PDA

Visualizza Versione Completa : Fresu



tziku
08-05-02, 01:19
L'artista parla dell'isola e della sua attività

Fresu e i suoni della memoria

«Lavoro in tutto il mondo ma non dimentico di essere sardo»
L'incontro con i grandi del jazz, i seminari ogni estate a Nuoro

di Pasquale Porcu

SASSARI.
Quanta strada da «Ostinato» e «Mamut» a «Porgy and Bess»! Dalle prime sedute in sala di incisione alle trionfali tournèe in tutto il mondo: cento, finora, i dischi incisi da Paolo Fresu. Non si contano più ormai i progetti, le idee, le iniziative che il trombettista sardo ha animato in tanti anni di attività. Difficile, dunque, parlare dei «Suoni della memoria» con questo vulcanico protagonista della musica contemporanea. «Jazzista»? Per Paolo potrebbe essere un termine riduttivo. A meno che non si facciano delle precisazioni e dei distinguo.

Fresu è un musicista la cui attività è difficilmente contenibile entro uno schema definito. Suonava nella banda del paese quando aveva i calzoni corti, ma si è diplomato al Conservatorio, ha seguito i seminari di Siena Jazz prima di diventarne uno dei docenti ed ha animato la scena delle nuove avanguardie del jazz italiano e dirige i Seminari Jazz di Nuoro, frequentati finora da più di mille persone. Ma non è da considerare «minore» la partecipazione a dischi di musica «leggera»: con Ornella Vanoni, Alice, Vinicio Capossela.

Indipendentemente dal contesto in cui suona, il linguaggio di Fresu è sempre molto pacato, d'atmosfera, tendente a disegnare un universo sonoro di grande lirismo. Un universo che si costruisce con la fantasia e la libertà, ma soprattutto con lo straordinario talento che pochi musicisti possiedono.
Per Paolo, dunque, jazz è sinonimo di libertà. La libertà che possiede solo chi da una molecola sonora riesce a costruire un paesaggio fatto di note e di emozioni.


- Paolo Fresu, come ha fatto un ragazzo di Berchidda a innamorarsi del jazz, una musica tipica della cultura urbana?

«Potrebbe sembrare una contraddizione, lo so. Ma a pensarci bene non è così. Sia la musica sarda che il jazz hanno radici fortemente popolari, si alimentano di improvvisaione, pescano dalla storia. Sono entrambi in movimento perenne. E io sono, mi sento figlio della cultura sarda. Anzi da quando mi sono allontanato dalla Sardegna, questo sentimento si è accentuato. Anche perchè ho capito e amato anche l'ambiente e i paesaggi che solo da noi si possono vedere. Le pietre che ritrovo nelle campagne sarde ora mi parlano, esattamente come gli alberi piegati dal vento. Prima anche la natura sarda mi diceva poco, poi ho visto che l'ambiente è parte integrante e caratteristica del nostro modo di essere, di vivere, di sentire. Così per la musica sarda: esiste un atteggiamento poetico che è un sentimento diffuso. L'ho appreso da mio padre fin da piccolo, attraverso i gesti quotidiani di casa mia o durante il lavoro nei campi».

- Ma il jazz pur avendo origini popolari, in Europa ha avuto un'altra evoluzione...

«E' vero. Il jazz in Europa è frutto dell'incontro con la musica colta di estrazione accademica. Ma ha avuto sempre la possibilità di dialogare e di rapportarsi con altre musiche, con altre culture. In fondo è questa anche la filosofia di «Time in Jazz», il festival che facciamo a Berchidda. Il jazz, insomma, è il linguaggio che consente di fare incontrare tra loro musica popolare e arti figurative, cinema e poesia. Mi piace la saggezza degli uomini semplici esattamente quanto la poesia degli scritti di Marcello Fois o Flavio Soriga».

- La scelta: il jazz e non un altra forma musicale nasce forse anche da motivazioni inconscie. E' stato così anche per te?

«Devo dire di sì. Ho scelto il jazz, perchè per me il jazz è sinonimo di libertà. Mi piacciono gli incontri nuovi, i linguaggi che permettono di portare fuori le cose che ciascuno di noi ha dentro. E il jazz questo mi permette di farlo, entrando in contatto, ad esempio, con le nuove forme d'arte o di scrittura: dal regista Gianfranco Cabiddu agli scrittori sardi citati prima».

- Quanto ha contato in questa tua passione per la poesia, per le poesie, il fato che tuo padre sia un poeta?

«Mio padre è un uomo di campagna, non è un intellettuale nel senso che non ha frequentato le scuole. Ma ha sempre scritto poesie, ama molto l'arte e la musica, la comunicazione attraverso l'arte. Da qualche tempo ho archiviato tutte le cose che lui ha raccolto in 40 anni: poesie, racconti, proverbi. Ed è quasi diventato un mio secondo hobby, la compilazione di un vocabolario sardo-italiano che forse non pubblicherò mai ma al quale sto lavorando da tempo. Ci lavoro quando sono in giro per il mondo, a Berlino, New York o Tokyo ed è un modo per sentirmi più vicino alla Sardegna, per non dimenticare le mie origini. Mi piace essere cittadino del mondo senza dimenticare di essere sardo. Ho imparato a parlare usando il sardo e penso e sogno in sardo. E mi piace che quando parlano di me in Francia dicano 'il musicista sardo'. E quando vado in giro per il mondo e incontro persone che vengono da me per dirmi semplicemente 'sono di Borutta'o 'sono di Orune', mi conferma come i sardi sentano molto questo problema. Certo ai miei colleghi di Torino o di Milano non succede...».

- I tuoi genitori hanno mai ostacolato la tua scelta di fare il musicista?

«Sia mio padre che mia madre hanno sempre mostrato grande sensibilità e rispetto per le mie ambizioni. Quando ero piccolo accompagnavo mio padre in campagna. Ma alle cinque della sera smetteva di lavorare e mi accompagnava a fare le prove con la banda musicale del paese».

:cool: