istinti sono il desiderio di evitare la guerra continua, per avere salva la vita, e il bisogno di procacciarsi il necessario alla sussistenza.

b) La ragione è qui intesa non tanto come valore in sé, quanto come strumento atto a realizzare quei desideri di fondo.

Nascono, in questo modo,le "leggi di natura", che non sono se non la razionalizzazione dell'egoismo, le norme che permettono di realizzare l'istinto dell'autoconservazione.

Solitamente si ricordano le prime tre, che sono le principali. Ma Hobbes, nel Leviatano (1651), ne elenca diciannove. Il modo in cui egli le pone e le deduce dà un'idea del come gli si servisse del metodo geometrico applicato all'etica e del come intendesse reintrodurre, sotto nuova veste, quei valori morali che aveva escluso, e senza i quali non si costruisce alcuna società.

1) La prima e fondamentale regola comanda di sforzarsi di cercare la pace.

2) La seconda regola impone di rinunciare al diritto su tutto, ossia a quel diritto che si ha nello stato di natura, e che è quello che scatena tutte le contese.

3) La terza legge impone, una volta che sia sia rinunciato al diritto su tutto "che si adempiano i patti fatti". Nasce di qui la giustizia e l'ingiustizia (giustizia è stare ai patti, ingiustizia trasgredirli).

Queste leggi, tuttavia, non bastano ancora di per sé per costituire la società, giacché occorr anche un potere che costringa a rispettarle: i "patti senza la spada che ne imponga il rispetto" non servono ad ottenere lo scopo che ci si prefigge. Per conseguenza, secondo Hobbes, occorre che tutti gli uomini deputino un unico uomo (o un'assemblea) a rappresentarli.

Ma si noti bene: il "patto socilae" non è stretto dai sudditi con il sovrano, bensiì dai sudditi tra di loro. (totalmente diverso sarà il patto sociale di cui parlerà Rousseau). Il sovrano resta fuori del patto e resta il solo depositario delle rinuncie dei diritti dei sudditi, e, dunque, unico a mantenere tutti gli originari diritti. Se anche il sovrano entrasse nel patto, non si eliminerebbero le guerre civili, perché nascerebbero tosto contrasti vari nekla gestine del potere. Il potere del sovrano (o dell'assemblea) è indiviso e assoluto. E, questa, la più radicale teorizzazione dello Stato assolutistico, dedotta non dal "diritto divino", (come era stata dedotta in passato), ma dal "patto sociale" sopra descritto.

Poiché il sovrano non entra nel gioco dei patti, una volta ricevuti nelle sue mani tutti i diritti dei cittadini li detiene irrevocabilmente. Egli è al di sopra della giustizia (perché la terza regola vale, come le altre, per i cittadini, non per il sovrano). Egli può intervenire anche in materia i opinione, giudicare, approvare o proibire determinate idee. Tutti i poteri debbono concentrarsi nelle sue mani. La stessa Chiesa deve essergli soggetta. Lo Stato interverrà quindi anche in materia di religione. E poiché Hobbes crede nella Rivelazione e quindi nella Bibbia, lo Stato che egli ipotizza, a suo avviso, dovrà essere arbitro anche in materia di interpretazione delle Scritture e di dogmatica religiosa, troncando in tal modo ogni motivo di discordia. L'assolutismo di questo stato è veramente totale.

Skepto
22-04-02, 22:50
Mah... onore ad Hobbes... ma non al filosofo! :D

Facezie a parte, sbaglio o il sunto che hai postato è tratto dal libro di Antiseri?

Sir Demos
23-04-02, 01:23
"...dall'arte viene creato quel gran Leviatano chiamato comunità politica o Stato, il quale non è altro che un uomo artificiale, sebbene di statura e forza superiore, maggiore di quello naturale..."

"Questa pretesa di un patto con Dio é una evidente menzogna, anche nella coscienza di coloro che la affermano, e non solo é un atto ingiusto, ma é anche vile e inumano"

"Se per il tempo e per lo spazio si potesse parlare di alto e di basso credo davvero che la parte più alta del tempo sarebbe quella compresa tra il 1640 e il 1660. Chi infatti da quegli anni, come dalla montagna del diavolo, avesse osservato il mondo e giudicato le azioni degli uomini, specialmente in Inghilterra avrebbe potuto avere un panorama di ogni specie di ingiustizia ed ogni specie di ipocrisia e presunzione, delle quali l'una è dopia iniquità, l'altra doppia follia."

Sir Demos
23-04-02, 01:24
"Thomas Hobbes, filosofo inglese (Westport, Malmesbury, 1588 - Hardwick Hall, Derbyshire, 1679).
Finiti gli studi a Oxford si impiegò come precettore di un gentiluomo suo coetaneo, appartenente alla famiglia dei Cavendish. A Parigi ebbe rapporti con Cartesio e con Gassendi e divenne amico del padre Mersenne. Durante un viaggio in Italia fece visita a Galileo. Nel 1640 pubblicò in inglese gli Elementi della legge naturale e politica, nel 1642 il De cive nel 1651 il Leviathan che alcuni giudicarono composto con intenti adulatori verso Cromwell. Il De corpore (1655) e il De homine (1658) completarono il De cive, fornendo le necessarie premesse fisiche e psicologiche alle dottrine in esso sostenute. Nel 1667 la camera dei comuni, in un bill che aveva di mira il Leviathan, reclamò misure contro gli atei. Il re Carlo II prese il filosofo sotto la propria protezione a condizione che egli non pubblicasse più nessuno scritto. Verso il 1670 Hobbes compose, ma naturalmente non pubblicò, Behemot o Il "parlamento lungo", storia dei precedenti della guerra civile inglese, una Storia ecclesiastica e nel 1672 la Autobiografia in distici latini. In questo periodo egli ruppe il silenzio solo per partecipare a discussioni su questioni matematiche. Per Hobbes esistono solo sostanze materiali e tutti i fenomeni si riducono a movimenti di corpi legati dal nesso causale (materialismo meccanicistico). L'anima umana è anch'essa un ente corporeo. Tutte le conoscenze derivano dalle sensazioni, che sono a loro volta modificazioni prodotte dall'oggetto corporeo sui nostri organi di senso. I concetti sono solo segni o nomi (nominalismo) usati per padroneggiare più agevolmente la molteplicità dei dati sensibili. Il ragionamento è una combinazione o calcolo di tali segni. Bene e male si identificano con i concetti di piacevole e doloroso. L'uomo agisce condizionato dalle forze materiali che convergono su di lui e non è più libero di un sasso che cade. È appunto questa assoluta determinazione dei comportamenti umani che rende possibile la costruzione di una scienza politica rigorosa. Gli uomini perseguono istintivamente la propria conservazione: per sottrarsi alla violenza senza limite che regna nello stato di natura (giacché l'uomo non è affatto quell'"animale socievole" che riteneva Aristotele) essi stipulano un accordo (contratto sociale), in forza del quale tutti i diritti individuali vengono trasferiti allo Stato. In seguito a questa cessione totale, che d'altronde è la condizione necessaria della convivenza civile, il giusto, l'ingiusto e perfino la verità religiosa hanno come unico fondamento le scelte della volontà sovrana. La dottrina di Hobbes è una teorizzazione coerente e rigorosa dell'assolutismo politico e deriva da una concezione pessimistica della natura umana (homo homini lupus), che ricorda quella di Machiavelli. Il potere assoluto del re non discende da un presunto diritto divino, ma trae origine da quel contratto che ha fatto uscire gli uomini dalla precarietà dello stato di natura: si ha qui una sorta di capovolgimento ironico dell'ipotesi contrattualistica, usata abitualmente nella polemica antiassolutistica proprio per giustificare la richiesta di limitazione del potere regio."

Buonanotte.

ARI6
23-04-02, 14:10
Originally posted by Skepto
Mah... onore ad Hobbes... ma non al filosofo! :D

Facezie a parte, sbaglio o il sunto che hai postato è tratto dal libro di Antiseri?

L'avevo salvato sul computer. Credo di averlo trovato a spasso sul web.

Sir Demos
24-04-02, 01:29
Mah... onore ad Hobbes... ma non al filosofo!

Perchè?

Alberich
24-04-02, 01:32
Il suo avatar rappresenta Hobbes, però la tigre inventata da Watterson, nel fumetto Calvin e Hobbes. C'è da dire che il personaggio di Hobbes è ispirato al filosofo, come Calvin è ispirato a Calvino.

Skepto
24-04-02, 22:08
Bravo Alberich. (d'altra parte, dal vecchio avatar, si capiva che sei perlomeno pratico di fumetti).
Davvero i due personaggi sono ispirati ai filosofi, nomi a parte?
Perchè a dire il vero da quando ho studiato Hobbes non mi è mai capitato nemmeno un Tigrotto Psicotico con Istinto Omicida sottomano, per cui non ho fatto in tempo ad accorgermi dei paralleli...

Alberich
25-04-02, 01:21
Sì: Hobbes per il disprezzo dellacondizione umana; Calvin per la predestinazione, se non ricordo male.
salut
P.s. non riesco più a caricare gli avatar, ne ho uno, sempre in tema, da caricare. Appena riesco...

