PDA

Visualizza Versione Completa : Il 25 aprile? Non ci appartiene!!



Il Patriota
24-04-02, 13:39
...come padani il 25 aprile possiamo festeggiare solo San Marco ma non di sicuro la cosidettà liberazione (festa italiona) visto che non fu che il passaggio da un regime centralsita a partito unico ad un altro regime centralsita a pentapartito più l'opposizoine di comodo del PCI (reponsabile della catastrofica immigrazione degli anni 60, terrorismo, stragi, della bancarotta dello stato, della Legge Martelli....) ....lasciando perdere poi gli orrori commessi dai liberatori (vedi le violenze dei marocchini al seguito delle truppe americane) o dei rossi (eccidi su eccidi di civili....e foibe dove morirono migliaia di padani)..

24-04-02, 17:58
Messa così sono d'accordo

LN
24-04-02, 20:21
Il 25 aprile è l'unica festa dell'anno che odio!:mad:

Il Patriota
24-04-02, 20:26
Originally posted by Erwann


Problemi?

:ronf

e tu?

Il Patriota
24-04-02, 20:39
..di 150 anni di unità d'Itaglia me ne fotto: fascismo, resistenza, comunismo, dc, psi, partigiani....tutta robaccia italiota....fa ridere vedere certi padani che festeggiano il 25 aprile giorno di orgia di tircolori e falci e martelli.....

Il Patriota
24-04-02, 22:19
e fa ancora più ridere vedere certi altri che "Generalizzano" a tutti i partigiani l'idea autonomista che era patrimonio soltano di pochissimi...o le uniche repubbliche autonome che alcuni sognavano erano quelle rosse che il PCI con Secchia voelva istituire...sul grado di autonomismo dei partigiani (la cosidetta lotta di liberazione fu monopolizzata con eccidi dai rossi) basta ricordarsi come si chiamavano le brigate...Garibaldi...notissimo autonomista :rolleyes: ...le altre brigate erano della stessa merda ideologica della Garibaldi: liberali e monarchi..in poche parole Cavour e Savoia...belle roba...e beata idiozia di alcuni che si spacciano da padani....

LN
25-04-02, 14:07
Originally posted by Erwann


Problemi?

:ronf

Io di problemi ne avrei,ma non voglio di certo rovinarti la festa...

E Ciampi dichiara che il revisionismo non puo' esistere...:mad:

Il Patriota
25-04-02, 15:21
grande intevento di Oneto a RPL che da ottimo patriota padano ha dimostrato che il 25 aprile (a parte l'episodio del documento di Chivasso) è retorica tricolocomunista allo stato puro ...retorica mortifera....un msg per quelli che capiscono poco.....il ns 25 aprile è San Marco Evangelista..protettore della Nazione Veneta e della Patria Padana!!!
W San Marco!!

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:28
Questa agghiacciante testimonianza è stata tratta da
"Carità e Tormento" - memorie di una Crocerossina -
di Antonia Setti Carraro - Mursia editore 1982 -

Torino - primi di maggio 1945.
"Accanto al reparto dei feriti e congelati della divisione, vi era una
stanzetta dove un Tenente della X Mas, ferito alla colonna vertebrale e
completamente paralizzato dalla vita in giù, se ne stava isolato assieme
alla madre. Era di Trieste e la madre lo curava già da parecchio tempo. Non
aveva che quel figliolo. Un pomeriggio che ricorderò sempre come un incubo,
quattro partigiani armati irruppero in quella stanzetta, afferrarono quel povero
corpo martoriato, lo presero due per le ascelle e due per i piedi e
cercarono di portarlo fuori dal locale.


Nessun medico, nessun infermiere, nessuna sorella cercò di fermarli. La
madre intuì ogni cosa e si gettò, urlando sul figlio e con la forza della
disperazione lottò per stapparlo a quei violenti. Dritta sulla soglia della
stanzetta, a braccia aperte, tentava di impedire il passaggio del corpo del
figlio picchiando a pugni chiusi chi lo trasportava, difendendo disperata la
sua creatura. Era tremendamente sola. La colpirono con un pugno tra gli
occhi ed egualmente la donna, perdendo sangue dal naso, si batteva con la
forza di un leone; a quel punto si gettò a terra tra le gambe di quegli
uomini e allora uno di questi la prese per i capelli e la trascinò per la
corsia. La donna perdeva ciocche di capelli, ma continuava a dibattersi non
cessando mai di invocare aiuto. Poi rialzatasi di colpo, si getto nuovamente
sul corpo del figlio che veniva continuamente strattonato qua e là ed era
ormai seminudo, con le medicazioni pendenti dalla ferita riaperta. Il
tenente non aprì mai la bocca, solo allungò una mano e strinse quella della
madre ricoperta di sangue. Sempre silenziosamente prese ad accarezzare
quella povera mano e poi se la portò alle labbra. Trovava ancora la forza di
tacere. Fu trascinato davanti ai letti dei soldati (...).

Ora gli urli della donna non avevano più nulla di umano. Il triste corteo passò il cortile
seguito dagli occhi di decine di persone senza che nessuno intervenisse o
sbarrasse il passo a chi trasportava quel ferito. All'uscita
dell'ospedale un gruppo di persone fece cerchio attorno a quei quattro
che ora cercavano invano di far entrare il ferito in un camioncino sporco ed
ingombro di oggetti. Ma non vi riuscivano.

...PIETA', PIETA' PER MIO FIGLIO!

Allora con un moto di stizza e di
rabbia buttarono a terra quel corpo martoriato e scaricarono su di lui i
loro mitra. Spararono tutti e quattro assieme.

Per ore nelle nostre orecchie
risuonò martellante l'urlo della povera madre:

"MALEDETTI, MALEDETTI ASSASSINI"

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:29
I Religiosi massacrati dai "valorosi" PARTIGIANI nelle "radiose giornate"

da F. Galante Home Page

Per i comunisti i parroci erano tra gli oppositori più efficaci, quindi molto pericolosi. Avevano confessionali in cui sapere anche la verità sulla violenza rossa che, fuori, nessuno osava dire.
Avevano pulpiti da cui parlare e condannare, gente ad ascoltare. Erano organizzati con oratori, consigli comunali, formavano diocesi. Quattro volte più numerosi di oggi, erano disseminati ovunque. Più dei carabinieri, più dei farmacisti. Persino più delle case del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di benefici terrieri, ebbene, erano da odiare due volte, una perché preti, l'altra come padroni, e rientravano perciò doppiamente in quell'assunto che, dalla fine della guerra, girò per anni tra le squadre d'azione comunista, in cellula e nelle case del popolo:

«Se dopo la liberazione ogni compagno uccidesse il proprio parroco e ogni contadino il padrone, il problema sarebbe già risolto».

E non è vero che ad ogni don Camillo rispondesse un Peppone. I primi furono tanti, dei secondi in questo amaro viaggio di triangolo della morte non vi è traccia. Non c'è parroco che non abbiano intimidito, isolato. Tantissimi furono scherniti, derubati, rapinati. Ora io vi racconterò di quelli che, dopo aver già tanto sofferto in tempo di guerra da tedeschi, fascisti e partigiani rossi, sono stati martirizzati in tempo di pace dalla violenza comunista. Nell'allora folto branco di parroci può magari scapparci, che so, lo scapestrato, il disattento, l'arricchito. Non però tra le decine uccisi.
Ogni assassinato è perbene. E tra i più attivi, equilibrati, generosi, attenti alla propria gente. E' seguito, amato, perciò un maledetto nemico del popolo, dunque va soppresso, distrutto e che ogni assassinato sia esempio per gli altri, che tengano la bocca chiusa. E c'è un motivo, più d'ogni altro: essi hanno in sé e con sé Dio.
Il 25 aprile è la Liberazione, la fine della guerra, e da adesso i parroci dell'Emilia Romagna, ma anche delle regioni vicine, ogni sera, nell'ultimo segno della croce, non sanno se rivedranno l'alba o se capiteranno in casa gli assassini, come accade la sera del 16 gennaio '46 a don Francesco Venturelli, arciprete di Fossoli, nel Modenese vicino Carpi.
E' stato cappellano nel campo di concentramento della sua parrocchia, è un tipo che non chiede che tessera politica hai, che assiste tutti quanti, inglesi, fascisti, partigiani, collaborazionisti. E' uno che dopo la Liberazione detesta la brutalità e gli eccidi che si ripetono nel Carpigiano contro fascisti e presunti fascisti.
E dunque è sera, uno sconosciuto lo chiama fuori di canonica chiedendo di accorrere per un incidente mortale sulla provinciale. Don Francesco corre e si trova invece davanti a un plotone di rossi che lo falcia col mitra.
Invece don Gianni Domenico, trentenne, celebra messa ai giovani soldati repubblichini. Il 24 aprile '45 all'arrivo degli alleati corre tra la sua gente a San Vitale di Reno: in chiesa lo stanno aspettando i partigiani comunisti, lo gettano in un porcile, lo denudano, lo violentano. Ci sono anche donne tra loro, e una in particolare, è la più ardente nel seviziarlo. Il lungo martirio si conclude a colpi di mitra e ai parrocchiani si impedisce per giorni di seppellire il martirizzato.
Don Giuseppe Tarozzi è parroco a Riolo di Castelfranco, diocesi di Bologna, severissimo nell'amministrare un'opera pia fa il diavolo a quattro per tener lontano da essa la politica e ladri. Notte del 25 maggio '45: i commandos comunisti fracassano a colpi di scure la porta della canonica, lo strappano dal letto, lo pestano, poi lo trascinano via in camicia da notte. La gente vede un'ombra bianca sospinta fuori a calci, il suo cadavere non sarà mai più ritrovato.
Ancora diocesi di Bologna: don Giuseppe Rasori, sessantenne a San Martino Casola ha solo due parrocchiani non iscritti al Pci. Sberleffi, minacce, assalti alla chiesa. Vive nella paura ma resta. Nel pomeriggio del 2 luglio '46 in canonica, dove in guerra ha nascosto tanti partigiani, lo ammazzano con un colpo di pistola al collo. Il suo successore poco tempo dopo in chiesa parlando della passione di Gesù accenna allo straccio rosso con cui fu coperto per derisione. Deve fare ripetute e pubbliche scuse, i comunisti l'hanno presa come ingiuria alla loro bandiera.
Don Alfonso Reggiani, parroco di Anzola di Piano, Bologna, il 5 dicembre '45 sta pedalando di ritorno da una visita ai suoi ammalati, lo fermano in due, l'ammazzano a raffiche di mitra, se ne vanno sulle biciclette. Una cigola e gli assassini dicono: «L'ungeremo a casa, adesso che abbiamo ammazzato il maiale». Al funerale di don Alfonso, reo di battute umoristiche sui comunisti, ci sono solo cinque bambini e qualche donna.
Un prete semplice, conciliante, don Enrico Donati, ma è parroco a Lorenzatico, Bologna, della famiglia del sindacalista bianco Giuseppe Fanin, che sarà massacrato, nel '48 a colpi di spranga dai comunisti. Il 13 maggio '45 quattro compagni con la scusa di portare don Donati al comando partigiano per formalità, lo feriscono a colpi di mitra, gli legano le mani, lo infilano in un sacco e lo gettano con due sassi per zavorra in un macero colmo d'acqua.
La sera del 25 luglio '45 un altro comando chiama don Achille Filippi, parroco di Maiola, sull'uscio della chiesa e l'uccide: cancellando anni ed anni di lavoro e bontà per la gente, le colonie per i bambini, la povertà degli anziani. Ma il gran farabutto in chiesa biasimava le violenze e i soprusi dei comunisti; a morte.
Già un altro era stato condannato a morte un mese prima della Liberazione a Santa Maria in Duno per aver rinfacciato ai partigiani rossi efferatezza durante la guerriglia: il primo marzo '45 si presentano due armati travestiti da tedeschi, irrompono in canonica con due donne anch'esse armate, dicono di essere di un comitato, legano Don Corrado Bortolini, rubacchiano e poi lo portano via in motocicletta. Mai più trovato, anche se tutti sanno che è stato torturato, strangolato, gettato in una fossa. Al suo successore c'è chi ammonisce di non interessarsene: «Tanto don Corrado dorme in un campo di fiori».

Don Tino Galletti, nella chiesa di Spazzate Sassatelli, a Imola, è un altro che non parla bene dei comunisti in una parrocchia rossa, non più di sei persone alla messa domenicale. Il 9 maggio '45 è ucciso a colpi di pistola e per non mandarlo via da solo ammazzano anche tre dei suoi sei fedeli. Non un cane ai funerali.
Implora pietà invece don Luigi Lenzini, parroco di Crocetta di Pavullo, nel Modenese, la notte in cui un gruppo di comunisti, gente del paese, lo trascina in camicia da notte dalla canonica alla vigna e qui lo seviziano da stramaledetti e poi gli spaccano la testa: ha condannato il metodo di «far fuori la gente» dei comunisti.
Freddati a pistolettate il parroco di Mocogno e di Montalto, cioè il canonico Giovanni Guizzardi e don Giuseppe Preci, nel Modenese. Morte lenta per l'anziano don Ernesto Talè, parroco di Castellino delle Formiche, modenese, e per la donna che stava accompagnandolo da un ammalato, «quella carogna non voleva morire ... », dirà al bar, vantandosi con gli amici, uno dei "coraggiosi partigiani" torturatori del prete.
Nel Reggiano non ammettono gli eccessi disumani di chi, partigiano comunista, scredita il movimento di Resistenza e sono freddati col mitra don Giuseppe Lemmi, cappellano di Felina e don Luigi Manfredi, parroco di Budrio.
E' il 14 settembre '45, l'assassino che spacca il cranio a don Tebaldo Dapporto, parroco di Casalfiumanese di Imola, corre alla Camera del Lavoro a vantarsi d'aver fatto fuori il suo prete-padrone.
Don Carlo Terenziani, prevosto di Ventosa, la mattina del 29 aprile '45 è preso dai partigiani rossi che lo fanno girare per le strade come un Cristo schernito, sputato, ingozzato di vino all'osteria, battuto e infine fucilato a sera.
Don Giuseppe Pessina, parroco di San Martino di Correggio, piange diciannove parrocchiani assassinati dai comunisti e sa troppe cose: ucciso a colpi di mitra mentre la sera del 18 giugno '46 rintocca l'Ave Maria...
Purtroppo, l'elenco delle vittime delle radiose giornate non finisce qui,
tanti preti martiri in Emilia, tanti Toscana e in altre regioni...

Tutto questo orrore non vi è bastato? Credete ancora alla favola dei partigiani combattenti per democrazia e per la libertà?

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:30
Era una notte calda e umida a Bastiglia (MO) quando la sera del 27 aprile 1945 alcuni partigiani (Brigata Garibaldi) si introdussero nell'abitazione di Walter Ascari, lo derubarono, fecero razzia di carni e salumi; lo prelevarono e lo trasportarono in aperta campagna. Ascari non era fascista ma neanche comunista, era un benestante e questa era una grandissima colpa durante le "Radiose Giornate" quindi colpendo Walter Ascari avrebbero colpito lo "Stato Borghese".

Giunti in località Montefiorino alcuni partigiani estrassero dei bastoni e cominciarono a colpire il malcapitato come dei forsennati; altri con l'ausilio di una canna di bambù lo seviziarono fino a rompergli l'ano e parte dell'intestino. Ma era ancora ben poca cosa, una fine orrenda attendeva il povero Walter Ascari. "A morte!" "A morte!" Urlavano gli assassini... Per la sua mattanza finale, i gloriosi e pluridecorati eroi garibaldini pensano a qualcosa di diverso dalla solita raffica di mitra... Qualcosa di speciale... Qualcosa che soltanto la loro mente perversa e assassina poteva immaginare, qualcosa che va aldilà dell'umana cattiveria.

Lo appesero per i polsi ad un grosso ramo in modo che il corpo del moribondo fosse ben teso assicurandolo per i piedi al terreno con una corda. Poi, con una grossa sega da boscaiolo a quattro mani, lo tagliarono in due! Da vivo! Il suo corpo fu gettato in seguito in una porcilaia. Quando lo ritrovarono, ben poco era rimasto di quel pover'uomo.

Queste storie maledette di partigiani assassini, li pubblico affinchè cada, dopo oltre 50 anni, il muro di omertà che ha avvolto la storia della repubblica, la storia dei falsi liberatori, la storia d'Italia. Parecchi ex partigiani sono ancora viventi, vale a dire che parecchi assassini sono ancora in libertà. Saranno vecchi, forse decrepiti, ma l'età non li ha migliorati di certo.

Essi credono fermamente nei valori in cui credevano durante la guerra, non esiterebbero ad uccidere pur di soddisfare la loro cattiveria, perchè si tratta solo ed esclusivamente di cattiveria fine a se stessa, nient'altro. Ci sono ex partigiani, anzi io li definirei partigiani a tutti gli effetti, che ancora oggi intimoriscono le popolazioni locali dei luoghi dove si verificarono queste orrende vicende. Raccontati oggi, questi episodi terribili sembrano venire da un altro mondo, forse da un'altra galassia, tanto sono pieni di inspiegabile ferocia, di paurosi istinti animaleschi.

Come nella grande tradizione del C.L.N., anche questo fatto sarà classificato ed archiviato come "coraggiosa azione di guerra" e gli esecutori di questa orribile mattanza rimarranno impuniti, anzi, premiati con medaglie al valore!

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:31
L'italia attuale è una repubblica (bleah!) fondata sulle menzogne risorgimentali e massoniche (Cavoru,Mazzini,Garibaldi...tutti massoni!!),è inoltre una colonia degli States multirazziali (centro dell'Alta finanza apolide che vuole distruggere tutte le Tradizioni,i nostri Valori morali, le Stirpi d'Europa e la millenaria Civilità Europea, per imporci la loro vay of life:droga,aborto,sincretismo,meticciato...:mad:
Ridicoli gli autonomisti che inneggiano agli assassini rossi!!!

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:32
(dall’introduzione di Stéphane Courtois)



I crimini del comunismo non sono mai stati sottoposti a una valutazione legittima e consueta né dal punto di vista storico né da quello morale. Questo è, forse, uno dei primi tentativi di accostarsi al comunismo, interrogandosi sulla dimensione criminale come questione fondamentale e globale al tempo stesso. Si potrà ribattere che la maggior parte dei crimini rispondeva a una «legalità» di cui erano garanti le istituzioni dei regimi in vigore, riconosciuti sul piano internazionale e i cui capi venivano ricevuti con il massimo degli onori dai nostri stessi politici. Ma con il nazismo non è, forse, accaduto lo stesso? I crimini di cui parleremo in questo libro si definiscono come tali in rapporto al codice non scritto dei diritti naturali dell’uomo e non alla giurisdizione dei regimi comunisti.

La storia dei regimi e dei partiti comunisti, della loro politica, dei loro rapporti con le rispettive società nazionali e con la comunità internazionale non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una dimensione di terrore e di repressione. Nell’urss e nelle «democrazie popolari» dopo la morte di Stalin, in Cina dopo quella di Mao, il terrore si è attenuato, la società ha cominciato a uscire dall’appiattimento, la coesistenza pacifica – anche se era «una continuazione della lotta di classe sotto altre forme» – è diventata una costante nei rapporti internazionali. Tuttavia, gli archivi e le abbondanti testimonianze dimostrano che il terrore è stato fin dall’origine una delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno. Bisogna abbandonare l’idea che la tal fucilazione di ostaggi, il tal massacro di operai insorti, la tal ecatombe di contadini morti di fame siano stati semplici «incidenti di percorso» propri di questa o quell’epoca. Il nostro approccio va al di là del singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme, nell’intero arco della sua esistenza.

Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale maoista le Guardie rosse hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l’umanità intera, che importanza hanno di fronte all’assassinio in massa di uomini, donne e bambini?

Abbiamo, quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che costituiscono l’essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una particolare pratica: l’esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno o incidente automobilistico); l’annientamento per fame (carestie indotte e/o non soccorse); la deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Più complicato è il caso dei periodi detti di «guerra civile»: non sempre, infatti, è facile distinguere ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro della popolazione civile.

Possiamo, tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre, che, pur essendo ancora largamente approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare un’idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravità:


– Urss, 20 milioni di morti,

– Cina, 65 milioni di morti,

– Vietnam, 1 milione di morti,

– Corea del Nord, 2 milioni di morti,

– Cambogia, 2 milioni di morti,

– Europa dell’Est, 1 milione di morti,

– America Latina, 150.000 morti,

– Africa, 1 milione 700.000 morti,

– Afghanistan, 1 milione 500.000 morti,

– movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.


Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.

Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce – carestia generalizzata e tortura – circa un quarto della popolazione. L’esperienza maoista colpisce, invece, per l’ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.


Questo approccio elementare non pretende di esaurire il problema, che merita, invece, un approfondimento qualitativo, basato su una definizione di crimine precisa e fondata su criteri obiettivi e giuridici. La questione del crimine di Stato è stata affrontata per la prima volta da un punto di vista giuridico nel 1945, dal tribunale di Norimberga istituito dagli Alleati proprio per i crimini nazisti. La natura di questi ultimi è stata definita nell’articolo 6 dello statuto del tribunale, che indica tre crimini fondamentali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità. Ora, un esame dell’insieme dei crimini commessi durante il regime leninista-stalinista, quindi nel mondo comunista in generale, porta a riconoscervi ciascuna di queste tre categorie.

I crimini contro la pace sono definiti dall’articolo 6a e riguardano «la direzione, la preparazione, l’inizio e la continuazione di una guerra d’aggressione, o di una guerra di violazione dei trattati, degli accordi o dei patti internazionali, o la partecipazione a un piano concertato o a un complotto per la realizzazione di uno qualsiasi degli atti di cui sopra». Stalin ha innegabilmente commesso questo tipo di crimine, non foss’altro che per avere negoziato segretamente con Hitler la spartizione della Polonia e l’annessione all’urss degli Stati baltici, della Bucovina del Nord e della Bessarabia, con i due trattati del 23 agosto e del 28 settembre 1939. Il trattato del 23 agosto, liberando la Germania dal pericolo di uno scontro sui due fronti, fu la causa diretta dello scoppio della seconda guerra mondiale. Stalin ha perpetrato un altro crimine contro la pace aggredendo la Finlandia il 30 novembre 1939. L’attacco inopinato della Corea del Nord contro la Corea del Sud il 25 giugno 1950 e l’intervento massiccio dell’esercito della Cina comunista appartengono alla stessa categoria di crimini. Anche i metodi sovversivi, ripresi talora dai partiti comunisti finanziati da Mosca, potrebbero essere assimilati ai crimini contro la pace, perché il loro impiego ha spesso portato alla guerra: un colpo di Stato comunista in Afghanistan il 27 dicembre 1979, per esempio, provocò un massiccio intervento militare dell’urss, dando inizio a una guerra che non si è ancora conclusa.

I crimini di guerra vengono definiti, all’articolo 6b, «violazioni delle leggi e dei costumi della guerra. Queste violazioni comprendono, senza limitarvisi, l’assassinio, i maltrattamenti o la deportazione ai lavori forzati o ad altro scopo di popolazioni civili nei territori occupati, l’assassinio o i maltrattamenti dei prigionieri di guerra o delle persone in mare, l’esecuzione capitale degli ostaggi, il saccheggio dei beni pubblici e privati, la distruzione senza motivo di città e paesi o la devastazione non giustificata da esigenze militari». Le leggi e i costumi della guerra sono descritti nelle convenzioni, la più nota delle quali è quella dell’Aja del 1907, che stabilisce: «In tempo di guerra, per la popolazione civile e per i belligeranti, rimangono in vigore i principi del diritto dei popoli quali risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civilizzate, dalle leggi dell’umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica».


Stalin
Stalin ha ordinato e autorizzato numerosi crimini di guerra. Il più impressionante rimane l’eliminazione di quasi tutti gli ufficiali polacchi fatti prigionieri nel 1939, nell’ambito della quale lo sterminio di 4500 persone a Katyn’ è soltanto un episodio. Ma altri crimini di portata assai maggiore sono passati inosservati, come l’assassinio o la messa a morte nei gulag di centinaia di migliaia di militari tedeschi fatti prigionieri fra il 1943 e il 1945, a cui si aggiungono gli stupri in massa delle donne tedesche perpetrati dai soldati dell’Armata rossa nella Germania occupata. Per non parlare del saccheggio sistematico delle strutture industriali dei paesi occupati dall’Armata. Rientrano sempre nell’articolo 6b l’imprigionamento e la fucilazione o la deportazione di militanti di gruppi organizzati che combattevano apertamente contro il potere comunista: per esempio, i militari dell’organizzazione polacca di resistenza antinazista (ak), i membri delle organizzazioni di partigiani armati baltici e ucraini, i partigiani afgani ecc.

L’espressione «crimine contro l’umanità» è comparsa per la prima volta il 18 maggio 1915 in una dichiarazione di Francia, Inghilterra e Russia contro la Turchia, in occasione del massacro degli armeni, definito «nuovo crimine della Turchia contro l’umanità e la civiltà». Le atrocità naziste hanno indotto il tribunale di Norimberga a ridefinire la nozione nell’articolo 6c: «L’assassinio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione e ogni altro atto inumano commesso contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra o, ancora, le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, qualora questi atti o persecuzioni, che abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del paese in cui sono stati perpetrati, siano stati commessi in seguito a qualsiasi crimine che rientri nella competenza del tribunale o siano in rapporto con detto crimine».

