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Tomás de Torquemada
08-05-02, 23:16
Dal sito http://www.cib.na.cnr.it/

I RITI FUNERARI (Romani)

Il concetto, tipico della società romana, del culto familiare, che comportava la persistenza del dialogo con i defunti, si esprimeva anche nell'architettura degli edifici funerari. La tomba era considerata il luogo dell'incontro tra il morto e i suoi parenti; che vi si recavano a praticare riti non in ricordo del defunto, ma <<insieme>> al defunto. Per questo le tombe erano sempre facilmente accessibili ma solo a chi ne aveva il diritto: al concetto dell'inviolabilità fisica del sepolcro, proprio di altre civiltà si sostituisce quello dell'inviolabilità giuridica.
I tipi di sepoltura praticati a Roma erano l'inumazione e la cremazione, già ricordati in tale ordine dall'antichissima legge delle XII tavole alla metà del V sec. a.C. Esse, con alterna fortuna, caratterizzarono il rito funerario nel mondo romano. Intorno al IV sec. a. C. la cremazione diviene la pratica dominante e tale rimane come dimostra la diffusa presenza dei colombari, fino agli inizi del II secolo della nostra era. Effettuata dagli ustores, la cremazione poteva svolgersi o nel luogo stesso della sepoltura delle ceneri (bustum) o in un luogo apposito detto ustrinum. In quest'ultimo caso, le ossa combuste erano raccolte in urne di marmo, pietra o terracotta, e deposte in nicchie ricavate nelle pareti dei colombari.
Durante il regno di Adriano, tuttavia, l'inumazione comincia gradualmente a prevalere, fino ad affermarsi definitivamente verso la metà del III sec. d. C. La coesistenza dei due riti spiega quindi quegli edifici tipici del II sec d. C. con nicchie alle pareti e arcosoli in basso per deporre gli inumati; assai spesso si nota, inoltre, a partire dalla metà del II sec. la costruzione di tombe a fossa con spallette di mattoni, dette formae, sul piano pavimentale dei vecchi colombari. La ripresa dell'inumazione determina anche il diffondersi dell'uso dei sarcofagi, stimolando così una straordinaria produzione artistica di questi oggetti, spesso importati dall'Asia Minore. Per i più poveri restavano semplici tombe scavate nella nuda terra, fatte di tegole (<<tombe a cappuccina>>) o di cocci d'anfora.
Naturalmente la disponibilità di aree e la densità della popolazione erano fattori determinanti nella scelta del monumento funebre. Mentre, infatti, lungo le arterie extraurbane e nei terreni privati era possibile l'edificazione di imponenti mausolei e la delimitazione di vaste aree, nelle immediate vicinanze delle grandi città era frequente la concentrazione delle sepolture, agevole soprattutto se il rito era crematorio.
In ogni caso, le sepolture, salvo onori oltremodo eccezionali, si effettuavano, per antichissima disposizione, testimoniata già dalle XII tavole, sempre fuori delle città e lungo le vie extraurbane. Dalla metà del I sec. a. C. si diffuse il tipo edilizio del colombario, atto ad accogliere le sepolture di una famiglia o di un collegio funerario. L'edificio, che si sviluppava in gran parte nel sottosuolo con una o più camere ipogee, presentava lungo le pareti interne una serie più o meno numerosa di nicchie, loci o loculi, disposte generalmente in più file parallele, fino ad occupare quasi tutto lo spazio disponibile; spesso la monotonia era rotta da edicole con frontone decorato a stucco. Le nicchie avevano, in genere, forma semicircolare, ma ve n'erano anche di quadrate o rettangolari; all'interno di ciascuna potevano trovare posto da una fino a quattro urne, ollae, destinate ad accogliere le ceneri dei defunti. Spesso le urne erano fissate nella muratura, forando il piano di appoggio della nicchia, in maniera tale da non poter essere spostate. Di esse rimaneva visibile solo il coperchio, operculum, che poteva essere sollevato per versare nell'urna stessa le libagioni, così che il defunto potesse partecipare al banchetto funebre celebrato in suo onore.
La fede nella sopravvivenza del defunto oltre la morte e nella possibilità, per i vivi, di perpetuare il dialogo con i trapassati si manifesta nella ricchezza delle celebrazioni in onore dei defunti, dalle cerimonie private, come la cena novendialis (9 gg. dopo la morte), il dies natalis (giorno del compleanno del defunto) a quelle pubbliche: i Parentalia o dies Parentales (13-21 febbraio) e i Rosalia, delle quali restano come testimonianza numerose raffigurazioni di rose incise o dipinte sulle pareti degli edifici funebri. E' proprio l'apparato decorativo a fornirci notizie sulle credenze legate alla vita ultraterrena nel mondo romano.
Complesso era il rituale che accompagnava il trapasso, dal bacio dato al moribondo da uno dei suoi cari per raccoglierne l'ultimo respiro, alle celebrazioni che seguivano la sepoltura. Subito dopo la morte il cadavere veniva lavato e cosparso di unguenti e quindi vestito e preparato con i suoi abiti di parata (la toga o la praetexta) ed esposto nell'atrio di casa. Per il viaggio verso l'al di là gli si poneva in bocca una moneta che egli avrebbe offerto a Caronte.
Dai funerali più semplici, quelli dei bambini e dei poveri, che si svolgevano addirittura di notte alla luce delle torce che precedevano il feretro, si arrivava alle grandiose cerimonie in onore dei grandi personaggi che tanto impressionarono lo storico greco Polibio (metà II sec. a.C.): per lui non vi era spettacolo più nobile del vedere sfilare, nelle cerimonie funebri delle famiglie patrizie e in processione davanti al feretro, i potenti e gloriosi antenati del defunto, rappresentati dalle maschere di cera che ne ritraevano l'immagine (imagines maiorum). Tali maschere, che i parenti del defunto portavano durante il corteo funebre, venivano custodite in una teca e costituivano una sorta di raccolta dei ritratti degli avi. Questa tradizione perdurò senza dubbio fino alla II metà del I sec. d.C., anche se, a partire dalla tarda età repubblicana, alle maschere di cera furono talvolta sostituiti busti dello stesso materiale o di terracotta.
Ai funerali provvedevano di regola imprese di pompe funebri (libitinarii), con i vari specialisti: i pollinctores, che preparavano la salma, i vespillones che curavano il trasporto funebre, gli ustores che provvedevano al rogo, ecc.; queste attività, comunque, erano ritenute tanto sordide da comportare diminuzioni dei diritti civili per chi le svolgeva. Proprio Pozzuoli ci ha restituito, in una preziosa iscrizione d'età augustea, parti del capitolato d'appalto cittadino, che regolava minuziosamente la prestazione dei servizi funebri e la fornitura delle attrezzature necessarie (lex libitinaria). Vi si prescriveva, ad esempio, che l'impresario dovesse impiegare non meno di 32 addetti, di sana costituzione e di età compresa fra i 20 e i 50 anni, ma anche che queste persone non potessero risiedere e neppure entrare in città se non per motivi legati al loro servizio e in ogni caso distinguendosi con un berretto colorato; che l'impresario dovesse rispettare l'ordine delle richieste pervenutegli in un apposito ufficio cittadino (sito nel foro?), salvo che per i funerali dei decurioni e dei bambini, cui si doveva in ogni caso dare la precedenza; che i cadaveri degli impiccati e degli schiavi fossero nella stessa giornata portati via, ecc.
Nel caso delle famiglie ricche le spese dei funerali e della costruzione delle tombe venivano sostenute dai parenti del defunto, mentre ai privati si sostituivano, presso i ceti medi e piccoli, associazioni particolari, i collegia funeraticia. I collegia sorti per iniziativa dei privati potevano avere varie finalità, religiose e politiche. Negli ultimi anni della repubblica queste ultime assunsero un aspetto preponderante fino a provocare la soppressione di molti collegia da parte di Cesare e poi di Augusto, che vollero conservare soltanto le associazioni di più antica fondazione. In età imperiale si formarono molte nuove associazioni con il beneplacito degli imperatori. Ve ne erano di tutti i tipi, religiose, funerarie e professionali, e raccoglievano in prevalenza artigiani, schiavi e liberti.
La maggior parte dei collegia si preoccupava di garantire ai propri consociati un'onorevole sepoltura. A tale scopo veniva creato un fondo comune (arca) col versamento di una quota mensile (stips menstrua) da parte di ciascun consociato. A questo fondo si attingeva poi per coprire le spese relative al funerale, all'acquisto e alla successiva manutenzione della tomba e alle cerimonie per la commemorazione dei defunti.

Tomás de Torquemada
13-07-02, 00:49
Dal sito http://www.emsf.rai.it/

Il sacro e la morte
(intervista a Salvatore Natoli - Il Grillo 29/4/1998)

Natoli: Insegno Filosofia Teoretica all'Università di Bari, mi sono interessato di Teoria degli affetti, delle passioni, ho scritto un libro sulla felicità, che si chiama La felicità, un libro sul dolore, L'esperienza del dolore, dove si affronta anche il problema della morte, che è poi il tema della nostra discussione di oggi.

INTRODUZIONE: La morte è la linea estrema della vita. In quanto confine estremo, essa si colloca tra la fine e l'oltre. La caducità ha spinto da sempre gli uomini a interrogarsi sui valori della vita, sul suo senso, sul suo destino. Nelle società arcaiche la morte era concepita in genere come evento collettivo, era un trauma che colpiva la comunità. Non rescindeva definitivamente i legami: vivi e morti comunicavano tra loro, oltre la morte. Ma l'oltre la morte non sempre era concepito come la migliore vita. E' nella tradizione cristiana che l'oltre la morte prende la forma della miglior vita, della vita eterna. In Cristo la morte è vinta, nel Cristianesimo non si muore più veramente. La vera morte è la morte eterna, la dannazione. Ma la morte, già a partire dalla tradizione antica, valga per tutti Epicuro, era concepita in tutt'altro modo: la morte, altare di ogni altra realtà, è un evento naturale. In quanto naturale non può essere vinta, ma cessa d'essere scandalosa. Nelle società contemporanee, la vita si difende dalla morte, rimuovendola, fino ad ignorare il morente. Ma la morte non si può cancellare, si può non farla apparire.
Nella morte in qualche modo si è sempre soli, ma questo non è di per sé un danno. Se la rimozione della morte ammala la società di falso ottimismo, la morte privata, la sobrietà e il pudore danno alla morte una dignità forse più alta di un pubblico cordoglio, ritualizzato e senza amore. Ma la morte segreta può essere bella se non è abbandono. Per morire bene, bisogna morire per qualcuno, cioè è difficile, ma non impossibile. Morire per qualcuno significa consegnarsi a qualcuno, non lasciare un'eredità, ma potersi lasciare in eredità, essere accolti nella vita da altri e continuare a vivere in loro, nonostante la morte. Questo può essere un bel modo per morire.

