Österreicher
08-05-02, 21:31
di Alberto Mingardi
articolo apparso l'8 maggio sul quotidiano indipendente Libero
Questa settimana ricorre un anniversario particolare.
Non è quello di una vittoria militare, non c'entra il compleanno di una figure illustre.
Il 9 maggio, cinque anni fa, Gilberto Buson, Cristian Contin, Flavio Contin, Antonio Barison, Luca Peroni, Moreno Menini,
Fausto Faccia, Andrea Viviani e a distanza, col cannocchiale Bepìn Segato e Luigi Faccia, s'arrampicavano su un simbolo, espugnavano la storia. Sbarcati in piazza San Marco su un improbabile "blindato", i Serenissimi riuscirono a intrufolarsi nel campanile, a salire fino in cima e sventolare, per una volta ancora, il vessillo col Leone alato.
Il tutto era stato apparecchiato attraverso alcuni segnali pirata, messaggi clandestini che avevano spodestato delle sue tronfie frequenze la tv di Stato: e dato una voce, per quanto gracchiante e surreale, al popolo veneto.
Quel giorno ci svegliammo con "la patria in pericolo", e andammo a letto con il sorriso sulle labbra, era stata una "carnevalata"
e nulla più. Sì, ma ai monellacci è costata cara. Hanno pagato quel sussulto del cuore mentre si osserva l'ondeggiare lieve di una bandiera: una bandiera impossibile, per noi che siamo incatenati al tricolore.
Sono passati cinque anni, e sembra un secolo. Era un'altra Italia quella che per metà spiava scandalizzata questi ipotetici moti veneziani, e per l'altra metà si entusiasmava e li applaudiva. La Facco Editore diede alle stampe un libriccino, "Ti con nu nu con Ti" che raccoglie i saluti, le strette di mano e le pacche sulle spalle spediti agli "eroi" finiti in carcere.
"A Venezia il governo, Roma all'inferno". "Gli onesti in galera, i ladroni a spasso con stipendio statale".
"Il coraggio è di pochi, grazie". Messaggi semplici, come la gente che li scrisse, il riconoscimento implicito di un'ingiustizia e di
un diritto assieme.
L'ingiustizia di chi sbatte dietro le sbarre un uomo perché non la pensa come lui.
Il diritto di un popolo di dire basta alle angherie di uno Stato predatore.
L'aveva già scolpito, nella "Dichiarazione d'Indipendenza", Thomas Jefferson: i governi "derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati" e "ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini (opprimere anziché proteggere, cioè, le libertà individuali) è diritto del popolo modificarlo o distruggerlo". Anche adesso che siamo tutti americani, queste parole di Jefferson, che aprirono il cuore e affilarono la spada ai coloni nel 1776, ci rifiutiamo di ascoltarle. Come continuiamo a girare attorno al problema fondamentale che i Serenissimi gettavano sul piatto. Sta tutto racchiuso in una parola: secessione. Argomento tabù.
Parlare di secessione, però, è l'indispensabile premessa per discutere di federalismo. Federalismo che viene da "foedus", patto. E quello che col federalismo entità diverse stringono è appunto un patto, un contratto.
Ma che contratto è se non ho la libertà di rinegoziarlo, di tirarmi indietro?
La scommessa del federalismo è costringere la politica a giocare con le regole del mercato.
Per stare "con chi si vuole e con chi ci vuole" (diceva Miglio), c'è bisogno di discutere, se non altro per capire chi ci vuole e chi no. E non può essere un matrimonio religioso, finché morte non ci separi, perché i popoli non sono uomini, ma milioni di uomini che si susseguono come un fiume nella storia, e prima ancora che ogni generazione: ogni individuo deve poter impugnare il patto che lo lega alla comunità.
Queste verità le riaffermò, in un suo bellissimo fondo sul "Giornale" all'epoca diretto da Vittorio Feltri, Sergio Ricossa.
Ricossa spiegava ai lettori che, come spesso accade, gli americani non ci avrebbero capito. Che "essere governati da Venezia sia meglio che esserlo da Roma" è "una presunzione che perfino i romani avrebbero difficoltà a confutare".
Figurarsi un cittadino statunitense, figlio di un Paese che è nato da una secessione e che per metà, quel Sud abbattuto ma non sconfitto da Lincoln, la secessione la sogna ancora. Ecco, se questi erano pensieri scomodi allora, guardiamoci attorno.
La Lega ha vinto le elezioni: sì, mai visti tanti tricolori per strada. Di federalismo l'ultima volta che se ne è parlato è stato per il referendum su quell'aborto di riforma sponsorizzata dall'Ulivo.
Al governo c'è la casa delle libertà, ma nel novero la libertà di Luigi Faccia e Bepìn Segato non è compresa.
Ricossa suggeriva "ai nostri giovani più impazienti di raggiungere i giovani sudisti", nel caso in cui la "scossa decisiva, quella che sgretolerà del tutto il nostro già abbondantemente fessurato edificio statale" dovesse tardare. Abbiamo aspettato cinque anni. Forse è il momento di prenotare il biglietto.
articolo apparso l'8 maggio sul quotidiano indipendente Libero
Questa settimana ricorre un anniversario particolare.
