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Josto
11-05-02, 19:23
dal sito di Ideazione:

" Solidarietà o statalismo? [prima parte]
di Antonio Martino

Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni, erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo, l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale. Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.

Per troppi anni “solidarietà” è stato uno di quei termini usati con grande frequenza, specie dai politici, perché “suonava bene”, aveva un connotato positivo, ma che non veniva quasi mai definito. C’era soltanto la vaga presunzione che essere solidali significasse prelevare quattrini ad alcuni cittadini (i contribuenti) per destinarli ad altri cittadini, beneficiari di quest’atto di solidarietà. Avendo assunto il termine un connotato positivo, c’è stata negli ultimi decenni una nobile gara fra i politici ad accrescere le spese destinate alla solidarietà, ad allargare le dimensioni dello Stato sociale. Questa estensione è stata particolarmente cara alle sinistre, che non hanno mai voluto essere seconde a nessuno in fatto di generosità a spese dei contribuenti. E alla fine ha prevalso l’assunto per cui un paese sarebbe stato tanto più solidale quanto maggiore fosse il livello di spesa pubblica da dedicare allo scopo. La conseguenza di questa idea è che un paese sarebbe tanto più solidale quanto maggiore è il numero delle persone che dipendono dalla carità pubblica per andare avanti. In quest’ottica, il massimo della solidarietà sarebbe la situazione in cui tutti dipendono dalla carità pubblica per sopravvivere.

Noi siamo, invece, convinti che un paese è tanto più efficace e solidale quanto maggiore è il numero di cittadini indipendenti, che riescono ad andare avanti senza doversi affidare alla carità pubblica, e che il massimo di solidarietà si abbia, in realtà, quando nessuno dipende dalle elargizioni pubbliche. Accettando questa seconda impostazione, si perviene all’ovvia conclusione che 1) un paese è tanto più solidale quanto maggiore è il numero di persone che riesce a trovare un lavoro dignitoso che gli consente di essere autosufficiente e, 2) che un sistema assistenziale che, in nome della solidarietà, distrugge posti di lavoro, lungi dall’essere solidale, è in realtà nemico della solidarietà “vera”. Quello che ha prevalso in Italia negli ultimi decenni è stato, appunto, un assistenzialismo di questo tipo, perché le imposte necessarie a finanziare l’assistenzialismo di Stato hanno gravato sulla busta paga dei lavoratori configurando un’autentica imposta sull’impiego. La differenza fra il costo del lavoro (quanto il datore di lavoro spende) e la remunerazione netta (quanto il lavoratore incassa) – il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo” – è arrivato ad aggirarsi sul 50 per cento del totale. Questo significa che per ogni milione di remunerazione netta al lavoratore, il datore è stato costretto a pagare anche una “penale” di un milione allo Stato. È come se lo Stato avesse detto ai datori: «assumete pure, se volete, ma se vi permetterete di farlo, per ogni milione versato al lavoratore dovrete pagare una multa di un milione».

Le conseguenze di questa insensata punizione inflitta all’occupazione sono state devastanti: un tasso di disoccupazione a livelli elevatissimi, un tasso di occupazione fra i più bassi al mondo, una percentuale di disoccupazione “cronica” sul totale inaccettabile (il 70 per cento contro l’11 per cento degli Usa e il 15 per cento del Giappone). Il risultato è stato che la “solidarietà” all’italiana ha avuto come ovvia conseguenza il fatto di avere creato un esercito di persone destinate a dipendere stabilmente dalla carità pubblica perché il costo di questa si è tradotta nella drastica diminuzione di opportunità di impiego produttivo. Il welfare italiano è stato quindi fino ad ora la causa del problema che avrebbe dovuto risolvere. Non sarebbe male, quindi, ripensare a fondo l’intera questione.

