Tormento (POL)
08-05-02, 09:15
Posto un editoriale apparso sulla Sicilia del 6 Maggio
IL CASO SICILIA
di Giuseppe Giarrizzo
Forse non basta la vigilia elettorale a dar conto delle requisitorie che hanno denunciato nelle scorse settimane la condizione «africana» della Sicilia, o - come altri preferisce - hanno attentato al suo onore: epperò non ci son prove di complotto, e la spiegazione più ovvia è la somma di apprensioni che da qualche tempo suol generare nell'opinione nazionale la Sicilia «che fa paura», quella Sicilia che non è (non sembri paradossale) la Sicilia della mafia ma la Sicilia dell'agroalimentare, del vino di qualità e dell'olio doc. Per vie spontanee ed inattese, i prodotti siciliani hanno raggiunto mercati europei ed extra-europei, e sono riusciti negli anni recenti a recuperare lo svantaggio accumulato nel settore già vitale degli agrumi, entrando in competizione vivace con altre regioni del Mezzogiorno, e soprattutto con altre regioni dell'Europa mediterranea. V'ha apprensione anche nel versante turistico delle stesse regioni? Qui i ritardi siciliani restano vistosi, e l'offerta confusa e poco garantita, eppure non mancano anche per ciò rumori di fondo, e mostre di inquietudine da parte del turismo adriatico tanto meno dotato di offerta culturale, anche se meglio attrezzato per un turismo di massa, e dello stesso turismo spagnolo in rapido recupero dopo il saccheggio delle coste degli anni '60 e '70.
Ma se le cose stanno così, va subito rimossa quella melassa ipocrita della «virtù offesa» che ha sommerso in questi giorni la nostra stampa con le dichiarazioni dei «nuovi» politici. Se c'è un aspetto della vita siciliana che non merita apologia è proprio la politica della Regione, che ignora i veri problemi dello sviluppo e della «civiltà» siciliani, e si attesta su una difesa ostinata di anacronistici privilegi (che diventano abusi, quando come da noi il divario tra costi e ricavi è tanto grande!). Le amministrative imminenti sono diventate da mesi un appuntamento politico «distorto», effetto della immaturità e dell'elettoralismo spinto della nuova classe dominante: sono verifiche di sondaggi. Eppure è sul potere locale che si giocherà il futuro istituzionale della Sicilia. Ed è questo il terreno su cui emergerà presto la scontata verità, che il maggior inciampo allo sviluppo dell'Isola è costituito dalla tradizione di governo regionale, dall'operare della Regione come controparte delle autonomie locali, lasciate a se stesse in materia di infrastrutture, di iniziative consortili nel governo del territorio, di indirizzi di politica culturale, di efficienza in materia di economie di scala o di produttività nella confusa ripetitività dell'offerta, di geografia coordinata dell'alta formazione. Ogni comune è lasciato, senza guida, a rivendicare servizi costosi dall'ospedale all'università, a inventarsi percorsi inattuali e ripetitivi di turismo culturale, a comprare progetti inutili di infrastrutture con l'offa dell'accesso a fondi europei o nazionali, all'umiliante «passaggio» decisivo per la segreteria del partito che ha espresso l'assessore di turno. E l'elenco, sol che se ne parli con chi ha fatto e fa la «via crucis» dell'amministratore locale, potrebbe allungarsi all'infinito...
È questo l'onore vero della Sicilia, un paese di città grandi e piccole che è cambiato «nonostante» la pessima politica regionale: ma che ha il diritto di chiedere perciò quella «grande riforma» della Regione, che passa attraverso una radicale revisione di uno Statuto speciale, la cui storia è segnata dal peccato originale del «ricatto separatista» e che si identifica con un impiego sterile e peggio di risorse ingenti e frantumate. V'ha chi sappia raccontare la storia politico-istituzionale della Sicilia dal 1946 diversamente che come un rosario di occasioni perdute? A cosa è valso appartarsi dal Mezzogiorno per un arrogante protagonismo, che ha tolto altrui quel che non ha saputo avere per sé? E in che misura il recente saccheggio dei grandi istituti di credito meridionali, figli di una stagione alta del «meridionalismo classico», non è stato da Palermo a Napoli l'ennesima prova di una sbagliata «politica delle mance»? L'onore della Sicilia non coincide certo con una falsa immagine da cartolina, con l'oleografia televisiva dei suoi monumenti e dei suoi musei, confortati dalle nostalgie «retro» degli emigrati in visita e neppure col mero privilegio letterario di una terra tanto tragica (che «tragedi» sono tutti i suoi grandi letterati, da Verga a Sciascia), sulla quale si vorrebbero imporre i segni d'attrazione del turismo religioso di massa: la forza dei suoi caratteri originari avrà presto ragione di queste importazioni subalterne e dissennate. La cultura non ha solo regole di mercato, e sarebbe criminale soffocar le urgenze locali che negli ultimi decenni sono venute meglio interpretando per la propria comunità e su scala territoriale quel nuovo sentimento della natura - che vuole sviluppo compatibile, e chiede per le nostre città un miglior piazzamento nelle più o meno autorevoli gerarchie della «vivibilità».