Non è quello di una vittoria militare, non c'entra il compleanno di una figure illustre.
Il 9 maggio, cinque anni fa, Gilberto Buson, Cristian Contin, Flavio Contin, Antonio Barison, Luca Peroni, Moreno Menini,
Fausto Faccia, Andrea Viviani e a distanza, col cannocchiale Bepìn Segato e Luigi Faccia, s'arrampicavano su un simbolo, espugnavano la storia. Sbarcati in piazza San Marco su un improbabile "blindato", i Serenissimi riuscirono a intrufolarsi nel campanile, a salire fino in cima e sventolare, per una volta ancora, il vessillo col Leone alato.
Il tutto era stato apparecchiato attraverso alcuni segnali pirata, messaggi clandestini che avevano spodestato delle sue tronfie frequenze la tv di Stato: e dato una voce, per quanto gracchiante e surreale, al popolo veneto.
Quel giorno ci svegliammo con "la patria in pericolo", e andammo a letto con il sorriso sulle labbra, era stata una "carnevalata"
e nulla più. Sì, ma ai monellacci è costata cara. Hanno pagato quel sussulto del cuore mentre si osserva l'ondeggiare lieve di una bandiera: una bandiera impossibile, per noi che siamo incatenati al tricolore.
Sono passati cinque anni, e sembra un secolo. Era un'altra Italia quella che per metà spiava scandalizzata questi ipotetici moti veneziani, e per l'altra metà si entusiasmava e li applaudiva. La Facco Editore diede alle stampe un libriccino, "Ti con nu nu con Ti" che raccoglie i saluti, le strette di mano e le pacche sulle spalle spediti agli "eroi" finiti in carcere.
"A Venezia il governo, Roma all'inferno". "Gli onesti in galera, i ladroni a spasso con stipendio statale".
"Il coraggio è di pochi, grazie". Messaggi semplici, come la gente che li scrisse, il riconoscimento implicito di un'ingiustizia e di
un diritto assieme.
L'ingiustizia di chi sbatte dietro le sbarre un uomo perché non la pensa come lui.
Il diritto di un popolo di dire basta alle angherie di uno Stato predatore.
L'aveva già scolpito, nella "Dichiarazione d'Indipendenza", Thomas Jefferson: i governi "derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati" e "ogni qual volta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini (opprimere anziché proteggere, cioè, le libertà individuali) è diritto del popolo modificarlo o distruggerlo". Anche adesso che siamo tutti americani, queste parole di Jefferson, che aprirono il cuore e affilarono la spada ai coloni nel 1776, ci rifiutiamo di ascoltarle. Come continuiamo a girare attorno al problema fondamentale che i Serenissimi gettavano sul piatto. Sta tutto racchiuso in una parola: secessione. Argomento tabù.
Parlare di secessione, però, è l'indispensabile premessa per discutere di federalismo. Federalismo che viene da "foedus", patto. E quello che col federalismo entità diverse stringono è appunto un patto, un contratto.
Ma che contratto è se non ho la libertà di rinegoziarlo, di tirarmi indietro?
La scommessa del federalismo è costringere la politica a giocare con le regole del mercato.
Per stare "con chi si vuole e con chi ci vuole" (diceva Miglio), c'è bisogno di discutere, se non altro per capire chi ci vuole e chi no. E non può essere un matrimonio religioso, finché morte non ci separi, perché i popoli non sono uomini, ma milioni di uomini che si susseguono come un fiume nella storia, e prima ancora che ogni generazione: ogni individuo deve poter impugnare il patto che lo lega alla comunità.
Queste verità le riaffermò, in un suo bellissimo fondo sul "Giornale" all'epoca diretto da Vittorio Feltri, Sergio Ricossa.
Ricossa spiegava ai lettori che, come spesso accade, gli americani non ci avrebbero capito. Che "essere governati da Venezia sia meglio che esserlo da Roma" è "una presunzione che perfino i romani avrebbero difficoltà a confutare".
Figurarsi un cittadino statunitense, figlio di un Paese che è nato da una secessione e che per metà, quel Sud abbattuto ma non sconfitto da Lincoln, la secessione la sogna ancora. Ecco, se questi erano pensieri scomodi allora, guardiamoci attorno.
La Lega ha vinto le elezioni: sì, mai visti tanti tricolori per strada. Di federalismo l'ultima volta che se ne è parlato è stato per il referendum su quell'aborto di riforma sponsorizzata dall'Ulivo.
Al governo c'è la casa delle libertà, ma nel novero la libertà di Luigi Faccia e Bepìn Segato non è compresa.
Ricossa suggeriva "ai nostri giovani più impazienti di raggiungere i giovani sudisti", nel caso in cui la "scossa decisiva, quella che sgretolerà del tutto il nostro già abbondantemente fessurato edificio statale" dovesse tardare. Abbiamo aspettato cinque anni. Forse è il momento di prenotare il biglietto.