Nella sua requisitoria a Norimberga François de Menthon, procuratore generale francese, sottolineava la portata ideologica di questi crimini:

Mi propongo di dimostrarvi che qualsiasi forma di crimine organizzato e di massa deriva da ciò che oserei definire un crimine contro lo spirito, e cioè da una dottrina che, negando tutti i valori spirituali, razionali o morali sui quali i popoli hanno tentato da millenni di far progredire la condizione umana, mira a respingere l’umanità nella barbarie, non più nella barbarie naturale e spontanea dei popoli primitivi, ma in una barbarie demoniaca in quanto cosciente di sé e in grado di utilizzare ai suoi fini tutti i mezzi materiali che la scienza contemporanea mette a disposizione dell’uomo. In questo attentato allo spirito consiste il peccato originale del nazionalsocialismo da cui derivano tutti i crimini. Tale mostruosa dottrina è l’ideologia del razzismo. ... Che si tratti del crimine contro la pace o dei crimini di guerra, non ci troviamo comunque di fronte a una criminalità accidentale, occasionale, che gli eventi potrebbero, non dico giustificare, ma perlomeno spiegare: ci troviamo di fronte a una criminalità sistematica, che deriva direttamente e necessariamente da una dottrina mostruosa, favorita con deliberata volontà dai dirigenti della Germania nazista.

François de Menthon precisava, inoltre, che le deportazioni destinate a fornire manodopera supplementare alla macchina bellica tedesca e quelle volte all’eliminazione degli oppositori del regime erano soltanto «una conseguenza naturale della dottrina nazionalsocialista per la quale l’uomo non ha nessun valore in sé quando non è al servizio della razza tedesca». Tutte le dichiarazioni del tribunale di Norimberga insistevano su una delle principali caratteristiche del crimine contro l’umanità: il fatto che la potenza dello Stato fosse messa al servizio di una politica e di una pratica criminali. Ma la competenza del tribunale era limitata ai crimini commessi durante la seconda guerra mondiale. Era, quindi, indispensabile estendere la nozione giuridica a situazioni che non rientrassero in quella casistica. Il nuovo Codice penale francese, entrato in vigore il 23 luglio 1992, definisce così il crimine contro l’umanità: «La deportazione, la schiavitù o la pratica massiccia e sistematica di esecuzioni capitali sommarie, di sequestri seguiti dalla scomparsa della persona rapita, della tortura o di atti disumani ispirati a motivazioni politiche, filosofiche [corsivo dell’Autore], razziali o religiose, e organizzati in esecuzione di un piano concertato contro un gruppo di popolazione civile».

Ora, queste definizioni, in particolare quella francese recente, si attagliano a numerosi crimini commessi sotto Lenin, e specialmente sotto Stalin, e poi in tutti i paesi comunisti eccetto (con beneficio di inventario) Cuba e il Nicaragua dei sandinisti. Il presupposto sembra inconfutabile: i regimi comunisti hanno operato «in nome di uno Stato che praticava una politica di egemonia ideologica». E proprio in nome di una dottrina, fondamento logico e necessario del sistema, vennero massacrate decine di milioni di persone innocenti a cui non si poteva rimproverare nessun atto particolare, a meno che non si riconosca come crimine il fatto di essere nobile, borghese, kulak, ucraino e persino operaio o... membro del Partito comunista. L’intolleranza attiva faceva parte del programma messo in atto. Non è stato forse il massimo dirigente dei sindacati sovietici, Tomskij, a dichiarare il 13 novembre 1927, su «Trud»: «Nel nostro paese possono esistere anche altri partiti. Ma un principio fondamentale ci distingue dall’Occidente; si immagini una simile situazione: un partito comanda e tutti gli altri sono in prigione».2

La nozione di crimine contro l’umanità è complessa e comprende crimini ben definiti. Uno dei più specifici è il genocidio. In seguito a quello degli ebrei perpetrato dai nazisti, e allo scopo di precisare l’articolo 6c del tribunale di Norimberga, la nozione è stata definita da una convenzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948:

Per genocidio si intende uno qualunque dei seguenti atti, commessi con l’intenzione di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) assassinio di membri del gruppo; b) grave attentato all’incolumità fisica o mentale di membri del gruppo; c) imposizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita destinate a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; d) misure volte a ostacolare le nascite all’interno del gruppo; e) trasferimenti coatti dei figli di un gruppo a un altro.

Il nuovo Codice penale francese dà del genocidio una definizione ancora più ampia: «Il fatto, in esecuzione di un piano concertato tendente alla distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, o di un gruppo determinato sulla base di qualsiasi altro criterio arbitrario [corsivo dell’Autore]». Questa definizione giuridica non contraddice l’approccio più filosofico di André Frossard, secondo il quale «si commette un crimine contro l’umanità quando si uccide qualcuno con il pretesto che è nato».3 E nel suo breve e magnifico racconto intitolato Tutto scorre, Vasilij Grossman dice del suo personaggio, Ivan Grigorievic, di ritorno dal campo di concentramento: «È rimasto quello che era alla nascita, un uomo».4 Ed è esattamente questa la ragione per cui era stato perseguitato. La definizione francese permette anche di sottolineare che il genocidio non è sempre dello stesso tipo – razziale, come nel caso degli ebrei – ma può colpire anche gruppi sociali. In un libro pubblicato a Berlino nel 1924, intitolato La Terreur rouge en Russie, lo storico russo, e socialista, Sergej Mel’gunov, citava Lacis, uno dei primi capi della Ceka (la polizia politica sovietica) che, il 1° novembre 1918, diede queste direttive ai suoi sgherri:

Noi non facciamo la guerra contro singole persone. Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nelle indagini non cercate documenti e prove su ciò che l’accusato ha fatto, in atti e parole, contro l’autorità sovietica. Chiedetegli subito a che classe appartiene, quali sono le sue origini, la sua educazione, la sua istruzione e la sua professione.5

Fin dal principio Lenin e i suoi compagni si sono inquadrati in una guerra di classe spietata, in cui l’avversario politico e ideologico e persino la popolazione renitente erano considerati, e trattati, alla stregua di nemici e dovevano essere sterminati. I bolscevichi hanno deciso di eliminare, sia legalmente sia fisicamente, qualsiasi opposizione o resistenza, anche passiva, al loro potere egemonico, non soltanto quando quest’ultima era prerogativa di gruppi di oppositori politici, ma anche quando era guidata da gruppi sociali in quanto tali – la nobiltà, la borghesia, l’intellighenzia, la Chiesa ecc., e categorie professionali (gli ufficiali, le guardie...) – , e questa eliminazione ha spesso assunto la dimensione del genocidio. Fin dal 1920 la «decosacchizzazione» corrisponde ampiamente alla definizione di genocidio: un’intera popolazione a forte base territoriale, i cosacchi, veniva sterminata in quanto tale, gli uominivenivano fucilati, le donne, i vecchi e i bambini deportati, i paesi rasi al suolo o consegnati a nuovi occupanti non cosacchi. Lenin assimilava i cosacchi alla Vandea durante la Rivoluzione francese e proponeva di applicare al loro caso il trattamento che Gracchus Babeuf, l’«inventore» del comunismo moderno, aveva definito fin dal 1795 «popolicidio».6

La «dekulakizzazione» del 1930-1932 fu la ripresa su ampia scala della decosacchizzazione: questa volta, però, fu rivendicata da Stalin, la cui parola d’ordine ufficiale, strombazzata dalla propaganda di regime, era «sterminare i kulak in quanto classe». I kulak che resistevano alla collettivizzazione furono fucilati, gli altri deportati con donne, vecchi e bambini. Certo non furono tutti eliminati direttamente, ma il lavoro forzato al quale vennero sottoposti, in zone non dissodate della Siberia e del Grande Nord, lasciò loro poche possibilità di sopravvivenza. Centinaia di migliaia di persone persero la vita, ma il numero esatto delle vittime non si conosce ancora. La grande carestia ucraina del 1932-1933, legata alla resistenza delle popolazioni rurali alla collettivizzazione forzata, provocò in pochi mesi la morte di 6 milioni di persone.

In questo caso, il genocidio «di classe» si confonde con il genocidio «di razza»: la morte per stenti del bambino di un kulak ucraino deliberatamente ridotto alla fame dal regime stalinista «vale» la morte per stenti di un bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime nazista. Questa constatazione non rimette affatto in discussione la singolarità di Auschwitz: la mobilitazione delle risorse tecniche più moderne e l’attuazione di un vero e proprio processo industriale (la costruzione di una «fabbrica di sterminio»), l’uso dei gas e dei forni crematori, ma sottolinea una particolarità di molti regimi comunisti: l’uso sistematico dell’arma della fame. Il regime tende a controllare completamente le riserve alimentari e, con un sistema di razionamento talvolta molto sofisticato, le ridistribuisce in funzione del merito o del demerito degli uni o degli altri. Questa pratica può provocare immani carestie. Facciamo notare che, dopo il 1918, soltanto i paesi comunisti hanno conosciuto carestie tali da causare la morte di centinaia di migliaia, se non di milioni, di uomini. Ancora nell’ultimo decennio due dei paesi dell’Africa che si rifacevano al marxismo-leninismo, l’Etiopia e il Mozambico, sono stati vittime di queste micidiali carestie.

E' possibile fare un primo bilancio globale di questi crimini:


– fucilazione di decine di migliaia di ostaggi o di persone imprigionate senza essere state sottoposte a giudizio e massacro di centinaia di migliaia di operai e di contadini insorti fra il 1918 e il 1922;

– carestia del 1922, che ha provocato la morte di 5 milioni di persone;

– deportazione ed eliminazione dei cosacchi del Don nel 1920;

– assassinio di decine di migliaia di persone nei campi di concentramento fra il 1918 e il 1930;

– eliminazione di quasi 690.000 persone durante la Grande purga del 1937-1938;

– deportazione di 2 milioni di kulak (o presunti tali) nel 1930-1932;

– sterminio di 6 milioni di ucraini nel 1932-1933 per carestia indotta e non soccorsa;

– deportazione di centinaia di migliaia di polacchi, ucraini, baltici, moldavi e bessarabi nel 1939-1941, poi nuovamente nel 1944-1945;

– deportazione dei tedeschi del Volga nel 1941;

– deportazione-abbandono dei tatari della Crimea nel 1943;

– deportazione-abbandono dei ceceni nel 1944;

– deportazione-abbandono degli ingusceti nel 1944;

– deportazione-eliminazione delle popolazioni urbane della Cambogia fra il 1975 e il 1978;

– lento sterminio dei tibetani per mano dei cinesi dal 1950 ecc.


La lista dei crimini del leninismo e dello stalinismo, spesso riprodotti in modo quasi identico dai regimi di Mao Zedong, Kim Il Sung e Pol Pot, potrebbe essere estesa all’infinito.

Rimane una delicata questione epistemologica: lo storico, nel delineare e interpretare i fatti, è autorizzato a ricorrere a nozioni quali «crimine contro l’umanità» e «genocidio» che, come abbiamo visto, appartengono alla sfera giuridica? Queste nozioni non sono forse troppo legate a imperativi contingenti – la condanna del nazismo a Norimberga – per essere inserite in una riflessione storica che miri a impostare, sul medio periodo, un’analisi valida? D’altro canto, queste nozioni non sono troppo cariche di valori suscettibili di falsare l’obiettività dell’analisi storica?

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:34
Alcuni esempi di di innocenti barbaramente trucidati dai partigiani



Agosto 1944: le sorelle Benericetti di 14 e 19 anni [Olga e Pasqualina] mentre si accingevano
alla ricerca del cadavere del padre assassinato dal C.N.L. vennero catturate e uccise non
prima di essere state orrendamente seviziate: alla più giovane venne conficcato un chiodo
da tempia a tempia rendendola cieca.
I colpevoli [denunciati]: l'ex sindaco di Faenza Pietro Ferrucci e l'operaio Luigi Tinti di Imola comandante reparto partigiano Pietro Gualandi.



--------------------------------------------------------------------------------

23 Marzo 1945: Cave dei Predil, Dino Perpignano, Pasquale Ruggiero, Domenico Del Vecchio, Lino Bertogli, Antonio Ferro, Adelmino Zilio, Fernando Ferretti, Ridolfo Calzi, Pietro Tognazzo, Michele Castellano, Primo Amenici, Attilio Franzon, 12 Carabinieri giovanissimi vengono catturati dai partigiani comunisti Italiani e slavi.
Dopo aver consumato una minestra a base di sodacaustica e sale nero... tra indicibili supplizie furono condotti a piedi nudi a Malga Sala.
Al Perpignano venne conficcato un uncino al calcagno e issato a testa in giù dopo aver subito violenza sessuale.
Gli altri, dopo supplizi e violenze sessuali animalesche vennero colpiti a morte con i picconi, ad alcuni Carabinieri furono asportati i genitali e conficcati in bocca, altri furono devastati a colpi di picconi.
All'Amenici venne aperto il petto e conficcata nel cuore la foto dei suoi 5 figli.
Fatto raccontato con precisione e chiarezza da Fabio Galante.


--------------------------------------------------------------------------------

30 Aprile 1945: PEDESCALA [VI], 63 civili uccisi per rappresaglia dai tedeschi.
La rappresaglia fu la conseguenza di 2 vili agguati alle truppe tedesche in ritirata, il primo il 26/4/45, il secondo sempre nella stessa data fu ancora più grave poichè nonostante il lascia passare del CNL e degli americani ottenuto dai tedeschi in ritirata, caddero mentre marciavano verso la Germania in una vile imboscata che causò molte vittime.
Nonostante gli appelli i responsabili dei vili agguati sulla truppa in ritirata i partigiani non si fecero vivi e assistettero al massacro di innocenti.
Nel 1983 gli abitanti di PEDESCALA rifiutarono la Medaglia d'Argento al Valor Militare tra i tanti cartelli uno eloquente e sacrosanto: "COLPIRONO E SCAPPARONO".... eroismo partigiano.


--------------------------------------------------------------------------------

Maggio 1945: una squadra di partigiani preleva dalla propria abitazione una madre con
i suoi due figli [Studenti].
Tutti e tre furono assassinati perchè colpevoli di essere figli di un Repubblicano.
[Dalla Gazzetta del Lunedì 9 luglio 1997]


--------------------------------------------------------------------------------

2 Maggio 1945: Revine Lago [TV], i fratelli sarnanesi Helios e Pieluigi Testi, vengono trucidati dai partigiani nonostante la resa del reparto Btg "M" IX Settembre


--------------------------------------------------------------------------------

4 Maggio 1945: ore 23:40 partigiani della Div. D'Assalto Garibaldi Liguria S.Bonfante guidati da Gismondi Massimo e Mimmo Semeria prelevano e trucidano 26 detenuti delle carceri di Imperia, tra cui un ragazzino di 17 anni [Maccario Ernani] e diversi ultra sessantenni.


--------------------------------------------------------------------------------

10 Maggio 1945: Pieve di Cento, i partigiani prelevano a distanza di 2 giorni i 7 fratelli Govoni, Dino, Emo, Augusto, Ida, Marino, Giuseppe, Primo.
Seviziati e poi massacrati a colpi di roncole, vanghe, zappe l'11 Maggio, la mattina del 12, i partigiani seviziarono nuovamente i 7 fratelli che giacevano a terra rantolando per il massacro del giorno prima poi li seppellirono alcuni dei quali ancora vivi in una fossa anticarro.
Stesso trattamento fu riservato a Bonora Alberto, Bonora Cesarino, Bonora Ivo,
Bonora Ugo, Bonvicini Alberto, Caliceti Giovanni, Malaguti Giacomo, Mattioli Guido, Pancaldi Guido, Testoni Vinicio.
Il processo si risolse con l'applicazione dell'amnistia.


--------------------------------------------------------------------------------

Notte tra il 12 ed il 13 Maggio 1945: Vercelli, i partigiani prelevano e massacrano a guerra terminata 51 fascisti dallo stadio comunale, 24 di questi vengono condotti a Vercelli, in un casermone adiacente l'ospedale ed adibito ai malati di mente.
Questi ultimi vengono barbaramente seviziati, massacrati a colpi di mattoni, torturati ed addirittura per un camerata le atroci sevizie terminano con un'impalatura su una baionetta.
Le grida di doloro giungono ad un prete che tornerà per vari anni sul luogo dello
scempio a pregare ma non riuscirà a trovare i corpi che, dopo essere stati allineati
e schiacciati più volte da un camion guidato da un partigiano, verranno occultati.
Unico testimone della tragedia un camerata che fintosi morto si trascinò lontano da quel luogo maledetto.
Per i partigiani nessun provvedimento.
Mandante della strage: dottor silvio ortona tuttora residente a Torino.
Per ulteriori informazioni visitate la pagina del sito del MSFT sez. Vercelli.


--------------------------------------------------------------------------------

7 Luglio 1945: A Schio, nella provincia di Vicenza, 3 partigiani si introducono nel carcere
dove sono detenuti 99 persone fra uomini e donne in attesa di processo e uccidono 53 uomini ferendone oltre 20.
I mandanti: Gino Piva - Ruggero Maltauro


--------------------------------------------------------------------------------

B. fu ausiliaria nella Repubblica Sociale Italiana:
Era all'epoca una ragazzina, non aveva ucciso nessuno, non aveva fatto del male a nessuno,
la sua unica "colpa" fu quella di combattere per un Ideale in cui credeva fermamente.
Fu catturata dai partigiani il 25 aprile.
"Mi usarono in dieci, forse in venti. Il tempo non esisteva più.
Una volta mi tennero ferma come se dovessi essere crocefissa, in due mi bloccavano le braccia, in altri due le gambe.
Poi questi ultimi mi costrinsero ad aprirmi e, come una bestia dell'inferno, avanzò un loro compagno ubriaco che entrò selvaggiamente dentro di me. [...]
La guerra era finita.
Mi violentarono lo stesso. [...] divenati il loro orinatoio [...] venivano a vuotarsi sull'ausiliaria B. [...]
Eravamo allineate in ginocchio sui ciottoli del cortile e li rivedo ancora, i partigiani con
il mitra a tracolla, sbottonarsi e cercare nei pantaloni i resti di quella che era stata la virilità del maschio. [...]
Volevano farceli baciare. [...]
Ma quando fu il mio turno, mi venne voglia di
vomitare e mi limitai a sputarci sopra. [...]
Mi fecero rotolare su e giù a calci ...".
[Ringrazio Controstoria per questo documento]


--------------------------------------------------------------------------------

Valdobbiadene: elenco degli assassinati dai barbari partigiani durante le "radiose giornate":

BECCE Cav. Luigi pensionato, 74 anni, ed il figlio Luigi prelevati da casa e assassinati
dopo atroci sevizie il 04/05/1945.
CECCARELLI, commissario prefettizio morto in consegueza di sevizie e torture preaticate durante la detenzione dal 30/04 al 04/05/1945.
LAZZAROTTO Alessandri, dopo una detenzione di 3 giorni, fu torturato nell'asilo di Miane, ucciso il 03/05/1945 alle 17 nel cimitero di Miane.
MARCOLIN Luigi, PORETTI Michele, RUBINATO Vittorio.
CIMIONI Pietro, agente diziario fu assassinato dopo aver subito lunghi giorni di tortura.
VALLERA Antonio, insegnante elementare morto tra i tormenti e le torture durante la detenzione. VERONAZZO Giuseppe, studente, torturato ed assassinatoil 04/05/1945.
PELLEGRINI Antonio, invalido, morto in seguito a torture.
NICOLA Antonio, impiegato, morto in seguito a torture.
FRANCESCHINI Marino, militare della Xa MAS, torturato e rinchiuso in una caserma della zona di Saccol. Finito mediante scoppio di mina il 06/05/1945.
Stessa fine per: GIANNETTO Giuseppe, FALCO Sebastiano, APRILE Vittorio,
GIBERTONI Euro, MAESTRINI Sergio, PINESCHI Leopoldo, SERVETTI Mario,
CAPPELARO Leo, SIMEONI Italo.


--------------------------------------------------------------------------------

Nella fossa comune del cimitero di Valdobbiadene sono state rinvenute oltre
40 salme di fascisti o presunti tali, militari della RSI; purtroppo non sono state
ancora identificate. Ad ogni modo si aggiungono ai seguenti martiri di Valdobbiadene
assassinati nella totale indifferenza non solo delle leggi di guerra ma anche e soprattutto di quelle divine e morali.

CAVALLIN Anterio, elettricista, assassinato.
FERRUZZI Dr. Aldo, impiegato presso la Cnfla, assassinato sulla strada.
SARTORI Olivo, orfano di guerra, prelevato in casa e assassinato in montagna.
MERCURI Danilo, impiegato, assassinato sulla strada.
PATTINI Ileana, 16 anni, figlia di PATTINI Ampalio, impiegato, assassinata con il padre sulla strada.
SCOPEL Romeo, assassinato i montagna.
ZILLI Agostino, contadino, assassinato.
DE MARCHI Giuseppe, calzolaio morto in seguito alle ferite.
MOZZETTO Luigia, assassinata.
BARTOLIN Romolo, bracciante agricolo, assassinato.
MALACART Italo, prelevato ed assassinato in montagna.
BARTOLIN Orlando, contadino, assassinato insieme alla sorella Maria Zelinda.
DE MARTIN CANNA, stagnino, assassinato in montagna.
CRIVELLOTTI ITALO, 16 anni, prelevato e assassinato in montagna.
DE BENEDICTIS Paolo, MORELLI Francesco, RUBINO Ettore, DE RIVA Giuseppe,
BERNOCCHI Giovanni, tutti militari della Xa Mas tranne l'ultimo. operaio meccanico.

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:36
DON GENNARO AMATO - Parroco di Locri (RC), ucciso nell'ottobre 1943 dai capi della repubblica comunista di Caulonia.

DON ERNESTO BANDELLI - Parroco di Bria, ucciso dai partigiani slavi a Bria il30/4/45

DON VITTORIO BAREL - Economo del seminario di Vittorio Veneto, ucciso dai partigiani il 26/10/44

DON DUILIO BASTREGHI - Parroco di Cigliano e Capannone Pienza, ucciso la notte del 3/7/44 dai partigiani comunisti che lo avevano chiamato con un pretesto.

DON CARLO BEGHE' - Parroco di Norvegigola (Apuania), sottoposto il 2/3/45 a finta fucilazione dai partigiani, che gli produsse una ferita mortale.

DON FRANCESCO BONIFACIO - Curato di Villa gardossi (TS), catturato dai comunisti slavi ed infoibato l'11/9/46.

DON LUIGI BORDET - Parroco di Hone (AO), ucciso il 5/3/46 perché aveva messo in guardia i parrocchiani dalle insidie comuniste.

DON LUIGI BOVO - Parroco di Bertipaglia (PD), ucciso il 25/9/44 da un partigiano comunista.

DON MIROSLAVO BULLESCHI - Parroco di Monpaderno (Diocesi di Parenzo e Pola), ucciso il 23/8/47 dai comunisti slavi.

DON TULLIO CALCAGNO - Direttore di Crociata Italica, fucilato a Milano il 29/4/45 da partigiani comunisti.

PADRE CRISOSTOMO CERAGIOLO - Cappellano militare decorato al V.M., prelevato il 19/5/44 da partigiani comunisti e ritrovato cadavere in una buca con le mani legate dietro la schiena.

DON FERRUCCIO CRECCHI - Parroco di Levigliani (LU), fucilato all'arrivo delle truppe di colore grazie a false accuse dei comunisti locali.

DON ANTONIO CURCIO - Cappellano dell'11° Btg. bersaglieri, ucciso il 7/8/41 a Dugaresa da comunisti croati.

PADRE SIGISMONDO DAMIANI - Ex cappellano militare, ucciso dai comunisti slavi a S. Genesio di Macerata l'11/3/44.

DON AURELIO DIAZ - Cappellano della Sezione Sanità della divisione Ferrara, fucilato a Belgrado nel gennaio 45 da partigiani titini.

DON ADOLFO DOLFI - Canonico della Cattedrale di Volterra, sottoposto il 28/5/45 a torture tali che lo portarono alla morte l'8 ottobre successivo.

DON GIUSEPPE DORFMANN - Fucilato nel bosco di Posina (VI) il 27/4/45

DON VINCENZO D'OVIDIO - Parroco di Poggio Umbricchio (TE), ucciso nel maggio 44 sotto accusa di filo fascismo.

PADRE GIOVANNI FAUSTI - Superiore generale dei Gesuiti in Albania, fucilato il 5/3/46 insieme ad altri religiosi rimasti ignoti, solo perchè italiani.

PADRE FERNANDO FERRAROTTI - Cappellano militare reduce dalla Russia, ucciso da partigiani comunisti nel giugno 44 a Champorcher (AO).

DON GREGORIO FERRETTI - Parroco di Castelvecchio (TE), ucciso da partigiani comunisti slavi ed italiani nel maggio 44.

DON SANTE FONTANA - Parroco di Comano (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 16/1/45.

DON GIUSEPPE GABANA - Della diocesi di Brescia, ucciso il 3/3/44 da un partigiano comunista.

DON DOMENICO GIANNI - Cappellano militare in Jugoslavia, prelevato la sera del 21/4/45 dai comunisti e ucciso dopo tre giorni.

DON GIUSEPPE LORENZELLI - Priore di Corvarola di Bagnone (Pontremoli), ucciso dai partigiani il 27/2/45 dopo essere stato obbligato A SCAVARSI LA FOSSA.

DON FERNANDO MERLI - Missionario della Cattedrale di Foligno, ucciso il 21/2/44 presso Asissi, da comunisti slavi istigati da altri comunisti italiani.