Come appaiono vecchie allora, di fronte a tutto questo, le stesse attribuzioni assessoriali! Diamo ai Beni culturali le competenze su Territorio e ambiente, che sono riconosciuti beni culturali, affidando ad altri la Pubblica istruzione, e ridefinendo il rapporto con gli Enti locali; unifichiamo in unico assessorato l'Occupazione e lo Sviluppo economico, in quelle Attività produttive che unificano agricoltura e industria; e lasciando i Lavori pubblici agli Enti locali limitiamo al coordinamento le competenze regionali per le grandi infrastrutture; ecc. Mi limito a raccogliere proposte di buon senso; ma ci sarà mai, dopo il fatidico maggio, un tavolo in cui il presidente «di nuovo modello» possa far valere la diversa qualità del suo potere? O, col sopraggiungere della messicana «pennichella» estiva, ci rassegneremo per molti anni alla vecchia politica dell'arroganza e dell'impotenza, del favore trasversale e del colpo di mano di un'Assemblea cui spettano tuttora ruoli di governo mescolati ai compiti legislativi di istituto? Lo scetticismo è d'obbligo ma ogni scettico, ogni realista innaffia sempre nell'angolo vieppiù stretto dell'utopia la pianticella della speranza.
Che ve ne pare?
IL CASO SICILIA
di Giuseppe Giarrizzo
Forse non basta la vigilia elettorale a dar conto delle requisitorie che hanno denunciato nelle scorse settimane la condizione «africana» della Sicilia, o - come altri preferisce - hanno attentato al suo onore: epperò non ci son prove di complotto, e la spiegazione più ovvia è la somma di apprensioni che da qualche tempo suol generare nell'opinione nazionale la Sicilia «che fa paura», quella Sicilia che non è (non sembri paradossale) la Sicilia della mafia ma la Sicilia dell'agroalimentare, del vino di qualità e dell'olio doc. Per vie spontanee ed inattese, i prodotti siciliani hanno raggiunto mercati europei ed extra-europei, e sono riusciti negli anni recenti a recuperare lo svantaggio accumulato nel settore già vitale degli agrumi, entrando in competizione vivace con altre regioni del Mezzogiorno, e soprattutto con altre regioni dell'Europa mediterranea. V'ha apprensione anche nel versante turistico delle stesse regioni? Qui i ritardi siciliani restano vistosi, e l'offerta confusa e poco garantita, eppure non mancano anche per ciò rumori di fondo, e mostre di inquietudine da parte del turismo adriatico tanto meno dotato di offerta culturale, anche se meglio attrezzato per un turismo di massa, e dello stesso turismo spagnolo in rapido recupero dopo il saccheggio delle coste degli anni '60 e '70.