L’incertezza ed il rischio sono caratteristiche ineliminabili della nostra vita: qualsiasi attività comporta assunzione di rischi. Quando attraversiamo la strada mettiamo inconsapevolmente a confronto la probabilità di essere travolti da un’automobile con l’importanza che attribuiamo al fatto di passare dall’altro lato della strada. Se decidiamo di attraversare è perché riteniamo la seconda considerazione più importante della prima. Tuttavia, com’è ovvio, la maggior parte di noi preferirebbe ridurre al minimo o eliminare del tutto il rischio dalla propria vita. Anche se si tratta di un auspicio irrealizzabile, gran parte delle decisioni di politica economica è ispirata proprio da quell’obiettivo. L’avversione al rischio sono forse determinati dall’ansia, dalla paura che la mancanza di certezze provoca in noi. Nell’osservare l’organizzazione della società, ci spaventa e rattrista il destino di quanti, senza loro colpa, vengono a trovarsi in condizioni di vita che riteniamo inaccettabili. Non ci sembra “giusto” che ci siano nostri concittadini ammalati privi di assistenza medica adeguata, poveri che non riescono a soddisfare neanche bisogni che ci appaiono elementari, giovani che non riescono a trovare lavoro, anziani privi di mezzi di sussistenza. Si sono trovati in quelle condizioni perché nel gioco della vita hanno estratto a sorte “una carta bassa”, il rischio ha giocato a loro danno. E se la stessa sorte fosse toccata a noi o ai nostri cari?

Non ci rassicura molto la constatazione che la probabilità di un esito tanto triste sia bassa, nè che essa possa essere ulteriormente ridotta grazie al nostro impegno: la situazione è comunque inaccettabile, dobbiamo fare di tutto per eliminarla. Questo sentimento diffuso e nobile ci spinge in molti casi ad adoperarci in prima persona per alleviare le disgrazie dei nostri simili attraverso attività caritatevoli. Ma anche questo “rimedio” volontario, privato e diretto non appare sufficiente; nasce così la richiesta di intervento pubblico, in assenza del quale si ritiene che l’ammontare di mezzi volontariamente destinati allo scopo si rivelerebbe inadeguato per la soluzione dei problemi. In altri termini, riteniamo necessario che lo Stato faccia ricorso alla coercizione per costringere la collettività a dare a scopi di assistenza più di quanto darebbe spontaneamente. È questa l’idea di base del welfare state. Le origini sono controverse: la tesi sostenuta da diversi studiosi, secondo cui l’inventore dell’assistenzialismo di Stato nella sua forma moderna sarebbe stato Bismarck, che lo avrebbe introdotto (1881) per far perdere terreno all’opposizione socialdemocratica, non è accettata da tutti. Ma, anche se si preferisce credere che il welfare state abbia avuto origini nobili, che sia nato cioè per la sincera preoccupazione di venire incontro alle esigenze dei nostri concittadini meno fortunati, il giudizio difficilmente potrebbe essere oggi positivo.

Questo non perché la desiderabilità degli obiettivi dichiarati dell’assistenzialismo sia venuta meno, ché anzi essa è ormai generalmente riconosciuta, ma perché lo strumento si è rivelato inadeguato allo scopo. Mentre il costo dei programmi di assistenza pubblica, infatti, ha ormai raggiunto livelli astronomici, compromettendo in molti casi la solvibilità dello Stato sociale, i risultati sono stati assai deludenti: l’assistenzialismo di Stato si è rivelato un pessimo affare, specie per coloro che si riprometteva di aiutare: i poveri e i deboli, proprio quelli che avrebbe dovuto liberare dalla paura. Il lettore, comunque, farà bene a non dimenticare che quanto vale per l’Italia vale anche, sia pure in misura diversa, per altri paesi: lo Stato assistenziale è ovunque sotto accusa, sia per il costo eccessivo che per i risultati ritenuti insoddisfacenti.