DON ANGELO MERLINI - Parroco di Flamenga (Foligno), ucciso dagli stessi assassini il medesimo giorno, presso Foligno.
DON ARMANDO MESSURI - Cappellano delle suore della Sacra Famiglia in Marino, ferito a morte dai partigiani comunisti e deceduto il 18/6/44.
DON GIACOMO MORO - Cappellano militare in Jugoslavia, fucilato dai titini a Micca di Montenegro.
DON ADOLFO NANNINI - Parroco Cercina (FI), ucciso il 30/5/44 da partigiani comunisti.
PADRE SIMONE NARDIN - Dei benedettini olivetani, tenente cappellano dell'ospedale militare Belvedere in Abbazia di Fiume, prelevato da partigiani slavi nell'aprile 45 e trucidato dopo orrende sevizie.
DON LUIGI OBID - Economo di Podsabotino e San Mauro (GO), prelevato dai partigiani ed ucciso a San Mauro il 15/1/45.
DON POMBEO PERAI - Parroco dei SS. Pietro e Paolo di città della Pieve, ucciso per rappresaglia partigiana il 16/6/44.
DON VITTORIO PERKAN - Parroco di Elsane (Fiume), ucciso il 9/5/45 dai partigiani mentre celebrava un funerale.
DON ALADINO PETRI - Parroco di Pievano di Caprona (PI), ucciso il 2/6/44 perché ritenuto filo fascista.
DON NAZZARENO PETTINELLI - Parroco di S. Lucia di Ostra di Senigallia, fucilato per rappresaglia partigiana il 1/7/44.
DON UMBERTO PESSINA - Parroco di S. Martino di Correggio, ucciso il 18/6/46 da partigiani comunisti.
SEMINARISTA GIUSEPPE PIERAMI - Studente di teologia della diocesi di Apuania, ucciso il 2/11/44 sulla linea Gotiga da partigiani comunisti.
DON LADISALO PISACANE - Vicario di Circhina (GO), ucciso da partigiani slavi il 5/2/45 insieme AD ALTRE 12 PERSONE.
DON ANTONIO PISK - Curato di Canale d'Isonzo (GO), prelevato dai partigiani slavi il 28/10/44 e fatto sparire per sempre.
DON NICOLA POLIDORI - Della diocesi di Nocera e Gualdo, fucilato il 9/6/44 da partigiani comunisti a Sefro.
DON GIUSEPPE ROCCO - Parroco di S. Maria, diocesi di S. Sepolcro, ucciso dagli slavi il 4/5/45.
PADRE ANGELICO ROMITI - Cappellano degli AU della Scuola di Fontanellato, decorato al V.M., ucciso la sera del 7/5/45 da partigiani comunisti
DON ALESSANDRO SANGUANINI - Della congregazione della Misisone, fucilato a Ranziano (GO) il 12/10/44 da partigiani slavi, a causa dei suoi sentimenti di italianità.
DON LODOVICO SLUGA - Vicario di Circhina (GO), ucciso insieme al confratello DON PISACANE
DON EMILIO SPINELLI - Parroco di Campogialli (AR), fucilato il 6/5/44 dai partigiani con l'accusa di filo fascismo.
DON ANGELO TATICCHI - Parroco di Villa di Rovigno (Pola), ucciso dai partigiani slavi nell'ottobre 1934, perchè aiutava gli italiani.
DON ALBERTO TERILLI - Arciprete di Esperia (FR), morto in seguito ALLE SEVIZIE INFLITTEGLI DAI MAROCCHINI, ECCITATI DAI PARTIGIANI ITALIANI, nel maggio 1944.
MONS. EUGENIO CORRADINO TORRICELLA - Della diocesi di Bergamo, ucciso il 7/1/44 ad Agen (Francia) da partigiani comunisti, a causa dei suoi sentimenti di italianità.
DON REDOLFO TRCEK - Diacono della diocesi di Gorizia, ucciso il 1/9/44 a Montenero d'Idria da partigiani comunisti.
DON GILDO VIAN - Parroco di bastia (PG), ucciso dai partigiani comunisti il 14/7/44.
DON SEBASTIANO CAVIGLIA, parroco della GNR ucciso ad Asti il 27/4/45;
DON GIUSEPPE AMATEIS, parroco di Coassolo (TO), ucciso dai comunisti A COLPI D'ASCIA il 15/3/44 per avere deplorato gli eccessi partigiani;
DON EDMONDO DE AMICIS, cappellano pluri decorato della I G.M., assassinato a Torino dai gappisti il 24/4/45;
DON VIRGINIO ICARDI, parroco di Squaneto (Acqui Terme - AL), ucciso dai comunisti il 4/7/44;
DON ATTIILIO PAVESE, CAPPELLANO PARTIGIANO e parroco di Alpe Gorreto (Tortona - AL), ucciso dai suoi stessi compagni il 6/12/44 perché aveva OSATO CONFORTARE RELIGIOSAMENTE DEI TEDESCHI CONDANNATI A MORTE;
DON FRANCESCO PELLIZZARI, parroco di Tagliolo (Acqui Terme - AL), chiamato dai partigiani la notte del 10/5/45 e sparito nel nulla;
DON ENRICO PERCIVALLE, parroco di Varriana (Tortona - AL), ucciso a pugnalate dai partigiani il 14/2/44;
DON LEANDRO SANGIORGI, cappellano militare decorato al valore, ucciso dai partigiani a Sordevolo Biellese (BI) il 30/4/45;
DON LUIGI SOLARO di Torino, ucciso il 4/4/45 solo perché PARENTE DEL FEDERALE DI TORINO, anche lui trucidato dai partigiani a guerra finita;
PADRE EUGENIO SQUIZZATO, cappellano PARTIGIANO, ucciso dai suoi il 16/4/44 fra Corio e Lanzo (TO), poiché voleva abbandonare la formazione, TURBATO DALLE TROPPE CRUDELTA';
DON ANTONIO ZOLI, parroco di Morra del Villar (CN), ucciso dai partigiani perché, durante la predica del Corpus Domini del 1944, aveva DEPLORATO L'ODIO FRA FRATELLI.
DON STANISLAO BARTHUS della congregazione di Cristo Re (Imperia), ucciso il 17/8/44 dai partigiani perché aveva, durante una predica, DEPLORATO GLI ECCESSI PARTIGIANI;
DON COLOMBO FASCE, Parroco di Cesino (GE), ucciso nel maggio 1945 da partigiani comunisti;
DON ANDREA TESTA, Parroco di Diano Borrello (SV), ucciso il 16 luglio 1944
E MOLTI ALTRI ANCORA...

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:37
LE SANGUINOSE IMPRESE DELLA VOLANTE ROSSA
1948 Quello che la scuola di Berlinguer eviterà di ricordare
Paolo Pisanò


Il ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, si appresta ad assegnare agli Istituti storici della Resistenza la tenuta dei corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole medie (corsi indispensabili per ottenere gli avanzamenti di carriera). Come dire: la storia italiana contemporanea in appalto istituzionale alla fazione.
E il pericolo di cadere dalla padella della "non storia" insegnata nell'ultimo mezzo secolo di reticenze e di menzogne alla brace della "storia di regime" sfacciatamente affidata agli Istituti suddetti, non riguarda solo il periodo catastrofico della guerra civile, con le sue foibe, le sue stragi compiute per innescare e alimentare la spirale del sangue, le sue doppiezze, le sue efferatezze, le sue fosse comuni , i suoi manicheismi e i suoi misteri mai spiegati agli italiani, ma anche il "dopo", ossia la seconda metà degli Anni Quaranta quando il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti ma anche di Pietro Secchia (l'uomo che voleva la lotta armata) perseguiva la politica del doppio binario, democratica e legalitaria nella facciata ma eversiva e rivoluzionaria nell'anima (e nei fatti). Pochi sanno infatti che vent'anni prima dell'apparizione sulla scena politica italiana della "strategia della tensione" e deIle "stragi di Stato", anche il Pci si era abbondantemente servito della tecnica della provocazione usando un apparato terroristico-militare che era la filiazione diretta di quello gappista "garibaldino" impiegato nella guerra civile fino al 25 aprile 1945.
Cade proprio quest'anno, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario della sconfitta elettorale del Fronte Popolare (18 aprile 1948) e del successivo attentato a Togliatti (14 luglio 1948) il cinquantenario della caduta in disgrazia di una delle formazioni terroristiche comuniste più tristemente note di quel periodo iniziale di prima Repubblica: la "Volante Rossa" di Milano. Acquartierata nei locali della ex Casa del Fascio di Lambrate in via Conte Rosso 12, trasformata ovviamente in Casa del Popolo dopo il 25 aprile, la Volante Rossa Martiri Partigiani era formata per lo più da giovani di estrazione proletaria decisi a chiudere i conti della rivoluzione comunista aperti con la guerra civile e tali rimasti dopo il 25 aprile, in attesa che il Partito ordinasse la "seconda ondata" nella quale ciascuno di costoro credeva ciecamente. Comandata dal "tenente Alvaro" (al secolo Giulio Paggio, di professione guardia giurata all'Innocenti di Lambrate) la Volante Rossa mascherò così per quattro anni (1945-1949), dietro il paravento di un innocuo circolo ricreativo-culturale che si sosteneva ufficialmente eseguendo trasporti conto terzi (di giorno), una serie spaventosa di violenze, che insanguinarono Milano e dintorni, spezzando le vite di giovani e vecchi, uomini e donne colpevoli solo di essere stati segnalati come fascisti irriducibili (ex militari, giornalisti, possidenti) sopravvissuti al massacro della primavera 1945. Vittime della Volante Rossa, o di delitti di folla consumati sotto la sua regia, furono tra gli altri l'ex generale della Milizia Ferruccio Gatti; il giornalista Franco De Agazio direttore del Meridiano d'Italia assassinato la sera del 14 marzo 1947 sulla porta di casa in via Strambio, e il possidente Giorgio Magenes, aggredito nella sua fattoria di Mediglia (Milano) e linciato dopo che si era difeso uccidendo un assalitore.
Anche se la verità ufficiale vuole la Volante Rossa come una scheggia impazzita della guerra civile e gli onorevoli D'Alema e Berlinguer inorridirebbero alla sola idea di riconoscerle uno spazio nell'"album di famiglia", i suoi legami con la federazione milanese del PCI furono tali da permettere di scoprire, più avanti, che il Partito comunista non si era limitato a ispirarla ma se ne era addirittura servito per organizzare dei falsi attentati nell'ambito della sua strategia della tensione ante litteram.

I FALSI "BRIGANTI NERI"
La provocazione comunista prevedeva, di massima, due tipi di applicazione: l'attentato organizzato da elementi del PCI e quello organizzato dal PCI ma eseguito da elementi etichettabili come appartenenti a organizzazioni avversarie. Gli anni che seguirono la fine della guerra furono pieni di episodi del genere. Per quanto riguarda gli attentati organizzati dal PCI a Milano vale la pena di ricordare che il Partito comunista, attraverso i suoi agenti travasati direttamente dalle brigate Garibaldi negli organici della Questura, riuscì perfino, verso la fine del 1945, a creare dal nulla un fantomatico pericolo di "restaurazione fascista". Con l'appoggio del tenente Corti, un ex partigiano diventato ufficiale di Pubblica Sicurezza, i dirigenti comunisti di allora (Giuseppe Alberganti, Pietro Vergani, Piero Montagnani, Giancarlo Pajetta), fecero credere che i fascisti stavano preparando sabotaggi e tentativi insurrezionali. Per dimostrare che tutto ciò costituiva un pericolo per la rinata democrazia, l'apparato comunista organizzò delle azioni terroristiche che poi vennero imputate ai "briganti neri risorgenti", tanto per usare il linguaggio dell'epoca. Ma i capi comunisti si rivelarono ancora più abili nell'orchestrare una serie di azioni la cui esecuzione doveva essere affidata a elementi facilmente identificabili come appartenenti alle file neofasciste.
La tecnica della provocazione, in questi casi, consisteva, prima di tutto, nell'infiltrare negli ambienti avversari gli agenti comunisti. Costoro, manifestando feroci sentimenti antimarxisti, riuscivano a conquistare la fiducia degli elementi più sbandati, inquieti ed estremisti e potevano così individuare i personaggi più facilmente agganciabili, sul piano psichico e politico, all'azione terroristica. A questo punto si mostravano loro armi, esplosivi e li si convinceva che l'organizzazione disponeva di mezzi potenti e tali da garantire l'impunità. Con questo sistema i comunisti giunsero a costituire squadre di attentatori pronti a agire nell'assoluta convinzione di fare parte di formazioni "anticomuniste" agli ordini di "centri occulti", politicamente influenti, italiani o esteri.
Una volta eseguiti gli ordini, però, questi giovani si videro denunciati alla polizia: e solo allora compresero di essere stati le pedine del gioco comunista. Questa durissima esperienza toccò nell'immediato dopoguerra a più di un giovane dell'area neofascista: ricordiamo per tutti Ferruccio Mortari, Domenico Nodari e Andrea Esposito che, a Milano tra il 1946 e il 1947, vennero agganciati dagli agenti provocatori marxisti, usati per atti di provocazione e poi consegnati nelle mani della giustizia.

MILANO SCONVOLTA
Ed ecco la storia di nove "attentati neofascisti" organizzati dal PCI tra l'estate del 1945 e la fine del 1947.
Primo attentato. Il 4 settembre 1945 un congegno incendiario a orologeria esplose nei locali del palazzo dell'Arengario, in piazza Diaz, dove era stata allestita la Mostra della Ricostruzione organizzata dal Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia. L'esplosione venne subito attribuita ai neofascisti e la stampa socialcomunista ne prese lo spunto per sostenere che i seguaci di Mussolini stavano organizzandosi e che, di conseguenza, la magistratura doveva colpire duramente quei fascisti in attesa di essere giudicati dalle Corti d'Assise straordinarie. Vi furono manifestazioni di piazza e comizi. In realtà l'attentato venne organizzato e compiuto da partigiani comunisti già appartenenti alla disciolta 110° brigata Garibaldi. Motivo dell'attentato: la Corte d'Assise straordinaria di Milano aveva condannato a soli 20 anni di carcere Carlo Emanuele Basile, già prefetto di Genova della Rsi.
Secondo attentato. Alle ore 18 del 17 maggio 1946 una bomba esplose negli uffici comunali di Via Larga. L'ordigno era stato sistemato nella toilette accanto alle stanze che ospitavano gli uffici elettorali in vista dell'ormai prossimo referendum del 2 giugno. La deflagrazione provocò il ferimento del telefonista Mauro Tarantini. Subito dopo il Pci scatenò una serie di violente dimostrazioni contro il "fascismo risorgente" che "voleva ostacolare la libera espressione della volontà popolare". L'attentato venne invece eseguito dai componenti di una squadra di sicurezza alle dirette dipendenze del compagno Fabio, al secolo Pietro Vergani, poi deputato del Pci.
La squadra era agli ordini di un certo F. P., che in seguito, però, si staccò dal partito. Motivo dell'attentato: le elezioni amministrative tenute nei primi mesi del 1946 avevano rivelato che il Pci, considerato il partito più forte durante le giornate dell'aprile 1945, non disponeva di un'eccezionale forza elettorale. I capi del Pci avevano quindi ritenuto opportuno galvanizzare l'opinione pubblica contro un inesistente pericolo fascista allo scopo di figurare poi come i "difensori della democrazia".
Terzo attentato. Anche questo venne determinato dagli stessi motivi e fu eseguito dai medesimi elementi. Obiettivo prescelto, in questa occasione, fu la sede del Pci di Sesto San Giovanni, ex villa Zorn. L'azione venne compiuta la notte del 26 maggio con il lancio di una bomba a mano tipo Breda. Non ci furono vittime.
Quarto attentato. La notte tra l'1 e il 2 giugno, vale a dire poche ore prima dell'inizio delle votazioni per il referendum, due bombe a mano di tipo tedesco vennero lanciate contro la tipografia Same, in piazza Cavour, dove di stampava l'Unità. La duplice esplosione provocò il ferimento di cinque operai. Motivo e autori: come nei due casi precedenti.
1948 Quello che la scuola di Berlinguer eviterà di ricordare La Volante Rossa tradita dai compagni Gli ultimi attentati dei terroristi comunisti a Milano e la loro misera fine mentre i capi vengono spediti oltre cortina Paolo Pisanò
La scorsa settimana abbiamo pubblicato la prima parte della rievocazione dei crimini compiuti dalla Volante Rossa, la famigerata formazione terroristica usata dai comunisti nell'immediato dopoguerra. La Volante aveva sede a Milano nella ex Casa del fascio di Lambrate trasformata, dopo la Liberazione, in Casa del popolo. Dietro l'apparenza di un innocuo circolo ricreativo e culturale, celava un'attività clandestina tesa a colpire con crescente violenza chiunque si opponesse ai disegni del Partito di Togliatti. Al comando del partigiano "Tenente Alvaro" al secolo Giulio Paggio, guardia giurata all'Innocenti durante il giorno e capobanda di notte. Dopo aver ricostruito i primi quattro attentati, organizzati tra la primavera '45 e il giugno '46, proseguiamo il racconto delle altre imprese sino alla fine della sanguinosa parabola.
Quinto attentato. La sera del 23 agosto 1946, alle ore 22,20, una bomba a orologeria scoppiò proprio all'interno della Casa del Popolo di Lambrate, in via Conte Rosso, alla periferia di Milano, dove aveva la sua base operativa la Volante Rossa. In quello stesso istante un gruppo di uomini armati di mitra attaccò l'edificio. I partigiani che presidiavano la Casa del Popolo risposero prontamente alle raffiche. Lo scontro a fuoco fu breve e violento. Uno degli attaccanti cadde ucciso. Un secondo venne catturato dagli uomini di "Alvaro". La polizia, subito chiamata dai comunisti, scoprì che sia il caduto sia il prigioniero erano noti per i loro sentimenti fascisti. Il morto si chiamava Euro Zazzi, il prigioniero Alfredo Portinari. Ambedue dimoravano a Gorla, presso Milano.

SCATTA LA TRAPPOLA
L'episodio venne sfruttato dal Pci con uno spiegamento di mezzi pubblicitari mai visto prima. Si urlò dovunque che i fascisti stavano rialzando al testa al punto da osare attacchi aperti contro le sedi comuniste. Si pretese che le autorità intervenissero decisamente contro la "belva risorgente". Ma nessuno, allora, riuscì a scoprire l'incredibile verità che si nascondeva dietro quell'attacco: l'attentato alla Casa del Popolo di Lambrate era stato infatti organizzato, per ordine del Pci, dalla Volante Rossa che aveva sede appunto in quell'edificio. Ideatore e stratega di tutta l'operazione fu Giulio Paggio, detto Tenente Alvaro, capo dell'organizzazione terroristica, che venne poi condannato all'ergastolo in contumacia per la lunga serie di delitti compiuti da lui e dai suoi uomini in quel periodo.
Il Tenente Alvaro incaricò dapprima un suo partigiano, che aveva militato durante la Rsi nelle Brigate Nere, di agganciare qualche estremista fascista proponendogli di partecipare a un'azione di tipo squadrista. Il Zazzi e il Portinari caddero nel tranello. Senza afferrare la realtà della situazione, accettarono di formare una squadra di terroristi con altri tre camerati: uno di questi era l'ex brigatista nero che li aveva arruolati. Gli altri due, che si spacciavano per ex marinai della X Mas erano, in realtà, due comunisti della Volante Rossa.
La sera del 23 agosto i cinque attentatori si avvicinarono alla Casa del Popolo protetti dalle tenebre. Ma, nell'edificio, il Tenente Alvaro era già in attesa con i suoi uomini. Il segnale dell'attacco venne dato dall'esplosione di una bomba che Alvaro, d'accordo con i suoi amici che dovevano fingersi attaccanti, aveva sistemato in una stanza al pianterreno. Dopo lo scoppio, infatti, incominciò la sparatoria. Euro Zazzi cadde ucciso quasi immediatamente, colpito di fianco da una raffica esplosa da uno dei due falsi marinai della Decima. Il Portinari, a sua volta, non fece nemmeno in tempo a capire che cosa stesse accadendo, che si trovò scaraventato nell'interno della Casa del Popolo tra le braccia dei difensori.
L'esito di questa perfetta messa in scena fu pari all'aspettativa: la polizia, infatti, si trovò di fronte al cadavere di un fascista e a un prigioniero che ammise subito di essere fascista pure lui. Che altro occorreva per scatenare una campagna di stampa e sostenere che i fascisti stavano rialzando la testa? Un morto e un prigioniero erano più che sufficienti per suffragare drammaticamente la tesi comunista. Il Portinari, operaio alla Pirelli, venne condannato a una dura pena detentiva.
Ed ecco il motivo di questa azione così bene organizzata. In quei giorni il servizio di sicurezza del Pci aveva saputo che i fascisti si stavano effettivamente riorganizzando e cercavano di dare vita a un nuovo partito che si sarebbe chiamato Movimento sociale italiano. La notizia aveva creato un certo panico nelle file comuniste. Si diceva infatti che il nuovo partito si sarebbe valso di ingenti fondi occultati in tempo utile da Mussolini e si sarebbe appoggiato a una potente organizzazione paramilitare creata poco prima dell'aprile 1945 dal Partito fascista repubblicano. Fu così che i capi del Pci diedero incarico alla Volante Rossa di creare le premesse necessarie a una violenta campagna antifascista e ottenere così, dal governo, il "non riconoscimento" legale della nuova formazione politica.
Sesto attentato. Il 9 ottobre 1946 una violenta esplosione devastò i sotterranei della Casa del Popolo di Porta Genova uccidendo il piccolo Franco Fiammeni di 5 anni, figlio del custode dello stabile. Immediatamente l'apparato comunista sì scatenò in una martellante campagna antifascista accusando dell'infame delitto i "rigurgiti di fogna delle Brigate Nere". Tutta Milano venne mobilitata. Ai funerali del piccolo Franco, che si snodarono per le vie principali della città, partecipò tutta la cittadinanza. Anche la stampa borghese si unì al coro delle esecrazioni.

IL BAMBINO DILANIATO
Le indagini, però, non approdarono a nulla. Dai "neofascisti" arrestati non si seppe niente di positivo. Un giorno dopo l'altro il clamore si placò e del piccolo Franco Fiammeni nessuno parlò più. Ma anche la verità su questo tragico episodio mette a nudo una speculazione politica. Franco Fiammeni, infatti, non fu vittima di un attentato anticomunista, ma della criminale incoscienza di alcuni ex partigiani della 117a Brigata Garibaldi.
Ecco l'esatta ricostruzione dei fatti. Nei mesi che seguirono la fine della guerra, i partigiani comunisti trasformarono quasi tutte le sedi del Pci in depositi di armi e munizioni. Anche il sotterraneo della Casa del Popolo di Porta Genova divenne un'armeria. Ogni tanto qualche partigiano scendeva nell'ampio scantinato e lubrificava mitra e moschetti. Un giorno, però, gli addetti alla manutenzione, uscendo dall'armeria, si dimenticarono di chiudere la porta della cantina.
Fu così che il piccolo Franco, il quale poteva muoversi a piacimento nell'edificio, finì col trovarsi davanti a quella porta che non aveva mai potuto varcare. La curiosità lo vinse. Penetrò nello scantinato e si trovò in mezzo ad armi di ogni genere. Si mise a giocare con una mina anticarro Breda, ma il gioco finì tragicamente. La mina esplose e Franco restò dilaniato. La tragedia poté essere ricostruita esattamente perché l'esplosione della mina restò isolata: le cassette di munizioni e le bombe a mano accatastate nel sotterraneo, infatti, non scoppiarono a loro volta.
I danni, comunque, furono ingenti e la deflagrazione venne udita in tutto il popoloso quartiere di Porta Genova. Il tragico episodio venne immediatamente a conoscenza dei capi del Pci. Che fare? Ammettere la verità significava confessare che lo scantinato della Casa del Popolo era, in realtà, una specie di polveriera. Si rendeva quindi necessario imbastire al più presto una storia che potesse risultare attendibile e, nello stesso tempo, fare ricadere la responsabilità della morte del piccolo Franco sulle spalle di qualcuno. Allora, su due piedi, venne inventato il "nefando e criminale attentato neofascista".
Settimo attentato. La notte del 25 settembre 1947, alle ore 1 e 15, la zona dei bastioni di Porta Volta venne squarciata dall'esplosione di una carica di tritolo posta presso il basamento di uno dei pilastri d'ingresso della Federazione comunista in piazza 25 Aprile. I danni furono limitati ma, come al solito, il Pci ne approfittò per un'ennesima campagna antifascista. Le indagini vennero rivolte, naturalmente, in senso unico, vale a dire che vennero setacciati gli ambienti giovanili nazionali. I risultati, questa volta, parvero positivi. La polizia fermò alcuni giovani i quali ammisero di avere fatto parte di gruppetti che si erano prefissi di compiere attività terroristica. Tra questi, però, non emersero i nomi dei veri responsabili. Mentre le indagini continuavano, a distanza di 39 giorni dall'esplosione in piazza 25 Aprile, se ne verificò un'altra nella sede della Casa del Popolo di via Andrea Del Sarto. Da quel momento, come ora racconteremo, gli avvenimenti presero una piega del tutto particolare.
Ottavo attentato. Alle ore 1 del 4 novembre 1947, una carica di tritolo, collocata nel vano di una finestra al pianterreno della Casa del Popolo in via Andrea Del Sarto, esplose con grande fragore provocando però danni molto limitati. Pochi giorni più tardi la polizia, in seguito a una segnalazione anonima, riuscì ad arrestare tre giovani, due uomini e una donna appartenenti a formazioni nazionali: gli indiziati ammisero di essere stati gli autori non solo dell'attentato in via Andrea Del Sarto, ma anche di quello contro la Federazione comunista. Nel processo che ne seguì, i giovani furono condannati a dure pene detentive. Attorno a tutta la vicenda, però, continuò sempre a gravare una pesante coltre di mistero. Tra l'altro, due mesi dopo l'attentato di via Andrea Del Sarto, il padre di Ferruccio Mortari, uno degli arrestati, venne assassinato misteriosamente.
Solo in seguito fu possibile dare l'esatta versione dei tragici episodi e rivelare la manovra condotta dai comunisti allo scopo di spingere dei giovani neofascisti a compiere imprese che facevano comodo al Pci. Le due azioni terroristiche, infatti, vennero decise dai dirigenti comunisti. Motivo: nel maggio del 1947 il Pci era stato eliminato dal governo e le masse comuniste, secondo Togliatti, non avevano reagito con sufficiente fermezza. Tre mesi più tardi, infatti, nel corso di una sua visita a Milano, il segretario del Pci aveva lanciato pesanti accuse contro i dirigenti comunisti della capitale lombarda accusandoli di cecità e di incapacità politica. In realtà il Pci, in quel periodo, stava attraversando un momento di stanca: le masse non reagivano o reagivano con molta pigrizia.