Sir Demos
27-04-02, 16:31
1 Mosaici e mostri
L'eccentricità di Dio rispetto al mondo e la conquista dei nuovi spazi della cosmologia seicentesca hanno fatto dell'età barocca un laboratorio della nuova antropologia dell'Occidente. Il centro sacro della città terrena si sposta dalla cattedrale al palazzo, le guglie svettanti verso il cielo saranno sostituite da una organizzazione della superficie o, come si direbbe oggi, da una razionale gestione del territorio. Pittura, scultura, musica, persino il mondo dei profumi, la civiltà degli odori, denunciano un potenziamento dei sensi dell'uomo europeo, una sua nuova istintualità che mette in moto e rende visibili le passioni e indaga la corporeità. La pittura soprattutto, i ritratti, le maschere.
Le figure sociali e i «caratteri» che le contraddistinguono, la cultura occidentale della modernità le ha inventate, realizzate, riprodotte e rappresentate con formidabile efficienza. La società di ordini del Seicento ha persino caratterizzato le figure sociali nel costume, negli stili di vita, ne ha esaltato il conformismo e censurato le anomalie. Dalle maschere della commedia dell'arte, ai «caractères», al melodramma settecentesco, il palcoscenico ha fatto da specchio al complesso e al mutevole della progettazione antropologica criticando e/o esaltando attori e comparse della commedia umana. Ci vorrebbe però il pennello di un Arcimboldi barocco o una sofisticata anamorfia per raffigurare il «cittadino», maschera e categoria dilatata al futuro e all'infinito, una maschera forse inospitale per le coscienze degli attori. Occorrerebbe la fredda composizione musiva di una infinita pluralità di oggetti (e non certo ortaggi). Cominciando a lavorarci a metà del Cinquecento, l'Arcimboldi ne avrebbe avuto la definitiva ispirazione osservando il frontespizio del Leviatano, là dove il potere viene raffigurato come un corpo umano artificiale a sua volta costituito da corpi di individui schiacciati e confusi in un disgustoso sciame. E ancora gli sarebbe mancata una immagine, quella definitiva, per completare il corpo brulicante di mostri: il volto di Luigi XIV.
Probabilmente nulla vi è di più distante e diametralmente opposto nella elaborazione del pensiero politico della modernità delle immagini (più o meno coeve) di Re Sole e del Leviatano, nulla di più apparentemente alternativo nella formalizzazione dottrinaria che le ha codificate (Hobbes e Bossuet, per intenderci) e sparse nell'immaginario. Ma la maschera più probabile del cittadino e dunque dell'uomo politico della modernità, quella più lontana e nascosta di questa arcana produzione della cultura politica europea, sta forse nella alchemica rappresentazione di questo volto umano su un corpo impossibile, precario, sciamante verso la sua decomposizione.
Luigi-Leviatano. Il quadro naturalmente non c'è ma nell'immaginario profondo del sentire politico deve esserci stato e forse questo fantasma si aggira ancora tra noi. Solo in questo artificio dovuto al pennello di un improbabile Arcimboldi e frutto di studiate anamorfie, solo per un attimo, l'uomo politico europeo della modernità (suddito-cittadino) trova uno specchio e si immagina, si vede magari, come suddito-sovrano dunque «assoluto» libero dalle leggi e dal tempo storico che le ha create, si sente creatore del tempo e delle identità tra tempo e potere, tempo e politica.
Per la verità la rappresentazione del Leviatano, mosaico di esseri umani ingoiati nel corpo di un mostro, un che di comune con le bizzarrie di Arcimboldi ce l'ha; l'effetto però è qualcosa di inusitato e drammatico per le solide convinzioni dell'uomo del XVII secolo. Proprio qui, nell'immagine arcimboldesca che sta a frontespizio dell'opera, l'idea di corporeità del sociale assume un segno e un contenuto diverso dalla coesione profonda della società di ordini e corpi che il secolo classico vuole affermare. Solo che gli Ordini non ci sono più; orfani di ogni identità di gruppo e di lignaggio gli esseri umani si comprimono come le cellule artificiali di un androide e i circuiti cibernetici di un automa. La corporeità si esalta e, al tempo stesso, si inaridisce perché solo «la materia è l'artefice di esso, cioè l'uomo». Nulla di cosmico, nulla di biologico e organico perché l'orrore è il prodotto istintuale della specie.

Sir Demos
27-04-02, 16:33
2 Un programma scientifico
Il programma scientifico di Thomas Hobbes è lineare: De cive (1642), De corpore (1655), De homine (1658); si tratta di fondare una nuova antropologia politica a partire dalla struttura stessa dell'essere umano, quella più elementare ed evidente: la corporeità, il suo essere materia in movimento.
L'ambizione, nel miglior stile dello scientismo seicentesco, è quella di un sistema e di un ordine definitivo: la «ricaduta» della prima rivoluzione scientifica del XVII secolo è leggibile in modo trasparente e diretto nelle emozioni di Hobbes.
L'uomo, ormai eccentrico all'universo, deve ritrovare il suo centro, far centro su di sé. Il programma speculativo di Hobbes si snoda intorno all'ambizione di offrire il segreto della «natura» umana; un metodo «sperimentale» e una fatica di riflessione che trova le sue radici nella ispirazione del pensiero presocratico (Euclide, Democrito, Epicuro, la sofistica), ma soprattutto nella scienza sperimentale di Galileo, nell'insegnamento di Bacone e nella cogitazione cartesiana. La politica diviene allora scienza dell'uomo, affronta la sua avventura scientifica e ritrova il suo fondamento nelle leggi di natura (la natura umana, si intende) studiate con il metodo proprio delle leggi fisiche e matematiche. Queste, precisa Hobbes, sono giunte a conclusioni sancite dall'unanime consenso dei dotti perché i loro cultori hanno posto particolare cura nel ricercare quei principi di per se stessi evidenti che si impongono all'osservazione dei sensi e al vaglio della ragione, quelli cioè che si impongono per la loro semplicità e chiarezza. Poi, in un secondo tempo, sono passati a ulteriori deduzioni mediante procedimenti dei quali sono rigorosamente controllati i singoli passaggi: conclusioni esatte, dunque, leggi certe, sistemi perfetti. Lo scopo stesso della filosofia, il suo fine ultimo è quello di «produrre, nei limiti in cui la materia e la forza umana lo permettono, effetti che siano richiesti dalla vita umana». Così, come accade nella speculazione baconiana, la filosofia diviene scienza, la scienza ragione strumentale, il sapere si identifica con il potere.
Le leggi fondamentali del comportamento umano, secondo Hobbes, rivestono lo stesso carattere di conoscibilità e di verità di quelle che vengono proclamate dalla fisica e dalla matematica, leggono e spiegano le ragioni del movimento di quella alterità che è la natura; al pari dei corpi celesti, anche gli esseri umani sono materia, corpi (oggetti materiali nella loro individualità), in movimento e dominati da una forza incessante. «Ogni uomo è animale, ogni animale è corpo, ogni uomo è corpo»: la cellula è l'unità fondamentale dell'universo, per Hobbes, è la corporeità che fa dell'individuo un segmento della natura. E questi «corpi» che identificano gli esseri umani, si muovono nel tempo sospinti verso il futuro dalla razionalità che è capacità di calcolo, arte della previsione e della congettura. Naturalmente questa capacità di calcolo, che è «presunzione del futuro, attinta dall'esperienza del passato», appartiene a tutti i corpi animati, ma nell'uomo la possibilità di previsione e di calcolo degli eventi futuri ha un grado assai più elevato che negli animali. L'azione dei corpi umani (individualità isolate nella loro corporeità), sospinta dalle passioni e dai desideri che costituiscono la struttura stessa del loro movimento, assume pertanto una particolare forza, un'intensità prorompente.
Questo moto-forza, specifico alla natura della corporeità umana e che prende avvio con la vita per concludersi solo con la morte, ha una linea di tendenza dominante, una inclinazione obbligata: «considero come inclinazione comune a tutto il genere umano, un perenne e insaziabile desiderio di sempre maggiore potere che si estingue solo con la morte», un potere assoluto, incontrollato e incontrollabile. Desiderio - moto - potere - dominio - aggressione e infine ostilità, è la sequenza di un percorso che arriva là dove ancora la civitas non è nata e dove l'uomo vive l'ebbrezza di un confronto con la sua natura e con i suoi simili; insomma dove davvero è padrone di sé.