La morte viene vista anche come un evento collettivo, nel rito. Come si può conciliare questo aspetto con il dolore individuale, strettamente personale delle persone che erano più vicine al defunto.

Natoli: Questo è un rapporto molto importante tra l'individuale e il collettivo, perché riguarda proprio il modo del vivere la morte, il vissuto della morte, che non è stato sempre uguale, nelle epoche del mondo, e non è uguale nelle diverse civiltà del mondo, perché il tema della individualità, della morte come morte solo mia, è abbastanza recente rispetto alla storia dell'umanità, nel suo complesso, perché nelle società arcaiche la morte era un fatto collettivo, per il semplice fatto che la società era più integrata. Nelle società arcaiche si viveva insieme, si stava insieme, c'era una continuità di spazi, di ritmi di vita. Era difficile, in quelle società, cercare e trovare la solitudine, c'era un'interazione continua; e quindi la morte certamente era patita dall'individuo, ma era patita anche e soprattutto dalla comunità. Cioè la comunità viveva la morte di un suo membro come una perdita, come una perdita radicale, come una ferita. E si risarciva. Infatti, proprio nei momenti di morte - i rituali di morte sono nati così -, la comunità si stringeva. E anche nelle società più recenti, dove ci sono residui arcaici, nella morte c'è il dare, il portare il cibo ai parenti, in cui c'è stato l'avvenimento mortuario, le visite, cioè tutti i fenomeni che sono presenti nella nostra società molto meno di quanto non lo fossero nelle società arcaiche, dove tutta la società si stringeva a comunità nei confronti della morte. E anche il rapporto con colui che moriva era un rapporto diverso da come lo concepiamo noi oggi, per cui la morte è un fatto naturale: si torna alla terra. Ecco, nelle società arcaiche questo non era poi così vero, nel senso che la morte non era concepita in modo molto naturale. La morte era concepita soprattutto come una uccisione, la morte era pensata, in alcune società, come un omicidio. Per esempio in tedesco morte si dice Tod, che deriva dal verbo töten, che significa uccidere. Quindi la morte è il frutto di un'uccisione, quasi venisse dall'esterno e non fosse una curvatura della natura. E il morto, come anima, come spirito, continuava a vivere. E quindi c'era un rapporto di comunità non solo tra i viventi, ma tra i vivi e i morti, perché i morti potevano tornare, erano spiriti vaganti. Non solo, ma potevano vendicarsi dei vivi, per le offese che avevano ricevuto da vivi.

Le nuove tecniche inventate in questi ultimi anni per differire la morte, per allontanarla sempre di più, in qualche modo non possono far perdere quello che è poi il senso della morte, cioè la rendono come un qualcosa di ostile, di nemico dell'uomo, facendo perdere invece appunto il suo senso primario, che appunto è un evento naturale.

Bisogna fare delle riflessioni molto attente, perché, come dicevo prima, nelle società arcaiche c'era questa ferita nella comunità. Nello svolgimento della modernità c'è stata sempre di più una personalizzazione della morte. La morte è diventata sempre di più una esperienza individuale. E lasciamo, tra parentesi, in questo momento, la morte così come è stata vissuta nei secoli cristiani. Ma già nei secoli cristiani c'è una individualizzazione della morte, nel senso che il soggetto che muore, è lui che è destinato alla salvezza o alla dannazione, è lui il titolare, e quindi l'elemento della propria salvezza e il protagonismo quindi nella morte, nel Cristianesimo diventa molto importante, anche se pur sempre resta la comunità. Ecco, nella modernità si sviluppa, viene sempre più avanti questo tema della naturalità della morte, che già c'era nel mondo antico. Si citava nella scheda Epicuro, Lucrezio. La morte era aggregazione e disgregazione, quindi non era una forza esterna che uccideva, ma, diciamo, la natura, dentro di sé, aveva il germe della morte. Ogni uomo muore perché la morte matura dentro di lui. Quindi c'è questa dimensione di naturalità della morte. Ecco, nel moderno, che cosa è successo? Che nel momento stesso in cui l'uomo assume come ovvia la naturalità della morte e addirittura non crede più nell'altro mondo - o molti uomini non ci credono, non si crede più alla vita eterna o all'altra vita, quindi la morte è naturale -, dovrebbe essere più facilmente accettata. Ma questo non è avvenuto, perché in concomitanza della persuasione che la morte è naturale, si è sviluppata la tecnica. E la tecnica ha la possibilità di differire la morte, perché c'è stato un prolungamento della vita e anche nella situazione della malattia c'è una possibilità di durare a lungo nella malattia, c'è una possibilità di ridurre il dolore vivo e allora il fatto che la tecnica abbia avuto il potere di differire la morte, per quanto la morte sia pensata come naturale, è vissuta come innaturale. Perché? Perché la tecnica la può differire. E allora qui la dimensione della soggettività, del destino dell'individuo rispetto alla morte, si gioca anche come rapporto dell'individuo rispetto alla tecnica. Il risultato finale di questo è che l'uomo, affidato alla tecnica, è sottratto alla comunità.

Non si può considerare come una contraddizione il fatto che nella nostra società da una parte c'è un tentativo di fuggire la morte e di tenerla nascosta, mentre dall'altra parte viene mandata in televisione, viene spettacolarizzata per questioni di audience.

Sì, certo. Questo è un problema presente nelle nostre società, perché la morte resta sempre un fattore drammatico. E' lo spettacolo della vanità, la vita che si dissolve. La vita non vuole morire. Anche se la morte è naturale, il vivente, fino a che vive, non vuole morire. Quindi c'è un elemento traumatico nella morte, un trauma profondo che spinge l'uomo a interrogarsi sul senso della sua esistenza. Ora noi siamo in una società in cui la morte non si incontra più nella quotidianità della vita. Si diceva prima, nelle società arcaiche, ma anche in quelle più recenti, quelle dei nostri genitori insomma, la morte si incontrava nella vita, nel senso che il malato stava a casa, c'era un'assistenza del paziente, si vedeva morire la persona, si stava fuori, ma poi si tornava, cioè c'era un contatto fisico con la morte. Con la tecnica il malato, il morente è sottratto, perché è affidato al competente. Il risultato pratico è che, per quanto ci siano relazioni d'affetto, non c'è il contatto fisico con la morte. E quindi la morte, in quanto gestita dalla tecnica, viene sottratta all'ordinario della vita. E nella vita corrente di ogni giorno, si cerca di fare sparire la morte. Tutte le immagini che voi vedete sono immagini vitali, sono immagini di bellezza. Anche la carie di un dente è rappresentata come bella, perché è associata al viso della bella ragazza e al dentifricio. Si dà un'immagine di sanità. Eppure la morte c'è. E ci sono eventi terribili in cui la morte c'è. E allora come appare questa morte? Nella forma della rappresentazione, dell'epopea del macabro. La morte è qualcosa di rappresentato e non di vissuto. E quindi, in questo senso, è resa visibile, ma, nello stesso tempo, è resa finta, perché non entra nella quotidianità della vita. E' talmente spettacolarizzata da sembrare inverosimile. E quindi la morte è ridotta a film. E quindi, nel momento in cui entra nella vita, è anche falsificata. Il problema vero di incontrare la morte è la responsabilità dell'altro, del suo dolore. Allora noi molte volte siamo irresponsabili rispetto al dolore che abbiamo attorno, e ci beatifichiamo, anzi ci eccitiamo, con il macabro, con il terrore. Vedete la filmologia contemporanea: il terrore è diventato un ingrediente shock, un effetto shock sul soggetto. Quindi questa è la dimensione di falsificazione della morte.

Abbiamo visto che nell'antica Grecia, ma anche tutt'oggi, in India, viene cremato il corpo del defunto. Volevo sapere che significato ha questo rito e se in qualche modo c'è qualche analogia tra questi due modi, insomma.

L'analogia è di principio, o di affinità rituali, perché i modi per risolvere il rapporto con il corpo del morente e con il morto poi cambiano da società a società. Ci sono modi diversi di sepoltura. In alcuni casi c'era la cremazione, in altri c'era, addirittura in certe culture iraniche i corpi venivano esposti, in modo che li mangiavano gli uccelli. Quindi, diversi sono i rituali. La cosa importante era, lo stavo accennando già prima, che il rito di sepoltura era decisivo, perché in certo senso bisognava allontanare il morto dalla comunità, perché poteva tornare - questo era nella concezione arcaica -, poteva tornare anche a vendicarsi dei torti subiti. E poi in alcune culture non si sapeva mai se il morto fosse morto davvero, fin quando esisteva il cadavere come, come carne, prima della putrefazione. Infatti in alcune culture la vera sepoltura era la seconda sepoltura, cioè il passaggio del morto dalla inumazione nella terra nell'ossario. Allora era morto definitivamente. E quindi ci si difendeva dal morto e nello stesso tempo lo si onorava e quindi lo si placava. Per cui i riti di sepoltura erano modi attraverso cui la società si teneva in contatto coi morti, ma allo stesso tempo si difendeva dai morti. I modi, i rituali, attraverso cui questo avveniva, cambiavano nelle diverse società, nelle diverse culture. Ma c'era fondamentalmente un rapporto con l'oltre. Ecco nelle nostre società questo rapporto con l'oltre ormai non c'è più. Ormai nelle nostre società il rapporto con l'oltre è tramontato.

Perché, nella tragedia greca, la morte non viene mai rappresentata sulla scena, mentre noi adesso, appena accendiamo il televisore, vediamo immagini di morte ovunque?

Beh, questo è un discorso che già accennavo prima. Però gli antichi il rapporto con la morte ce l'avevano. Anzi, addirittura nel mondo greco non avevano bisogno di rappresentarla, perché c'era l'esperienza diretta del cadavere. Poi c'era anche l'esposizione del cadavere, c'era la ritualizzazione sul cadavere, c'erano delle operazioni sul cadavere. Quindi, il fatto che venisse o meno rappresentato in scena era irrilevante nel senso che la morte era nella vita. Addirittura nel Medioevo i morti non venivano seppelliti in veri e propri cimiteri che poi sono stati pensati abbastanza tardi. Venivano seppelliti o accanto a chiese, che erano chiese cimiteriali, oppure addirittura nei muri di casa. Ci sono delle scoperte in cui i morti vengono incastonati nella casa, cioè non uscivano dalla casa, erano nei paraggi lì, si faceva un muro particolare. Quindi questa continuità tra la morte e vita c'era. Per noi la morte è diventata un qualcosa di staccato dalla vita e quindi diventa un dimensione di eccitazione, di spettacolarità. Perché, nel contesto della vita, la morte è allontanata, è cancellata, è dimenticata dalla nostra stessa vita. Cioè, la componente di giovanilismo, cioè il sentimento che non si possa mai morire è quello che è coltivato.

Lei ha scritto che la morte è l'unico momento in cui l'uomo può trovare la sua vera identità. Ma come è possibile tutto questo?

Bisogna aggiustare un pò l'espressione. Quello che lì io dicevo, riprendendolo anche da un grande filosofo contemporaneo, che è Heidegger, è che nella morte il soggetto non è mai sostituibile. Cioè l'unica situazione per un uomo, in cui è protagonista assoluto e non può essere sostituito da nessuno, è la morte. Quindi nella morte il soggetto fa l'esperienza più propria, cioè, della sua radicale unicità. E' in base alla morte che noi siamo unici. Ma io in quello stesso testo che lei citava, dico che la morte non è soltanto l'esperienza della propria unicità, ma è anche l'esperienza del legame, perché nella morte si muore sempre per qualcuno. Nella morte che cosa accade? Sostanzialmente si perde il mondo, e chi che ama qualcuno che muore, perde colui che muore. E quando muore qualcuno, con quella persona muore tutto quello che io avrei potuto vivere con lei, fare con lei. Quindi la morte dell'altro porta con sé definitivamente a morte tutte le possibilità che io avrei potuto vivere con lui. Quindi nella morte c'è l'esperienza dell'autenticità, ma anche l'esperienza profonda della relazione. Ecco perché, nelle società antiche, la morte era sentita come trauma della comunità. Quindi bisogna tenere insieme tutte e due gli aspetti: gli aspetti della insostituibilità, unicità nel morire, ma anche gli aspetti profondi della razionalità; questo è un tema importante perché spesso nella sociologia contemporanea, nella vita contemporanea, si parla di solitudine nella morte.

Noi abbiamo visto che molto spesso le religioni sono state un tentativo di superare la paura della morte, così poi come anche si è cercato di fare con atteggiamenti laici, poi, al di fuori della religione. Per esempio anche vediamo il discorso del ricordo che rimane, oltre il sepolcro, per esempio, che fa il Foscolo. Ma, secondo Lei, è possibile superare cioè la paura della morte? Cioè c'è un uomo, c'è stato un uomo, che ha superato la paura della morte? E' possibile vivere senza la paura della morte?

La paura della morte per molti versi è inevitabile, nel senso che il vivente, in quanto potenza ad esistere - perché questo vuol dire vita -, è appunto colui che rifiuta la morte. La vita rifiuta la morte. Però noi siamo una quantità di potenza finita. Dire che la morte è naturale, la scoperta della naturalità della morte, è appunto questo. Cioè l'uomo ha compreso che la morte matura dentro di noi. La vita cresce, ma alla fine si dissolve. Quindi c'è questa inevitabilità della morte. Però il fatto che la morte sia inevitabile, non vuol dire che, per ciò stesso, diventa accettabile. E quindi la vita umana è sempre questo ????, questo combattimento tra la vita e la morte. E la personalità meglio cresce, meglio si struttura, se - io dico nel mio Dizionario dei vizi e delle virtù, ma anche in altri luoghi -, se si porta all'altezza della morte, che non è quella che viene alla fine, ma le molte morti che attraversano la vita: i desideri mancati, gli amori falliti. Ecco, a fronte di tutto questo, l'uomo ha risorse, può rilanciarsi. Quindi noi, nella vita, abbiamo la potenza di molte resurrezioni. Quando avviene la morte definitiva? Quando questa capacità di risorgere, questa nostra forza si assottiglia e finisce. Ecco allora qui ci sono proprio due punti di vista: uno che dice: la morte verrà è naturale. Ecco, allora per me il compito più alto non è di allontanare la morte che viene alla fine, ma di realizzare al meglio questa mia vita. Visto che la morte è naturale, proprio perché dovrò morire, devo vivere con pienezza questa vita, cercando di valorizzarla al massimo. E c'è invece chi dice: proprio perché devo morire, questa mia vita, questa vita non vale niente. E allora c'è bisogno di una compensazione, c'è bisogno di un al di là che compensi questa vita, che, se è fatta per la morte, non avrebbe senso. Allora sono due modi di esperire la morte, che esistono. L'antropologia del credente è una antropologia che non sopporta la morte. L'antropologia del non credente è una antropologia che si porta all'altezza della morte. Ecco due modi di affrontarla e di viverla.

Il fatto che oggi sia finito il rapporto tra l'uomo e l'oltre, cioè tra l'uomo e i morti, come Lei ha detto, non è dovuto al fatto anche che con la morte è il momento in cui l'uomo si pone davanti all'ignoto, cioè a ciò che non conosce in fin dei conti? E quindi, nelle società contemporanee, in cui tutto è determinato, tutto è definito, questo rapporto finisce, per forza, perché si ritorna sempre al vecchi problema di non trovare una risposta a un problema, cioè l'ignoto? Non è dovuto forse a questo, il fatto che forse sia finito questo rapporto?

La dimensione dell'ignoto è la dimensione dell'oltre ed è la dimensione per cui c'è un'intimità stretta, sin dalle origini, tra la morte e il sacro. Allora ultima linea rerum? E' l'ultima linea delle cose la morte? Oppure è un confine che ci spinge verso una ulteriorità? Poi è il dilemma di Amleto, no? "Essere o non essere". Mi toglierei la vita, se non ci fosse la dimensione dell'oltre. Ecco, la società contemporanea ormai ha perso sempre di più la dimensione dell'oltre. Può rimanere, quando va bene, la dimensione del ricordo. Ecco, qui c'è un esempio, in questa rivista, che è Tecnica ed informazione delle aziende: Tra le tante cose, tra i tanti business, c'è quello mortuario. E qui c'è una azienda che vende casse da morto, Pompe Funebri. Quindi c'è un business, una industrializzazione della morte, ma non nel senso dell'oltre, ma nel senso dell'impacchettare bene il morto, allo stesso modo in cui si fa un bel pacchetto, una bella spedizione per la spedizione, dove lì c'è un destinatario e qui non c'è. Noi abbiamo una scheda di questi business, cioè dove si va a scegliere come confezionare il morto.

Non è possibile che la morte esista soltanto per chi resta, la morte intesa come perdita, mentre per chi muore in fondo la morte non esiste, nel senso esiste nel momento in cui si muore, ma quello è ancora vita in fondo, cioè la fine della vita, se vogliamo? Quindi, se nella morte non c'è più l'esistenza, o per lo meno quell'esistenza che siamo abituati a conoscere, in fondo la morte non esiste.

Questo che Lei dice è il celebre argomento di Epicuro. La formula di Epicuro, quando allontana la paura della morte, è quella notissima: "Quando c'è la morte non ci siamo noi, quando ci siamo noi non c'è la morte, quindi la morte non è un male". Ecco, quindi, in effetti, questo discorso, in una concezione, che è quella di Epicuro, ma poi è diventata la concezione corrente delle culture non religiose contemporanee, non vede nella morte il vero punto drammatico della vita, il vero punto di battaglia. Diventa importante quello che dicevo prima, cioè la morte che l'uomo incontra è quella che incontra nella vita. E' nell'esperienza del dolore che c'è la morte, è lì che c'è l'esperienza della perdita. E' chiaro che poi c'è l'esperienza finale. Il progetto di perdersi del tutto, ecco, questo è importante. In che senso noi viviamo la nostra morte finale come importante? Perché la anticipiamo nella vita. Ecco Heidegger parlava proprio di anticipazione della morte, cioè nel nostro progetto di vita, siccome sappiamo che c'è la morte, noi la anticipiamo, e quindi diventa importante, non quando verrà, ma perché è sempre presente nella nostra vita, come la nostra estrema possibilità. Infatti nel Cristianesimo, o nella liturgia cristiana-cattolica, esiste una formula: media vita in morte sumus, cioè siamo nella morte al centro della vita. Ecco allora, in questo senso, la morte ci appartiene. Ci appartiene come il nostro ultimo confine, come la nostra più propria possibilità. Allora in questo senso noi la viviamo, ma la viviamo davvero incontrandola nella vita, in quelle piccole morti o grandi morti che sono le nostre sofferenze, rispetto a cui non bisogna essere pessimisti - io non lo sono, non a caso ho scritto un libro sulla felicità -, c'è una possibilità di risorgere. Ecco, la potenza che noi siamo, può vincere. L'altro discorso invece è importante: come si muore. Si muore per altri. Io ho detto: si muore sempre per qualcuno. E ci può essere anche una bella morte quando nel morire la formula che io uso è non lasciare in eredità qualcosa, ma lasciarsi in eredità, cioè qualcuno che accolga il morente in sé, quasi per continuare il suo compito. Ma allora per morire così bisogna vivere bene. Ecco il problema di oggi: la solitudine. Oggi si parla tanto di solitudine del morente, ma la solitudine del morente comincia molto prima, perché i legami forti sono sempre meno forti nella vita, o quanto meno sempre più arrischiati. I legami familiari, i legami affettivi, la giovinezza li consuma e li sostituisce, ma poi viene un punto in cui questi legami non ci sono, si resta soli. Si muore soli, perché si è vissuti soli.

Io non ho capito bene cosa vuol dire Lei quando usa l'espressione: "si muore sempre per gli altri".

Direi che nel suo significato elementare la cosa è abbastanza semplice da capire. Morire per gli altri vuol dire questo: mettiamoci dalla parte del morente, il morente patisce la sua morte. Ma patisce che cosa nella sua morte? Il distacco dal mondo, quelli che lascia, perché altrimenti non patirebbe la morte, la morte come abbandono della vita, e quindi come distacco dagli altri. Questo in chi muore. E l'altro che vede la morte, questo lo abbiamo già detto, patisce la perdita dell'altro, cioè tutto quello che può fare con lui. E quindi nella scissione, nella separazione - ecco la morte come esperienza della separazione - è sempre un morire per qualcuno: dalla parte di chi muore l'abbandono del mondo, per chi sopravvive la perdita dell'altro. Ecco perché è esperienza del legame.

Noi abbiamo parlato di Pompe Funebri, e quindi anche il desiderio da parte dei familiari di dare una sepoltura degna al morto. Ma come mai spesso c'è questo desiderio così forte di sacralizzare la morte?

Il desiderio di sacralizzare la morte, nelle nostre società, secondo me c'è molto meno di quanto non ce ne fosse in altre, e soprattutto nella società cristiana. Ho detto la confezione del morto non è sacralizzazione, è eleganza, è correttezza e, se si vuole, un modo per fissare il ricordo. Tutti quei simboli cristiani, che noi abbiamo visto nell'emporio, sono diventati segni, nella nostra società soprattutto, decorativi, più abitudini residuali che convinzioni. Qui ho questo oggetto. Questo oggetto era usato per l'Estrema Unzione, e c'era l'oleum infirmorum, l'olio degli infermi. Ecco, quando questo oggetto - e anche oggi per i credenti lo è - veniva usato, si accompagnava il morente verso il transito. Allora qui la parola "sacro" significava moltissimo, dove, nel momento della morte, non c'era la fine di tutto, ma c'era sostanzialmente un "a rivederci", un ritrovarsi - e nella liturgia cristiana lo si dice -, in patria. Quindi c'era il dolore di un congedo momentaneo, e quindi il dolore della morte, il trauma c'era molto forte, però c'era pur sempre la speranza di rincontrarsi. Allora, nella società cristiana, la sacralizzazione della morte avviene così. E nelle società arcaiche, abbiamo visto, era sacralizzata perché il morto poteva tornare. Tutto questo non esiste più quando il morto si può impacchettare. L'unico modo attraverso cui il morto può vivere ed eventualmente ci ritorneremo è nella memoria di chi sopravvive.

Ma il suicidio assistito, invece no?

Il suicidio assistito - che poi è fondamentalmente una forma di eutanasia -, lì il problema è diverso perché si tratta di ragionare sulla responsabilità che il soggetto ha nel suo morire. La forma è: morir bene. Cioè, fino a che punto è giusto che un individuo che perde la sua personalità, che è straziato dal dolore, che è umiliato dalla malattia debba proseguire nella sua vita? Questo problema si pone tanto più in una società come la nostra, in cui la tecnica può differire la morte. Ecco, allora è un problema in termini di dignità. Possiamo fare sopravvivere un corpo, là dove c'è la dissoluzione del soggetto? Oppure l'uomo esiste fin quando è un soggetto? E' in questi termini che si può porre il problema dell'eutanasia. E allora, siccome il soggetto che soffre è un soggetto che è espropriato da sé in forza della stessa malattia, allora fino a che punto lui la domina questa sua fine? Fino a che punto non la domina? Ecco, allora in questa, in questa incertezza, l'eutanasia può configurarsi come atto di dignità, ma può configurarsi anche come un modo, per liquidare chi sta morendo, perché coloro che stanno accanto a lui non reggono la sua morte. E quindi bisogna considerare l’eutanasia dentro questa oscillazione e dentro questa ambiguità.

Lei attribuisce lo stesso valore alla morte violenta che dà alla morte naturale, cioè la stessa dignità la attribuisce anche alla morte violenta? Gli stessi valori che ci ha descritto essere propri della morte naturale, li attribuisce, si possono riferire anche alla morte violenta? Volevo sapere.

Bisogna vedere cosa si intende per morte violenta. Se per morte violenta si intende l'accidente, la classica tegola in testa, allora quella morte è violenta, nel senso che stronca una vita sana, cioè non matura dentro il corpo e ha caratteristiche innaturali, cioè quell'uomo è ucciso, non è morto perché la sua vita si è sviluppata, si è consumata. Tra l'altro alcuni ritengono che la stessa malattia abbia questi caratteri di aggressività. Bisognerebbe leggere i necrologi, per vedere come è nominata oggi la morte. Sarebbe molto interessante fare un'indagine di questo tipo. In ogni caso un corpo sano, un giovane sano, che viene ucciso, che cosa ricorda agli uomini? Il loro essere esposti, cioè la loro naturale fragilità. E allora, a fronte della naturale fragilità, gli uomini devono proteggersi, essere avveduti e, soprattutto, stare legati tra di loro, cioè assumere l'un l'altro la responsabilità. Ecco, questo che cosa esclude? Esclude l'altro tipo di morte: cioè la morte inflitta. Allora qui il problema non è più la morte, il problema è il male, cioè il male che gli uomini si fanno tra di loro. Un fatto è essere esposti alla morte in quanto siamo mortali, un fatto è l'intenzione reciproca di uccidersi tra gli uomini. Allora in questo caso la morte ha un altro nome e si chiama delitto. Questo è un altro tipo di problema.

Professore, Lei nel suo libro Dizionario dei vizi e delle virtù, parla di "morte eticamente bella", e fa riferimento anche agli stoici. Ma cosa significa realmente "morte eticamente bella"?

"Morte eticamente bella" vuol dire, anche se la parola può sembrare strana, io uso "estetica della morte". C'è una possibilità estetica della morte, ma questo è possibile soltanto se l'uomo si è costruito uno stile della vita. Lo stile nella vita vuol dire: la capacità di reggere al dolore, di formarsi, di avere legami, affetti, di coltivare amicizie, di sentirsi nel legame con gli altri. Allora, nella costruzione della propria vita, come vita riuscita, si realizza quella condizione finale, possibile, rara, ma possibile, in cui si muore per qualcuno e si lascia qualcuno. Allora, in questo senso, alla fine della vita, si può dire: ho vissuto bene, lascio qualcosa ad altri, un ricordo di me che li aiuti a vivere. Questo è il modo per chi non crede oggi di vivere bene, nel senso di lasciare una continuità. A questo punto c'è qualcuno che prende la staffetta e continua. E quindi i miei insegnamenti, quello che ho fatto, quello che ho donato, nel modo in cui l'ho potuto donare, ha fatto crescere qualcuno. E quindi, mentre io mi vado spegnendo, alimento qualcosa che cresce. E questo è il modo migliore per durare. Chi muore in questa situazione, muore bene. La sua morte è estetica

Mi scusi, in una pagina de I demoni di Dostoevskji, viene autorizzato il suicidio come estrema possibilità per l'uomo di negare la vita. Per lei è possibile che poi quest'atto, inseritosi comunque in un'ottica dell'esistenza, cioè che si compie comunque in un momento di vita, possa arrivare a contraddirla, oppure comunque viene ringhiottito in quella che è cioè la macina dell'andare avanti, della vita.

Nel suicidio c'è una pretesa di assoluto. L'errore del suicidio fondamentalmente è questo. La maggior parte della gente che si suicida, non si suicida nel modo e secondo il modello di Dostoevskji, si suicida perché non ce la fa... .

Però anche il suicidio dovrebbe essere una morte estetica.

A suo modo il suicidio è una morte estetica.

Anche se non lascia niente poi.

Però ha la caratteristica dell'onnipotenza. Ecco quello che bisogna evitare è questo: non accettare la morte. Il suicidio, paradossalmente, in colui che si dà la morte, è il modo per non accettarla. Secondo me il modo più alto per affrontare la morte, è accettarla con dignità, appunto cedendo al propria vita ad altri. Nel suicidio c'è un delirio di presunzione.

Una volontà di potenza, si potrebbe dire.

Una volontà di potenza. Proprio sviluppando questo tipo di ragionamento: il suicidio, come una rinuncia alla vita, perché è insopportabile, qui c'è una pretesa di vita che non è la vita che noi viviamo, e invece la morte può concludere bene la vita, soltanto se noi abbiamo vissuto la vita nella sua stessa lacerazione, cogliendone però anche la bellezza.
Nel trasferire la nostra vita ad altri, noi accettiamo la morte, ma sappiamo che la morte, se è la fine di un individuo, non è la fine della comunità. In questa proiezione di sé verso il futuro storico e l'avvenire dell'umanità c'è una morte più bella che nella pretesa assurda di volersi sottrarre ad essa.

Tomás de Torquemada
15-11-02, 06:09
Dal sito http://www.norman-world.com/italie/

I riti funerari (Normanni)
di Armelle Alduc-Le Bagousse
CNRS / CRAHM - Université de Caen

Il popolamento dell’attuale Normandia alla fine dell’Antichità e durante l’Alto Medioevo è conosciuto soprattutto grazie agli scavi e allo studio antropologico completo di parecchi siti funerari rurali, compresi per la maggior parte nella bassa valle dell’Orne (Frénouville, Giberville, Saint-Martin de Fontenay, Sannerville, Verson…). Queste popolazioni sono caratterizzate da una media statura e da un’ossatura esile ; fino all’VIII secolo risultano abbastanza omogenee, con un profilo morfologico poco alterato dalla presenza di stranieri, che si possono senza dubbio individuare attraverso vari indizi archeologici fin dal periodo del Basso Impero. L’organizzazione interna di queste necropoli situate al margine degli habitats mostra una selezione quasi sistematica nell’inumazione, osservabile particolarmente nella categoria dei bambini più piccoli, che sono nettamente meno rappresentati degli altri individui. La sola necropoli di Lisieux-Michelet si contraddistingue da questo schema.

Per i periodi successivi, le nostre conoscenze risultano per lo meno imprecise. In effetti, in ambito rurale come in quello urbano, la cristianizzazione porta all’abbandono del seppellimento del corpo vestito (è raccomandato inumare il corpo spoglio) ; dall’altro lato, i cimiteri vengono sempre più spesso insediati lungo la chiesa parrocchiale : lo spazio funerario è gestito in maniera più rigorosa e le sepolture subiscono una rotazione rapida. Le tombe più antiche vengono dunque distrutte e, per via di conseguenza, vengono cancellati gli indizi cronologici. Di più, nella maggior parte dei siti in corso di scavi, il succedersi di lavori di sistemazione e le esigenze urbanistiche consentono raramente all’indagine esplorativa di interessarsi a tutto quanto lo spazio sepolcrale.

Alcuni grandi complessi funerari in uso durante l’XI e il XII secolo sono stati scavati in Normandia : Sainte-Cécile di Portejoie a Tournedos (Eure), Notre-Dame di Cherbourg (Manche), Notre-Dame di Rouen (Seine-Maritime), Saint-Gilles, Saint-Etienne-le-Vieux e Saint-Julien a Caen (Calvados) ; individuare precisamente le sepolture di quei periodi non è sempre molto facile

Tali studi rimangono a tutt’oggi troppo isolati perché si possa valutare il peso biologico dell’insediamento normanno sul popolamento regionale, nel senso che le modifiche morfologiche attraverso degli apporti esogeni risultano difficili da evidenziare. L’esistenza di eventuali " Vichinghi " o di discendenti loro nella popolazione inumata attorno alla cattedrale di Rouen non è praticamente avvertibile. Si può costatare solo un accentuato dimorfismo sessuale, una maggiore robustezza dell’insieme dello scheletro, e in particolare, una morfologia cranica più diversificata, elementi questi che rivelano una certa eterogeneità della popolazione. Contrariamente alle necropoli dell’alto medioevo, non sembra più esista questa selezione all’inumazione dei bambini più piccoli, anche se le loro sepolture vengono generalmente raggruppate in qualche area riservata all’interno dello spazio funerario.

Silvia
24-06-03, 21:02
RITI FUNERARI DEGLI ANTICHI GRECI

Innanzitutto si spegneva il fuoco. Il nuovo focolare domestico, perenne punto di riferimento di ogni abitazione, veniva riacceso dai vicini. Questo il primo gesto che, nell'antica Grecia, si compiva quando una persona moriva.Per la grande civiltà mediterranea, di cui si hanno notizie già dal secondo millennio a.C. e che ebbe nelle città di Atene e Sparta le due maggiori protagoniste, la morte era vissuta come un evento inevitabile, fatale, a cui erano sottratti solo gli dei. L'immortalità era il loro grande privilegio: per il resto, avevano una esistenza del tutto simile a quella degli uomini, e non sempre esemplare, fatta di passioni, virtù, bisogni e difetti. Tuttavia era una esistenza felice, perché non oscurata dal pensiero della morte inesorabile. Per questo, i riti funebri avevano nella civiltà greca, che visse i suoi massimi splendori tra il 500 e il 400 a.C., la funzione di trasformare lo stato di morte in un nuovo stato, stabile e positivo.

LA SCRUPOLOSA PREPARAZIONE DEL CORPO
Il defunto, prima di essere esposto per l'estremo saluto dei parenti e degli amici, veniva lavato, profumato e poi vestito dalle parenti più strette. Il compito di prendersi cura delle spoglie competeva però solo a determinate categorie di donne: o quelle che avevano superato i sessant'anni o quelle che erano strettamente imparentate con il defunto. Durante la preparazione del corpo aveva grande importanza l'uso dell'acqua, a cui venivano attribuite proprietà purificatorie, anche per i vivi.Infatti si riteneva che questi fossero contaminati dal contatto con il morto: per questo, durante il periodo di lutto, presso l'abitazione del defunto era sistemato un grande vaso che conteneva acqua, che serviva per la purificazione di coloro che uscivano di casa.Se sul corpo della persona deceduta c'erano delle piaghe, venivano coperte e fatte sparire con un unguento profumato: così la pelle, strofinata con quest'olio, assumeva maggior splendore. Il defunto veniva poi vestito e ornato di ghirlande, nastri e gioielli. Alle volte si avvolgeva in un mantello, che gli copriva anche la nuca: una struttura di legno sostenuta da alte assi, su cui si disponevano una coperta pesante, simile ad un tappeto, ed alcuni drappi di stoffe preziose costituivano il suo letto funebre. Il suo capo era sollevato su cuscini; talvolta testa e mandibole erano strette da una benda.

L'ESPOSIZIONE DEL DEFUNTO
Solo dopo essere stato accuratamente preparato, il defunto poteva essere esposto all'interno della sua abitazione per le tradizionali visite di congiunti ed amici. Comunque, tale esposizione avveniva non prima del giorno successivo al decesso e normalmente durava un solo giorno, che era il tempo necessario, secondo i greci, per accertare la morte.In parecchie raffigurazioni, rinvenute soprattutto su coppe e vasi, si vede spesso il morto che giace con i piedi rivolti a sinistra, presumibilmente verso la porta: da quella parte giungono gli uomini in processione, sollevando la mano destra con la palma in fuori. Si tratta di un gesto di preghiera che gli uomini compiono a piedi o a cavallo presso il catafalco. Un gesto ripetuto talvolta anche presso la tomba.Particolarmente intensa era la lamentazione funebre, effettuata dalle donne, che sfogavano il dolore con gesti molto plateali: si battevano il petto, si strappavano i capelli e li deponevano sul cadavere, si laceravano le vesti, tentavano di ferirsi le gambe e il petto, si gettavano nella polvere e si spargevano cenere sul capo. Il lutto era segnato anche da alcuni particolari comportamenti dei congiunti: i parenti più prossimi rifiutavano il cibo prima del funerale e, ancora, le donne si radevano i capelli, mentre gli uomini se li lasciavano crescere.

IL CORTEO FUNEBRE, TRA DANZATORI E SUONATORI
La mattina del terzo giorno dalla morte si svolgeva il funerale: il rito era previsto sempre prima dell'alba. Al corteo funebre prendevano parte i parenti, accompagnati da suonatori e danzatori. In numerose ceramiche dipinte si è ritrovata spesso l'immagine della bara trasportata da un carro, tirato da muli.Il cadavere veniva poi cremato su una pira. Le ossa erano separate dalle ceneri, raccolte e poste a parte nella tomba. Testimonianze di molti autori classici, soprattutto dell'oratore e letterato romano Cicerone, hanno riferito che, attorno al luogo di sepoltura, si spargevano frutti sul terreno. Un'usanza che, per i Greci, aveva due finalità: propiziare un tranquillo riposo al defunto e purificare la terra, restituendola in questo modo alle attività dei vivi. Vicino ad alcune tombe, sono state individuate delle "fosse per offerte", posti in cui si posavano, per il defunto, dei doni: questi, disposti su tavole di legno durante la sepoltura, venivano bruciati e poi sigillati in piccole urne con uno strato di terra o di calce. Come dimostrano i resti di ossa di animali trovati in qualche caso, si facevano anche offerte di cibo. Molto probabilmente accompagnavano il defunto vasi contenenti unguenti per la pulizia della salma e bevande: infatti sono state scoperte, sempre nelle zone di sepoltura, coppe e brocche.

BANCHETTI E SACRIFICI
Per limitare gli eccessi del lusso funerario, lo statista Solone, all'inizio del VI secolo, prescrisse limitazioni del lutto alla parentela del defunto: nonostante queste regole, i periodi di cordoglio si chiudevano con sacrifici e banchetti che ad Atene si svolgevano il terzo, il nono e il trentesimo giorno dalla morte. Questi convivi, preceduti da un rito di purificazione dei luttuati, si effettuavano nelle ore serali ed erano una occasione per riunire i parenti: questi, avvolti in ghirlande di fiori, pensavano di parlare con il defunto e, in continuazione, elogiavano le sue virtù. Alle volte il banchetto veniva organizzato intorno alla tomba: si riteneva che il defunto vi partecipasse e ricevesse come ospiti i suoi parenti. Anche in questo caso, i partecipanti lodavano la persona morta. In alcune zone dell'antica Grecia, però, temendo le reazioni negative dei morti, si consumava il pasto in silenzio. E non si raccoglievano i resti che cadevano a terra dalla tavola, poiché questi appartenevano al loro spirito. Il banchetto era considerato un rito di passaggio, che permetteva alla famiglia colpita dalla perdita di riprendere la normale vita comunitaria. Ogni anno si effettuavano dei riti di commemorazione, in cui spesso si adottava un figlio.

MONETA E FOCACCIA
I Greci credevano in una vita oltremondana. Per questo, ai morti veniva lasciata in bocca una moneta, che rappresentava l'obolo che erano tenuti a pagare a Caronte, per essere traghettati al di là dell'Acheronte, il fiume che recingeva il sotterraneo mondo dei defunti. Comunque, si pensava che le anime non venissero trasportate prima dell'incinerazione o inumazione dei corpi.Tra le mani dei defunti, invece, veniva posta una focaccia, che doveva essere lanciata al cane Cerbero, custode dell'Ade, dimora dei morti. In questo regno si distinguevano l'Eliso e il Tartaro: il primo era il luogo di beatitudine dei giusti, il secondo era il posto di tormenti e di espiazione per chi si era macchiato di delitti e si era comportato ingiustamente.


Gianna Boetti per www.oltremagazine.com

http://www.oltremagazine.com/binary_files/articolo/cultura.90.97.jpg

ScimmioneNudo
26-06-03, 05:41
Lo psicopompo è una figura ricorrente nella stragrande maggioranza delle mitologie, ha origini egiziane, ma è possibile ritrovare questo mito anche in altre culture.
Ricordiamo poi come la tradizione dell'obolo sia giunta in occidente fino ai giorni nostri (in Inghilterra si pongono 2 penny sugli occhi del defunto).

Silvia
28-11-03, 21:58
Ostriche e perle per la rinascita spirituale

Perle e conchiglie per un destino eccellente nell'aldilà. Nelle varie epoche storiche, a pietre preziose e gusci di molluschi è stato collegato un ruolo particolarmente importante nei riti funebri: quello di aiutare il defunto a intraprendere il suo nuovo cammino di vita. In molte culture la conchiglia ha rappresentato proprio la rinascita spirituale e in parecchie località preistoriche, anche distanti tra loro, si sono trovati depositi di conchiglie. Gusci di molluschi sono stati scoperti nella necropoli di Kouban, nel Caucaso settentrionale, risalente al XIV secolo a.C., altri in tombe attorno a Kiev, altri ancora in Francia, Inghilterra, Germania, soprattutto sulla costa baltica. Una vera e propria conferma dell'importanza magica e religiosa che le conchiglie avevano presso le popolazioni più antiche della terra. Dai vari ritrovamenti, si è capito che l'usanza più diffusa era quella di ornare i defunti con collane di conchiglie.
Nella caverna di Langérie, nella valle della Vézère in Dordogna, gli scavi hanno portato alla luce uno scheletro sul quale le conchiglie erano poste simmetricamente a coppie: quattro sulla fronte, una su ogni mano, due su ciascun piede, quattro vicino alle ginocchia ed alle caviglie.
In una caverna inglese è stato invece trovato uno scheletro di donna, coperto interamente di conchiglie e in più corredato di una corona di gusci. Anche gli scavi a Creta hanno rilevato un abbondante uso di conchiglie: in una caverna risalente al periodo neolitico, intorno ad una raffigurazione femminile fatta con l'argilla, si sono trovate numerose conchiglie. Con ogni probabilità, erano l'augurio per la sua rinascita dopo la morte.

Ostriche e giada in Cina
Anticamente, in Cina si usavano grandi quantità d'oro e di giada. Secondo le norme della dinastia Han, insediata tra il II secolo a.C. e il 200 d.C., i principi e i signori dovevano essere sepolti con gli abiti adorni di grandi quantità di perle e giada che, nelle loro credenze, avevano la funzione di conservare il corpo. Descrizioni del tempo parlano di bare ornate di cinque file di conchiglie preziose e tavolette di giada. Gli usi funebri per i sovrani della stessa dinastia prevedevano che le loro bocche fossero riempite di riso, perle e giada: un costume già diffuso in tempi assai più remoti. Il culto funerario cinese di quei secoli utilizzava anche ostriche e la più grande e fine delle cozze, shen. Cozze e conchiglie erano posate di solito sul fondo della tomba: l'abitudine più diffusa era quella di coprire di shen il fondo della tomba, prima di calare la bara. Una pratica che evitava il sorgere dell'umidità.

Dall'Africa alle Americhe, amuleti e vasi colmi di pietre
Nell'India antica si cospargeva di gusci di molluschi il sentiero che portava dalla casa del morto al cimitero. In certe regioni si mettevano perle nella bocca del defunto: una usanza molto praticata anche nel Borneo.
Presso molte popolazioni antiche d'Africa si stendeva nella tomba uno strato di conchiglie: molti i ritrovamenti in Egitto, prima ancora dell'avvento dei faraoni. Sono state poi le conchiglie del Mar Rosso a fornire per secoli amuleti agli Egiziani. Perle e conchiglie hanno rivestito un ruolo funerario di importanza decisiva anche tra i popoli delle due Americhe.
Gli Indiani della Florida decoravano di perle le tombe dei loro re. Le bare di legno, su cui erano deposti i loro scudi adorni dei pietre preziose, erano tumulate in grandi templi: accanto ai corpi, imbalsamati, venivano sistemati dei piccoli panieri pieni di perle.
L'antica cultura giapponese prevedeva poi un singolare rituale: il cadavere, dopo essere stato lavato e profumato, veniva ricoperto di polvere di conchiglie. Era il modo di assicurare al defunto la sua rinascita.