Il costo dell’assistenzialismo

Per avere un’idea delle dimensioni assolute e della crescita nel tempo dell’assistenzialismo di Stato, può essere utile guardare alla spesa per prestazioni sociali e alla sua evoluzione. Secondo i dati ufficiali, dal 1974 al ’99 la spesa per prestazioni sociali è aumentata di oltre ventiquattro volte in termini nominali, passando dal dodici per cento a oltre il diciassette per cento del Pil. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, l’incremento è stato del 174 per cento; in tutti questi anni, oltre un terzo delle spese totali del settore pubblico è stato destinato appunto a questo scopo. Anche se altre categorie di spesa sono cresciute più rapidamente della spesa per prestazioni sociali, non c’è dubbio che la crescita di questa spesa costituisca una delle ragioni principali dell’iperfiscalità e della conseguente disoccupazione, per non parlare della protesta fiscale. Tanto per darne una illustrazione, nel ’99 la spesa per prestazioni sociali è stata il cinquantasette per cento del gettito combinato delle imposte dirette ed indirette!

E ancora: la crescita della spesa “sociale” è stata in passato largamente responsabile del dissesto finanziario dello Stato: se l’incidenza della spesa “sociale” sul prodotto interno lordo fosse rimasta costante dal 1974 al 1991, nel 1991 il deficit pubblico sarebbe stato inferiore alla metù del suo valore: 68.076 miliardi anziché 151.242, il 4,77 per cento del Pil anziché il 10,6 per cento. Sarebbe stata sufficiente una modesta misura di contenimento della crescita della spesa sociale (non una riduzione del suo valore assoluto) per dare un significativo contributo al risanamento della finanza pubblica. Lo Stato assistenziale, quindi, è arrivato a costare troppo. Tuttavia, se a fronte del costo ingente dell’assistenzialismo di Stato si avessero risultati incontestabili in termini di socialità, la difesa di questo tipo di intervento sarebbe ancora possibile. Le cose, sfortunatamente per i superstiti sostenitori del welfare state, non stanno in questi termini.

Per quanto possa apparire incredibile a chi abbia riflettuto anche solo per un istante sulla realtà della fornitura pubblica di servizi e sul loro costo, c’è ancora chi si dice convinto della natura “sociale” della spesa pubblica. Per difendere l’assistenzialismo di Stato, secondo taluno, basterebbe il richiamo all’articolo 2 della Costituzione, dove si accenna ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La tesi è che le spese assistenziali soddisfano nobili esigenze di “socialità”. Evidentemente, qualcuno crede che l’assistenzialismo sia “sociale”, serva cioè gli interessi dei poveri. Sarà quindi meglio chiarire questo punto. Anzitutto, è perlomeno dubbio che la spesa per prestazioni sociali sia effettivamente motivata dal desiderio di migliorare le condizioni dei meno abbienti. Infatti, alla domanda: «chi ha più bisogno di assistenza, i ricchi o i poveri?» credo che tutti risponderebbero che sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto. Ma, se sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di Stato è aumentato al diminuire della povertà? Oggi il reddito reale è enormemente più alto e più uniformemente distribuito che in passato, eppure, come detto sopra, le spese per lo Stato assistenziale non hanno smesso di crescere al crescere del reddito. Sembrerebbe proprio che l’assistenzialismo pubblico tanto caro alle sinistre non abbia avuto come fine quello di ridurre la povertà.

Non basta. L’assistenzialismo di Stato di derivazione bismarckiana è basato su una concezione paternalistica della povertà: lo Stato individua alcuni bisogni ritenuti “essenziali” e si assume l’onere di fornire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi all’intera collettività. Indipendentemente da tante altre possibili considerazioni, questo modo di affrontare il problema della povertà è inefficiente, perché la ridistribuzione in natura, dal momento che viola la libertà di scelta dei beneficiari, ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di vista del benessere di questi ultimi; o anche, se si optasse per la ridistribuzione in moneta, si potrebbe conseguire un risultato uguale a quello attuale con un esborso complessivamente minore. Se a questo si aggiunge che il costo dell’assistenzialismo di Stato grava su tutti, anche sui poveri, mentre i benefici vanno spesso a tutti, anche a coloro che non sono poveri, ci si può rendere conto del fatto che la “socialità” dello Stato assistenziale è perlomeno dubbia, data la presenza di elementi regressivi di ridistribuzione.

E ancora: dato che i servizi resi sono spesso assai insoddisfacenti, il bismarckismo nostrano, introdotto da forze politiche di centro-sinistra con il pretesto di garantire “uguaglianza di accesso” a servizi pubblici essenziali, finisce col realizzare una “ineguaglianza di uscita” dall’inefficienza pubblica. In genere, solo i benestanti possono, infatti, permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la fornitura privata. Inoltre, occorre tenere presente una lezione ormai acquisita: lo Stato assistenziale costa enormemente più di quanto rende, il che è ovvio sol che si ponga mente alle modalità del suo funzionamento. Lo Stato, infatti, grava la collettività di costi per poter distribuire benefici, sotto forma di “servizi sociali”. Tuttavia, dal momento che il trasferimento ha un suo costo, quello che la collettività riceve dallo Stato è sempre meno di quello che la collettività deve pagare. Dal momento che è presumibile che i “costi di trasferimento” siano crescenti al crescere delle dimensioni dei programmi, la differenza fra costo dell’assistenzialismo e benefici da esso resi aumenta al crescere della “socialità”. In altri termini, dove vige l’assistenzialismo una gran parte delle somme va, in vario modo, dispersa nei canali burocratici, rappresentando una perdita netta per il Paese (ma non per politici e burocrati) e non raggiungendo mai i beneficiari dichiarati.

Ci limitiamo a un’illustrazione approssimativa ma importante e relativa alla prassi dell’ultimo governo di centro-sinistra: se i 370.367 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 1999 fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera popolazione (supponendo per assurdo che un italiano su quattro sia povero), avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di quasi 26 milioni (25.955.000) all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani “poveri”: quasi 104 milioni (103.820.000) per ogni famiglia di quattro persone. Anche se si tratta di un calcolo sovrasemplificato, non c’è dubbio che esso illustra una considerazione importante: se le risorse per anni destinate all’assistenzialismo di Stato fossero state impiegate effettivamente ed efficacemente per venire incontro ai bisogni dei nostri concittadini meno fortunati, la povertà sarebbe oggi scomparsa. Il fatto che la povertà non sia ancora scomparsa, nel momento in cui illustra l’inefficienza dei programmi delle sinistre, fa sorgere il dubbio che, in realtà, scopo vero dell’assistenzialismo non fosse il benessere dei beneficiari. Del resto, se scopo dell’assistenzialismo fosse quello di migliorare le condizioni dei beneficiari dichiarati, si sarebbe ricorsi alla ridistribuzione in moneta come al metodo più efficace.

E ancora: se l’assistenzialismo pubblico avesse avuto come scopo quello di aiutare chi ne ha bisogno, lo Stato assistenziale avrebbe dovuto adottare un criterio selettivo (dare solo a chi si trova, per esempio, in condizioni di provata indigenza) non universale. Così facendo, infatti, la riduzione del numero dei beneficiari avrebbe consentito di massimizzare le dimensioni dell’aiuto agli effettivamente bisognosi. Il criterio di elargizione universale, invece, si è sostanziato nel conferimento di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai ricchi con una ridistribuzione regressiva; in ogni caso non sarebbe stato l’aiuto a chi ne ha bisogno a motivare l’assistenzialismo universale.