Tra qualche giorno il resto...

ARI6
27-04-02, 16:36
Originally posted by Sir Demos
Tra qualche giorno il resto...

Riuscirò ad aspettare tanto?

Sir Demos
27-04-02, 16:58
Se proprio desideri, te li posso dare, anticipatamente e in ante-prima nazionale in Pvt.. :cool:

ARI6
27-04-02, 21:47
Originally posted by Sir Demos
Se proprio desideri, te li posso dare, anticipatamente e in ante-prima nazionale in Pvt.. :cool:

No, dai. Con molto sacrificio attenderò il mio turno... ;)

Sir Demos
28-04-02, 19:46
3.La terra delle origini
Agli occhi dell'Autore questa terra delle origini (o stato di natura) pare un luogo terribile fatto di materia confusa nel quale «la vita non è che moto di membra», libera azione di apparati e tecnologie sensoriali, dove si celebra la lotta primordiale animatrice del caos. È una guerra della materia e di macchine perché gli esseri umani, per effetto della loro identità corporea, altro non sono che ingranaggi complessi messi in moto dalle loro proprie leggi e si può dire che, da questo punto di vista tutto materialistico, davvero Hobbes ha raggiunto e scoperto il misterium tremendum et fascinans del luogo delle origini di tutta la modernità, ha strappato l'uomo ai condizionamenti celesti, concluso d'un soffio il processo del disincanto e fondato una nuova mitologia del potere.
Secondo Hobbes la scintilla della creazione è tutta racchiusa in un meccanismo-uomo al quale è dato costruire altre macchine e in esse indurre artificialmente la vita: infatti se la vita è un comporsi meccanico di sensazioni e il naturale concatenarsi di stimoli che le mettono in moto, «perché non possiamo dire che tutti gli automata - macchine che si muovono da sé con molle e ruote come un orologio - hanno una vita?». Così, se la vita è un movimento di ingranaggi e se l'uomo, specchiandosi nella sua stessa natura, ne coglie il segreto, proprio l'uomo può divenire ed è creatore-artefice delle rappresentazioni che lo circondano. La società allora è solo un risultato mediato e indiretto della creazione, più che un giardino pensato per le creature è la messa in scena delle forze che agitano la natura umana. Innanzitutto è opera delle tecnologie dell'uomo, di un'arte (una tecnica) intrinseca al meccanismo corporeo, un codice genetico definito e immutabile. Questa capacità imitativa della natura-meccanismo «fa anche di più, poiché imita quel razionale e più eccellente lavoro della natura che è l'uomo. Poiché con l'arte è stato creato quel gran Leviatano chiamato Stato (in latino civitas) il quale non è che un uomo artificiale, benché di maggior statura e forza del naturale, per protezione e difesa del quale fu concepito. In esso la sovranità è un'anima artificiale come per dar vita e moto a tutto il corpo; i magistrati e gli altri ufficiali giudiziari ed esecutivi sono le giunture; i premi e le pene sono i nervi; la proprietà e la ricchezza dei singoli membri sono la forza; la salus popoli (la salvezza del popolo) i suoi effetti; i consiglieri, dai quali sono suggerite tutte le cose necessarie a conoscersi, sono la memoria; l'equità e le leggi costituiscono una artificiale ragione e volontà; la concordia è la salute; la sedizione la malattia; la guerra civile la morte. Infine i patti e i concordati, con i quali le parti di questo corpo politico furono dapprima aggregate, messe insieme ed unite, sono come il fiat pronunziato da Dio all'atto della creazione».

Sir Demos
28-04-02, 19:47
4.Un Dio tutto umano
Macchina, automa, e oggi diremmo robot (o intelligenza artificiale), orologio e ingranaggi (come il meccanismo cosmico scoperto da Keplero e poi da Newton), un fiat imperativo e onnipotente, una creazione e ovviamente un Dio. Un Dio però che non è creatore, al contrario è il risultato della creazione umana.
La cosmografia scientifica della modernità produce da sé la nuova teogonia dell'Occidente. Il cammino è già tutto concluso e il processo di «modernizzazione-sacralizzazione» del tempo compiuta dal potere, finito; il dispositivo ideologico, mutato. La ricerca delle origini si trasferisce dal complessivo della creazione soprannaturale alla fondazione della socialiltà e della sua ragione. Il contrattualismo di Hobbes è un atto creativo autonomo, alternativo a quello raccontato dalle Scritture. Il mondo degli uomini e il tempo della storia si emancipano definitivamente dalla sfera teologico-religiosa e vengono inghiottiti da una nuova sostanza che è il potere di repressione e controllo della «natura umana». Nato come metafora dalla corporeità umana, lo Stato-Leviatano diviene a sua volta il codice genetico dell'«individuo» perché attraverso il suo potere ne svela la forza espansiva, violenta, incontenibile. Eccentrico all'universo, distanziato da Dio, espulso dalla storia sacra e dal rassicurante fluire dell'aevum, l'uomo europeo si insedia nel suo tempo, ne assume il governo e al tempo stesso lo cede al mostro che è dentro di sé. La perennità, l'esclusività della sovranità-potere risiedono ora definitivamente dentro di noi e nel «nostro» tempo, eternamente umano, e cioè in una macchina simile ad un congegno a orologeria, ma fatta di emozioni e ragioni e capace di generare altre macchine e possenti artifici. Il prezzo di questa faticosa riappropriazione della centralità di un uomo, ormai solo, che deve confrontarsi con un cosmo tutto da scoprire è necessariamente una drammatica svalutazione dell'humanitas. Anche qui il Barocco, nella sua esasperata modernità, è eccessivo.
Non conosco nessun altra teorizzazione politica che sia stata rappresentata in modo esaustivo e dal suo stesso autore in una sola, drammatica immagine come quella che reca il frontespizio dell'opera di Hobbes, è un'immagine per nulla allegorica, ma vera e palpabile, tanto viva e mobile nella sua essenza che a vederla incute paura. Fa paura perché è il frutto della paura: questo miniaturizzato insieme di muscoli, nervi e tendini, questo congegno che si dibatte all'interno del corpo dal quale è ingoiato e che non sembra trovare pace, è dominato dalla sola passione della sua sopravvivenza e non può sperare di più. La cellula elementare del Leviatano fatta solo di carne e ossa, l'atomo inscindibile che lo costituisce esprime una sola volontà, sopravvivere alla sua stessa aggressività, all'errore genetico della sua natura. La forza possente del nichilismo e la totalizzazione come risposta all'annientamento, il loro primo campo di azione lo vedono in questo impari confronto dell'uomo con il demone che reca in sé, e cioè il razionale dispiegarsi dell'istinto di dominio: il potere. Chi lo detiene, ne è prigioniero.
Si tratta di un trasparente rito di passaggio della modernità, di un terrore iniziatico che rivela all'antropologia europea la condizione più profonda e vera dell'uomo, la solitudine. Il corpo di Loyseau aveva la missione di crescere in buona salute e di ridurre ad armoniosa composizione gli ordini del tempo, le molteplici velocità del sociale. La nave di Bodin era una macchina pensata per affrontare le tempeste del tempo, le sue avverse correnti. L'incubo di Hobbes è fatto per prevenirle, per annullare i rischi del tempo e divorarlo.