Dal sito www.oltremagazine.com

http://www.silviadue.net/vari/collana_conchiglie.jpg
Collane con denti forati e conchiglie (dai corredi
sepolcrali dell'età del Rame)

Tomás de Torquemada
26-11-04, 04:08
Dal sito http://www.anticoegitto.net/

Riti per la resurrezione dei morti

http://www.anticoegitto.net/ritiresurrezioner.htm

Salute a te Osiride,
Signore dell'Eternità,
Re dai numerosi Nomi,
dalle trasformazioni sacre,
dalle forme segrete nei templi.

La morte come fine non esiste nel pensiero dell'antico Egitto e, come tale, fu rifiutata perché essa è intesa solo come modificazione dell'armonia vitale. In effetti gli egizi non la accettarono mai né come scomparsa dell'Essere né come una seconda vita del tutto relegata in un altro mondo, lontana dalla vita terrena. Gli stessi riti funerari sono riti di risveglio alla vita celeste e non momenti di disperazione: l'anima continua a vivere nei pressi del corpo mortale, si riposa presso di lui, si nutre delle offerte portate dai vivi, perché il corpo divino del defunto continua a vivere in perenne comunicazione tra questo e l'altro mondo:

... tu non perisci, tu non ti annulli.
il tuo Nome dura tra la gente,
il tuo Nome si manifesta tra gli dei...

Ogni uomo ha come missione quella di conoscere il Nome segreto che gli fu imposto alla nascita e superare vittoriosamente la prova della morte significa rendere questo Nome durevole come quello di Osiride. L'uomo esce dal grande corpo di Maat e vi ritorna dopo il suo soggiorno sulla terra. Gli elementi costitutivi dell'Essere non coabitano più; l'evento chiamato morte è quindi il più pericoloso dei "momenti di passaggio" perché i dodici geni maschi dell'uomo rischiano, al di là dello specchio, di restare disuniti e il passaggio armonico di tutto l'Essere è permesso solo dalla corretta esecuzione di riti funebri che gli segnano la strada verso la Luce per rivivere, "dall'altra parte", in tutta pienezza evitando la "seconda morte". La magia funeraria ha lo scopo di rifondere la vita, vita che necessita del buon funzionamento del Cuore e degli organi vitali, delle energie sottili contenute nei cibi e nelle bevande servite nei banchetti dell'al di là; per tale motivo la salma viene portata nella casa della morte dove resta per settanta giorni. In essa, nella tenda di purificazione, il morto viene accolto e deterso con acqua salata simbolo del NUN, oceano rigeneratore primigenio, ed il defunto ne viene purificato come il Sole quando al mattino esce dal mare dopo il passaggio attraverso le tenebre dell'occidente; ai suoi piedi vengono poste due Ankh, le croci ansate simbolo di vita e di resurrezione. I riti di resurrezione promettono al nuovo essere di recuperare l'uso del suo corpo, analogo ma non identico a quello che possedeva nella vita terrena e per permettere ciò le sue viscere vengono poste nei vasi canopi. Così non solo gli organi materiali vengono salvati ma anche i principi sottili che essi contengono, perché la mummificazione è l'atto magico mediante cui il mago fa passare il "defunto" dal suo corpo umano a quello divino. Nella Sardab, piccola ed esigua stanza nel cuore della Mastaba, giace la statua vivente del morto ed il suo dinamismo creatore, il Ka, aleggia intorno ad essa. Accanto alla mummia viene posto un papiro che ha il compito di respingere ogni forza ostile e di permetterle un viaggio sicuro nelle "Terre d'Occidente"; altri ne vengono posti fra le mani e le gambe e con quelle indicazioni ed itinerari è permesso al defunto di non perdersi tra le tenebre.Gli amuleti di Heliopolis gli sono apposti: nella tomba è messo un pilastro djed, che questo asse immutabile che collega la terra al cielo gli illumini la coscienza; una colonnina ouadj, col suo rappresentare la crescita continua dell'Essere, abolisca per lui la frontiera tra il "basso" e "l'alto" mondo; sul cuore uno scarabeo simboleggia le continue mutazioni della coscienza. Attorno al sarcofago è creato un simbolico campo d'energia concretizzato dall'Occhio, la livella, la squadra, il sole nascente e così la mummia è resa incorruttibile dalla potenza magica che da essi si sprigiona, cosicché la spoglia mortale diventa un Corpo Immortale e l'anima munita di tale supporto penetra nel regno d'Occidente vivendo in eterno. Le sottili bende che avvolgono la salma gli sono state donate da Neith, la dea tessitrice, il cui compito consiste nel preservare il corpo dalla putrefazione, conferendo all'individuo mummificato la qualità della realtà in eterno. Riportato alla tenda di purificazione, a lui ancora inanimato, il mago con una piccola ascia di ferro provvede alla "apertura della bocca" per restituirgli il Verbo e con questo atto la mummia è resa vivente ed il defunto può passare dal suo corpo umano al corpo divino. Anubis esprime il suo potere sul soffio vitale, sull'energia, sulla materia; gli pone sotto il capo l'ipocefalo che come fiamma divina trasforma il cadavere in essere vivente ed al corpo così purificato sostituisce l'odore della carne decomposta con quello dell'incenso e della mirra. Ra pone sul volto della salma una maschera d'oro segno della vita rigenerata, simbolo dell'imperituro e che esprime lo splendore della vita divina ed Iside cura che il defunto rinnovi la sua vita per mezzo dell'oro interiore insito in ogni uomo. La statua viene quindi posta nel sarcofago ed il suo spirito può entrarne ed uscirne perché non è un sepolcro, un luogo di costrizione; "colui che possiede la vita" - tale è il suo nome - è la nave che porta il defunto nel ventre del cielo permettendo il libero passaggio dello spirito da questo a quel mondo.

Un'offerta che dona il Re,
un'offerta che dona Anubis:
mille pani, mille brocche di zytum,
mille buoi, mille oche
per la tua Potenza vitale.

E' la formula classica incisa sulle steli funebri e nella tomba vengono deposte le cartelle delle offerte, liste di cibi destinati alla sopravvivenza nel mondo oscuro; con la loro lettura, dai geroglifici emana l'essenza profonda dei cibi perché è la magia del Verbo che nutre realmente l'anima degli abitanti dell'aldilà. Attorno al sarcofago vengono deposti dei golem, corpi di sostituzione su cui si scarica ogni eventuale forza aggressiva in modo da difendere il defunto. Egli è attorniato da altri personaggi: gli Ushebtl, quelli che rispondono all'appello dei morti per aiutarli; sono statuine di personaggi con il corpo ricoperto da testi magici, recanti sulla schiena un sacco ed impugnanti due zappe. Sono il supporto delle forze costruttive e la loro funzione è di essere sostituti magici nelle terre dell'Occidente, prendendo il posto del defunto nel lavori più faticosi, perché il giusto possa godere pienamente della sua seconda vita, delle offerte rituali, dei cibi, della caccia, dell'amore, vivendo una morte tranquilla nel paradiso del "campo dei giunchi". I paradisi egizi non sono immaginati come luoghi di perpetua adorazione della divinità né come proiezione incompleta della vita terrena; essi rappresentano simbolicamente la società celeste in cui il beato prende posto di diritto trascorrendo una sua vita autonoma in armonia con gli dei. Molti sono i rischi che attendono l'adepto sulle strade dell'altro mondo e lungo è il tragitto per arrivare; esso è popolato da terribili geni che tendono agguati al viandante, lungo le due strade, una per via d'acqua, una per via di terra e separate dal fiume di fuoco. Per passare le quattro frontiere dei cielo il viaggiatore deve convincere i guardiani a lasciargli via libera perché egli ne è degno, ha la conoscenza; grazie ai riti funebri egli gode dei poteri magici in forza dei quali può vincere questi sinistri esseri che vigilano su luoghi oscuri e profondi, su strade che si perdono nella tenebra, su incroci che portano al nulla. Un altro personaggio si oppone al viaggiatore: è il Passatore detentore della barca, grazie al quale si possono attraversare i deserti acquatici che cingono i paradisi celesti, ricordo del viaggio sulle acque di Osiride defunto. Per essere traghettato il postulante deve dimostrare la sua conoscenza, i suoi poteri; egli proviene dall'isola di fiamma dove ha ingaggiato un'aspra battaglia coi nemici della luce, conosce i Nomi segreti delle cose e non esita ad enunciarli; ha scoperto il cantiere degli dei dove la barca celeste giace smembrata, come Osiride sulla terra. Il Passatore è vinto da tanto sapere e mette la barca a sua disposizione;

"Passa- egli dice - perché tu hai la
conoscenza".

e si ridispone alla sua eterna attesa di un altro viandante da esaminare. Per accedere oltre, il defunto deve superare la prova della porta che separa i due mondi e deve dimostrare al guardiano di conoscere bene i suoi Nomi: la soglia è "il Maestro di rettitudine che sta sulle gambe"; l'architrave il "Maestro di Forza che introduce il bestiame"; "Bilancia di precisione" è il frontone. Così può penetrare nella "sala delle due verità", la divina e l'umana e contemplare l'assemblea dei suoi fratelli che l'hanno preceduto, perché solo la comunità può formare l'Occhio Completo capace di fissare la Divinità; egli riconosce i quarantadue dei che lo interrogano e Osiride che siede sotto il baldacchino regale con le sue pietose salvatrici, Iside e Neftis. Per il popolo Osiride è il "dio del sentimento", il dio "buono" che assume in sé il potenziale d'affetto e di speranza che riversa sugli uomini in forma di conforto; egli permette di superare i confini dell'ignoto assicurando un destino ultraterreno sì corrispondente ai meriti ed al comportamento morale di ognuno, ma con un velo di complice benevolenza. Per il Saggio egli è "l'Osiride Divino": Signore dell'eternità e dei Re; è potenza di manifestazione della Luce che proietta verso il mondo degli uomini la Realtà Divina dove tutto è continua trasformazione. Egli è giudice inflessibile e dinanzi a lui l'uomo interiore si deve rivelare completamente per porre in relazione la propria azione personale con quella universale. Osiride è innanzitutto energia cosmica in cui ognuno può scoprire le leggi della Saggezza in maniera proporzionale all'intensità del proprio Occhio. All'estremità opposta della sala siede Anubis dalla testa di sciacallo che introduce il defunto. Tutti ascoltano la confessione dei viandante che assicura loro di non essersi macchiato delle settanta orribili colpe, nascondere le proprie responsabilità equivarrebbe ad ingannare sé stesso e condannarsi quindi a peggior castigo:

Io vengo presso di voi, grande Tribunale
che è in cielo, in terra e nella necropoli...
Salve a te che presiedi agli Occidentali
... io vengo a te ed il mio cuore porta la
verità.
Non c'è colpa nel mio corpo...