DOCUMENTI PERICOLOSI
L'accusa di Togliatti, comunque, spronò i capi militari del Pci a prendere delle iniziative e, secondo una tecnica ormai usuale, venne stabilito che per svegliare l'opinione pubblica era necessario vitalizzare le masse comuniste suscitando la loro indignazione. Un piano del genere prevedeva l'intervento di "tecnici" molto specializzati. Ancora una volta entrò così in scena la Volante Rossa già brillantemente collaudata con l'attacco alla Casa del Popolo di Lambrate. Il suo capo, il Tenente Alvaro, si mise al lavoro. Riuscì a infiltrare uno dei suoi, certo M. G., ex brigatista nero reduce per di più dal campo di concentramento di Coltano, nell'area neofascista. M. G. agganciò alcuni tra gli elementi più estremisti e li convinse ad agire. Cosa che avvenne, appunto, con un primo attacco contro la Federazione comunista la notte del 25 settembre.
Subito dopo, però, la vicenda cominciò a complicarsi. I piani comunisti, infatti, prevedevano più di una azione terroristica. Accadde invece che il G., al quale spettava il compito di coordinare l'attività degli attentatori reclutati fra i neofascisti, venisse arrestato dalla polizia nel corso di una retata assieme a una decina di altri giovani sui quali pesavano dei sospetti. I veri autori dell'attentato, però, restarono a piede libero e, fedeli agli impegni presi fra di loro sotto l'incitamento del G., attaccarono anche la Casa del Popolo di Via Andrea del Sarto.
A questo punto, però, la Federazione del Pci intervenne nel timore che i neofascisti, non più controllati dal "compagno pilota", cominciassero a fare sul serio: andò a finire che i componenti della squadra furono subito arrestati in seguito a una misteriosa delazione. Nel processo che ne seguì questa verità non venne a galla. I giovani attentatori vollero assumersi tutte le loro responsabilità e, forse, non seppero mai di essere stati delle pedine manovrate dall'apparato comunista di sicurezza. Un solo particolare di questa storia non è mai stato chiarito: i motivi che spinsero gli uomini della Volante Rossa ad assassinare il padre di Ferruccio Mortari, uno dei giovani attentatori, due mesi dopo l'arresto del figlio.
Nono attentato. Il 12 novembre 1947, alle ore 12,15, un'esplosione scosse nuovamente il palazzo che ospitava, in piazza 25 Aprile, la sede della Federazione comunista. La polizia, subito chiamata, appurò che una bomba, collocata sotto una panca di legno situata in un corridoio del primo piano, accanto all'Ufficio stralcio delle Brigate Garibaldi, affidato allora all'onorevole Cavallotti, aveva provocato un incendio. Le fiamme avevano distrutto tutti gli incartamenti riguardanti il movimento amministrativo delle brigate partigiane comuniste durante e dopo la guerra civile.
L'attentato, naturalmente, provocò indignate, grandi manifestazioni antifasciste. Masse di dimostranti, capeggiate dalla Volante Rossa, si diressero dalla sede del Pci verso il centro cittadino assalendo e devastando la redazione del Mattino d'Italia, quotidiano liberale, e le sedi de l'Uomo qualunque, del Movimento sociale italiano e del Mrp (Movimento di resistenza partigiana), un'organizzazione di ex partigiani dissidenti dal Pci.
Ma la verità, ancora una volta, non aveva niente a che fare con i motivi dell'indignazione popolare. Il "crimine fascista" era stato organizzato dal Pci per un motivo ben preciso. In quei giorni era in pieno svolgimento l'inchiesta sull'oro di Dongo affidata a un magistrato militare, il generale Zingales, del quale erano ben note l'intelligenza e l'intransigenza. Il generale Zingales, a un certo momento, aveva ordinato il sequestro di tutti gli incartamenti relativi all'amministrazione delle Brigate Garibaldi. Lo scopo era chiaro: da un'analisi delle somme entrate e uscite (specie di quelle uscite) sarebbe stato possibile accertare l'entità dei valori entrati in possesso dei capi comunisti. Il Pci, ovviamente, non aveva alcun interesse a consegnare gli incartamenti. Fu così che il solito tenente Alvaro, capo della Volante Rossa, venne incaricato di sistemare la faccenda. Fu un gioco da ragazzi. D'accordo con i dirigenti del Pci, Alvaro attese che gli uffici della Federazione chiudessero per l'intervallo di mezzogiorno, depose la bomba, la fece scoppiare, versò un po' di benzina sugli scaffali pieni della carta straccia con la quale erano stati sostituiti gli incartamenti compromettenti messi prima al sicuro, e se ne andò indisturbato. Se la polizia si fosse presa la briga di indagare un poco su tutta la faccenda non avrebbe tardato a capire che solo un comunista poteva avere eseguito l'attentato: era infatti impossibile che un estraneo all'ambiente dei dirigenti comunisti potesse raggiungere, in pieno giorno, i piani superiori della Federazione del Pci di Milano, presidiati in permanenza da guardie armate. Ma nel 1947 la polizia era composta, per lo più, di ex partigiani che fingevano di non vedere e non sentire.

LA FINE DELL'ILLUSIONE
Dieci anni dopo, quando si svolse a Padova il processo per i fatti di Dongo, l'onorevole Cavallotti, chiamato a deporre circa la sorte subita dai famosi incartamenti, si limitò a presentare un verbale della polizia dal quale risultava che i documenti erano andati distrutti in seguito alla criminale azione neofascista. La sua deposizione venne accolta da una fragorosa risata generale, ma intanto i documenti non vennero mai prodotti.
Non finì con una risata generale, invece, la parabola sanguinosa della Volante Rossa. Dopo la sconfitta elettorale delle sinistre alle elezioni del 18 aprile 1948 il Tenente Alvaro e i suoi uomini cominciarono a risultare scomodi. Soprattutto dopo l'attentato a Togliatti quando, nel pomeriggio del 14 luglio 1948, nel pesantissimo clima insurrezionale che era calato su tutta l'Italia del Centro-Nord, la Federazione milanese del Pci riuscì a fermare appena in tempo il tenente Alvaro e i suoi uomini subito usciti dalla sede di via Conte Rosso muniti anche di armi anticarro e decisi allo scontro rivoluzionario. Da quel momento, a poco a poco, allo stesso modo in cui erano stati illusi e usati spietatamente, altrettanto spietatamente Alvaro e i suoi vennero isolati e scaricati. Il raffreddamento del partito e quindi del brodo di coltura nel quale l'organizzazione nuotava, ebbe sulla Volante Rossa lo stesso effetto che alcuni decenni più tardi avrebbe avuto la presa di coscienza del progressivo "distacco delle masse" sui terroristi rossi degli anni di piombo: la spinse ad appoggiarsi alla criminalità comune, stabilendo con questa canali interattivi sempre meno politici e sempre più criminali.
Pochi mesi dopo, al culmine di questo processo degenerativo, il Pci chiuse il capitolo consegnando nelle mani della giustizia "borghese" i pesci piccoli. Fra questi, Eligio Trincheri, killer maldestro e autore degli ultimi omicidi, che rimase in galera fino al 1971 allorché fu graziato dal presidente Giuseppe Saragat. Gli altri vennero graziati da Sandro Pertini nel 1978. Il Pci riservò un trattamento di favore solo ai tre elementi di punta dell'organizzazione: Giulio Paggio, Paolo Finardi e Natale Buratto che poterono fuggire in Cecoslovacchia, al riparo della Cortina di Ferro, sia pure inseguiti da condanne all'ergastolo.
E là rimasero a meditare sul fatto che la rivoluzione tanto sognata era finita prima di cominciare ma che di ciò erano stati avvertiti solo quando non erano serviti più.


L'UOMO QUALUNQUE Numeri 6 e 7 del 19 e 26 Febbraio 1998

Der Wehrwolf
25-04-02, 18:39
Tutte le TESTIMONIANZE riportate sono tratte dal volume LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.



da LE RAGIONI DEI VINTI


TESTIMONIANZE
Nessuno di noi chiede vendetta: tutti noi chiediamo che la giustizia si manifesti attraverso la proclamazione delle verità storiche.
LEGENDA:
Alcuni testimoni hanno fatto nome e cognome dei responsabili dei fatti oggetto di questo studio. I nominativi sono stati sostituiti dal simbolo (* * ).

--------------------------------------------------------------------------------

TESTIMONIANZE di:

--------------------------------------------------------------------------------
Ing. Riccardo Barbieri Manodori


«Richiesto di fornire la mia testimonianza sul sacrificio di mio fratello Leopoldo Barbieri, ritengo doveroso premettere un pensiero riverente per tutti i Caduti reggiani dal 1943 al 1946, ricordati nel volume édito a cura della Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della R.S.I., del quale il volume scritto da Rossana Maseroli Bertolotti rappresenta un opportuno e coraggioso arricchimento storico e testimoniale.
Un pensiero particolare va a Francesco Cigarini, presidente reggiano dell’Associazione, che ci è mancato nell’ottobre del 1995, e di cui il 16 febbraio 1945 furono uccisi il padre, la madre, il fratello maggiore ed il fratello minore; unica superstite la vecchia nonna, pur gravemente ferita.
La mia premessa vuol significare come la memoria dei nostri Morti rappresenti la nostra ricchezza interiore, un’eredità che noi dobbiamo lasciare alle generazioni future, affinché all’Italia odierna succeda nel tempo un’Italia dei Valori, una vera Patria. Quella Patria per cui è caduto mio fratello Leopoldo, come sta scritto nel diploma di laurea honoris causa rilasciatogli alla memoria il 3 febbraio 1953 dall’Università di Firenze, unico documento di pacificazione a me noto che riconosce un valore anche al sacrificio dei nostri Caduti.
Leopoldo, il 9 ottobre 1943, apriva con me la Casa del Fascio di Novellara. Nonostante la giovane età fu eletto Segretario del Fascio di questo paese, a cui dedicò ogni attività, volta specialmente alla pacificazione degli animi. Ne è prova la lettera del febbraio ’44 inviata all’avvocato Franco Mariani, con la quale richiedeva a gran voce che si evitasse la proposta del comando tedesco di trasferire parte delle officine “Reggiane”, semidistrutte dai bombardamenti a tappeto del 7 e 8 gennaio, nelle officine “Slanzi”, ubicate nel centro di Novellara, all’ombra del Campanile, bersaglio facile per un bombardamento distruttivo. Anche un libro scritto da partigiani novellaresi cita la lettera. Non credo che il pericolo sia stato evitato solo grazie all’atteggiamento di mio fratello: sta comunque di fatto che la proposta non ebbe seguito.
Nell’ottobre del ’44 Leopoldo fu “giubilato”, perché era insorto contro la fuga a Soncino della Brigata Nera “Ferri” e perché mal sopportava l’organizzazione militare delle Brigate stesse che avrebbero dovuto avere l’unico scopo di armare i fascisti isolati, facile bersaglio delle imboscate partigiane. Ricevette tuttavia il delicato incarico da parte del Capo della Provincia di svolgere un’indagine sulle possibilità di un accordo che evitasse un bagno di sangue alla fine della guerra. L’indagine ebbe risultato del tutto negativo, come si poté verificare all’atto della strage scientificamente preparata e realizzata con gelida determinazione e ferocia.
Nonostante dunque la consapevolezza del futuro che lo attendeva, il 20 aprile ’45 Leopoldo rispose al mio invito di unirsi a noi, armati ed organizzati, nel ripiegamento, con un netto diniego: “Resterò con i miei di Novellara: non voglio che mi si dia del vigliacco”.
Il 22 aprile venne catturato dopo una giornata trascorsa quasi normalmente. Mi scrisse il funzionario del Municipio Gaddi: “La mattina della domenica, quando già si sentiva lontano il rombo dei carri armati, Leopoldo, all’apertura della biblioteca municipale, mi restituì due volumi dei discorsi di Mussolini, poi si allontanò”. Verso mezzogiorno, quando i tedeschi avevano già abbandonato Novellara, alla signora Luppi che lo consigliava di andarsene, come già aveva fatto suo marito, oppose un secco rifiuto: “Non ho nulla da temere: rimango”.
La sera venne catturato; non so ancora se da angloamericani o da partigiani e poi rinchiuso nei locali della Rocca. Nel pomeriggio del 23 aprile, poiché protestava la sua coscienza di aver agito per la pacificazione degli animi, sostenendo che la gente gli voleva bene, fu gettato alla mercé dei partigiani dal comandante della piazza, colonnello Soragni. Il comandante partigiano Crotti mi ha personalmente dichiarato, come già aveva fatto nell’intervista rilasciata a Massimo Storchi dell’Istituto Storico della Resistenza, che la sua determinazione di abbandonare ogni incarico politico e militare maturò proprio assistendo agli insulti, alle percosse ed alle violenze subite da Leopoldo in quel pomeriggio. La signora Antea Lombardini Bonazzi mi scrisse di averlo visto, unico in piedi, sul camion che lo portava verso il suo destino. Così si esprimeva poi don Sante Pignagnoli, prete partigiano: “Guardate quel ragazzo, è come Cristo sulla strada del Calvario”.
La notte del 24 aprile fu portato a Fabbrico, alla villa Guidotti, sede del comando partigiano, a disposizione del comandante Silvio Terzi, che lo conosceva, essendogli stato a fianco come Commissario Prefettizio del Comune di Fabbrico (Il Terzi passò poi nelle file partigiane).
Alla signora Guidotti che gli aveva portato il Vangelo, Leopoldo disse: “Hanno ucciso Gesù: crucifige. Tre giorni fa eravamo in auge, ora ci massacrano… Si ripete la storia!”.
E’ evidente che Silvio Terzi, nel nome della passata collaborazione ed amicizia, aveva intenzione di salvarlo. Infatti raccomandò al partigiano Livio Vezzani, che me lo ha riferito, di non lasciarlo avvicinare da nessuno. Purtroppo Terzi dovette allontanarsi, perché chiamato a Reggio per fronteggiare i franchi tiratori. Leopoldo rimase prigioniero qualche giorno. Probabilmente nella notte dal 27 al 28 aprile alcuni partigiani di Novellara, approfittando dell’assenza del Terzi, lo prelevarono contro la volontà del partigiano Dante Sabatini, addetto alla sua custodia. Il Sabatini, sotto la minaccia di una pistola, dovette cedere. Leopoldo fu caricato su un camioncino 103 FIAT.
Sul luogo dell’uccisione e quello del seppellimento una ridda di voci e supposizioni. Vane le ricerche effettuate, vani i numerosi esposti alla Questura, vano l’interessamento del Vescovo di Guastalla e del capitano Vesce.
Chi sapeva taceva, chi sa ancora tace, o per omertà, o per paura, o per colpevolezza.
Unico, chiuso nel suo dolore, il nonno Bernardo non lasciò nulla di intentato, facendosi accompagnare sui luoghi di ritrovamento dei cadaveri con un’auto pubblica su cui faceva issare una bara, e portando sempre con sé un campione del vestito indossato di Leopoldo. Con l’aiuto del bisturi, avvalendosi della sua esperienza di chirurgo, cercava di riconoscere i resti ostacolato, in quest’opera pietosa, dagli insulti della masnada, a stento trattenuta da due carabinieri.
Ogni volta la bara tornò vuota.
Leopoldo aveva a suo tempo scelto il nome da dare alla piazza del suo amato paese, Novellara: piazza Unità d’Italia.»

--------------------------------------------------------------------------------

Dott. Eolo Biagini, classe 1933. Già Sindaco di Carpineti


«Nel 1944-45 ero un bambino, ma qualche ricordo l'ho anche io. Una mattina ero andato a servire messa, come sempre, nella chiesetta di Onfiano, mio paese natale. Stavo tornando a casa, quando, in località Signorana ho sentito uno sparo; corso a vedere cosa succedeva, ho visto una scena che è rimasta ben incisa nella mia memoria sensibile di bambino: un uomo riverso a terra, in un lago di sangue; si trattava di una persona ben conosciuta; certo Claudio Caroli, gestore di un piccolo negozio di alimentari. La moglie, Diva Lamberti, gli teneva la testa e gridava disperata. Dal piccolo borgo - un pugno di povere case - accorreva, intanto, gente; vicino al corpo insanguinato due partigiani. Uno del paese mi ha gridato di andare di corsa a chiamare il prete, don Geminiano Piagni, il quale è arrivato poco dopo per dare al morente l'estrema unzione. Dopo di che mi ha trascinato via, accortosi probabilmente del mio stato di choc. L'ucciso, credo, aveva aderito alla R.S.I. iscrivendosi alla Guardia Nazionale Repubblicana; di fatto, era sempre nella sua piccola bottega, affacciata sul polveroso viottolo (non ancora asfaltato) che portava al paesino. La versione ufficiale data dai partigiani è stata questa: mentre passava di lì (per puro caso) ad un patriota è caduto il fucile; cadendo, è partito, accidentalmente, un colpo, che ha raggiunto in pieno il Caroli uccidendolo; la vox populi, invece, dava un'altra versione. Il fucile sarebbe davvero caduto al patriota, ma da dietro la siepe il secondo avrebbe sparato al Caroli. Certo non è stato, in ogni caso, un atto di grande coraggio... vista la situazione! Il Caroli è stato poi sepolto nel piccolo cimitero di Onfiano, dove una lapide, curiosa , porta scritto:
"Claudio Caroli, morto non volendo
per una disgrazia
di un fucile caduto a un partigiano"
L'italiano sconnesso e scorretto non riesce a nascondere quello che appare tra le righe: non si poteva alludere, non si poteva dire la verità; solo dietro ad uno strafalcione, l'attento occhio del popolo avrebbe potuto capire il doppio senso... e la verità!
Per anni, anche dopo la fine della guerra, qui da noi - e non solo - la gente ha dovuto fare finta di non sapere, di non vedere, di non capire... La posta in gioco non era la sola tranquillità. I montanari sono per loro natura arguti, attenti e furbi. Hanno capito alla svelta che per salvare la pelle - ma troppo spesso non ci sono riusciti - bisognava essere sordi, ciechi e muti. E' stato subito chiaro che ad una dittatura se ne voleva sostituire un'altra... per fortuna, le elezioni del 1948 hanno impedito che alla ventennale tragedia del fascismo subentrasse la possibile tragedia del comunismo.»

--------------------------------------------------------------------------------

Beatrice Bozza


«Ho conosciuto mio marito, Ettore Pelli, nel 1943; io ero una ragazzina, appena sedicenne, e mi sono innamorata subito di lui: un bel ragazzo, allegro, spiritoso, intelligente. Capelli lunghi (per allora), modo di fare coinvolgente, Ettore faceva di professione il giornalista: dico meglio, era caricaturista in un giornale. In un primo tempo nella "Tradotta", poi, dall'8 settembre 1943 al "Bismantova". La sua famiglia era di sinistra: pensi che suo padre, pur essendo disoccupato, non aveva voluto prendere la tessera del fascio; Ettore non era un fascista tutto d'un pezzo; come tanti, per mangiare e per il quieto vivere ad un certo punto ha dovuto scegliere una via politica; e dopo l'8 settembre 1943 ha, suo malgrado, scelto. Le spiego il perché: era uscito, in quei giorni, un bando tedesco di arruolamento: mio marito non si era presentato. I tedeschi, allora, l'hanno arrestato, tosato a zero e minacciato di mandarlo in Germania. A questo punto Ettore si è iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana. Ricordo che indossava una camicia verde e lavorava, con la qualifica di sergente, al Comando situato nell'attuale istituto "Filippo Re", in via Leopoldo Nobili. Era alle dipendenze del dottor Rapaggi e si recava al Comando quando era libero dal giornale; continuava infatti ad esercitare la sua professione di caricaturista. Spesso lo andavo a prendere all'uscita del lavoro: andavamo insieme verso casa, e ricordo il mio giovanile orgoglio di passeggiare con un ragazzo così bello: un gagà, dicevano le mie amiche, alludendo alla sua fortuna con le donne, ma io non ci badavo; ero innamorata, eravamo innamorati, e questo ci bastava.
Il 1944 è passato tranquillo; eravamo insieme ogni sera, e a me non sembrava neanche che ci fosse le guerra. Ettore, ripeto, faceva parte della G.N.R., e non di squadre di picchiatori e di rastrellatori. Col suo carattere, con la sua "verve", era lontano un anno luce dal poter essere un militare vero; come suo fratello Cesare, anch'egli assunto nello stesso corpo militare, bravo tenore; quella del canto era la sua vera grande passione. Ettore e Cesare erano gli unici figli della famiglia Pelli. Mio marito a causa della sua professione, era a conoscenza di molte notizie "ufficiose": so di sicuro che più volte ha avvisato dei suoi amici partigiani in occasione di imminenti rastrellamenti; so che ha collaborato con loro più e più volte: e questo perché non era quel fascista "caldo" che poi la memoria storica reggiana ha tramandato. Non portava armi. Nel gennaio 1945 ci siamo sposati e siamo andati ad abitare in via Poli al numero 1, in casa di una zia. Eravamo felici e, lo ripeto, ogni sera Ettore dormiva con me: mai, dico mai, ha passato una notte fuori casa. Il giorno della Liberazione, il 25 aprile, verso le 10 di mattino siamo usciti per andare in centro; arrivati in via L. Ariosto abbiamo incontrato un gruppetto di partigiani: dal gruppo si è staccato un giovane alto, della cui identità sono a conoscenza, che ha cominciato ad inveire contro mio marito; dalle parole presto è passato ai fatti, schiaffeggiandolo, fino a che alcuni suoi compagni, che se ne stavano a guardare col mitra puntato, gli hanno intimato di smettere, sostenendo che Ettore non aveva commesso particolari reati. Spaventati siamo tornati a casa. Io non capivo il perché di quel gesto, e a dire il vero, anche mio marito era sconcertato: più che il dolore fisico, l'aveva prostrato l'idea di essere in pericolo, di poter essere malmenato da coloro che aveva così spesso aiutato e di cui mai aveva causato il male. Abbiamo allora chiamato suo fratello Cesare e, tutti insieme, abbiamo aspettato un amico comunista, il fornaio (* *), che avrebbe dovuto accompagnarli al Comando partigiano per testimoniare per loro, per garantire sul loro operato.
Il giorno dopo, il 26 aprile, di primo pomeriggio, invece dell’amico atteso, si sono presentati alla porta di casa nostra sette-otto partigiani, armati, che non conoscevamo. Poco prima c'era stata una sparatoria, vicino a casa, ma non sapevamo neppure cosa fosse successo; noi eravamo ben chiusi in casa, con la zia, e con la famiglia del piano di sopra, che, anche allora, ha testimoniato questa verità.(1)
Gli uomini hanno perquisito la casa, a tappeto, ma non hanno trovato armi; c'era, invece, la mia bambina di tre mesi che dormiva tranquilla nella culla. E due giovani spaventati: mio marito aveva 25 anni e suo fratello 27. Non sono stati cattivi con noi, anzi, hanno chiacchierato un poco, facendo domande ed informandosi della loro attività, poi li hanno invitati a seguirli al Comando. Mio marito mi ha detto di stare tranquilla, e di aspettarlo, a metà pomeriggio, in casa di sua zia, in via del Guazzatoio. Si sono quindi allontanati verso il centro. Ma io non trovavo pace; mi sentivo in ansia, e pur essendo giovanissima, capivo che il momento era terribile e che poteva capitare qualunque disgrazia. Inforcata la bicicletta, mi sono diretta in centro dove ho trovato mia cugina e mia zia che piangevano a dirotto, disperate, perché avevano saputo che erano stati uccisi i fratelli Pelli, a S. Pietro. Sono corsa sul posto col cuore che sembrava impazzito dal dolore e lì ho visto, a terra insanguinati, tre o quattro uomini. Uccisi. In un fosso il cadavere di mio cognato Cesare. Di mio marito neanche l'ombra. La sera stessa, alcuni uomini si sono presentati a casa di mia suocera, in via S. Agostino, a reclamare i vestiti del figlio, che dicevano essere nelle loro mani, prigioniero. La richiesta è stata prontamente eseguita dalla povera madre. Per tutta la notte io ho sperato e pianto; la mattina seguente, di buon'ora, sono tornata sul luogo dove ho trovato il cadavere di mio cognato: nel canale che scorreva al posto dell'attuale Banca (alla rotonda di S. Pietro), seminascosto e privato di orologio, portafogli e scarpe, giaceva il cadavere di mio marito.
Sono rimasta vedova a diciassette anni con una bimba di tre mesi. Questi i fatti. Voglio aggiungere che quando mia cugina, Silvia Bartoli si è recata al Comando partigiano per domandare il perché di quelle morti, le è stato risposto che dallo stesso non è mai stato dato ordine di uccidere i Pelli.
Sarà. E allora chi è stato? E perché? Ettore, con la sua professione, poteva aver dato fastidio a qualcuno; so che la sua penna era a volte ironica, ma mai pungente, cattiva. Perché uccidere un giornalista? Non si uccide con la penna, io credo. Molto più tardi, (quasi due anni dopo) ho saputo il nome degli assassini ed anche la motivazione: mio marito e mio cognato sarebbero stati "franchi tiratori", cioè avrebbero sparato dai tetti contro i partigiani l'ultimo giorno di guerra. Ma da quali tetti, domando, se eravamo tutti in casa, disarmati, e se per andare in solaio bisognava passare dall'appartamento della famiglia che abitava sopra di noi e che, di tendenze antifasciste, ha poi testimoniato l'assoluta non credibilità di questa tesi? Ancora oggi non riesco a darmi pace; guardi, per 50 anni non ho parlato, perché sono cattolica e non voglio vendette di nessun tipo. Chiedo solo agli assassini di mio marito (uno c'è ancora) di dirmi il perché di quella morte. Ettore non era nella Brigata Nera, non era nell'Ordine Pubblico, non partecipava a rastrellamenti, faceva il giornalista. Scriveva e disegnava; non ha sparato a nessuno dai tetti e neanche, credo proprio, da terra. Perché allora?
So che la guerra è terribile e soprattutto la guerra civile. So anche che chi vince ha tutte le ragioni; quello che non riesco a capire è il fatto di certe morti; chi non è stato militare, chi non ha responsabilità dirette di delitti o gravi reati, deve essere risparmiato... il delitto di mio marito è stato un delitto di opinione, come quello di migliaia di reggiani che conosco e che incontro ancora, oggi ben inquadrati nella sinistra... e che fanno la voce grossa...quelli stessi che giravano in camicia verde col povero Ettore Pelli, che con lui giocavano a carte o al pallone... quegli stessi che con lui passeggiavano in via Emilia per corteggiare le ragazze... ma loro, il 26 aprile correvano esultanti col fazzoletto rosso al collo, mentre mio marito giaceva in un canale, morto.
Io, oggi, non chiedo niente: non accetto questa logica del terrore; l'ho subita mio malgrado. Vorrei soltanto dire forte che mio marito non è stato un assassino ed invitare chi potesse dire il contrario - ma si faccia avanti con cognome e nome e prove - a spiegarmi il perché di quelle due morti.
Io sono certa della non colpevolezza di Ettore e Cesare Pelli, così come i loro poveri genitori, morti pochi mesi dopo, di crepacuore.
Dopo 50 anni, la storia deve, può e deve, rendere giustizia e riconoscere eventuali errori, se ci sono stati; non è giusto che il nome di mio marito venga associato a quello di un irriducibile assassino; questo è davvero troppo.
Dimostri qualcuno che ho mentito, e mi rassegnerò; ma fino a che questo non si avvererà, l'omicidio di mio marito è da considerarsi un fatto "privato", un odio personale, un delitto inutile e senza senso. Anche per i suoi assassini.»