Sir Demos
28-04-02, 19:48
4.Un divoratore del tempo
Nel corso del Novecento la «Hobbes-renessance» ha fatto, se così si può dire, dell'autore del Leviatano, dichiaratamente materialista e meccanicista, un personaggio a noi familiare. Le interrogazioni che gli son state rivolte dalla speculazione politica quasi ne hanno fatto un contemporaneo. Dal punto di vista del sentire politico, non vi è dubbio, la nascita del Leviatano è già la comparsa di quel «mostro gelido» (come lo avrebbe descritto Nietzsche divoratore di corpi e ordini, popoli e nazioni, ma anche di re e di sudditi, che, nel XX secolo, finirà per realizzare le immense prigioni di un tempo meccanico dell'organizzazione (quello della burocrazia, della produzione, ma anche del campo di concentramento e del gulag), un tempo devastante del passato e del futuro, un presente impoverito e negato. La mitologia del progresso, la storia universale, la teologia politica del nazionalismo, la speranza di una crescita illimitata vestiranno questo tempo freddo e disumano di maschere ingannevoli nei secoli successivi. E il cittadino, agglomerato nel mostro artificiale, è già l'uomo-massa (come lo immagineranno Ortega y Gasset e Lebon) e cioè quel campo di forza capricciosa e violenta messo in moto dall'individualismo possessivo che solo Freud incomincia ad indagare nella sua misteriosa profondità. Si istituirebbe dunque una equazione tra Leviatano e Stato (o meglio regime) totalitario? Sarebbero qui, nell'immagine profetica voluta da Hobbes, le radici della consumazione o corruzione del sentire politico della modernità?
La hobbes-renessance ha riproposto il Leviatano come chiave di volta della filosofia politica moderna. Vi si potrebbero leggere infatti sia le ragioni fondative del liberalismo assoluto, sia quelle del conservatorismo assoluto. È vero infatti che i tratti del mostro e la sua incontrastata volontà di potenza aprono la strada alla visione di uno stato totale. Qualunque sia la forma del governo, monarchica, oligarchica o dispotica, i diritti e le conseguenze della sovranità, secondo Hobbes, sono sempre gli stessi: «il potere del sovrano non può essere trasferito ad altri senza il suo consenso, né può essergli tolto per inadempienza; il sovrano non può essere accusato di torto da alcuno dei suoi sudditi, né può da essi essere punito: è giudice di ciò che è necessario alla pace, è giudice delle dottrine; è il solo legislatore e il giudice supremo delle controversie e dei momenti e delle occasioni di guerra e di pace, spetta a lui scegliere i magistrati, i consiglieri, i comandanti e tutti gli altri ufficiali e ministri e determinare le ricompense e le punizioni, l'onore e il rango». L'intensità dei suoi poteri è pari all'energia naturale che gli vien conferita e di cui può disporre.
Ma è anche vero che la creazione di Hobbes libera il soggetto della politica quale noi oggi lo percepiamo, l'individuo-cittadino, dalle scorie della corporeità confusa della società di ordini, dalla pluridimensionalità che rallenta lo sviluppo individuale, dai gravami frustranti di una socialità densa e lenta, dall'umiliazione di un umanesimo che è ricerca continua di simmetrie con la magia naturale. Perché il Leviatano altro non è che un prodotto artificiale del tutto umano e la sua forza smisurata è il moltiplicatore infinito dell'energia vitale costitutiva del singolo individuo.
Il cittadino di Hobbes, fatto di muscoli, nervi, sangue, giunture e mille altri ingranaggi, è già l'atomo inscindibile della macchina del potere, una cellula base dotata di un «suo» corpo, pur gracile, di un «suo» tempo, pur breve. E questo individuo non si disperde negli altri corpi in virtù di una socialità dilatata, al contrario continua con prepotenza ad affermare se stesso e la «sua» individualità, il «suo» potere pur effimero, lasciandoci appena intravedere, come in una aurora, le dimensioni della «persona» umana. Per questo il cittadino, come lo pensa Hobbes, è il solo artefice della sua libertà e il creatore responsabile del mondo e del sociale; solo a lui compete la deliberazione del patto associativo, il suo perché, la sua ragione. «Alcuni uomini, per la loro disobbedienza al proprio sovrano, hanno preteso di aver fatto un nuovo patto non con gli uomini ma con Dio [...]. Questa pretesa di un patto con Dio è una così evidente menzogna, anche nella coscienza di coloro che la asseverano, e non solo è un atto ingiusto, ma è anche vile e inumano».
No, spiega Hobbes, il patto che rinnega la natura, che da lei ci difende e dà fondamento alla società non è un dono divino: è degli uomini e tra gli uomini, è un patto della ragione e non della fede, della necessità e non della libertà; in definitiva, è un patto privato che realizza contemporaneamente la società (l'unione) e il potere (l'assoggettamento). E così, dall'ebbrezza virulenta del tempo delle origini (dalla condizione «dionisiaca», direbbe Nietzsche) l'uomo di Hobbes si trova trasferito, senza soluzione di continuità, alla «realtà» della vita sociale. Dalla condizione potenziale di Principe, solitario predatore del potere, l'individuo passa a quella di suddito timoroso e «leale»; da quella di cortigiano-collaboratore a quella di commesso e burocrate; dal giardino dell'Eden di re Utopo, l'uomo europeo della modernità scende all'unico paradiso che gli è concesso davvero di praticare «qui e ora».
La causale del patto che genera il mostro è infatti un bene biologico supremo: la vita; il prezzo, pagato tutto in anticipo, una «solitudine civile» che è, ancora una volta, schiavitù volontaria. Il percorso di Hobbes non conduce dallo stato di natura al potere irriducibile dello Stato, dal tempo terribile del mito a quello misurabile storicamente, semmai è il contrario: il mito delle origini del tempo si trasferisce nel mito del «tutto sociale» perché l'essenza dell'unione tra i cittadini, la sua unica ragione, è il potere coercitivo: il «tutto politico» avvolge la storia dell'uomo, il tempo è solo tempo della politica, le relazioni latenti (e represse) tra gli esseri sono solo relazioni di potere. Perché, è bene precisarlo, il tempo delle origini altro non è, secondo Hobbes, che l'assenza del Leviatano ordinatore del mondo, lo stato di natura non è atto di nascita dell'uomo, ma il risultato del processo di decomposizione del mostro, e il conseguente decadere dalla condizione di cives a quella di uomo-materia. Il gigante allora assume proporzioni smisurate e incombenti: attore del potere, il cittadino ne è escluso e prigioniero. Al pari dei corpi celesti, degli oggetti inanimati e di quelli animati, il corpo dell'uomo-individuo, fluttua in una temporalità che è solo una misura del movimento obbligato delle passioni. La centralità dell'uomo rispetto al cosmo declina cosi in un individualismo atomistico disperso nelle solitudini dell'universo.

Sir Demos
28-04-02, 19:49
5.Tra pessimismo e paura
Il problema di questo cives hobbesiano, atomo solitario mosso dai suoi obbligati ingranaggi, è che l'uomo-meccanismo è privo di «nobiltà d' animo» o quantomeno di quella prorompente generosità che realizza l'impegno morale e civile degli umanisti; e forse la verità è che questo «individuo», nella buona sostanza, è una materia prima fragile, un movimento coatto e incontrollabile, perennemente timoroso della sua aggressività. Per questo, e non per altro, il cittadino di Hobbes è già sconfitto in partenza: schiacciato dalla sua stessa corporeità, il suo atto creativo sembra un patto di rinuncia, uno scambio obbligato di libertà contro vita. La ricerca della gloria, la scommessa contro la fortuna che fa uomo il Principe di Machiavelli, nell'incubo di Hobbes è solo «vanagloria», velleitaria speranza di sfuggire al timore di perdere la vita e, per questo, la stilla di divinità che il cittadino reca in sè si trsferisce tutta senza riserve allo Stato. Il vir virtutis, se ancora di lui si può parlare, non è ormai più lo specchio luminoso dell'humanitas, ma il risultato della passiva obbedienza, non è il modello del potere, ma semplicemente il suo pericoloso prodotto.
Nel pessimismo umanistico di Hobbes (non diverso dalla rassegnazione intellettuale di Freud) la solitudine individuale e l'atomizzazione dell'humanitas sopravvaluta e svaluta al tempo stesso la vita, la circoscrive a un ordine del tempo (quello rigorosamente biologico-individuale) troppo angusto per la cultura, troppo rapido per la storia. Il rovescio della perpetuità del potere e della sua forza immensa, è un labile e precario sistema di relazioni tra gli uomini dominato dall'egoismo (quindi dal pessimismo): e dunque per la libertà non si muore, al contrario occorre cederla senza riserve per vivere, perché la vita non ha futuro oltre se stessa. L'uomo-meccanismo di Hobbes non è soggetto a evoluzione, ma definito, una volta per tutte, nelle sue facoltà e nel suo movimento; prigioniero della sua natura non ha storia né la fa, semplicemente vive. La sua creazione artificiale si colloca in un ordine del tempo solo apparentemente immobile: è il tempo stesso, assoluto come lo determinerà Newton. L'uomo artificiale che chiamiamo Stato lo occupa e lo usurpa, ne diviene legittimo proprietario e diviene esclusivo titolare della storia. Al pari dello stato di natura, il Leviatano è un mito consapevolmente gestito.
Quello che Hobbes implicitamente afferma è che non vi è storia al di fuori del potere e dello Stato: la morte del Leviatano corrisponde alla sospensione del tempo e all'immediato rimpatrio nell'inferno della guerra civile, che è lo stato di natura sempre in agguato, sempre latente, a due passi da noi. Per questo, divoratore e produttore del tempo, lo Stato è anche un mostro sacro capace di offrire il dono della vita e, in questo senso, di produrre immortalità per la specie.
Al pari di Bacone, Hobbes non sperimentò alcunché, non condusse esperienze di laboratorio e il suo uomo-meccanismo fatto di moti biologici ed emozionali è fondato scientificamente solo dalla presunzione filosofica di rivelare l'indicibile. Sicuramente Hobbes fu tra i primi a utilizzare la nuova scienza in favore del materialismo e, come Bacone, identificando la ricerca filosofica come ricerca puramente scientifica e sperimentale, volle fare del sapere uno strumento di dominio dell'uomo sulla natura e, in definitiva, su sé stesso. Ma questa scienza ci appare più un'alchimia delle passioni e degli umori (che nel Seicento diviene caratteriologia) che non una pur lontana premessa della psicologia o della neurobiologia molecolare. La verità probabilmente è che il territorio di indagine esplorato dal nostro autore più che un libro «scritto in lingua matematica e i cui caratteri son triangoli cerchi e altre figure geometriche» è uno specchio che ritrasmette le sue immagini sui raggi delle passioni di quel secolo tragico che è il Secolo di ferro. Per questo è possibile illudersi che tutto il percorso filosofico de Il Leviatano parta proprio dalla prepotente immagine del mostro.
«Se per il tempo e per lo spazio si potesse parlare di alto e di basso» recita Hobbes «credo davvero che la parte più alta del tempo sarebbe quella compresa tra il 1640 e il 1660. Chi infatti da quegli anni, come dalla montagna del diavolo, avesse osservato il mondo e giudicato le azioni degli uomini, specialmente in Inghilterra, avrebbe potuto avere un panorama d'ogni specie di ingiustizia e d'ogni specie di follia che il mondo era capace di offrire, e constatare come esse erano prodotte dalle loro madri, ipocrisia e presunzione, delle quali l'una è doppia iniquità, l'altra doppia follia».
Oggi sappiamo che il sentimento della paura (che nel linguaggio filosofico di Hobbes viene per lo più definita «prudenza» ) è uno degli elementi costitutivi della psiche e della socialità perché è il riflesso del timore panico che suscita l'aggressività, quella che sta in ciascuno di noi e quella degli altri. Ben diversamente dal desiderio dell'onore, celebrato dall'ideologia aristocratica per legittimare la violenza e porla al sevizio della gloria, la paura è il sentimento diffuso e comune a tutti; essa non appare come il frutto di un processo educativo, è un sentimento naturale e ragionevole, efficiente sotto il profilo razionale. Hobbes lo vive con intensità (vi è della disperazione nel movimento dei corpi avvinghiati al mostro) e lo celebra rovesciando il mito dell'eroe e trasformando il desiderio di gloria in vanagloria. E forse proprio questo sentimento di paura dell'uomo moderno di fronte alla sua solitudine e alle sue responsabilità, fa dell'autore del Leviatano un nostro contemporaneo.
Così l'architettura «scientifica» di Hobbes svela i confini della modernità e, in certo modo, li supera. Fondata su una disaggregazione dell'humanitas, apre il cammino verso quella solitudine individualistica che costituisce il punto terminale della modernità e rischia di dissolverla per effetto di ogni rinuncia all'impegno politico. Il privilegio accordato alla razionalità e al sapere scientifico si è già tradotto, nel pensiero hobbessiano, in quella ragione strumentale che confonde dimostrazione e verità, sapere e potere tecnologico e crea sistemi artificiali di dominio repressivi così possenti da dissolvere la socialità stessa. Infine la dimensione stessa del tempo rubato ai conviventi dal Leviatano, diviene, per i sudditi, un che momentaneo, incerto, fuggevole e implica un processo di consumo istantaneo. Tutti temi che animano il dibattito di oggi sui limiti o la fine della modernità.
Il Leviatano fa la sua comparsa sulla scena del mondo nel 1651. Questa data, posta giusto a mezzo del Secolo di ferro, coincide davvero con una svolta dell'assolutismo e del sentire politico della modernità. Ovunque le macerie morali e materiali della Guerra dei trent'anni, la guerra civile oltre Manica, le ondate di rivolta sul continente, rivolte e furori contadini; una congiuntura demografica che pone il cimitero al centro del villaggio, la morte al centro della vita. Crisi dinastiche e rivoluzioni materializzano il tempo come un tutto politico e, tra classicismo e barocco, il dispositivo ideologico dell'Occidente fatto dei miti di patto, ordine, gerarchia così come lo abbiamo riconosciuto muta di segno, si fa concreto, aderente al ciclo tragico della modernità. Il Leviatano, oltre che una elaborazione profonda dell'antropologia occidentale è certo una delle massime teorizzazioni della politica moderna, è un programma di uscita dalla crisi del Secolo di ferro mediante la conciliazione di tempo (storia) e politica (potere) a tutto vantaggio della seconda. Un programma e forse anche l'illusione di fotografare una realtà già in atto, una utopia realizzata: la Repubblica di Cromwell, che però il correre stesso del tempo si incaricherà, di lì a poco, di cancellare.