Ma se le cose stanno così, va subito rimossa quella melassa ipocrita della «virtù offesa» che ha sommerso in questi giorni la nostra stampa con le dichiarazioni dei «nuovi» politici. Se c'è un aspetto della vita siciliana che non merita apologia è proprio la politica della Regione, che ignora i veri problemi dello sviluppo e della «civiltà» siciliani, e si attesta su una difesa ostinata di anacronistici privilegi (che diventano abusi, quando come da noi il divario tra costi e ricavi è tanto grande!). Le amministrative imminenti sono diventate da mesi un appuntamento politico «distorto», effetto della immaturità e dell'elettoralismo spinto della nuova classe dominante: sono verifiche di sondaggi. Eppure è sul potere locale che si giocherà il futuro istituzionale della Sicilia. Ed è questo il terreno su cui emergerà presto la scontata verità, che il maggior inciampo allo sviluppo dell'Isola è costituito dalla tradizione di governo regionale, dall'operare della Regione come controparte delle autonomie locali, lasciate a se stesse in materia di infrastrutture, di iniziative consortili nel governo del territorio, di indirizzi di politica culturale, di efficienza in materia di economie di scala o di produttività nella confusa ripetitività dell'offerta, di geografia coordinata dell'alta formazione. Ogni comune è lasciato, senza guida, a rivendicare servizi costosi dall'ospedale all'università, a inventarsi percorsi inattuali e ripetitivi di turismo culturale, a comprare progetti inutili di infrastrutture con l'offa dell'accesso a fondi europei o nazionali, all'umiliante «passaggio» decisivo per la segreteria del partito che ha espresso l'assessore di turno. E l'elenco, sol che se ne parli con chi ha fatto e fa la «via crucis» dell'amministratore locale, potrebbe allungarsi all'infinito...
È questo l'onore vero della Sicilia, un paese di città grandi e piccole che è cambiato «nonostante» la pessima politica regionale: ma che ha il diritto di chiedere perciò quella «grande riforma» della Regione, che passa attraverso una radicale revisione di uno Statuto speciale, la cui storia è segnata dal peccato originale del «ricatto separatista» e che si identifica con un impiego sterile e peggio di risorse ingenti e frantumate. V'ha chi sappia raccontare la storia politico-istituzionale della Sicilia dal 1946 diversamente che come un rosario di occasioni perdute? A cosa è valso appartarsi dal Mezzogiorno per un arrogante protagonismo, che ha tolto altrui quel che non ha saputo avere per sé? E in che misura il recente saccheggio dei grandi istituti di credito meridionali, figli di una stagione alta del «meridionalismo classico», non è stato da Palermo a Napoli l'ennesima prova di una sbagliata «politica delle mance»? L'onore della Sicilia non coincide certo con una falsa immagine da cartolina, con l'oleografia televisiva dei suoi monumenti e dei suoi musei, confortati dalle nostalgie «retro» degli emigrati in visita e neppure col mero privilegio letterario di una terra tanto tragica (che «tragedi» sono tutti i suoi grandi letterati, da Verga a Sciascia), sulla quale si vorrebbero imporre i segni d'attrazione del turismo religioso di massa: la forza dei suoi caratteri originari avrà presto ragione di queste importazioni subalterne e dissennate. La cultura non ha solo regole di mercato, e sarebbe criminale soffocar le urgenze locali che negli ultimi decenni sono venute meglio interpretando per la propria comunità e su scala territoriale quel nuovo sentimento della natura - che vuole sviluppo compatibile, e chiede per le nostre città un miglior piazzamento nelle più o meno autorevoli gerarchie della «vivibilità».
Come appaiono vecchie allora, di fronte a tutto questo, le stesse attribuzioni assessoriali! Diamo ai Beni culturali le competenze su Territorio e ambiente, che sono riconosciuti beni culturali, affidando ad altri la Pubblica istruzione, e ridefinendo il rapporto con gli Enti locali; unifichiamo in unico assessorato l'Occupazione e lo Sviluppo economico, in quelle Attività produttive che unificano agricoltura e industria; e lasciando i Lavori pubblici agli Enti locali limitiamo al coordinamento le competenze regionali per le grandi infrastrutture; ecc. Mi limito a raccogliere proposte di buon senso; ma ci sarà mai, dopo il fatidico maggio, un tavolo in cui il presidente «di nuovo modello» possa far valere la diversa qualità del suo potere? O, col sopraggiungere della messicana «pennichella» estiva, ci rassegneremo per molti anni alla vecchia politica dell'arroganza e dell'impotenza, del favore trasversale e del colpo di mano di un'Assemblea cui spettano tuttora ruoli di governo mescolati ai compiti legislativi di istituto? Lo scetticismo è d'obbligo ma ogni scettico, ogni realista innaffia sempre nell'angolo vieppiù stretto dell'utopia la pianticella della speranza.
Che ve ne pare?