(1) Le signore Lidia e Paola Fiorenzuoli.

--------------------------------------------------------------------------------

Maria Seglias, classe 1925


«Provengo da una famiglia piccolo-borghese. Il nonno paterno era una Guardia Svizzera, che per ordine del Papa è stato poi trasferito a Bologna. Lì si è sposato ed è diventato amministratore del principe Ercolani. Mio padre, trasferito a Reggio Emilia, ha aperto una tipografia vicino alla Stazione ferroviaria; ma un giorno, per ordini superiori, gli hanno imposto di venderla al Partito Fascista, che ne ha fatto la sede del suo quotidiano, il "Solco Fascista". La tipografia, a dire il vero, gli è stata pagata, ma il babbo è stato costretto a retrocedere, dal punto di vista professionale: infatti, da proprietario è diventato impiegato. Con la cifra ricavata ci siamo comperati un piccolo fondo ad Albinea, sul quale il papà ha costruito una villettina nella quale passavamo i mesi più caldi dell'anno. Devo dire che il 23 aprile 1945 due partigiani si sono presentati ad Albinea con l'intenzione di portare via mio padre, accusato, pensi un po', di aver favorito i fascisti! Solo davanti alle lacrime ed alle suppliche della mamma, di mia sorella e mie, e dopo esaurienti spiegazioni, si sono convinti a lasciarci in pace, ma le garantisco che abbiamo passato una notte terribile! Appena diventata maestra sono stata assunta, quale impiegata, all'Unione Fascista Industriali, che aveva sede in via Emilia, proprio di fronte all'attuale Credito Emiliano; in ufficio con me c'era un certo (* *), uomo un poco rozzo e che aveva fama di manganellatore, oltre che di buon distributore di olio di ricino! Credo che nel 1922 si fosse meritato tale fama. Non ne sono sicura, però. Sicura sono invece di un suo gesto di grande umanità, che mi sembra giusto ricordare. Eravamo ai primi del 1942; io abitavo in via Porta Brennone, 31. Nella mia casa abitava anche una povera famiglia, composta di quattro persone: padre, madre, una bimba appena nata e la vecchia nonna. Il padre è stato mandato in Russia, e pochi mesi dopo la mamma è morta, sembra per conseguenze di parto; la piccola è rimasta con la nonna che però non era in grado di accudirla; io raccontavo di questa tragedia in ufficio e (* *), che stava ad ascoltare, col solito impeto ha detto: "Ci penso io!" Ha afferrato il telefono ed ha mosso mari e monti: ricordo il suo daffare, con politici e dirigenti del partito. Certo deve essere stato convincente se, nel giro di poche settimane, il milite richiamato in Russia poteva tornare a casa ed assistere la sua bambina.! E questa è solo una delle buone azioni che ho visto fare da (* *). Il 25 aprile 1945, è stato prelevato dalla cantina in cui si era nascosto, costretto a girare per la città cantando "Giovinezza" e quindi portato ai «Servi». Dopo atroci torture è stato ucciso; del suo cadavere è stato fatto scempio: infatti gli avevano infilato in bocca una forcella ed alcune donne, inferocite, gli sputavano nel cavo orale. Orrende scene di crudeltà che non si possono dimenticare. Dico questo non per polemica, o per gettare ombre sulla Resistenza; lo dico per dimostrare che, a volte, ci sono state persone che hanno pagato le loro colpe in modo spropositato. Come nel caso di Giuseppe Sidoli. Si diceva di lui che fosse un dongiovanni, un poco gradasso, ma, per quello che so io, non è certo stato un torturatore! Lo si vedeva ogni giorno in piazza del Monte, in divisa, molto appariscente e, devo dire, bello. Ma occupava un posto che nessuno, poi, gli ha perdonato. Certo non ha fatto come alcuni, sicuramente più colpevoli di lui, che se ne sono andati per tempo. Lui è rimasto, convinto forse della clemenza dei nuovi padroni e consapevole del fatto di non aver ucciso nessuno. Pensi che a quel tempo si diceva anche che il dott. Bolondi, medico dei «Servi», torturasse! Io che lo conoscevo bene, posso testimoniare che non c'era un medico così per bene ed onesto, incapace di viltà o di azioni criminose, rispettoso, fino in fondo, della deontologia professionale. Anzi, c'era: e si trattava di un bravo ginecologo, che mi aveva fatto nascere: il dottor Ernesto Vercalli. Era un grande amico di mio padre, che con lui faceva lunghe passeggiate in bicicletta ed interminabili partite a carte. Un medico serio, un montanaro tutto d'un pezzo che non faceva politica, ma il suo lavoro, e con coscienza. Una sera, tornando a casa, gli hanno sparato alla nuca. Sa perché? Perché non aveva voluto firmare certificati di falsa malattia ad alcuni operai delle Officine Meccaniche "Reggiane". Era un uomo giusto, per cui un malato doveva essere tale, se voleva stare a casa dal lavoro. Questa sua integrità gli è costata la vita. Ricordo la disperazione di mio padre e degli amici, ed erano tanti, che hanno seguito il suo funerale.
Io sono stata una insegnante elementare per molti anni; ho cercato di essere sempre onesta e corretta nel mio lavoro, affinché i ragazzi che mi erano stati affidati sapessero come la guerra - specie quella civile - è terribile e che non doveva succedere mai più di vedere gli orrori a cui la mia generazione è stata costretta, suo malgrado, ad assistere. Sono state uccise persone per il loro credo politico e, dopo la liberazione, anche per spirito di vendetta e per odio personale, oltre che per invidia... Si era terrorizzati. Ho saputo di violenze inaudite, di folle inferocite, di donne che avevano perso ogni umana temperanza... Ho tenuto chiuse nel cuore, per 50 anni, delle immagini terribili... Spero che il tempo, che tutto guarisce, abbia chiuso molte ferite. Di certo non si chiudono se prima non si è fatta giustizia. E per questo c'è ancora molta strada da fare; gli storici devono rivedere la nostra storia più recente, perché mi pare che non sia stata del tutto obiettiva. In questo modo si uccide ancora, nella memoria di chi è restato a piangere.»

--------------------------------------------------------------------------------

Dott.ssa Adriana Moratti, classe 1924


«Sono nata e sempre vissuta - se si eccettua un periodo di lavoro a Toano - a Villaminozzo, dove ho esercitato per una vita la professione di farmacista.
La farmacia per la mia famiglia è un'istituzione dato che la possediamo - e vi lavoriamo - da ben quattro generazioni. Nella casa costruita dal nonno abitavamo in stanze ariose ed accoglienti noi cinque sorelle, i nostri genitori, i nonni e due zii: una famiglia patriarcale. La mamma, Annetta Pedrazzoli, era maestra. Ha insegnato con amore e dedizione a molte generazioni di paesani. Il papà, farmacista, aveva anche ricoperto dal 1929 e per sette anni circa, la carica di podestà. Tutti e due erano buoni e intelligenti ed hanno lasciato, credo proprio di poterlo dire, un ricordo positivo nel cuore di tutti.
La nostra famiglia ci ha cresciuto insegnandoci non tanto la gentilezza formale quanto il rispetto e la comprensione per ogni persona, ed una affettuosa disponibilità. Il paese era tranquillo, anche se povero come quasi tutti i paesi della montagna.
Lo scoppio della guerra e la partenza dei giovani, in gran parte alpini, portò tanto dolore soprattutto quando dalla Grecia e dal fronte russo cominciarono ad arrivare luttuose notizie di morte; così, quando si arrivò all'armistizio dell'8 settembre 1943, un'ondata di euforìa e di gioia portò in molti la speranza che finalmente i soldati sarebbero tornati e la guerra finita. Purtroppo ben presto si vide che la guerra sul fronte continuava in condizioni ancora più tragiche; sulle nostre montagne, considerate da sempre luoghi tranquilli ed eventuale rifugio ai drammi dei bombardamenti delle città, si era improvvisamente creato un fronte più drammatico, difficilmente individuabile, in continuo movimento, che coinvolgeva comunque e sempre la popolazione civile, rendendola vittima indifesa dell'una e dell'altra parte. In ogni modo il 1943 finì in relativa tranquillità, ma il nuovo anno cominciò sotto cattivi auspici.
In primis la morte di don Pasquino Borghi, fucilato il 30 gennaio 1944 dai nazifascisti. Don Pasquino dal 17 ottobre 1943 era stato trasferito da Canolo di Correggio a Tapignola, piccola frazione in quel di Villaminozzo.
Poiché parlava bene l'inglese, don Pasquino svolgeva opera di assistenza nei confroni dei prigionieri alleati (1); non solo, già dall'ottobre 1943 aveva aiutato i fratelli Cervi e da allora era diventato un coraggioso collaboratore dei partigiani della montagna. A dir il vero, lui aiutava tutti: a volte prestava persino le sue scarpe a chi doveva venire da Tapignola a Villaminozzo e ne era sprovvisto. Faceva parte del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) ed a nessuno negava aiuto.
Io ero a quell'epoca la presidente della Gioventù Femminile di Azione Cattolica di Villaminozzo, e la sezione era intitolata a S. Agnese, la cui festa cade il 21 gennaio. Il nostro parroco, don Luigi Manfredi, aveva pensato di fare una "tre giorni" di predicazione per prepararci a questa festa e, come relatore, aveva invitato don Pasquino Borghi che venne e ci tenne una splendida lezione sulla carità. Ciò accadde il secondo giorno della predicazione, il 21 gennaio 1944, appunto. Mentre parlava a noi ragazze, alcuni militi e carabinieri si recarono a Tapignola e furono accolti dalle fucilate dei partigiani ospitati in canonica. Gli stessi militi, rientrati verso le 18 a Villaminozzo, andarono a bussare alla canonica chiamando fuori don Luigi.
Gli chiesero se don Pasquino fosse lì e, avuta risposta affermativa, entrarono, lo presero e lo portarono in caserma dove fu picchiato e, in seguito, portato in carcere a Reggio Emilia. Tutti eravamo rimasti sgomenti ed esterrefatti. La mattina seguente mi recai da don Luigi: era seduto in cucina, presso il camino, e piangeva disperato. Mi disse che, se avesse immaginato una simile tragedia, non avrebbe certo ammesso la presenza in canonica del suo confratello; anzi, lo avrebbe fatto scappare da una porticina secondaria che dava in aperta campagna.
Commentando i fatti, qualcuno insinuò che la cattura di don Borghi fosse avvenuta in seguito ad una delazione di don Luigi (2). Tale supposizione fu a quei tempi, ed è ancor oggi, una inimmaginabile follìa, perché don Luigi era persona preoccupata da una vita di condurre una esistenza evangelica, spinta fino al rigore nei confronti di se stesso, consapevole dei suoi compiti, contrario per natura ad assumere mansioni non legate alla missione di sacerdote.
L'unica colpa, se si può usare questo termine, era forse una ingenuità che poteva avergli impedito di cogliere il mutamento totale della situazione politica, e la nascita del movimento partigiano.
Nella primavera la situazione si fece ancor più difficile: Villaminozzo era importante per la sua posizione strategica e il presidio fascista era forte di uomini e di armi. Nelle prime ore della notte del 24 maggio i partigiani circondarono il paese, cominciarono a sparare e vi furono morti e feriti. Il giorno successivo il Tenente Aldo Galleni, comandante del presidio, uscì in rastrellamento, ma nei pressi del ponte della Governara i partigiani spararono con la mitragliatrice contro la corriera e lo uccisero insieme ad un ufficiale e a sei granatieri.
Si vedeva ormai chiaramente che le forze partigiane erano superiori: quasi ogni giorno venivano fermate le corriere alla ricerca di militi o di persone giudicate sospette e così il 9 giugno 1944 il Colonnello Onofaro ordinò lo "svincolamento" degli unici due presidi rimasti: quello di Toano e quello di Villaminozzo. Il giorno dopo quel memorabile 10 giugno, i fascisti abbandonarono Villaminozzo che, poche ore dopo, veniva occupato dai partigiani.
Alle 10 circa piombò in casa mia Fulmine con alcuni compagni; frugarono tutta la casa, gettando in strada gli abiti di mio padre ed appropriandosi degli orecchini della mamma e di alcuni altri modesti oggetti d'oro, pochi per la verità. Presero lo zucchero e il formaggio grana e si misero a mangiarlo parlando sguaiatamente davanti alla casa.
Mio padre, già gravemente sofferente di cuore, vedendo tutto ciò che accadeva, piangeva e, sentendosi morire, mi chiese di portargli alcune fotografie. Guardandole con tenerezza, scrisse sul retro una dedica: "Il papà alla sua cara famiglia".
Il gruppo di Fulmine se ne andò, ma poche ore dopo capitarono due partigiani che volevano soldi e gridavano con odio: "Quanto avete da darci?"
Non essendoci che pochi denari, minacciarono di portare via me e mia sorella.
Questo pericolo fu scongiurato perché mia zia, Emma Albareti, corse a chiamare e a chiedere aiuto a due nostri compaesani, Cecco Colombari e Peppo Coli. Questi nostri buoni amici parlarono in nostro favore salvandoci la vita: non lo dimenticherò mai.
Nello stesso giorno 10 giugno 1944 i partigiani, dopo aver compiuto atti di vandalismo, bruciando sulla piazza documenti e incartamenti sottratti in municipio, andarono anche in canonica, mettendo anche lì tutto a soqquadro.
Prelevarono don Luigi e lo portarono a Lama Golese insieme ad altre persone (fra le quali Virginio Canovi, Aristide Mucciante e Nello Coloretti).
Tre giorni dopo, a 57 anni, mio padre morì di crepacuore per il pensiero di lasciarci indifese, ben sapendo, lui che conosceva la guerra avendola vissuta nel 1915-1918 come capitano dell'esercito, a quali terribili conseguenze saremmo andate incontro in un mondo ribollente di odio e violenza.
Per provvedere al suo funerale chiedemmo ai partigiani di lasciar tornare in paese don Luigi e ci fu concesso.
Poco dopo il Vescovo, pensando di poterlo meglio proteggere, lo trasferì a Budrio di Correggio.
La sera del 14 dicembre dello stesso anno 1944 don Luigi stava disponendo i fiori sull'altare: due sconosciuti arrivarono alla porta della canonica e chiesero di lui; chiamato dalla domestica egli si presentò subito: fu ucciso da una raffica di mitra, vittima di una odiosa calunnia. Aveva sessanta anni.
La guerra è finita, ma ha lasciato cicatrici indelebili.
Violenze, soprusi, ingiustizie sono state commesse da entrambe le parti belligeranti. Se i nazifascisti hanno perso, i partigiani non hanno vinto del tutto. Troppo sangue ha arrossato i nostri paesi, le nostre case. Non possiamo dimenticare anche se, cristianamente, abbiamo perdonato.»

(1) Don Borghi era collaboratore delle «A. Force», agente della quale, nelle zone montane, era don Domenico Orlandini, Carlo. Notizia contenuta in Nostri preti, di don Carlo Lindner, Ed. AGE, RE, 1950.
(2) ARTURO PEDRONI, su «Il Nuovo Risorgimento», 27 febbraio 1949, scrive «A Villa Minozzo si nascondeva il tradimento».

--------------------------------------------------------------------------------

Zeno Algeri, classe 1926


«Mio padre, Ugo Algeri, è nato a Scandiano nel 1901. La sua famiglia era povera, e, ancora piccino, ha perso la madre. Dopo il matrimonio del padre con una nuova donna, egli, maltrattato, se ne è andato a pascolare un gregge. Ha passato anni difficili, ma poi, per fortuna ha incontrato la mamma, l'ha sposata, ed è cominciato per loro un periodo buono, durato quasi vent'anni. Venuto a Reggio intorno al 1926, è poi andato a lavorare ai Sindacati - fascisti, naturalmente, dati i tempi - come capolega, cioè come collocatore di personale. Nei primi anni ‘30 la mia famiglia si sposta da Mancasale a Massenzatico, dove, nella piccola anticamera della casa viene istituito un "ufficio"; chiamiamolo così, il piccolo locale dove il papà riceveva i contadini che avevano bisogno di manodopera, o le mondine che facevano richiesta di andare nel Piemonte; tutti coloro, insomma, che avevano bisogno di lavoro, e che egli aiutava a trovare. Mio padre era un uomo serio, riflessivo, di poche parole, ma con noi, con la mamma, con mia sorella e con me, straordinariamente affettuoso. Forse la mancanza di affetti nella sua infanzia lo facevano un padre presente e tenero. Noi vivevamo sereni, e niente faceva presagire la tragedia che poi si è verificata. Era fascista, ci credeva. Nel 1935 è andato volontario in Africa, ma nel 1936, quando si è trattato di partire per la guerra di Spagna, si è rifiutato: ne aveva avuto abbastanza. Nel 1940 è stato richiamato in servizio, ma un anno dopo, data l'età, è stato trasferito a Reggio, presso la Torre del Bordello, in qualità di segnalatore di preallarmi. (Doveva segnalare, cioè, l'imminente arrivo di aerei anglo-americani). Faceva i turni: a volte arrivava a casa a notte fonda, in bicicletta, da Reggio.
Vestiva in divisa, sì, ma era un semplice impiegato: in ogni modo, penso, se avesse compiuto azioni riprovevoli, i "patrioti" avrebbero avuto modo mille volte di sparargli dal buio di una siepe... Ma non ha mai avuto noie. Mai una minaccia, mai un disturbo. Era un uomo leale e corretto: quando è uscito il bando Graziani, mio padre mi ha lasciato scegliere se arruolarmi o meno; io mi sono dato alla macchia (anche per non veder piangere la mamma); lui ha accettato con serenità la mia decisione. Rispettava gli altri, e le loro scelte. Un giorno della primavera 1945 io mi trovavo con alcuni amici a casa di famosi antifascisti di Massenzatico, i Miari del Cantonazzo; ad un certo punto entra nell'aia una pattuglia - motorizzata - di Brigatisti Neri. Per il timore abbiamo cercato di scappare, ma quelli hanno fatto fuoco ed hanno acciuffato quattro di noi. Siamo stati condotti a villa Lombardini, vicino a villa Cucchi: lì ci hanno invitati a collaborare: tre hanno aderito, io no. E così le ho anche prese. Mio padre ha cercato di tirarmi fuori, ma non c'è riuscito. Non aveva certo un grande potere, questo voglio dire. Era una figura di secondissimo piano. Il 22 aprile sono stato rilasciato. Tornato a casa, dopo quattro giorni, ho accompagnato mio padre a villa Galloni, dov'era il comando del C.L.N.. Nella Commissione giudicatrice spiccava la figura del Toscanino: dopo un interrogatorio, accertata la totale mancanza di colpe da parte di mio padre, la Commissione lo lascia libero, assicurandolo che non avrebbe avuto noie, in quanto "libero cittadino". Eravamo tranquilli. Così, in questo stato d'animo siamo tornati verso casa con le nostre biciclette. Io avevo tre zie sposate a Milano, che avrebbero potuto ospitare papà, loro cognato, ma non se ne vedeva il bisogno, dopo le assicurazioni dei partigiani. Perché andare via? Non era proprio il caso. Questi i pensieri nostri. Ma una sera, il 9 maggio 1945, passata da poco la mezzanotte, sentiamo bussare alla porta. Erano tre uomini, con l'elmetto della P.M. in testa (Police Military): hanno imposto al papà di seguirli per un interrogatorio che doveva tenersi a Reggio. Noi eravamo stupiti, per l'ora e perché sicuri delle precedenti assicurazioni di incolumità. Ho accompagnato mio padre fin sulla porta, l'ho abbracciato e l'ho visto allontanarsi e salire in una balilla nera. Sul ponte, a trenta metri da casa mia, un uomo a me noto di Massenzatico, appoggiato alla bicicletta, aspettava: non so cosa; forse di vedere se la spiata era andata come voleva. Non voglio fare accuse. Voglio solo dire che l'ho riconosciuto.
Mia madre ha cercato il papà per anni. Ogni volta che scoprivano una fossa, che scavavano, lei, con la sua bicicletta, andava a vedere: cercava suo marito. Mai niente.
Qualcuno ha detto che mio padre è stato ucciso perché nel suo lavoro aiutava preferibilmente persone del suo credo politico, a scapito dei "rossi". Io non ci credo; ma se qualcuno sa, con certezza, che non è stato sempre corretto, per favore me lo dica; in ogni caso, non mi pare che sia stata una buona ragione per ucciderlo, e poi fare sparire il cadavere! Pensi se dovessero uccidere, oggi, tutti quelli che raccomandano qualcuno!
Se coloro che nel 1945, a Massenzatico e dintorni, hanno fatto sparire tanta gente, in un atto di pentimento, decidessero di parlare e, anche in forma anonima, di dire dove hanno messo i nostri cari, forse morirebbero più tranquilli.
Io spero che sia così; i nomi si sanno. Qualcuno è già andato all'altro mondo; ma qualcuno c'è ancora, e magari gira su lussuose automobili ed abita in faraoniche case! La coscienza, signori, la coscienza! Se hanno agito convinti di fare il bene del popolo, perché nascondono così mandanti, esecutori, tutto? Perché? Mio padre non è stato un assassino: mio padre deve riposare in terra benedetta; loro, gli assassini di mio padre, riposeranno al Camposanto. E' giusto questo?».