25 aprile 2002"

1/continua



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08-05-2002 22:17



Pieffebi
Senatore dei Fora di POL

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continua l'articolo di Antonio Martino :

" Il punto fondamentale da tenere presente per capire la natura dell'assistenzialismo di Stato è che esso è servito agli interessi di burocrati e di politici legati all' "industria dell'assistenza" molto più di quanto non agli interessi dei poveri. Questo spiega perché si sia avuta crescita della spesa pubblica "sociale" al crescere del reddito. Prendiamo il caso dell'assistenza sanitaria pubblica.
Com'è noto, il servizio sanitario nazionale storicamente è stato introdotto col nobile proposito di garantire a tutti, anche ai meno abbienti, un'assistenza adeguata. Questo scopo non è però stato realizzato: anche se non si condivide l'opinione espressa da diversi organi di stampa, secondo cui il sistema delle Asl (ex-Usl) costituisce "lo scandalo del secolo", non c'è dubbio che il fatto che circa la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica abbia comunque fatto ricorso a cure private fornisce una misura del fallimento dell'operazione.

I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private all'inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l'assistenza sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il costo delle prestazioni private o dell'assicurazione. Infine, il finanziamento del servizio sanitario ha provocato negli anni il risentimento dei contribuenti. Per rendersi conto delle dimensioni della ridistribuzione non necessariamente progressiva che il servizio sanitario nazionale ha comportato, invito il lettore a immaginare uno scenario alternativo rispetto al passato prossimo assistenzialista. Nell'analizzare il problema è bene tenere distinti due aspetti diversi: il finanziamento del servizio, che deve essere tale da garantire l'accesso anche ai meno abbienti, e la sua fornitura, che deve essere quanto più efficiente possibile.

Cominciando col finanziamento, teniamo presente che l'assistenza sanitaria pubblica non è mai stata "gratis", costando come qualsiasi altro servizio. Il costo del servizio sanitario pubblico ha raggiunto negli anni un livello di spesa annua superiore ai 130 mila miliardi. Una cifra non disprezzabile: circa 2.300.000 lire a testa per ogni italiano, ricco o povero, giovane o vecchio, pensionato o disoccupato, ecc. Se si fosse ottenuto un dimezzamento di tale spesa, bloccandola a un valore massimo di 65 mila miliardi, si sarebbero "restituiti" gli altri 65 mila miliardi ai contribuenti: ogni cittadino italiano avrebbe ricevuto così un assegno di 1.150.000 lire, libero di spenderle come meglio credeva. Oppure, si sarebbe potuto usare quel risparmio per realizzare - già da anni - una riforma fiscale che avrebbe fatto apparire moderata quella attuata da Reagan: quella cifra è infatti superiore al 20 per cento dell'intero gettito delle imposte dirette. (Tante altre cose si potevano realizzare con 65 mila miliardi: si poteva, per esempio, costruire ogni anno 325.000 alloggi da 200 milioni l'uno, ospitando così un'intera città di oltre un milione di abitanti!).

I restanti 65 mila miliardi di spesa sanitaria avrebbero potuto essere devoluti al 20 per cento più povero della popolazione italiana per garantire anche ai poveri l'accesso all'assistenza, attraverso l'acquisto di un'assicurazione sanitaria privata che avrebbe garantito la copertura di ogni tipo di spese mediche. La cifra sarebbe stata, infatti, ampiamente adeguata, consentendo di elargire ad ognuno degli 11.400.000 italiani "poveri" un assegno di 5.700.000 lire, ben 22.800.000 lire per la famiglia media di quattro persone. Con quella cifra i nostri "poveri" avrebbero potuto dotarsi di assicurazioni sanitarie onnicomprensive, adeguate a coprire qualsiasi spesa sanitaria e garantire quanto il servizio sanitario nazionale si è guardato bene dall'offrire negli ultimi decenni: un'assistenza medica di buon livello per tutti. Si sarebbe potuto, poi, obbligare l'altro 80 per cento della popolazione a stipulare un'assicurazione sanitaria con caratteristiche di copertura fissate per legge, pagandola di tasca propria (non dimentichiamo che tutti gli italiani riceverebbero, in qualche forma, quella famosa restituzione di 1.150.000 lire a testa, 4.600.000 lire per la famiglia media di quattro persone). Un finanziamento di questo genere sarebbe convenuto a tutti: ai poveri, che sarebbero stati dotati di una copertura assicurativa adeguata tale da garantire loro libertà di scelta nel campo dell'assistenza sanitaria; ai non poveri cui lo smantellamento del servizio sanitario nazionale avrebbe consentito di "restituire" reddito attraverso una autentica riforma fiscale e che sarebbero stati liberati dalla necessità di pagare due volte l'assistenza sanitaria.