Sir Demos
28-04-02, 19:51
Ari, ... Buona Consultazione ... :rolleyes:

benny3
28-04-02, 21:08
molto interessante.
i forum dovrebbero servire piu` ad ascoltare che a parlare. e questo mi sembra uno dei casi piu` chiari. ;)

ARI6
29-04-02, 01:05
Originally posted by Sir Demos
Ari, ... Buona Consultazione ... :rolleyes:

Grazie :fru :fru :fru

Sir Demos
01-05-02, 01:36
molto interessante.

Sono contento... E siamo solamente all'inizio... Fare un po' di filosofia politica per chi è interessato, può essere possibile anche in un forum...

Ciao. :)

Sir Demos
01-05-02, 01:37
Grazie

Non mi dire che hai desistito... :lol

ARI6
01-05-02, 22:12
Originally posted by Sir Demos


Non mi dire che hai desistito... :lol

No, ti dico che ancora non ho avuto il tempo di leggere.

Sir Demos
04-05-02, 03:23
:rolleyes: Mi sa che forse ti manca la voglia... :p

Alberich
04-05-02, 11:28
Demos, è proprio tanta roba. Manca il tempo.

ARI6
04-05-02, 13:53
Originally posted by Sir Demos
:rolleyes: Mi sa che forse ti manca la voglia... :p

La letturina veloce la potrei anche dare, ma si tratta di filosofia, rischierei di non capirci una sega.
Tempo al tempo...

Sir Demos
06-05-02, 19:11
:fru

ARI6
07-05-02, 14:21
Originally posted by Sir Demos
:fru

E perchè?

Sir Demos
08-05-02, 02:40
Così... :K

ARI6
08-05-02, 15:45
Originally posted by Sir Demos
Così... :K

Prosit.

Sir Demos
09-05-02, 15:30
Demos, è proprio tanta roba. Manca il tempo.

Se interessa lo si può leggere in più giorni, tanto il treahd qua rimane... :)

Adesso pensavo di iniziare con Montesquieu e la ripartizione dei poteri dello stato...

Ciao.

ARI6
09-05-02, 16:06
Originally posted by Sir Demos


Se interessa lo si può leggere in più giorni, tanto il treahd qua rimane... :)

Adesso pensavo di iniziare con Montesquieu e la ripartizione dei poteri dello stato...

Ciao.

Dai, aspetta un altro po'.
Non mettiamo troppa carne al fuoco.

Sir Demos
11-05-02, 12:32
...

ARI6
11-05-02, 14:24
Grazie.

Sir Demos
12-05-02, 04:39
Ci mancherebbe... ;)

ARI6
30-05-02, 22:19
E perchè questo e altri thread sono finiti su istituzioni e riforme?
Questa è filosofia pura... :fru

Sir Demos
03-06-02, 00:26
Vorrei saperlo anch'io, chissà forse una minaccia velata dell'Amministrazione... :rolleyes:

ARI6
03-06-02, 01:50
Originally posted by Sir Demos
Vorrei saperlo anch'io, chissà forse una minaccia velata dell'Amministrazione... :rolleyes:

In che senso? :confused:

Sir Demos
03-06-02, 11:04
Non tutto si può spiegare in quello che avviene nella Cupola Mafiosa di Pol... :cool:

ARI6
03-06-02, 11:24
Originally posted by Sir Demos
Non tutto si può spiegare in quello che avviene nella Cupola Mafiosa di Pol... :cool:

Basta un pvt... ;)

Sir Demos
03-06-02, 20:57
Sto scherzando.... :D :D

ARI6
03-06-02, 21:27
Originally posted by Sir Demos
Sto scherzando.... :D :D

L'avevo capito, comunque resta il fatto che questo thread, per quanto sia interessante, forse è fuori posto.
Ma chissenefrega, direi. :)

Sir Demos
04-06-02, 01:59
L'avevo spostato quando sembrava che quetsa doveva diventare la Sezione 4 Chiacchiere in Libertà...

Adesso può anche rimanere qua, così ha anche più visibilità. Ciao.

ARI6
04-06-02, 16:50
Originally posted by Sir Demos
L'avevo spostato quando sembrava che quetsa doveva diventare la Sezione 4 Chiacchiere in Libertà...

Adesso può anche rimanere qua, così ha anche più visibilità. Ciao.

Ok. :)

Sir Demos
04-06-02, 17:21
:cool:

ARI6
04-06-02, 17:43
Originally posted by Sir Demos
:cool:

Ancora con questo mio ritratto...

Sir Demos
04-06-02, 20:31
:lol Ti piacerebbe... :lol