--------------------------------------------------------------------------------

Rag. Amedeo Agosti, classe 1933


«Mio padre, Ovidio Agosti, è nato a Bagnolo in Piano nel 1897. Si è trasferito poi a Rio Saliceto, dove, in piazza, ha aperto un negozio di generi alimentari: figlio d'arte, potrei dire, in quanto già dal 1817 gli Agosti esercitavano questo mestiere, iniziato a S. Maria di Novellara. Tutti i suoi fratelli, ed erano sei, gestivano un negozio: una passione, ed una tradizione di famiglia ben consolidata. Rispettoso della Chiesa, senza essere bigotto, poteva essere considerato "liberal-democratico" se si vuole definire la sua posizione politica. Di sicuro, riguardoso verso le istituzioni e l'ordine precostituito. Pur non essendo ricco, il papà godeva di un largo credito, soprattutto morale. Si stava bene, nella nostra famiglia, dove l'affetto reciproco regnava incontrastato. Era il 1936: noi abitavamo di fronte alla casa del fascio, ed un pomeriggio si sono presentati due militi, che lo hanno invitato a seguirli, a pochi metri da casa, appunto; lì, gli hanno comunicato che se non prendeva la tessera del partito, non gli avrebbero rinnovato la licenza dell'esercizio. Mio padre, con famiglia a carico, ha accettato questa condizione. Non ha mai avuto cariche politiche, né responsabilità di partito: ha fatto sempre, e soltanto, il bottegaio.
Durante l'inverno 1944-45 siamo stati disturbati, quasi ogni sera, da gruppetti di partigiani che, al calar delle tenebre, si facevano aprire il negozio e razziavano bottiglie di Vermuth, di Marsala, di Sassolino... tutto ciò che di alcolico era in negozio. E non solo; siccome eravamo proprietari di un piccolo podere, che tenevamo a mezzadria, siamo stati tassati per L. 100.000! Una enormità, per quei tempi, tanto che per racimolare tale somma da versare ai partigiani, mio fratello ha venduto le mucche. Ricordo che il maestro Francesco Panisi era stato tassato di L. 50.000: un dramma anche in quella famiglia, non unica.
Quell'inverno è stato veramente difficile, e abbiamo conosciuto la fame; abitando in piazza, si era un poco in vista: di giorno tedeschi e fascisti, di notte partigiani... Si viveva nel terrore.
La mattina del 22 aprile 1945, ricordo di aver contato, dalla finestra, 830 carri armati americani provenienti da Carpi e diretti a Guastalla: la strada era sventrata dai cingoli. E poi il 25 aprile: la piazza, da mesi buia, si era illuminata di nuovo; intorno a noi aria di festa, gente nelle strade e, finalmente, luce nelle strade! Ma il sabato sera, 28 aprile 1945, le lampadine della piazza non si sono accese: triste presagio. Verso le 22, quattro partigiani hanno picchiato alla porta: tre a viso scoperto, uno mascherato. Ma indossava, questo ultimo, un maglione a righe larghe bianche e nere, un poco particolare, che la mamma e mia sorella hanno sùbito riconosciuto: apparteneva, infatti, a (* *).
I quattro uomini hanno insistito perché mio padre li accompagnasse al comando partigiano: stizziti dallo stupore dei familiari, che non capivano il perché di tanta fretta, data l'ora, e spaventati dal fatto che nello stesso pomeriggio era stato prelevato da casa, proprio vicino a noi, il dott. Ercole Fiandri, Capitano medico del Comando Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana ed il veterinario di Rio Saliceto, dott. Bruno Lodesani. In modo rozzo, poi, il papà è stato strattonato e spinto dentro una "Balilla" rosso scuro, scomparendo ai nostri occhi terrorizzati. Non l'avremmo rivisto mai più. Ed ancor oggi lo vado cercando, e non so darmi pace, perché era un uomo buono, profondamente disponibile e generoso. Con tutti. Ricordo il suo libro dei crediti: era scritto fittamente... ma mai, dico mai, e ne sono testimoni ancora tanti paesani, ha sollecitato quel che gli veniva... sapeva la povertà della gente, la fame, il bisogno, ed attendeva, fiducioso, tempi migliori. Una brava persona, fuori dalla politica attiva, che pensava solo al lavoro ed alla famiglia.
Un uomo che mai si era compromesso col regime. Perché allora quella fine terribile?
A Ca' dei Frati, c'è ancora una chiesetta dedicata a S. Antonio; custode, a quei tempi, era un certo Orlandini, poverissimo, con tanti figli; di tanto in tanto, veniva dal papà a chiedere un poco di farina, per sfamare la numerosa famiglia, mai è andato a casa a mani vuote. Il 28 aprile, egli si trovava per caso all'osteria "Al Butghin", quando ha sentito alcuni partigiani del luogo (poi identificati) dire: "...E po’, stasira, andom a catar al butgar e al dutor...". Accortisi che l'Orlandini ascoltava, lo hanno minacciato di tacere, pena la morte sua e dei suoi figli. Diversi mesi dopo, mosso da sensi di colpa, questo povero uomo è venuto dalla mamma e le ha raccontato ogni cosa. Abbiamo cominciato, così, un'azione giudiziaria alla Procura di Reggio. Ma, improvvisamente, Orlandini è stato accusato di atti di violenza e ricoverato in manicomio; il tutto così in fretta da lasciare allibiti...
Questo ricovero coatto ha reso, naturalmente, non più valida la sua preziosa testimonianza. I nomi degli assassini, però, erano stati fatti, ed una specie di processo ha avuto luogo: a testimoniare alcune mogli di imputati, venute a Reggio in bicicletta per compiere il loro "dovere". Mi hanno poi raccontato alcune persone di Rio Saliceto, che le suddette signore avrebbero esclamato a conoscenti, che domandavano loro come era andata: "...Le andada bein, mo ghe vru una sporta ed sold!".
Col tempo ho saputo ogni cosa: so chi è venuto a prendere mio padre, e so anche chi è stato il macellaio. In 50 anni mai nessuno ha potuto dire che mio padre si sia compromesso col regime: ha lavorato, mantenuto quattro figli ed aiutato tutti coloro che si rivolgevano a lui per un aiuto.
Io lo ricordo con amore e rimpianto. Mi manca ancora, e sono anziano. Non ho dimenticato, anche se cerco, con fatica, di perdonare. Però, per la verità storica, questi orrendi delitti devono essere scritti. E fatti conoscere. Per amore di verità, appunto.»

--------------------------------------------------------------------------------

M.tra Giuliana Gubert, classe 1931


«La mia è una storia sofferta, ricca di ricordi dolorosi che avrei voluto cancellare dalla mente, ma non è stato possibile. Forse, raccontare le mie vicissitudini può essere utile a chi, ancora oggi, insiste a dire che la Resistenza è stata un'epopea meravigliosa. Sono cresciuta con i nonni materni in via Achille Peri, a Porta Castello; il nonno era paralizzato e la nonna non godeva di buona salute. Lo zio Pasquale Varone era Maggiore dell'esercito, Tenente osservatore pilota e Direttore lancio-paracadutisti; un militare in carriera, insomma, che era andato volontario sull'oasi di Giarabub a lanciare viveri e munizioni ai resistenti. Il nonno Antonio era stato Maresciallo nell'esercito, volontario in Africa e, lo posso assicurare, uomo tutto d'un pezzo, amante della Patria per la quale avrebbe dato la vita. Così, con un grande senso dell'onore, era cresciuta la famiglia, e così il nonno aveva educato anche me. Senso dell'ordine, dell'amore per la Patria, del rispetto per tutti.
Il 25 aprile sono scesa in strada per vedere la sfilata dei partigiani che scendevano dalla montagna: viale Umberto era pieno di gente che gridava ed applaudiva; io capivo che una stagione era finita e pensavo che stava crollando tutto quello in cui avevo creduto. Avevo 14 anni, e la sfera dell'emotività - dati i tempi - assai sviluppata; mi veniva da piangere. Allora il signor (* *), che aveva un negozio vicino a casa mia, vedendomi emozionata, mi ha gridato in dialetto: "...Piangi, piangi, figlia di fascisti", aggiungendo parole offensive, e mi ha schiaffeggiata. Dai primi di maggio, tutti i giorni alcuni partigiani, tra cui ricordo un certo (* *), piombavano dal nonno, piazzavano la mitragliatrice in cortile e venivano a cercare quel "gran fascistone" di mio zio Pasquale, che, (ma noi non lo sapevamo) era stato mandato da Torino, dove era ufficiale, nel campo di concentramento di Coltano, in Toscana. Avendo trovato le sue divise, le hanno strappate, e con loro le decorazioni, orgoglio dei nonni, e ce le buttavano giù dalle scale. Non solo: per giorni, ogni volta che salivano in casa, mangiavano tutto quello che avevamo, ed una sera ci hanno preso quel poco di oro che la nonna custodiva in un cassetto del comò, doni di nozze. Mio zio era benvoluto e stimato da tutti; mi hanno raccontato, a guerra finita, che quando era ufficiale alla caserma "Zucchi", non mangiava alla mensa ufficiali, ma insieme ai suoi soldati. Severo, come poteva essere un cadetto uscito dall'Accademia di Modena, onesto e fedele al giuramento, mio zio non avrebbe mai tradito. Però so anche che mai ha fatto del male: era un militare dell'esercito, e basta. Quelle "visite" reiterate hanno sconvolto il nonno, che piangeva, essendo paralizzato e non potendo fare niente; e niente si poteva fare, solo aspettare che se ne andassero e non ci uccidessero; dopo pochi mesi al nonno, Antonio Varone, è scoppiato il cuore.
Mio padre, Giulio Gubert, classe 1901, durante la guerra era vice-direttore della centrale elettrica di Vigheffio di Parma; abitava in quel paesino con la mamma e mia sorella più piccola di me e stavamo bene. Alla centrale (che allora si chiamava Cabina Edison-Volta) egli si occupava di tutto: dalle paghe delle maestranze, alla gestione dell'azienda... un pezzo grosso, diremmo oggi. So che non era vestito con divisa, era in borghese, e neanche troppo ricercato. Il suo carattere semplice, genuino, bonario, l'aveva fatto amare da operai e impiegati, oltre che rispettare dalla dirigenza. L'8 settembre 1943, i tedeschi, piombati in Centrale, volevano da lui un elenco di operai comunisti da mandare prigionieri in Germania: mio padre ha risposto loro che non era in grado di stilare alcun elenco; sapeva solo che erano tutti bravi, onesti e lavoratori. Così sono trascorsi i mesi di guerra, e, passata la Liberazione, ai primi di maggio si sono presentati a casa due Carabinieri che lo hanno invitato in caserma per accertamenti; un vicino di casa, infatti, certo (* *), partigiano dell'ultima ora, lo aveva denunciato con l'accusa di essere "bastonatore del popolo"! Per questo, mio padre è stato poi trasferito nel carcere di S. Francesco, in Parma, ed ivi trattenuto per un mese. La cella in cui viveva era 9 metri quadrati e vi "risiedevano" in 12! E' stato un mese di torture, fisiche e morali. Ma poi il miracolo è avvenuto: un gruppo di una ventina di operai, i "rossi" del "Capannoni" (zona calda di oltretorrente) che erano stati alle sue dipendenze e da lui salvati dalla prigionia, hanno fatto chiasso davanti e dentro il carcere, tanto che hanno decretato la liberazione del papà; credo che a pochi uomini sia toccata una simile sorte. E questo gesto mi ha fatto ricredere anche su certe figure... che avevamo soltanto temuto; spesso con ragione. Certo, bastava una segnalazione buttata lì, senza prove... ed un uomo poteva essere ucciso, e torturato. Questo è un aspetto della "giustizia" partigiana che ancora oggi mi sgomenta; troppo spesso hanno chiamato giustizia vendette personali, odî, antipatie...
Ma c'è un'altra storia, vera, che ha segnato, seppure marginalmente la mia vita. Mio suocero si chiamava Prospero Silingardi e di mestiere faceva il daziere. Originario di Luzzara, si era sposato e, a metà degli anni ‘30 era venuto ad abitare a Reggio, in via L. Ariosto, 18. Aveva due figli, bravi e belli: Luciano e Laura. Una famiglia modello, che ancora oggi tanti ricordano; ma, soprattutto, mai avuto a che fare con la politica attiva e col partito, anche se, è giusto ammetterlo, credeva nel fascismo e nel 1943 si era iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana. Nella primavera 1945, a causa di un bombardamento, uno spezzone gli aveva ferito la gamba destra, per cui si era resa necessaria l'ingessatura. E così, ingessato, l'aveva colto il 25 aprile. Nulla però era successo in quel giorno, ma, dai primi di maggio, la famiglia subiva quotidianamente "visite" di partigiani che, oltre a mangiare, razziare e portare via quanto di asportabile era in casa, minacciavano tutta la famiglia di torture, di morte, rendendoli quasi pazzi di terrore. L'immobilità di Prospero aveva paralizzato anche la moglie ed i figli, che se ne stavano in casa, spaventati, temendo di sentire per le scale i passi e le risate sgangherate degli aguzzini. Un pomeriggio, per crudeltà, hanno preso mio suocero, in quattro, e l'hanno "scosso" fuori dalla finestra, tra il terrore dei figli e gli "evviva" delle donne della strada che, come furie scatenate, gridavano. "...Butél sò... cul cancher d'un fasesta!" (Buttatelo giù, quel canchero d'un fascista). Il giorno dopo è stato commesso un reato ancora più grave: Laura, una splendida ragazzina quindicenne, è stata violentata da tutti e quattro i partigiani... i quali hanno avuto il "riguardo" di mandare prima i due poveri, disperati genitori in cucina, e di chiuderli dentro. La povera madre sentiva i lamenti ed il pianto della sua creatura stuprata dai giustizieri...
Il 6 maggio 1945, poi, di sera, i soliti bravi sono venuti a prelevare Prospero Silingardi. Capito tutto, raccomandava al figlio giovinetto di curare la madre e la sorella... perché non sarebbe più tornato...
Caricato su una Topolino stipata di uomini, è sparito. Per tre anni la famiglia l'ha cercato; quasi ogni giorno mia suocera andava presso i comandi partigiani a pregare, piangere, supplicare... Ma nessuno sapeva niente. Solo nel 1948 una persona, impietosita, ha consigliato di recarsi a Coviolo, in un certo posto e di scavare; con l'intervento della forza pubblica ciò è stato fatto, e agli occhi dei figli sono apparsi una decina di resti, di poveri resti... tra cui anche quello del padre, riconosciuto dalla dentatura, rimasta intatta, e dalle briciole del gesso intorno alla gamba destra.
La famiglia è rimasta in miseria, materiale ed affettiva; ha continuato ad abitare la stessa casa, di via L. Ariosto, nonostante tutto. E questo "nonostante tutto" vuole dire molte cose: per esempio, che si è poi saputo il nome della delatrice, della spia che si è preoccupata di recarsi al comando partigiano a segnalare che Prospero Silingardi era un fascista, e come tale doveva essere barbaramente ucciso. La signorina di allora, oggi pasciuta e ricca signora, passeggia per le vie del centro tranquilla, serena, orgogliosa forse, di essere una assassina.

--------------------------------------------------------------------------------

M.tro Vado Rabotti


«Sono un maestro elementare in pensione; nel 1943 ero militare a Bellagio di Como, in qualità di Sergente di fanteria presso il 67° Reggimento. L'8 settembre, con lo sbandamento dell'esercito, sono scappato a casa, dove sono arrivato il 14 insieme ai miei quattro fratelli, tutti militari. L'11 novembre di quell'anno ho cominciato ad insegnare a Groppo di Vetto; andavo a scuola a piedi, perché ero ricercato, e utilizzare la corriera poteva essere pericoloso. Ero infatti considerato disertore; mi è andata bene, ed ho potuto insegnare, abbastanza tranquillo, fino al giugno successivo. Dopo la fine della scuola dormivo nei campi, per paura dell'arresto. Nel luglio 1944 sono stato arruolato nella Guardia Nazionale Repubblicana, insieme ad una decina di altri giovani di Leguigno. Ci hanno portati a Reggio, in via Gazzata, credo alla caserma "Muti"; lì siamo stati per circa quaranta giorni. Io avevo la qualifica di Sottotenente e spesso mi mettevano di ronda; non sono stati giorni tranquilli, per la continua paura di essere assaliti o uccisi. Finalmente, un Maresciallo di Viano ha organizzato una fuga: molti sono scappati; io avevo un permesso di due giorni, ma, una volta arrivato a casa, non sono più tornato a Reggio. Ma anche Leguigno era pericoloso: mi cercavano, ed allora, anche per non mettere nei guai la mia famiglia, mi sono visto costretto ad arruolarmi nei partigiani. Era la fine di agosto 1944.
Non c'era alternativa, per me. Ero nella 26° Brigata «Garibaldi», in località "Fagiola", presso Villaminozzo. Là comandava un ufficiale inglese, coordinatore dei vari distaccamenti della provincia. Il suo ufficio, allestito in una baita, era dotato di apparecchio radio ricetrasmittente, col quale comunicava con il comando della V° Armata americana. Da lui abbiamo ricevuto in dotazione armi automatiche e munizioni che servivano per andare, poi, in zone di operazioni. Comandante del distaccamento era Dino Meglioli, Giuda; pochi giorni dopo siamo partiti verso il monte delle Tane, dal quale si potevano osservare i movimenti delle truppe tedesche. Nostro compito era quello di impedire ogni movimento dei nemici verso la montagna. Alle ore 7 di mattina dell'8 settembre 1944 siamo stati accerchiati dai tedeschi appartenenti ai reparti delle «S.S.» di stanza a Pantano di Carpineti. Giuda ha imbracciato il suo "Parabellum", ma non ha fatto in tempo a sparare: una raffica l'ha colpito alle gambe; insieme a Domenico Casali è stato catturato e portato a Pantano, dove, il 15 settembre, sono stati uccisi. Io sono riuscito a scappare nel bosco, dove mi sono nascosto in un fitto cespuglio di vitalba, da dove potevo seguire i tedeschi impegnati nel rastrellamento dei miei compagni. Ma ero ferito, sanguinavo: ormai sfinito, ho raggiunto carponi Ammana; lì, una anziana signora mi ha accolto ed ha mandato a chiamare il dottor Gabbi, che, rischiando la vita, è accorso quasi subito. Sono poi stato curato anche dal dottor Pistelli; e così, dopo poche settimane, è finita la mia vita di partigiano. Nell'ottobre ho avuto l'incarico annuo di insegnare a Legoreccio di Vetto; lì incontravo spesso Riccardo Ferrari, veterinario. Era disperato per la morte del padre (1), Maresciallo della Forestale di Castelnovo Monti. Credo che quella morte sia stata non un'azione di guerra, bensì un fatto di odio personale. Vede, la Resistenza è stata un fatto grandioso, ma nella sua luce hanno orbitato uomini non buoni, assassini, addirittura. Questo va detto, a onor del vero. E la denuncia di questi, che hanno infangato un movimento così fulgido, sarebbe ora di farla. Questa azione ripulirebbe la Resistenza dalle scorie e dalle ombre.
Il 17 novembre, poi, nella scuola in cui insegnavo, proprio nella mia aula, si è consumato il famoso eccidio del distaccamento "Cervi". Ecco come si sono svolti i fatti. Grazie ad una spiata effettuata da una donna, (* *), alla quale, non va dimenticato, nel giugno di quell'anno i partigiani avevano ucciso un fratello medico, e ad un milite del luogo, (* *), oltre ad un ex garibaldino, (* *), un forte contingente di uomini partito da Ciano, arriva a Legoreccio. Diversamente da come ha raccontato Franzini, il fatto si è svolto così: una pattuglia del distaccamento, composta da tre uomini, era di guardia a Casalecchio; fuori era freddo, ed uno dei ragazzi, per riscaldarsi un po’, ha invitato gli altri in casa sua per bere un bicchiere. La cucina era a pianterreno; i tre hanno appoggiato i fucili al muro e si stavano scaldando; dalla porta socchiusa sono entrati, armati, i tedeschi. Presi dal terrore, i tre partigiani hanno detto ai nemici la parola d'ordine, in cambio della vita. Hanno poi accompagnato i tedeschi verso la scuola di Legoreccio. Alla parola d'ordine, la guardia ha aperto il portone... e dopo è successo il finimondo! Il distaccamento intero fu distrutto. Nel giorno dell'Assunta, credo nel maggio 1945 io ero a Vedriano a ballare: mi si sono avvicinati due uomini e mi hanno chiesto se andavo con loro ad ammazzare (* *). Io ho risposto: "...La guerra è finita; io continuo a ballare!"
(* *), poi, è stato preso ed accompagnato in tutte le case di Legoreccio per essere riconosciuto; cosa che si è regolarmente verificata. Tutti lo avevano visto, quella notte. L'ultima fu una ragazza. Alla domanda se avesse visto quell'uomo, ha risposto, sicura: "...Sì, è venuto a casa mia per chiedermi una corda da legare il comandante del distaccamento "Cervi" (Arturo Gambuzzi) al biroccio..." (2). E così l'hanno portato al cimitero ed hanno cominciato a scavare una fossa; (* *) era seduto a terra, e guardava tranquillo. Ad un certo punto si è alzato, è entrato nella buca, si è disteso, ed ha detto: "...Potete fermarvi qui... è già abbastanza profonda...". Il suo ultimo desiderio è stato quello di avvisare la madre del luogo della sua sepoltura. E' morto con dignità: così mi hanno raccontato coloro che erano sul posto e che l'hanno sepolto.
La guerra civile è stata una tragedia, mi creda. Ed ha lasciato strascichi di odio, di risentimenti, di voglia di vendetta. Troppi soprusi sono stati compiuti, da entrambe le parti. Io lo posso dire, perché sono stato arruolato prima nella G.N.R. poi sono stato nei partigiani. E' così, purtroppo. Razzìe?
A volte... non nel mio distaccamento, però. In quel mese io non ho mai visto compiere razzìe o ruberie: so, comunque, che qualcuno ha rubato, in nome della fame, del bisogno, e, cosa grave, della Resistenza...
Nel castello di Leguigno c'era un reparto tedesco: i militi, a volte, venivano al casello a prendere latte e burro.
Una volta sono venuti da mio padre: chiedevano "Uva... uva...!" Mio padre li ha accompagnati nei campi, per fargli vedere che non era tempo di vendemmia... volevano, invece, uova! Devo ammettere che non hanno mai disturbato, in paese, mai fatto razzìe, mai portato via niente.
In quel periodo non è stato toccato un abitante; erano militari abituati alla severità, all'ordine. Certo, li temevamo; ma bastava lasciarli stare. E dalla primavera 1944, invece, sono stati, continuamente, provocati. Così era la lotta clandestina... Era una guerra di disturbo... questa era, per necessità, la sua filosofia... E così è cominciato, per noi tranquilla gente di montagna, il calvario delle paure, dei rastrellamenti, dei lutti...
Questo è stato il prezzo della libertà.»

(1) Ostilio Ferrari.
(2) Arturo Gambuzzi, Cervi, fu catturato ed ucciso poi a Vercallo il 21 dicembre 1944.