Quanto all'efficienza, è evidente che i problemi sanitari sono stati per un lungo periodo la conseguenza del fatto che i fornitori del servizio hanno operato in condizioni di irresponsabilità senza essere sottoposti alle regole della concorrenza e non rispettando il vincolo del bilancio. Se avessero dovuto finanziarsi sul mercato, coprendo i costi con gli incassi per le prestazioni fornite, avrebbero avuto un incentivo poderoso ad essere efficienti, correndo il rischio di perdere clienti a favore dei loro concorrenti. Disponendo, invece, di un finanziamento "a piè di lista", non hanno di fatto avuto nessuna ragione per migliorare la qualità delle loro prestazioni. Immaginate cosa fosse accaduto se il reddito del salumaio fosse stato fissato dallo Stato e se fossimo stati costretti ad effettuare tutti i nostri acquisti esclusivamente da lui, senza possibili alternative.
Per ciò che riguarda la fornitura, quindi, sarebbe stato opportuno privatizzarla del tutto e costringere gli operatori a rispettare il vincolo del bilancio, finanziandosi esclusivamente con gli incassi connessi alla fornitura del servizio. Se questo progetto si fosse realizzato, tutti gli italiani avrebbero già goduto di un'assistenza sanitaria davvero adeguata, cosa che oggi la nostra spesa sanitaria non può fornire.

In realtà, il vantaggio non riguarderebbe proprio tutti, ed è per questa ragione che quel progetto è stato di difficile realizzazione. In un sistema come quello delineato, l'offerta di servizi sanitari diverrebbe competitiva; le istituzioni relative (ospedali, cliniche, laboratori di analisi, ecc.) verrebbero disciplinate dalla concorrenza e dovrebbero far quadrare i bilanci. I medici e tutti gli operatori sanitari capaci guadagnerebbero forse più di adesso, i pigri e gli incapaci dovrebbero modificare le proprie abitudini o cambiare mestiere. Non ci sarebbe più burocrazia sanitaria e gli attuali burocrati dovrebbero trovare lavoro altrove; nè ci sarebbero più prebende per i politici della sanità, che si vedrebbero costretti a farne a meno. Le frodi si ridurrebbero drasticamente (le compagnie di assicurazione avrebbero interesse a vigilare per impedirle) e quanti per anni si sono "guadagnati da vivere" truffando l'erario nel settore della sanità sarebbero stati costretti a darsi ad attività socialmente meno dannose.

Questo esercito di politicanti, burocrati inutili, operatori sanitari pigri o incompetenti, e profittatori ha goduto di una percezione corretta del proprio interesse: sapendo che la trasformazione dell'assistenza sanitaria nel senso delineato, se avrebbe giocato alla collettività, avrebbe comunque danneggiato il loro interesse privato. Si trattava, del resto, di una lobby potentissima, che difficilmente avrebbe reso possibile una seria riforma del settore. In questa chiave risulta evidente che i famosi 130 mila miliardi non erano affatto destinati all'assistenza sanitaria della collettività, ma avevano invece come scopo principale l' "assistenza" di politici e burocrati che hanno vissuto a spese della sanità pubblica.

Le pensioni

Se è quindi ormai necessario e improrogabile che tutto l'assistenzialismo italiano vada al più presto riformato, è altrettanto vero che alcune riforme sono più urgenti di altre. E la più urgente di queste riforme è senz'altro quella che ci viene da anni inutilmente chiesta da tutti gli esperti del settore, oltre che da organismi indipendenti, come il Fondo monetario, l'Ocse, l'Ue, Bankitalia, ecc.: quella delle pensioni. Per quanto riguarda, infatti, la sostenibilità del nostro sistema pensionistico pubblico nella sua forma attuale - ferma restando una fisiologica, anche se in verità assai contenuta, discordanza di pareri - sembra ormai esserci un consenso assai diffuso: a meno di dar vita a riforme radicali, quel sistema non è davvero più sostenibile.