Su un piatto della grande bilancia è il Cuore dei viaggiatore; sull'altro la penna di Maat; Anubis controlla il peso ed in questo momento l'uomo deve rendere conto delle proprie azioni e dimostrare di avere fatto crescere la particella della Luce posta in lui. Assolto egli avanza verso Osiride guidato da Ra e si trasforma egli stesso in Osiride nell'Eternità ed al defunto beato si aprono le porte celesti, sale sulla barca del sole perché è sia Signore delle Tenebre che del Cielo; navigando sulla barca celeste, siede accanto al Re; prende posto con le Divinità; accede all'interno del Sole e con esso giorno e notte percorre le vie del Cosmo dispensando energia creatrice, vero Dio vivente; egli può "uscire nel giorno":

"Sono aperte le porte del Cielo,
i catenacci sono stati tolti dalle porte del
Tempio.
La casa è aperta al suo padrone!
Che esca quando vuole uscire,
che entri quando vuole entrare..."

Se al contrario in questo mondo si è accontentato di sopravvivere senza coscienza dell'Armonia Divina, viene divorato dalla "mangiatrice d'Occidente", condannato alla seconda morte da cui non esiste ritorno. Il messaggero d'Osiride incute timore. Qui gli affetti sono vivi e brucianti in petto; di là la paura dell'incognito, la solitudine imprimono una sottile malinconia che la speranza di una seconda vita non riesce a dissipare. L'acqua del NUN non giunge nella Duat ed il rimpianto per "l'Acqua di Vita" è grande:

"L'Occidente è un paese di Sonno,
di fonda oscurità, sede di quelli che sono
là,
che dormono nelle loro bare...
L'Acqua della Vita
di cui tutte le bocche si nutrono è per me
sete
Essa viene a chi è sulla terra, per me è
sete...
Volgete la mia faccia al vento del nord,
alle sponde dell'Acqua.
Fate che il mio Cuore nella sua pena abbia
refrigerio...-"
Per quel che riguarda la Morte,
il suo nome è "VIENI"...
Non c'è nessuno che possa sviare il suo
cenno da sé...".

Senatore
26-11-04, 04:28
...il passaggio da un ciclo ad un altro, come ogni cambiamento di stato, non può compiersi che nell'oscurità.

René Guénon

Silvia
07-10-05, 21:37
LE PREFICHE

Tra lacrime disperate ricordano le virtù del morto. Con grida e struggenti cantilene, esprimono il dolore del distacco, arrivando a strapparsi i capelli e a graffiarsi il viso: un compito che il più delle volte eseguono a pagamento. Sono le lamentatrici di mestiere, le cosiddette prefiche: donne che vegliano il defunto con canti funebri, strofe a memoria e improvvisazioni per ricordare episodi della sua vita e dimostrare a tutta la comunità quanto sia straziante la sua scomparsa. Un'usanza conosciuta fin dai tempi più remoti: già nell'antica Grecia si ricorre alle prefiche che, a chiome sciolte, esaltano le virtù del defunto. Nella Roma classica, le lamentatrici hanno una parte importante nel corteo funebre, dove seguono i portatori di fiaccole levando altissime grida di dolore. Risale proprio a questa civiltà il termine "prefica", che deriva dal latino "praeficere", ovvero stare a capo, guidare. In questo caso, guidare il pianto: tanto che lo storico latino Festo, le definisce "donne chiamate a lamentare il morto che danno alle altre il ritmo del pianto"... E tanto più importante è il defunto, tanto più sono numerose.

Combattuto per secoli, il loro intervento durante veglie e funerali si tramanda comunque. Già nel 1313 il vescovo di Treviso proibisce questo tipo di manifestazione. Verso il Cinquecento, alcuni scrittori si scagliano contro le lamentatrici che "piangan del mal che non le tocca”. Nel sinodo del 1588, il vescovo di Nicotera vieta il pianto lugubre delle prefiche, lo seguono il vescovo di Adria e quello di Potenza, ma in tutta Italia il ricorso alle prefiche rimane vivo per molto tempo ancora.

In Piemonte si convocano per i funerali le piagnone fino all'inizio del Novecento, mentre in Lombardia è dimostrata la presenza del lamento ancora tra le due guerre mondiali: l'intervento delle piansune è documentato in modo particolare nelle province di Mantova e Cremona. Nelle Marche, almeno fino alla metà del XX secolo, è presente l'uso di convocare, in occasione della morte dei vecchi e delle persone sposate, cento donne vestite di nero che piangono incessantemente durante il corteo funebre. Ancora negli anni Trenta, in Molise, le repute eseguono la lamentazione agitando sul cadavere un fazzoletto. Se in Toscana le prefiche alternano alle cantilene cibi e bevande offerte dai familiari del defunto, in Calabria accompagnano la veglia funebre con gesti particolari: muovono il capo, si spettinano, sollevano le braccia al cielo. Contrastate dalla Chiesa locale soprattutto nel Settecento, le lamentatrici di professione vengono segnalate in provincia di Cosenza, dove sono soprannominate chiagnitare e i loro canti chiamati dittami, quasi fino alla fine dell'Ottocento. Seppure repressa in più occasioni, l'usanza della lamentazione funebre non viene meno neppure in Sicilia. Già Federico II d'Aragona tenta di reprimere l'attività delle cosiddette reputatrices con una ordinanza del 1309, ma inutilmente: infatti è segnalata la loro partecipazione imponente persino ai suoi funerali.



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Prefica di Pisticci (Lucania)

Silvia
17-04-07, 09:34
LE TORRI DEL SILENZIO

I Parsi, seguaci di Zoroastro, non sotterrano i loro cadaveri, né li cremano, né li affidano ai fiumi, perché Terra, Fuoco e Acqua sono sacri e non devono essere contaminati. I morti vengono esposti sulle Torri del silenzio, costruzioni cilindriche accessibili solo ai necrofori, dove verranno divorati da corvi e avvoltoi: estremo atto d'amore verso la Natura e le sue creature. A Mumbai (Bombay), sulla collina di Malabar Hill, esistono tre Torri del silenzio ancora attive.



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La Torre del silenzio di Yazd (Iran)

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Un vallo senz’acqua circonda la torre e vi sono sospesi due ponti, che danno ad una porticina ovale, minuscola, unica apertura nella mole bianca. Ed ecco fra il candore dell’edifizio e l’azzurro del cielo un’enorme forma nera e sinistra: il primo avvoltoio; poi un secondo, un terzo; poi sei, sette… […]
La Dakma si corona di avvoltoi, non più calmi nel loro pensoso atteggiamento consunto, ma frementi, con i colli serpentini protesi verso una cosa nuova. Lungo la strada, a mezza costa della collina, biancheggia tra la polvere fulva e il verde del fogliame il corteo funerario. E’ tutto candido; strana usanza opposta alla nostra, che ammanta di veli bianchi il dolore dell’ultimo addio.
- Entreremo anche noi nella Torre? – domando, non senza inquietudine d’una tale proposta.
- Nessuno, nemmeno l’Imperatore, potrebbe penetrarvi; soltanto una speciale setta di necrofori e il dastur accompagnatore possono entrare. [...]

- Il modello è molto semplice. - E il dottore mi disegna a matita un anfiteatro, diviso in tre circoli concentrici, suddiviso da raggi che formano tante cellette aperte. “Ecco: il cerchio interno, dalle celle minori, è per i bimbi, il mediano per le donne, l'esterno per gli uomini. Questo è il pozzo centrale, dove si raccolgono le ossa ignude, che un acquedotto sotterraneo trasporta al mare."

La logica della barbara usanza? E’ barbara, perché? Per i parsi il fuoco è la manifestazione divina, anzi, la divinità stessa, come per il cristiano l’Osta Consacrata. Rifuggono dunque dall’abbandonare il cadavere al rogo, come fanno gli Indu, per non offendere con la putredine la divinità; rifuggono dall’inumazione, perché l’Avesta, il loro testo sacro, proibisce di lasciare alla decomposizione lenta della terra quel corpo che fu l’agente di un’anima. Gli avvoltoi, gli uccelli sacri per rito millenario, sono forse i più adatti ad annientare la misera sostanza morta e a ritornarla nel ciclo vitale…

Ecco il corteo. Forse venti persone, interamente vestite di bianco, con la testa, il volto velato di veli candidi. Quattro portatori recano il cadavere resupino, coperto da un sudario leggiero, sotto il quale traspaiono le spalle aguzze, il profilo fine. Le gambe scarne. I seguaci si tengono uniti a due a due con un fazzoletto attorto: il crati funerario, emblema di alleanza nella sventura. Al primo ponte tutto il corteo si arresta, come per intesa, e solo qualche figura bianca segue il cadavere: parenti più consanguinei, la madre, il padre, un fratello. La barella è deposta dinanzi alla porticina aperta; i seguaci sostano pochi secondi dinanzi al cadavere, forse per una preghiera d’addio. Di fronte è il dastur, il sacerdote parsi con due addetti. Non altri, non altro; nessun gemito, nessuna lacrima, nessun gesto tragico; forse anche nella religione dei Parsi, come in quella dei Bramini e dei Buddisti, è cancellato il senso che noi occidentali abbiamo dell’io, e la loro filosofia millenaria attenua lo strazio del distacco senza ritorno. La barella è scomparsa nella porticina, che si è chiusa silenziosa, le ombre candide ritornano a due a due, unite sempre dal lino funerario, si allontanano senza volgersi indietro, come il rito prescrive, dispaiono fra i tronchi di palmizi.

Ma in alto, nell'aria, è il turbinio fitto, spaventoso delle ombre nere. Dalle profondità dell'azzurro si avvicinano, ingrandiscono, precipitano con al velocità della pietra che cade, i grifoni funerari; sull'azzurro del cielo, sul candore della torre, le ali fosche sembrano attratte e respinte da un turbine avverso, fanno pensare alle grandi ali degli angeli maledetti. Ma nessun grido, nessuna lotta, uno stridìo querulo e sommesso, quasi timoroso di svegliare un dormiente.


Da Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India di Guido Gozzano
(EDT Edizioni di Torino – pag. 15 e seguenti)



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Rito parsi

sideros
17-04-07, 12:27
Tutte le religioni sono nate in funzione della morte. Mi permetto una domanda: perchè tutti questi modi di intervenire sul corpo del defunto. Gli estremi degli egizi e degli indu, i primi mantenere l'estetica e la carne per "sempre" affinchè non si disintegrino gli altri corpi sottili, viceversa gli indù adottano la veloce consumazione per cremazione? Siamo parte di un tutto, la morte è un punto di vista estremamente difficile da risolvere. La vera scienza sacra sganciata dalle religioni potrebbe finalmente svelarci l'arcano del dopo morte. Giordano Bruno nel suo VERO sapere parla degli infiniti mondi paralleli dato che stupidamente in questo ci sembra di vivere appieno.

Silvia
18-04-07, 00:41
Tutte le religioni sono nate in funzione della morte. Mi permetto una domanda: perchè tutti questi modi di intervenire sul corpo del defunto. Gli estremi degli egizi e degli indu, i primi mantenere l'estetica e la carne per "sempre" affinchè non si disintegrino gli altri corpi sottili, viceversa gli indù adottano la veloce consumazione per cremazione?