--------------------------------------------------------------------------------

Rag. Franco Formentini, classe 1930


«Sono nato a Pieve Rossa di Bagnolo il 4/9/1930. Mia madre, Maria Menozzi, era maestra e mio padre, Guido, aveva una attività commerciale; anzi, più di una, perché, insieme ai suoi fratelli, gestiva un negozio a S. Tommaso. Nel 1934 la mia famiglia si è trasferita a Massenzatico, dove mio padre cominciava a gestire un mulino con annessa attività commerciale. Vivevamo una vita tranquilla, caratteristica dei tempi. La mamma provvedeva a far crescere i figli ed il babbo lavorava; serio, preciso, onesto, pensava solo al suo mulino ed alla sua famiglia, che amava e rispettava. Come tutti, per poter esercitare, aveva la tessera del fascio, ma non faceva attività politica. Ricordo di averlo visto poche volte in divisa, e solo in occasioni di ricorrenze e feste; quotidianamente vestiva abiti civili, sempre imbiancati dalla farina...
Nel 1941, a causa di difficoltà economiche, gli fu ritirata la licenza; per pochi mesi, a dire il vero, ma sufficienti per metterci in ginocchio. Ricordo che il papà, allora, andò a fare il carrettiere, e noi bambini aspettavamo con ansia il suo ritorno, la sera, per poter usare la farina gialla che portava a casa e mangiare un poco di polenta. Ma nonostante le difficoltà la mia era una famiglia serena, e mai ci è mancato affetto e solidarietà. Devo dire che eravamo rispettati e benvoluti, a Massenzatico, e nessuno ci ha mai fatto dispetti o cattiverie. Le cose si sono poi rimesse a posto, e, col lavoro di quattordici ore al giorno, si stava benino. La mamma, natura generosa, scambiava sacchetti di grano con farina bianca alle donne, più bisognose di noi, che bussavano alla nostra porta: e questo senza discriminazioni politiche.
Mai abbiamo avuto noie, ripeto, fino alla fine della guerra; neanche nel periodo che seguì il 25 luglio. Si andava d'accordo con tutti, e si cercava di fare il proprio dovere. Questa era l'aria che si respirava in casa mia, e per questo la tragedia poi accaduta mi ferisce ancora e mi provoca uno struggente dolore.
La notte tra il 9 e 10 maggio 1945, verso l'una e venti, abbiamo sentito bussare alla porta: una Jeep si era fermata davanti al mulino e ne erano scesi tre uomini, i quali, a volto scoperto e con fare abbastanza gentile, hanno chiesto a mio padre di seguirli per accertamenti. L'ora tarda e la sorpresa non avevano sconvolto più di tanto il papà, che, sicuro della sua onestà politica e personale, si era vestito e si accingeva a seguirli tranquillamente. La mamma, lei sì, piangendo lo pregava di non andare, di aspettare la mattina seguente. Ricordo che mio padre la rincuorava dicendole: "...Di me e delle mie azioni rispondo dovunque e ad ogni ora... non ho fatto niente di male... perché dovrebbero farne a me...?"
Un bacio alla moglie, uno ai figli - spaventati - e... non lo abbiamo più rivisto. Aveva 47 anni, nostro padre. Nella casa ormai priva delle sue braccia e del suo cuore restavano una vedova e tre bambini.
Pochi giorni dopo la sua sparizione, io, allora quindicenne, ero andato dal Toscanino, un capo partigiano molto conosciuto a Massenzatico, per domandargli qualcosa... non ne sapeva niente, disse. Da allora è cominciata la mia Via Crucis: perché hanno ucciso mio padre? Cosa poteva avere fatto? Era un bell'uomo, si presentava bene... poteva incutere soggezione per il suo modo sbrigativo, serio... Ma altro... che motivasse una morte? A noi ragazzi non ha mai dato uno schiaffo.
Ho pensato, più di una volta, ad un delitto non politico, ma personale... frutto di invidia... Ma che invidia? Noi non avevamo né automobile né motocicletta, simboli ancor più allora di benessere... La politica deve essere stata un pretesto. Questo è ciò che penso. In quel maggio, vendette, odî, ripicche, hanno avvelenato un'atmosfera di festa. Sono cose note; d'altronde, a Massenzatico, abbiamo avuto sette "dispersi"; scomparsi senza apparente ragione e che aspettano sepoltura cristiana. Ecco, io chiedo che chi sa racconti, perché quei poveri morti non devono restare nell'anonimato, uccisi ancora dalla dimenticanza. E qualcuno che sa, che ha visto, che ha ucciso c'è ancora, ne sono sicuro.
Perché continua questo ostinato silenzio? Sono passati cinquanta anni ed ancora i resti dei nostri morti non si possono ritrovare. E quanti ce ne sono! Penso ai ventisette di Campagnola, completamente rimossi dalla memoria storica reggiana; sì, dimenticati. I libri usciti in questi ultimi tempi, infatti, a partire da quello di Zambonelli (1) a quello di Baraldi (2) non li citano nemmeno. Perché questo muro di omertà? Per ritrovare un comportamento del genere bisogna rifarsi ai famigerati "Squadroni della morte" di Pinochet o alla Ghepeù stalinista, come sostiene Flavio Parmiggiani (3).
Qualcuno ha lanciato dei sassi, ma poi ha tirato indietro la mano.
Nel 1947, - ecco qui la lettera in originale - un anonimo ha spedito a mia madre, che ce l'ha tenuto nascosto per anni, questo manoscritto; in esso, l'informatore, semi-analfabeta, racconta quanto segue: (traduco per comodità):
"Sono un partigiano. Mi dispiace ma non posso tacere. Gli assassini di vostro marito e (dei mariti) di tutte le altre, comprese le casare, del vecchio fiduciario e di tutti sono i seguenti: (seguono 11 nomi). Io ho veduto tutto e vi ho detto tutto. Unitevi e fate fare una retata subito che non vi sbagliate... Quanti ne hanno ammazzato! E (* *) ha tutte le cinghie dei pantaloni (degli uccisi)..."
Più tardi, una persona degna di fede mi ha confidato che in un podere di Massenzatico, di proprietà (allora, nel 1945) di (* *), si trovava un pozzo nero, pieno, sì, ma non di liquami... e che lo stesso (* *), nella cui casa si facevano certi "processi", eseguite le esecuzioni, teneva per sé le cinghie dei pantaloni degli uccisi... cinghie poi passate ad un suo nipote, (* *)...
Le segnalazioni sono continuate per anni, finché, tre anni fa, mi sono deciso e mi sono recato dal Magistrato di competenza, il quale, in data 19 settembre 1996 ha mandato i Carabinieri ed i Vigili del Fuoco per fare indagini nel succitato podere. Il pozzo era cementato. Ora è mio intendimento proseguire, perché ormai troppi, da troppe parti, mi mandano segnali concordanti...
Io vivo nel dolore, nell'angoscia di sapere dov'è mio padre. Vorrei solo sapere dove l'hanno messo, per poterlo seppellire in terra consacrata. Niente di più. Niente vendette. Niente risentimenti. Niente di niente: solo poter andare a pregare sulla sua tomba. Chiedo troppo?»

(1) ANTONIO ZAMBONELLI, Antifascismo e Resistenza in un paese della «bassa»: Campagnola Emilia (1919-1945). ANPI.
(2) BARALDI EGIDIO, Nulla da rivendicare, Tecnostampa, 1989.
(3) PARMIGGIANI FLAVIO, Lettera aperta al Comitato per le celebrazioni del 25 aprile 1990 di Campagnola. Lettera che non è stata poi pubblicata dal periodico «Il Borgo» a cui era stata indirizzata.

--------------------------------------------------------------------------------

Celestina Fontana, classe 1914


«Sono nata al Cigarello, frazione di Carpineti, nel 1914 e lì ho vissuto fino al 1948, anno in cui mi sono sposata e sono venuta ad abitare nella frazione della "Boastra", in un'antica casa che sembra avere origini matildiche. I miei genitori erano contadini, modesti, ma non poveri: mio padre aveva un fratello prete ed uno medico, morto giovanissimo. Come medico era un fratello di mio marito, il dott. Ostilio Fontana, che per tanti anni ha esercitato presso l'ospedale di Castelnovo Monti. Dunque, la mia famiglia, pur essendo composta di 14 persone, viveva tranquilla: fino al 1943, quando, nel tardo autunno, sono cominciate ad arrivare le notizie dei primi arresti, e dei primi movimenti partigiani sulle nostre montagne. Vicino alla nostra casa era situato il vecchio casello; nell'estate 1944 alcuni tedeschi vi avevano posto la loro residenza, creando nella gente una certa paura. Ricordo che una mattina, era un sabato, un tedesco si stava facendo la barba davanti alla porta, in cortile: d'improvviso una fucilata l'ha falciato. Nel bosco retrostante, infatti, erano appostati i partigiani. Il giorno dopo è arrivata al Cigarello una pattuglia tedesca di rinforzo, con lo scopo di fare un rastrellamento e di bruciare le case circostanti. Un Sergente è venuto a casa nostra, per prelevare le donne che dovevano ammannire il morto; eravamo terrorizzate. Con le braccia in alto, ci siamo dirette verso il casello: un occhio ai tedeschi, che avevano le armi spianate, e un occhio al monte Mondovilla, sede dei partigiani...
Tutti ci minacciavano, e noi non sapevamo cosa fare. Poi, per fortuna, è arrivato don Giuseppe Sala, che ha spiegato ai tedeschi che noi eravamo brava gente e che non avevamo alcuna colpa; così ci hanno risparmiato, e anche le nostre case. Ci hanno preso quattro vacche, delle sei che erano nella stalla. Pochi giorni dopo abbiamo ricevuto visite anche dagli altri... Il gruppo partigiano era comandato da (* *), ma in casa nostra si è presentato un vicino di casa: (* *), di Marola. Costui, armato di fucile, ha ordinato che venisse prelevato tutto il frumento che era in sacchi, tutta la roba di maiale, le uova... pensi che noi si faceva il sapone in casa: beh, hanno preso anche quello.
Poi sono andati nella mia camera e mi hanno rubato la dote, e dei pezzi di stoffa che mi servivano per il lavoro: infatti facevo anche la sarta. Mio padre Artemio, già molto anziano, piangeva e si era inginocchiato davanti a lui, supplicandolo di pensare ai bambini, alle ragazze... lo pregava di lasciarci
qualcosa da mangiare... allora lui ha detto: "...Noi stiamo salvando l'Italia, e quando ripasserò mi darete il vostro vino migliore!" Altro che vino migliore... non è più ripassato, e ha fatto bene! Ritirandosi, poi, sono passati per i campi, dove la mamma aveva nascosto, in sacchi, della tela per lenzuola: hanno portato via anche quella! Guardi, quella razzìa ci ha veramente distrutti; io non ho più risentimenti, ma la mia dote, perfino l'ombrello... a chi poteva servire? Non credo che tra i boschi apparecchiassero con le tovaglie ricamate... Mah, c'è gente che si è arricchita, altro che...
E le visite si sono poi ripetute altre volte; guardi, se dei tedeschi avevamo paura, dei partigiani eravamo terrorizzati; erano più rozzi, più prepotenti. E' vero che i tedeschi ci costringevano ad aiutarli in cucina, pelando le patate e preparando, a volte, da mangiare, ma poi ci davano la carne buonissima, quando l'avevano...
Se ricordo episodi clamorosi? Eccome! Pensi al povero Maresciallo Ferrari di Castelnovo Monti: mi raccontava mio cognato, il dott. Ostilio Fontana, molto amico di Marconi, che la morte del Ferrari era stata causata dalla spiata di un castelnovese.
Un altro caso è stata la morte della Tersilla Wender: qualcuno diceva che aveva fatto la spia... non lo so; di certo ricordo che l'avevano rapata, poi l'hanno uccisa. Processo? Ma scherza? Allora non c’era tempo per i processi…
Altro caso: un certo Brunin, Bruno Balestrazzi, è stato arrestato a Carpineti, dove abitava; l'hanno preso e costretto a salire fino al castello con davanti una "corga", una cesta piena di fieno come si faceva con gli asini; poi, arrivato su... mitragliato. Peggio che con una bestia. Era un buon uomo, faceva solo il gradasso... si dava un po' di arie, ma non credo fosse un assassino. Se potesse parlare la zona intorno al castello di Carpineti... ne salterebbero fuori di cadaveri...
E il Rossetto? Quello era un ragazzino; ricordo che cantava e suonava con un pettine, e la carta velina delle sigarette... allora non c'era niente, sa? Forse era un simpatizzante, ma non certo un milite con delle colpe sulla coscienza; beh, fatto fuori anche quello, freddamente.
Anche a Pantano non hanno scherzato; la moglie di Berto Rossi era incinta: ha visto passare il partigiano (* *) con un prigioniero: pochi attimi dopo, uno sparo. Dalla paura ha abortito.
Un mio cugino era nei partigiani: un giorno ha rubato la cavalla del pittore Bazzani di Giandeto ed è venuto da noi; mio padre l'ha cacciato via, perché non voleva essere coinvolto con queste razzìe. Noi siamo cattolici ed il povero don Panini ci aveva insegnato che la violenza era un peccato, da qualunque parte fosse esercitata... Soprattutto gli abusi mio padre non li poteva compatire; perché di abusi, troppo spesso, si è trattato. Vede, io non ho nulla contro la Resistenza; l'idea era anche giusta. Ma ci sono stati degli uomini che in nome suo hanno rubato per sé, per le loro famiglie, per arricchirsi loro a danno di altri poveri... questa non è Resistenza. Qui in montagna li abbiamo temuti: ecco, temuti, quanto e più dei tedeschi; e quando, finalmente, sono andati in pianura, il 24-25 aprile 1945, abbiamo tirato un respiro di sollievo, sperando che finissero le razzìe e le enormi paure. Era una guerra civile, era guerra tra vicini di casa, era guerra tra poveri. I nuovi vincitori l'hanno poi messa alla loro maniera, la storia... ma noi ricordiamo, noi c'eravamo, e le posso dire che per farla intera, ce ne manca ancora un bel po' di verità... Ci sono delle pagine bianche da scrivere; non so se basta un titolo di studio per riempirle con onestà: io credo che le possano riempire le parole, le memorie di quelli che c'erano, che hanno patito nella carne viva i tormenti di quei mesi tremendi, quando la vita non valeva più niente. E non solo per opera dei nazifascisti, come le ho detto, ma anche per opera di chi, dietro a un fazzoletto rosso, nascondeva un animo rapace, una tendenza a delinquere che di resistenziale non ha proprio niente.»

--------------------------------------------------------------------------------

Idelbrando Cocconcelli, classe 1923


«Nel febbraio 1943 sono stato richiamato alle armi; mi hanno inviato a Verona, presso il IV° Centro Deposito Comando. L'8 settembre sono scappato dalla caserma e sono arrivato a casa, a Massenzatico. Il 22 febbraio '44, a causa del bando di chiamata, mi sono ripresentato; se non lo facevo, ci sarebbero potute essere ritorsioni verso i miei familiari. Sono stato destinato a Bologna, presso il reparto "Colombofilo". Io sono sempre stato appassionato di colombi viaggiatori, i cosiddetti "belgi", ed il compito a cui era adibita la mia compagnia consisteva appunto nell'allevare ed addestrare questi colombi per portare messaggi al fronte.
Una notte dell'estate '44 mio padre è stato svegliato da alcuni partigiani del paese i quali gli hanno fatto capire che se restavo a militare avrei avuto dei guai: di più, volevano la mia divisa! Io ero stretto tra due fuochi: da una parte le minacce del citato bando della R.S.I.; se avessi disertato sarei stato passibile di fucilazione, se non avessi disertato avrei subito le conseguenze minacciate dai partigiani. Ho deciso di disertare ed il 18 settembre 1944 sono tornato a casa, nascondendomi in casa di amici, gli Zavaroni.
Non ho voluto andare con i partigiani perché io sono di una famiglia di cattolici praticanti, e poi non volevo fare uso di armi. Io sono così. Sono stati mesi terribili, fino al 25 aprile 1945; vivevo nel terrore di essere scoperto e temevo anche per i miei ospiti e la mia famiglia. Ma i guai, con la Liberazione, non dovevano finire: in un certo senso sono anche aumentati. In paese, a Massenzatico, si viveva nel terrore, rosso, stavolta. Non tirava buona aria per chi non era comunista, o almeno simpatizzante. Infatti, non erano presi di mira solo gli ex fascisti, minacciati e fatti sparire in modo misterioso, ma anche per i cattolici mancava l'ossigeno. Le minacce erano all'ordine del giorno, ed il più minacciato era il nostro parroco, il bravo Vicario don Adelmo Morsiani. Mi ricordo che lui non riusciva a nascondere la sua angoscia e diceva chiaramente di temere per la propria vita, dopo aver ricevuto delle minacce da anonimi. Eppure il Vicario si era distinto durante il periodo della guerra civile, per aver salvato dai nazifascisti numerosi abitanti di Massenzatico: si ricordano episodi, in questo senso, che si potrebbero definire eroici. Sempre in quei tempi dell'immediato dopoguerra poteva anche essere rischioso, per un cattolico praticante, dare pubblica manifestazione della propria fede. Era rischioso, ad esempio, andare, di sera, alle adunanze dell'Azione Cattolica... Ne sa qualcosa Mario Borghi, di Gavassa, che proprio mentre rientrava da una riunione in canonica, è stato aggredito da alcuni ceffi, bene identificati, che l'hanno tramortito di botte. Facevano parte di quella squadraccia (in un certo senso analoga alle squadre fasciste di triste memoria) giovani comunisti di Massenzatico, Gavassa e frazioni limitrofe. Tra gli altri, il malmenato aveva riconosciuto un certo (* *)... e poi... beh, lasciamo stare perché qualcuno è ancora al mondo! Ricordo bene, invece, l'atmosfera di paura che ancora si respirava quando si andava alla processione con la Madonna Pellegrina; c'era bisogno di tanto coraggio per andarci, e bisognava andare in gruppo. Non era prudente percorrere delle stradine da soli, per non finire come Borghi. Ma anche così, si era oggetto di scherno e di parole minacciose e volgari. C'è voluto del tempo perché il clima si rasserenasse un poco: c'è voluto il 18 aprile 1948, con la batosta elettorale che i comunisti hanno subìto: se avessero vinto loro, non so proprio come sarebbe andata a finire. Anzi, lo immagino: come l'est europeo. I momenti peggiori sono stati i primi mesi dopo l'aprile 1945; anche se hanno perso la vita solo dei fascisti dichiarati, la paura, il terrore si sentiva nell'aria. In ogni modo, anche quei delitti avevano poco a che fare con la giustizia; tutti noi conoscevamo le persone "scomparse"; non c'erano tra loro dei delinquenti; anzi. Credo che fossero odî personali, vendette di parte; erano delitti assurdi che non avevano più senso a guerra finita.
Quei delitti lì hanno ancora meno senso se considerati a distanza di tempo. Dei veri e propri crimini. Ma il crimine più grande, secondo me, è di continuare dopo 50 anni, a tacere, a far finta di non sapere dove sono le decine di cadaveri massacrati da vanghe e picconi. Non uno, dico uno, che senta il bisogno di confessare?
Ci sono dei figli che ancora non si danno pace; vorrebbero solo seppellire pochi resti: la morte è uguale per tutti.
Questo ostinato silenzio è ancora più criminale.»

--------------------------------------------------------------------------------

Ergisto Moglia, classe 1928


«La mia famiglia è originaria di Bibbiano, ma negli anni ‘30 mio padre era ambulante di tessuti e si è comperato una casa a Vezzano sul Crostolo. Di lì si spostava nelle colline circostanti per vendere la sua merce. So che aveva la tessera del Partito Fascista, come tanti, per lavorare. Non eravamo ricchi, ma si viveva forse meglio di altri; avevamo una bella casetta e si stava contenti. Scoppiata la guerra, abbiamo avuto delle difficoltà, anche perché, nel 1944, i tedeschi ci hanno requisito parte della casa e si sono stabiliti da noi. A dire il vero sono sempre stati corretti e gentili, tanto che il comandate del piccolo presidio, ancora oggi, mi manda gli auguri per Natale. Certo avevamo perso la nostra libertà e, cosa ancor più grave, eravamo sospettati dai partigiani di collaborazionismo col nemico; credo che mio padre Albino cercasse solo di sopravvivere.
In ogni modo, nell'autunno 1944 si sono presentati alla porta dei partigiani: volevano denaro. Gli abbiamo dato tutto quello che c'era in casa; non bastava. La storia è andata avanti per giorni, finché è successo un fatto odioso. Mio padre aveva mandato un suo aiutante in fiume a raccogliere sassi per costruire un muretto; gli aveva dato la cavalla e il biroccio, per il trasporto. Arrivato sul greto, sono sbucati dalla macchia tre uomini, che con le armi puntate gli hanno detto di tornare dal padrone, di dirgli che la cavalla si era azzoppata, e quindi di portarlo lì; mio padre è corso in Crostolo, ma quando ha capito il tranello, era troppo tardi; è stato sequestrato e portato in quel di Pecorile, ed ivi trattenuto per una settimana. Per il suo rilascio, i partigiani volevano del denaro, molto. Mia madre è andata in banca ed ha ipotecato la casa. Quel prelievo fiscale è costato alla mia famiglia anni di lavoro per pagare i debiti. So che è stato salvato da un sacerdote, perché, dopo aver avuto i soldi volevano anche farlo fuori. Pensi che onestà! Sempre nel 1944, ma in novembre, in seguito ad un rastrellamento, sono stato portato alla caserma dell'Artiglieria, ora «Zucchi». Per un favore fatto ad un ufficiale tedesco (i miei gli avevano affittato una stanza in via Emilia, sopra il negozio "Moglia") ho potuto restare a Reggio ed occuparmi, insieme ad un piccolo gruppo di giovani, delle auto sequestrate dai tedeschi.
Siamo rimasti lì per alcuni mesi. Avevamo una Topolino che serviva per i trasferimenti degli ufficiali lungo tragitti brevi; ricordo che Camellini e compagni, che erano partigiani, a mia insaputa, a volte, di notte, la usavano per azioni loro, e così, la mattina seguente, non c'era più benzina, con stupore dell'ufficiale tedesco che non capiva come sparisse così alla svelta! Una sera sono stato mandato a Bibbiano a prelevare la moglie ed i figli del Colonnello Battaglia, rapito e poi ucciso dai partigiani... Insomma, mi muovevo liberamente e devo dire, con onestà, che quei mesi non sono stati infami; devo dire anche che non ho mai visto compiere azioni di crudeltà, almeno in caserma. L'orrore è cominciato dopo il 25 aprile: morti in tutti gli angoli della città, sparatorie, razzìe, vendette... Non si può descrivere il clima di quei giorni; davanti alla Chiesa della Madonna della Ghiara ho visto uccidere, freddamente, un uomo. Ero molto giovane, e quell'esecuzione sommaria, così brutale, mi aveva traumatizzato. Guardi, il 25 aprile i partigiani sono entrati in caserma, nei magazzini, dove ogni cosa era in ordine; hanno gettato a terra farina, pasta, olio... si sprofondava in trenta centimetri di questi alimenti sprecati... sembravano avvoltoi. Non lo dimenticherò mai; c'era una smania di distruggere, un atteggiamento volgare... non so come dire... disumano, ecco. Era qualcosa che andava oltre la voracità, una sensazione di violenta, assurda razzìa; perché quella roba poteva servire a chi aveva fame. Dopo di questo spettacolo, io mi sono presentato, per consiglio del vice-Prefetto, al comando partigiano. Non avevo commesso alcun reato, avevo 17 anni e mai avevo fatto azioni di guerra. Credevo proprio di potermene tornare a casa, dai miei genitori, ma invece mi hanno mandato in S. Tommaso, in carcere. Dopo un breve interrogatorio, il comandante Zeta, che risiedeva a villa Levi in via Fontanelli, ha creduto bene di mettermi al fresco. Ho salvato la pelle, è vero, ma ho avuto il modo di vedere e di ricordare cosa è stata la giustizia partigiana, i processi, i giudici popolari... Pensi che spesso, a giudicare delle colpe - vere o presunte - di ex fascisti, c'erano i peggiori elementi, la feccia, oso dire, della città. Massacratori, assassini, prezzolati, ladri, il fiore del "popolo giusto", insomma. Con le dovute eccezioni, naturalmente, ma poche, queste eccezioni. Questo è stato il dopo-Liberazione. Qui a Reggio i comunisti hanno scalzato i fascisti, si sono affrettati a prenderne il posto, perfino nella polizia, e, con la memoria ben fresca, hanno ripetuto, a volte con maggior bravura, le loro gesta. Così va il mondo. E pensare che la storia che leggiamo, relativa a quel periodo, ha mitizzato azioni ed uomini che sarebbero da galera.»