In aggiunta alla dubbia sostenibilità del sistema sociale assistenziale, va detto che, prescindendo dagli aspetti ridistributivi (per molti fortunati, la sua "generosità" è stata per anni un'autentica manna dal cielo), il sistema a ripartizione non costituisce affatto un buon affare: se gli interessati avessero potuto impiegare liberamente le somme che sono ancora costretti a versare al sistema pensionistico pubblico, avrebbero ottenuto tassi di rendimento marcatamente maggiori. Secondo alcune stime, il rendimento dell'impiego in azioni ed obbligazioni sarebbe in media superiore di circa due volte e mezzo a quello del sistema pubblico a ripartizione. E non mancano stime che suggeriscono una differenza ancora più marcata. Per esempio, fino al 1983 negli Stati Uniti era possibile uscire dal sistema pensionistico pubblico (Social Security) ed optare per un fondo pensione privato. Uno studio relativo a circa un milione di lavoratori che hanno esercitato quella opzione8 mostra come i lavoratori che hanno optato per il sistema privato godono di pensioni da tre a sette volte maggiori di quelle dei pensionati della Social Security.

Tutti questi dati non lasciano adito a dubbi: è innegabile che l'impiego sul mercato del risparmio previdenziale è la via per consentire di elargire pensioni molto più generose, a parità di contributi, e di ridurre sensibilmente i contributi, a parità di pensione. Per esempio, Jeremy Siegel della Wharton School10 ha calcolato che fra il 1802 ed il 1992 l'investimento in Borsa negli Stati Uniti ha fruttato un rendimento medio annuo reale (al netto cioè dell'inflazione) del 7 per cento. E, com'è ovvio, questo esclude gli anni più recenti, quando i rendimenti si sono rivelati nettamente maggiori della media storica. A parità di benefici, quindi, il costo del finanziamento verrebbe ad essere sensibilmente minore: in base ad una ipotesi, la differenza potrebbe rappresentare quasi i 2/3 dei contributi attuali. I vantaggi del passaggio dal sistema pubblico a ripartizione ad uno "privato" a capitalizzazione sarebbero enormi: aumenterebbe il reddito disponibile, si ridurrebbero le aliquote marginali di imposta, causa di notevoli effetti distorsivi, e diminuirebbe l'imposta sull'occupazione responsabile principale dell'attuale intollerabile tasso di disoccupazione. Infine, si potenzierebbe il mercato finanziario con vantaggi notevoli per l'intera economia nazionale. Secondo l'economista di Harvard Martin Feldstein, "nessun paese sarebbe avvantaggiato più dell'Italia (dal passaggio ad un sistema prevalentemente a capitalizzazione)".

L'assistenzialismo indiretto

Com'è noto una delle paure più diffuse in economia è quella connessa all'occupazione, sia quella determinata dal timore di non riuscire ad entrare nel mondo del lavoro sia quella relativa alla stabilita dell'impiego. Questo induce a prendere in considerazione in questo contesto l'intervento pubblico diretto in economia, anche se non si tratta esplicitamente di un aspetto del "welfare state". All'apparenza sembrerebbe, infatti, trattarsi di assistenzialismo, di intervento cioè volto a ridurre incertezza e paura, a vantaggio dei meno abbienti. Un'analisi spassionata del fenomeno conduce però alle stesse conclusioni cui siamo pervenuti in tema di sanità. L'intervento diretto dello Stato nell'economia è stato, nel corso degli anni, variamente giustificato. La prima, e più popolare, giustificazione, com'è noto, è stata quella attinente alla necessità di "sostenere" l'occupazione, di "creare" posti di lavoro. L'idea ispiratrice è stata che, in assenza di intervento pubblico, il mercato avrebbe determinato livelli di occupazione complessiva inaccettabilmente bassi.