La morte rappresenta un mistero invalicabile a cui le religioni cercano di dare risposta, che ovviamente non è univoca. E così i riti funerari si sviluppano, sostanzialmente, in tre indirizzi di principio:

* credenza nella totale estinzione del corpo, a cui si collega l'uso della cremazione (gli indù consegnano alle fiamme il corpo fisico – il cui compito cessa con la morte - affinché gli elementi di cui è costituito ritornino alla natura, mentre l'anima rinasce).

* credenza, come nel cristianesimo, nella resurrezione della carne, che prevede l'inumazione.

* credenza che, dopo la morte, il corpo viva un'altra vita sensibile, a cui si ricollega l'uso di conservarlo integro e di porre accanto al defunto viveri, suppellettili ecc..

E i riti funerari hanno una funzione consolatoria: sono riti di risveglio alla vita spirituale che aiutano a scoprire nella morte, pur in tutto il suo orrore, la premessa di una futura salvezza.

BOY74
18-04-07, 17:47
Ora capisco il perchè di quell'augurio stile pompe funebri per il compleanno di Tomas :D

Mi limito ad osservare come testimonianza di un certo imbarbarimento della nostra società che oggi a funerali si applaude....
S'è passati dalle prefiche agli applausi...

sideros
18-04-07, 19:36
Per noi uomini post rivoluzione francese la morte è non solo un mistero, ma come direbbe la psicologia la grande peste psichica, il fatto che dobbiamo rimuovere, difatti il morire è sempre più un fatto privato, si muore ormai in strutture asettiche lontano dagli affetti e dalla quotidianeità.
Con molta probabilità il mondo sciamanico ha indagato sull'aldilà, le antiche civiltà si sono prodigate e hanno composto testi sul pre e sul post mortem.
Come i papiri dei morti, il libro tibetano dei morti il cialan balan ecc.
La vastissima teologia pagana ha creato miti struggenti e suggestivi che descrivono anche le difese contro i demoni, le vie di salvezza e di memoria contro il nulla. L'ebraismo vede nella morte la fine lo sheol, un mondo di oscurità che avviluppa tutti e tutto, mentre il mondo pagano ci propone una ricchezza di sfumature e di possibili mondi dell'aldilà.Goethe arriva a scrivere "la morte è un trucco messo appunto dalla natura per dare lunga vita".
Polvere sei e polvere ritornerai così è scritto sull'Eclesiaste, ma la polvere non è nulla, la polvere o la cenere appartengono al fisso, fermo restante che ancora prima di Platone si parlava di Psichè o anima-nulla di nuovo sotto il sole.
Odisseas Elitis –premio nobel della letteratura- poeta dall'epus marziale, ermetista, tradotto in
italiano da Nicola Crocetti ,scrive:
"Fin da piccolo mi hanno riempito la testa con l'immagine di una
morte imbacuccata di nero ,che tiene la vita come una trappola
e ce la offre aperta con in mezzo l'inganno del piacere.
Mi fa ridere.
Diceva un'altra cosa chi masticava l'alloro.
E non è un caso che giriamo tutti attorno al sole.
Il corpo sa."

Tomás de Torquemada
18-04-07, 22:25
Qualche considerazione a margine degli ultimi, eccellenti, post... Con particolare piacere, nonostante il tema :D, trattandosi del mio campo prediletto di studio e ricerca... :)

La Morte non è un fenomeno come qualsiasi altro ma, in certa prospettiva, è l'Evento per antonomasia poiché, sul piano fisico e biologico (e, almeno in apparenza, psichico e intellettuale), coincide con la Fine dell'individuo. Almeno così in prospettiva di mero materialismo (ben misera cosa, parola di uno che ha passato giornate in sala settoria...).

Si comincia a morire nel momento in cui si nasce; e il decesso è come un nemico perennemente in agguato, nessuno al mondo può essere certo che non sia dietro l'angolo. Tutto questo genera inevitabile angoscia, pur rifiutata ed esorcizzata in vari modi.

Le religioni hanno dunque cercato di offrire risposta e consolazione a tale Paura suprema, con il duplice scopo di lenire la ferita sociale dovuta alla scomparsa del singolo inteso come membro della comunità e, al tempo stesso, far sì che l'esistenza di ciascuno non risulti svuotata di significato come per molti sarebbe se questa si identificasse con una corsa verso il nulla, un baratro oltre il quale nulla sopravvive se non la memoria fra i superstiti (neppure quella, per il defunto anonimo).

Le parole iniziali dell'ultimo post di sideros tradiscono conoscenza delle tesi di Ariès (riprese e conndivise in misura più o meno ampia da vari autori in letteratura scientifica, anche dal sottoscritto nel suo infinitamente piccolo).
Più in generale per i popoli antichi, ancora fino a tutto il Seicento e parte del Settecento, la morte era un fatto che rientrava nell'ordine naturale delle cose. Cui si cercava di porre rimedio consolatorio nei limiti del possibile, ma che era conosciuta e accettata nella sua ordinarietà. Subenrerà poi un'alterazione graduale, fino alla tabuizzazione dei giorni nostri nei quali la morte è stata fra l'altro rimossa e spostata fisicamente (dalla casa alla corsia ospedaliera, per esempio) e la cura del moribondo passa non di rado dalla famiglia (che una volta presenziava con solennità al trapasso, "partecipando") a estranei quali infermieri o badanti.

Ma c'è di più: la morte in sé pare non esistere più. E' sempre ricondotta (anche per i centenari) a un'infinità di circostanze contingenti, patologiche o acciedentali, accomunate dal fatto che, prima o poi, saranno sconfitte.

E' una vergogna, un oltraggio, una carcassa che ci si sforza di relegare nell'eccezionalità pur essendo, invece, quanto di più normale ci sia. E' "uno scheletro nell'armadio abbandonato nella linda, ordinata, funzionale e piacevole casa che la modernità aveva promesso di costruire" (Z. Bauman, "Il teatro dell'immortalità"). D'altronde, il canto delle sirene della scienza sembrerebbe promettere davvero se non la sconfitta della morte quanto meno la prospettiva di un formidabile aumento della vita media... In ciò vi sono esagerazioni mediatiche, ma anche possibilità reali (come quella offerta dalle ricerche sulle staminali).

E tuttavia, si riscontra un enorme paradosso: mai come adesso siamo stati sopposti a un bombardamento massmediatico di simile imponenza quanto alla morte stessa... Riferimenti abbondano ovunque, dai fumetti al cinema, dai giornali e notiziari agli spot pubblicitari al punto che qualcuno (Giovannini) ha scritto un saggio su questa capillare diffusione della "Necrocultura".

Cacciata dalla porta, rientra dalla finestra; pur come morte "altrui".

Tomás de Torquemada
18-04-07, 22:38
Ora capisco il perchè di quell'augurio stile pompe funebri per il compleanno di Tomas :D

Tempo addietro il professore, antropologo di prim'ordine, cui faccio riferimento mi ha presentato ad alcuni colleghi dicendo: "Questo è Tomàs. Si occupa di terremoti, epidemie, cimiteri... :D".

Eppure sono un tipo molto allegro... :-01#44

sideros
18-04-07, 23:26
Per fortuna che c'è la morte!

Silvia
08-08-08, 18:01
Stendalì, nel dialetto della Grecìa salentina "suonano ancora", documenta un lamento funebre contadino.
Il pianto rituale ha origini antichissime ed è sopravissuto nel Salento fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Secondo la tradizione classica, già attestata in Omero ed Euripide, è necessario favorire la partenza dell’anima nell’aldilà con canti rituali e lamentazioni che ripropongono i meriti del defunto, ne narrano la vita e ne piangono il distacco dai famigliari.

Il dolore del trapasso è sentito individualmente, ma il pianto da tributare al defunto costituisce un momento aggregante in una società arcaica che trova il senso della propria esistenza e la voglia di lasciare propria memoria anche in situazioni tragiche come la morte.

Le lamentazioni, moroloia, spesso ripropongono strazianti dialoghi tra il morto e il parente più stretto, tra chi perde un figlio e la morte stessa e costituiscono, nel vasto panorama della cultura popolare, momenti di vera e propria poesia. Le diverse tipologie di lamentazioni sono tutte accompagnate da una precisa gestualità: le rèpute o prefiche articolano il canto e ne strutturano la tensione interna con particolari movimenti del corpo, del capo e delle mani che fanno ondeggiare, secondo particolari cadenze, fazzoletti bianchi.

Stendalì è stato girato a Martano (Lecce), il testo è una traduzione ottocentesca dal grecanico rielaborata da Pier Paolo Pasolini, la regia è di Cecilia Mangini.



http://www.youtube.com/watch?v=W8u0FGWgTpE


Grazie a sideros che ha scovato questo video... :)

(http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=449491 ).

s@chertonino
08-08-08, 19:09
http://img360.imageshack.us/img360/4728/dragonsbloodyq5.jpg


Dragon´s Blood- Issue II - magazine
- Practical Necromancy -

by Lodge Magan, Dragon Rouge Poland

The second issue of Dragon's Blood magazine is devoted to practical - more and less known aspects of necromancy. It contains articles and practical workings: Azrael and the Death Principle + Invocation of Azrael, The Necromantic Ritual of the Shadows, Ladies of Infernal Dimensions – Goddesses of Death and Rulers of the Underworld, Ceremony of Persephone, Inhabulos – the demon of necromancy, Necromancy in the Cthulhu Mythos, Niantiel – the pathworking, The Underworld in Mesopotamian Mythology, Journey to the Land of Cutha, Nitocris – the Queen of Ghouls and the Lady of the Pyramid + Descent into the Temple of the Sphinx, Nas – Persian Demon of Necromancy + meditation. 42 pages. 12,0 euros

sideros
09-08-08, 11:01
La porta della vita (http://luigi-pellini.blogspot.com/2008/07/la-porta-della-vita.html)

file:///C:/DOCUME%7E1/LUIGIP%7E1/IMPOST%7E1/Temp/moz-screenshot-1.jpgfile:///C:/DOCUME%7E1/LUIGIP%7E1/IMPOST%7E1/Temp/moz-screenshot-2.jpghttp://www.piccolapenna.it/S.Michele%20Lucca.JPG Molti edifici pagani e cristiani portano questo simbolo, legato alle acque e al femminile per eccellenza. Lo sguardo si concentra sul pube: la porta della vita.
Questo pertugio segna :da dove veniamo e il trasposto riassorbimento che può essere identificato nella morte fisica. Al di là di questa fessura esiste l'ignoto quello che noi mortali non possiamo indagare con la ragione . Al di là c'è l'amore eterno , l'amore che vince la morte.


Pubblicato nel blog di luigi pellini


I riti sono funzionali al riassorbimento , il pianto e le lacrime rappresentano le acque proprie del femminile che da la vita e con essa la morte.
Il sesso è la via dell'immortalità, il sesso e la sessualità il mezzo dell'alchimia.
I metodi e i tempi rappresentano il secreto.