--------------------------------------------------------------------------------

Rag. Giuseppe Manfredi, classe 1941


«Mio padre, Anno Manfredi, classe 1911, era di famiglia benestante. Nativo di Budrio di Correggio, egli gestiva, fino al 1943, una rivendita-tabaccheria con il fratello Nello nello stesso paese. Uomo sincero e serio, quasi inflessibile, mio padre non era certo un fascista "tutto d'un pezzo", come si suole dire. Spirito indipendente, ricorda la mamma che leggeva L'uomo qualunque, di Giannini, alla luce del sole e mai ha mostrato cedimenti o accondiscendenze che potessero mostrare debolezze alcune di carattere e di temperamento. Dico questo e lo sostengo con un esempio che fa luce sulla sua personalità: una sera del 1943 lo zio Nello era tornato a casa con delle sigarette acquistate al mercato nero: mio padre, accortosene, ha protestato ed ha deciso, immediatamente, di sciogliere la società e di andarsene. Valutate le proprietà, sono state fatte le parti: allo zio sono toccati gli immobili, ed al babbo una liquidazione di L. 400.000. Una discreta somma, per quei tempi, che gli hanno permesso di iniziare una nuova attività: quella di commerciante di turaccioli, prodotto naturale, autarchico, non soggetto al doppio mercato. Si è quindi trasferito in via Fornacelle, con la mamma e me, in un appartamento preso in affitto. Avendo una mano parzialmente compromessa, e quindi inabile al lavoro, era stato riformato alle armi. Per il suo lavoro, girava tutti i mercati della provincia e conosceva, quindi, molta gente.
Tra i suoi amici più cari annoverava don Pessina, il parroco ucciso dai partigiani comunisti; questa amicizia gli è forse costata, ma non credo che sia stata la causa della sua morte. Mi ha raccontato don Neviani che quando fu recuperata la mandria di cavalli rastrellata dai tedeschi e lasciata sulle rive del Po, don Pessina voleva (come si doveva per legge) riconsegnarla al Comando Alleato, mentre il capo partigiano (* *) era di parere contrario. In quell'occasione, a mio padre era stato chiesto di vendere alcuni cavalli, ma si era rifiutato, in primo luogo perché non frequentava mercati-bestiame, e poi perché non si trovava d'accordo con chi intendeva disobbedire alle leggi vigenti. Così era il suo carattere, e così me lo hanno descritto coloro che, in paese, lo hanno conosciuto e frequentato. Un giorno, tornando dal mercato di Modena, aveva portato a casa due, dico due pacchetti di sigarette americane, da regalare ai partigiani del Toscanino, cugino di mia madre; la sera stessa sono arrivati a casa 5-6 partigiani mascherati e ci hanno perquisito la casa, convinti che nascondessimo quintali di sigarette! E la mamma a sgolarsi per dire che era stato un pensierino per loro, non certo la punta di un ipotetico iceberg di tabacco!
Questa era l'atmosfera di quei terribili mesi; in ogni modo, la mia famiglia ha passato indenne il 25 aprile; il papà continuava il suo lavoro e mai ha pensato di andarsene. Non aveva alcun motivo, non essendo stato militare, non avendo partecipato attivamente alla vita politica del paese. La sera del 5 gennaio 1946, era uscito per andare alla cooperativa poco distante: voleva comperare dei cioccolatini da mettere nella calzetta; il giorno dopo, la "Befana", voleva vedere la felicità negli occhi del suo bambino. Ma non è più tornato a casa. Testimoni hanno raccontato che ha fatto una partita a carte, poi, verso le 22 ha inforcato la bicicletta per fare ritorno. Un conoscente, certo Leo Fantini, meccanico di biciclette, ha raccontato di averlo incrociato e di essersi stupito perché, contrariamente al solito (mio padre era un uomo calmo, tranquillo) pedalava in modo concitato, quasi volesse scappare da qualche pericolo. Il Fantini, che aveva montato un fanale molto luminoso - Radius - con lo stesso falciava la strada, e, all'altezza della casa di Donnino Menozzi, dopo aver visto il papà sfrecciare a gran velocità, ha notato due figuri, uno alto e sottile ed un altro piccoletto che sembravano rincorrerlo. Pochi giorni dopo la scomparsa di mio padre, il Fantini si è recato in tabaccheria dallo zio Nello, il quale, avendolo sottoposto a stringente interrogatorio, ha avuto da lui piena confessione: ha saputo, cioè, i nomi dei due inseguitori, che sono poi stati i suoi assassini. Gente del luogo.
La stessa sera del 5 gennaio, in casa di un certo (* *) partigiano, si era tenuta una festa: lo stesso (* *) aveva chiesto in prestito allo zio Nello il giradischi, prontamente dato; durante la festa, intorno alle 9,45, due uomini si sono "assentati" per circa due ore, rientrando intorno alle 23. Questo è stato testimoniato da più persone: e, che strano, si trattava proprio dei due inseguitori di mio padre, entrambi emigrati all’estero.
Quella scomparsa ha fatto parlare tutto il paese; stupire, perché Manfredi non era un uomo compromesso col regime e nessuno si spiegava un così tardo "regolamento di conti". Di più, Anno aveva aiutato tante persone, era benvoluto... nessuno si spiegava tanta atrocità.
Mio zio arciprete ha cercato di sapere di più; si è mosso, ha chiesto ed è arrivato molto vicino alla verità: ha intanto appurato il luogo della "sepoltura"; si tratta di un podere al Cantone, in una zona di confine tra Carpi e Correggio, dove probabilmente sono stati portati altri poveri corpi.
Nel 1990 (* *) ha ammesso con me che in tutte le famiglie ci sono delle pecore nere, e che la morte di mio padre è stata un macroscopico errore, dovuto a rozza manovalanza. Certo questo non basta a tacitare l'angoscia che ancora oggi è dentro di me. Nel 1946 lo zio Nello è stato minacciato: davanti alla porta del negozio, una mattina, ha trovato fascine, fiammiferi e carta, un esplicito avviso. Terrorizzato, si è trasferito a Varese, dove ancora vive. Non si poteva neanche fare ricerche, in quel periodo. Bisognava solo tacere. Per anni abbiamo, mia madre ed io, sopportato privazioni e miseria; mia madre è rimasta sola a 25 anni con un bimbo di 5 da crescere e far studiare. Non avevamo più nulla: neanche la pensione, perché mio padre risultava scomparso, non morto. E così il danno economico si aggiungeva a quello, ben più grave, della nostra desolata solitudine. Ho patito, e patisco ancora, del mio essere orfano. Mi manca mio padre, e la ferita non si è chiusa dopo 50 anni. E mi ferisce il modo.
Tante voci, in questi decenni, mi hanno segnalato nomi, fatti, movimenti... So quasi tutto; i nomi degli assassini mi sono noti; quando ho cercato di avvicinarli non mi hanno voluto neanche ricevere. La verità è stata sepolta con mio padre. E con centinaia di altri, alcuni dei quali sicuramente vittime del rancore personale, dell'odio, dell'invidia, del risentimento... Per costoro, non vittime di guerra, si dovrebbe aprire un capitolo a parte. Io, comunque, non chiedo nulla; solo vorrei che mi fosse restituito ciò che resta di mio padre, perché possa dargli una sepoltura cristiana. Hanno sepolto da uomini anche dei criminali incalliti, degli assassini che hanno commesso genocidi: perché nascondere il cadavere di un civile, di un uomo che vendeva turaccioli e che pensava solo alla sua famiglia? So di misteriose quanto infami connivenze, politiche ed economiche; perché dietro, quasi sempre, c'è molto, molto denaro. Miliardi. Miliardi che tappano bocche, che sanano lacerazioni, che compensano silenzi...
Se questa è la giustizia... nata dalla Resistenza,... mi scusi, ma che squallore! Io spero, spero che qualcuno che sa, prima di lasciare questa terra, abbia un momento di coscienza e si decida a raccontare, magari in modo anonimo, dove sono i corpi di quegli uomini, e sono tanti, che nessuno può piangere, ma che la memoria collettiva non ha dimenticato. Questo incontro, e la speranza che ci sia ancora chi non è venduto al potere, ne sono una prova.»

--------------------------------------------------------------------------------
Marisa Bigi, classe 1937


«Carmen Miari, classe 1921, era sorella di mia madre. Sposata giovanissima con Massimo Beltrami, non aveva col marito un rapporto sereno. Ricordo che la sera che ha seguito la mia Cresima (aprile 1943) la zia si è rifugiata in casa nostra dopo essere scappata dal marito, che l'aveva picchiata selvaggiamente; non voleva più tornare con lui, ma dopo un paio di giorni Beltrami è venuto a riprenderla. Oltre ad essere violento, aveva anche l'amante: così si diceva; certo è che i due si sono separati, quando anche Carmen si è innamorata ed è andata a convivere con un milite della Guardia Nazionale Repubblicana. Erano gli ultimi mesi di guerra; la zia parlava spesso di armi che il nuovo compagno della figlia teneva in cantina... e lei non era d'accordo... sembra anche che raccontasse ai partigiani di questo fatto...
Ma sa, i ricordi sono quelli di una bambina, e quindi molto confusi. Carmen abitava a Rivalta: il 25 o 26 aprile è venuta a Reggio: non ha più fatto ritorno. So che è stata arrestata e che doveva essere portata ai «Servi»; è stata uccisa (in via Castelli?) insieme ad altre 7-8 persone e mia madre ha visto il cadavere nel cimitero Monumentale di Reggio.
La nonna raccontava che era venuta a Reggio per consegnare ai partigiani quelle armi che aveva visto in cantina. Per questo ed altri motivi, la mia famiglia, che era cattolica praticante, e che era lontana da ogni violenza, ha vissuto mesi, anni di paura.
In casa nostra non ci sono mai state tessere di appartenenza politica: eravamo contadini, poveri, ma tranquilli e lavoratori; abitavamo a Pieve Rossa di Bagnolo, in una zona molto "calda". Ricordo che, dopo la Liberazione, c'erano degli esaltati che ci facevano paura perché si andava a messa. Quando c'erano le processioni della Madonna Pellegrina, che seguivamo da una frazione all'altra, bisognava stare in gruppi, sia all'andata che al ritorno, perché avveniva spesso che gli estremisti comunisti minacciassero i solitari e... non si limitassero alle parole! Questo era il momento, che è durato un bel po', e che ci faceva vivere in uno stato di grande ansia e timore. Prima timore dei fascisti, poi dei comunisti! E, negli ultimi mesi di guerra, paura di tutti e due; una mattina del marzo 1945, siamo stati svegliati da 15 partigiani che avevano circondato la nostra casa, in via Beviera n. 46: sono entrati, e, dopo aver mangiato e bevuto, sono andati con le mitragliette sul granaio, aspettando che passassero i tedeschi: per fortuna questo non è avvenuto, perché di sicuro avremmo avuto la casa bruciata e forse avremmo perso anche la vita! Noi eravamo tutti in cantina, nascosti sotto il serbatoio dell'acqua: pregavamo piano, terrorizzati. Ma la Madonna ci ha aiutati. In campagna, i contadini cattolici come noi hanno temuto più i partigiani dei fascisti: le spiego il perché. I militi fascisti venivano da noi solo per controllare, durante la trebbiatura, che il grano raccolto andasse all'ammasso. E poi, durante la vendemmia, per il vino: ma devo dire che non ci hanno mai messo in condizioni di temere per la vita. Fatti i loro controlli, se ne andavano con le loro motociclette senza offendere o prendere niente. Diverso era il comportamento degli altri: probabilmente sarà stata la causa per cui combattevano, ma i modi... quello di mettere sempre a repentaglio la vita di civili, di bimbi, di donne che chiedevano solo di essere lasciati in pace...
Guardi, le voglio raccontare un altro episodio, significativo a questo proposito. Nell'autunno 1944 alcuni contadini delle zone intorno a casa mia, portavano a Reggio il vino (dentro le botti) da consegnare all'ammasso. Era l'alba, e noi sentivamo i carri passare trascinati da cavalli: ad un certo punto sono sbucati dei partigiani - sembrava dal nulla - e, sparando, hanno bucato le botti, facendo fuoriuscire tutto il vino che si è disperso a terra. Dopo questo atto, si sono dati precipitosamente alla fuga. Due ore dopo sono arrivate due camionette tedesche: i militi volevano sapere da dove erano sbucati i partigiani; i conducenti dei quattro carri, allora, hanno sostenuto che provenivano dai campi. Se per caso avessero detto che sbucavano dal retro di una casa, la stessa sarebbe stata bruciata, ed i legittimi proprietari o uccisi o portati in carcere! In ogni modo, in seguito a questa "bravata", sono stati prelevati dal carcere di Reggio 8 prigionieri, portati nel cimitero di S. Michele di Bagnolo, ed ivi uccisi. Noi si era terrorizzati; non mi stancherò mai di ripeterlo. Siamo passati da un regime di paura ad uno di terrore. E questo è durato molti mesi, per anni; dopo l'attentato a Togliatti (14/6/48), i comunisti non ci lasciavano lavorare nei campi, perché c'era lo "sciopero obbligatorio". Allora noi ci alzavamo alle 3 o alle 4 per lavorare col buio, ma sempre con la paura che ci scoprissero. Chi erano questi "guardiani"? Li conoscevamo tutti, perché era gente del posto; molti di loro, i più arroganti e prepotenti li conoscevamo per essere stati, durante il regime, i più arroganti anche allora... Si erano cambiati, alla svelta, la camicia, da nera a rossa... ma il "garbo" era lo stesso! Ricordo che questo era il cruccio del mio povero padre, che non si dava pace per non poter svolgere il suo lavoro nei campi; diceva: "...Mo guarda lè... fin a ier paseven cun al gagliardat... adassa ia van cul la camisa ròsa...".
Sì, la nostra è stata una terra che ha visto molte ingiustizie e molte assurdità: ma è la guerra civile che porta gli uomini a commettere dei fatti senza senso ed a perdere ogni umanità. Tanto è stato detto, ma tantissimo è rimasto nell'ombra, nella memoria contadina che spesso è riservata, timida, caratterizzata dal pudore che contraddistingue i semplici ed i poveri. Ma tacere non vuol dire aver dimenticato; tacere non significa non capire... Anzi, di questi tempi, a me, umilmente, pare che quelli che parlano di più spesso abbaiano alla luna...»
--------------------------------------------------------------------------------

Dott. Filippo Silvestro, classe 1940


«Pur essendo di origini meridionali, la mia famiglia è arrivata a Reggio Emilia nel 1939 proveniente da Pola, ove mio padre, Vincenzo, era capo-sarto militare, nel corpo dei Bersaglieri. Quando il reparto si trasferisce, oltre alla mia famiglia, viene a Reggio Emilia anche una sorella del papà, Pietrina, sposata con Salvatore Ballarino, ed il loro unico figlio, Angelo. E', la mia, da sempre, una famiglia che ha tradizioni militari; d'altra parte, nel sud, per sopravvivere, come tutti sanno, l'esercito è stato una delle poche possibilità. E così, un poco per consuetudine, ma soprattutto perché obbligati dalle necessità, sia mio padre che mio cugino portavano la divisa: Angelo, nel 1943, si era iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana e quindi comandato nella Compagnia "Ordine Pubblico", situata in corso Cairoli, ove attualmente ha sede il comando dei Carabinieri. Era un ragazzone allegro, pieno di voglia di vivere, anche un poco ingenuo: almeno questo emerge dai ricordi di chi lo ha conosciuto. Abitava in via Poli, con la madre ed il padre, quando durante lo spezzonamento del 14 maggio 1944 lo zio Salvatore è rimasto ucciso. Da quel momento, la vedova Ballarino ha riversato tutto il suo amore, diventato quasi ossessivo, sull'unico figlio, Angelo appunto. Molto confusamente, ma ricordo di cene insieme, perché poi mio padre cercava di fare le veci del cognato; ricordo che quando veniva da noi, mi prendeva a cavalluccio sulle spalle e mi faceva giocare: ricordo, e questo più chiaro, il suo allegro scampanellare, il salire le scale e, appena entrato, il calore della sua risata argentina quando io, curiosamente, cercavo nelle sue tasche la stecca di liquirizia che egli vi nascondeva!
Il giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945, in città si svolgeva una sfilata; doveva essere un giorno di festa per la fine della guerra, ed è stato invece l'inizio di una mattanza che ancor oggi i reggiani ricordano con orrore. Una mattanza che è durata mesi, anni. Mio padre, Angelo e la signora Giordano, capo-calzolaio dei Bersaglieri alla caserma «Cialdini», collega del papà, erano in via Emilia per partecipare, come tutti, alla sfilata insieme alla popolazione festosa; dalla folla si leva una voce stridula, isterica, lacerante che grida: "...Quello è il fascista Ballarino...!" Alcuni lupi inferociti da quelle parole sono piombati addosso ad Angelo, e, malmenandolo brutalmente, l'hanno condotto alla sede del comando partigiano, presso l'attuale caserma "Zucchi".
Immediatamente mio padre vi si è recato, cercando di parlare con i comandanti, per spiegare l'incredibile equivoco che aveva condotto il nipote al comando; un equivoco che si chiamava omonimìa; infatti, a Reggio aveva operato - e con mano pesante - il Colonnello Anselmo Ballarino, Comandante Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana, che però, con Angelo, non aveva nulla in comune, salvo il cognome...
Quel giorno sono stati arrestati centinaia di uomini: in caserma c'era ressa, caos, addirittura... mio padre si è recato allora alla "Zucchi", per vedere di chiedere aiuto a qualche graduato, per spiegargli l'assurdo arresto, ma, purtroppo, nessuno l'ha potuto - o voluto - aiutare. La mattina seguente, prestissimo, di nuovo al comando partigiano; sorpresa: Angelo Ballarino, insieme a decine di altri uomini, era stato caricato su di un camion, la sera precedente, e portato ad ignota destinazione. Incredibile. Ho poi saputo che l'"ignota destinazione" erano le fosse comuni della bassa reggiana, previo un giretto alle "case della morte" di ben triste conoscenza, oppure qualche sperduta concimaia, dove spesso i poveri prigionieri venivano sepolti vivi...
Io, della giustizia partigiana, ho quel ricordo qui. Mia zia, che in un anno ha perso marito e figlio, si è ammalata di una profonda depressione, mai guarita, che l'ha accompagnata alla tomba. La mia famiglia sconvolta. Io ancora - e sono passati 52 anni - domando ai reggiani: dov'è il cadavere di mio cugino Angelo Ballarino la cui unica colpa è stata quella di portare quel cognome? Attendo risposta, ben sapendo che non verrà mai. Gli assassini sanno il perché. Ma non solo loro.»

Il Patriota
25-04-02, 19:34
certi pseudopadani dovrebbero riflettere su una frase di Ciappy a propostio del 25 aprile " un filo rosso lega risorgimento e resistenza"....quel filo rosso è la catena che strozza le nazioni padane e che certi (rivelatisi antipadani e filoitaliotricolorati) non hanno mai capito!!!

cuoreverde
25-04-02, 20:05
Il 25 aprile è una festa idota perchè esalta i valori della resistenza che avrebbero di fatto sconfitto il nazifascismo e liberato la terra dei cachi dai crucchi.
Inutile rammentare che se non fosse stato per gli alleati, col cazzo che i partigiani alla Pertini -'me ne sto in Francia e torno da eroe'- avrebbero portato la 'democrazia' nel belpaese (Galbani).

Mi fanno pena queste commemorazioni a 60 anni dall'evento.
Mi fanno pena i cortei col tricolore.

E no al comunismo lo dico io!
No agli extracomunitari clandestini.
No allo strapotere ebreo in tutte le faccende economiche.
No ai musulmani in ogni angolo.
No ai falsi autonomisti che appoggiato il culo sulle ricche poltrone romane.
Vanno a letto con gli alleati, cambiano il nome al movimento autonomista (doveva restare LEGA NORD PER L'INDIPENDENZA DELLA PADANIA), parlando di Le Pen si dissociano anche se....(x non irritare ciampi & i rossi).

W Le Pen.
W la Destra Cattolica Tradizionalista.
W la PADANIA !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
cuoreverde
:mad:

LN
25-04-02, 20:13
Originally posted by Erwann



Mah, io intendevo che non capisco la tua posizione che sembra essere più che altro di reazione al valore antifascista della festa.

Te la spiego subito la mia posizione:
io sono anti-comunista,quindi sono anti-partigiani (leggiti gli articoli di der wehrwolf) e quindi sono anti-25 aprile.
Inoltre sono contro chi è un antifascista militante.
In più tutti i tricolori che oggi ho visto per il mio paese mi danno il voltastomaco.

Capito?

Il Patriota
25-04-02, 20:34
la resistenza (ci sarebbe da scrivere se fu cosa vera o invenzione a tavolino..tipo le giornate di Napoli..pura propaganda!) fu monopolizzata dai rossi e non fu altro che guerra politica tra fascisti e comunisti ...con questi ultimi che con stragi e massacri cercavano di instaurare la dittatura rossa in Italia (altro che autonomia)...il regalo della resistenza fu la cosidetta repubblica italiana...repubblica dei cachi che ci ha regalato
-immigrazione dal sud (1500000)
-immigrazione extraeuropea (2-3 milioni)
-mafia
-ladrocinio
-stragi
-terrorismo
-bancaratto
......bella liberazione....chi festeggia sta roba è proprio un antipadano....o un masochista idiota!!Chi invece è allergico alla retorica (l'unità nazziunale si fonda sul 25 aprile ..forse qualche scemotto non la sa....) non ha nulla da festeggiare ..anzi!!

Celtic Pride (POL)
27-04-02, 20:43
il 25 aprile è una festa che fa schifo anche a me.
per me è stato solo un giorno di vacanza e di riposo dal lavoro, non certo una giornata da sentirsi orgogliosi, battersi il petto inneggiando ad una resistenza e ad una ipotetica liberazione...che non è mai avvenuta e che non interessa certo i popoli Padani.
siamo passati da una dittatura ad un altra.
e c'è da festeggiare??
festeggiare cosa poi??
una festa monopolizzata dai comunisti,una festa dove i tricolori sventolano ovunque insieme alla falci e ai martelli?

per non parlare poi dei massacri compiuti dai cosi detti liberatori e dai partigiani che volevano farci passare dal fascismo al comunismo...e qui dobbiamo solo ringraziare gli USA e la DC dei primi tempi se no ora col cazzo che stavamo qui a parlarne e a dissociarci....
non esiste peggior cosa al mondo per me di una dittatura comunista questa è una cosa da "ricordare" e per cui bisognerebbe manifestare!!!

Il Patriota
28-04-02, 10:07
vallo a spiegare a chi sul forum Padania in maniera idiota e che tanto risuona di slogan inneggia alla cd liberazione....:rolleyes:

Il Patriota
28-04-02, 11:18
Proteste e appelli dopo la scia di spray da Loreto al Duomo. I sindacati: non possiamo fermare i vandali da soli

«Scritte sui negozi, la polizia ci difenda»

I commercianti: il Primo Maggio non sia come il 25 Aprile. Assoedilizia: danni per 250 mila euro


Fanno ancora discutere le scritte e gli slogan rimasti sui muri del centro dopo il corteo del 25 Aprile. Assoedilizia stima in circa 250 mila euro i danni subiti dai proprietari degli stabili. Sul piede di guerra soprattutto i commercianti, che dicono: «Non vogliamo che il corteo del prossimo primo maggio porti con sé nuovi atti di vandalismo». Dal canto loro, i sindacati che stanno organizzando la manifestazione assicurano la massima attenzione perché la sfilata della Festa del Lavoro avvenga nella massima serenità e sicurezza. Nello stesso tempo, però, rigettano ogni responsabilità per quanto riguarda gli atti compiuti da chi segue il corteo. E criticano la proposta del Comune secondo cui sarebbe necessaria una legge che obblighi gli organizzatori delle manifestazioni a farsi carico del risarcimento dei danni a edifici, vetrine e saracinesche. Ad arricchire il dibattito arriva una proposta del presidente della Camera di Commercio e dell’Unione dei commercianti. Secondo Carlo Sangalli, si potrebbe studiare una polizza assicurativa a copertura dei danni legati allo svolgimento di cortei e manifestazioni. A farsene carico dovrebbero intervenire, a seconda dei casi, enti locali, istituzioni, enti organizzatori, rappresentanze delle imprese e dei commercianti

ariel
25-04-04, 18:38
non sono padano, ma mi unisco a voi per farla finita con questo schifo del 25/04

saluti anticomunisti

Totila
25-04-04, 18:50
Sicuramente il 25 aprile e quello che è venuto dopo, mi fa schifo.
Sicuramente sono antifascista perchè rifiuto la retorica e il progetto centralista-nazionalista del fascismo.
L'unica cosa che mi piace del fascismo è la RSI; ma solo per la sua dimensione "padana".
Per il resto, se fossi vissuto allora, mi sarei arruolato con i tedeschi.
:cool:

Totila
25-04-04, 18:50
Originally posted by ariel
non sono padano, ma mi unisco a voi per farla finita con questo schifo del 25/04

saluti anticomunisti
su questo siamo d'accordo.;)

Padanik (POL)
25-04-04, 18:55
25 aprile giorno dell'Infamia e della fine dell'Europa!:mad:

Sùrsum corda! (POL)
25-04-04, 19:27
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=95865

http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=95890

:cool:

Sùrsum corda! (POL)
26-04-04, 21:59
http://www.cronologia.it/storia/a1940zzo.jpg

:cool:

Spirit
27-04-04, 01:04
Tanti "se" e tanti "ma", però dal fascismo, che significa Stato-nazionale nella pienezza delle sue basse manifestazioni, romanità, mistificazione del concetto autentico di comunità, Codice Rocco, non si possono non prendere le distanze. Il 25 aprile simboleggia la liberazione dal regime fascista. Oggi ci sono diversi fascisti che devono ancora essere detronizzati. Personaggi che sposano ideali totalitari di vita, contrari all'autodeterminazione dei popoli, ai diritti delle comunità, alle tradizioni reali delle nostre terre. Sono loro che stanno distruggendo l'Europa, e non certo in nome di quegli ideali di democrazia e libertà che servono solo a far da paratia a fini molto meno nobili. Per cui non vedo nulla di male nel definirsi, ad esempio, "partigiani verdi", laddove il termine partigiani non significa assolutamente comunisti, al contrario...E verdi, beh, non devo spiegarlo...

Totila
27-04-04, 01:14
Originally posted by ZENA
Tanti "se" e tanti "ma", però dal fascismo, che significa Stato-nazionale nella pienezza delle sue basse manifestazioni, romanità, mistificazione del concetto autentico di comunità, Codice Rocco, non si possono non prendere le distanze. Il 25 aprile simboleggia la liberazione dal regime fascista. Oggi ci sono diversi fascisti che devono ancora essere detronizzati. Personaggi che sposano ideali totalitari di vita, contrari all'autodeterminazione dei popoli, ai diritti delle comunità, alle tradizioni reali delle nostre terre. Sono loro che stanno distruggendo l'Europa, e non certo in nome di quegli ideali di democrazia e libertà che servono solo a far da paratia a fini molto meno nobili. Per cui non vedo nulla di male nel definirsi, ad esempio, "partigiani verdi", laddove il termine partigiani non significa assolutamente comunisti, al contrario...E verdi, beh, non devo spiegarlo...

Lo stato-nazione, però è sopravvissuto al fascismo. Anzi è stato mutuato dalla repubblica antifascista e continua nella sua opera demolitrice delle specificità.
Per dirla con Pasolini, quello che non riuscì al fascismo, riuscì, in termini di omologazione, alla repubblica nata dalla resistenza.
Nessuna nostalgia, quindi, per il fascismo-stato-nazione.
Semmai per il "fascismo" nella sua valenza europea anti-USA e anti-comunista.

Spirit
27-04-04, 01:33
Originally posted by Totila
Lo stato-nazione, però è sopravvissuto al fascismo. Anzi è stato mutuato dalla repubblica antifascista e continua nella sua opera demolitrice delle specificità.
Per dirla con Pasolini, quello che non riuscì al fascismo, riuscì, in termini di omologazione, alla repubblica nata dalla resistenza.
Nessuna nostalgia, quindi, per il fascismo-stato-nazione.
Semmai per il "fascismo" nella sua valenza europea anti-USA e anti-comunista.

Per essere europei, contrari al liberismo economico, alle politiche "neo-cons" e allo stesso tempo anti-comunisti è necessario essere fascisti? Io credo che non si possa distinguere il fascismo dalla sua essenza statalista e dittatoriale, essenza ereditata anche dalla repubblica, che non a caso ho detto essere ben lontana dagli ideali cui dice di rifarsi. Per questa ragione ho coniato il termine "partigiani verdi". Perchè non siamo né rossi, né bianchi. E perchè non siamo, almeno fino a nuovo congresso, eredi di chi vive il 25 aprile come una sconfitta. Speriamo un giorno di poter scrivere un nostro 25 aprile contro chi vuole, da diversi lati, non ultimo (anzi) quello fascista, spersonalizzare le nostre terre.

Guelfo Nero
30-04-04, 08:46
http://www.uni.tim.it/photoalbum/photoalbum/immagini/good/00000/018/18775/73862/547806.jpg

Come si suol dire, un piccolo riorientamento di significati.

Guelfo Nero

:) :) :)