Tale tesi, molto diffusa in passato, si è rivelata pericolosissima, proprio perché plausibile: è stato detto che le ipotesi sono come le calunnie, sono tanto più pericolose quanto più sono plausibili. Si tratta di un classico esempio della differenza fra effetti visibili ed effetti invisibili delle decisioni di politica economica. L'intervento pubblico "crea" posti di lavoro per quanti sono assunti nell'impresa in questione; questo è l'effetto visibile. Ma chiediamoci anche da dove sono venuti i quattrini con cui sono stati finanziati i "lavori socialmente utili", la creazione di imprese pubbliche o il ripianamento delle perdite di imprese passive; com'è ovvio, dalle tasche dei contribuenti. Questi hanno avuto, quindi, meno soldi da spendere, e sono stati costretti a ridurre i propri consumi e risparmi. Sia la riduzione dei consumi sia quella dei risparmi si sono sostanzialmente tradotti in una diminuzione di fondi al sistema produttivo, con conseguente riduzione di posti di lavoro: questo è stato l'effetto invisibile.

Il teorema corretto è, in realtà, il seguente: se l'intervento pubblico può "creare" direttamente o indirettamente posti di lavoro nel settore assistito (pubblico o privato), il suo costo ne distrugge però nel settore privato (produttivo). Certo, fortunatamente, anche nel piano teorico le opinioni sull'intervento pubblico e l'occupazione si sono modificate negli ultimi tempi, soprattutto per via della rapida crescita della fiscalità. Il "cuneo salariale" cui si accennava prima - la penale inflitta all'occupazione dagli oneri fiscali e contributivi destinati a finanziare il welfare - ha messo in luce i meccanismi attraverso i quali lo statalismo ha distrutto e continua a distruggere posti di lavoro, chiudendo di fatto le porte del mondo del lavoro ufficiale ai giovani che tentano di entrarvi.

Purtroppo, il contrasto fra la visibilità dell'occupazione "creata" dall'intervento pubblico e l'invisibilità dell'occupazione da esso distrutta permane, e si traduce nel fatto che pochi si rendono conto dei danni determinati dallo statalismo; e ancora oggi, a sinistra, c'è che crede che esso crei occupazione.
Una seconda argomentazione a favore dell'intervento pubblico diretto nell'economia è stata quella che, in Italia, si potesse promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma anche questa è oggi una tesi alquanto desueta: dopo i risultati a dir poco deludenti (il tasso di disoccupazione al Sud è quasi quadruplo rispetto a quello del Centro-Nord), chi continua a sostenere l'opportunità dell'intervento pubblico come terapia per lo sviluppo delle regioni meridionali appare quasi provocatorio.

Come meridionale, tuttavia, non posso tacere del danno enorme e duraturo che lo statalismo ha prodotto per decenni all'economia meridionale, distorcendo il sistema di incentivi e rendendo più attraente per i nostri giovani la "sistemazione" nel settore politico-parassitario a scapito di quello produttivo. Anche se di difficile quantificazione, si tratta di un grave colpo inferto alle potenzialità di sviluppo del Sud. Prendiamo, per esempio, i cosiddetti "lavori socialmente utili" che hanno avuto origine nel Mezzogiorno (in Sicilia sono stati creati da un articolo della finanziaria regionale, i beneficiari vengono, pertanto, chiamati "articolisti" e sono ancora un autentico esercito) e sono stati poi esportati anche altrove. Il giovane che per anni ha percepito un assegno, sia pure modesto, ha in realtà subìto un danno permanente per una serie di ragioni. L'incentivo a cercarsi un'occupazione produttiva è stato pesantemente ridotto: se, infatti, trovava un lavoro perdeva l'assegno per il "lavoro socialmente utile", ed è dubbio che, al netto di quello che avrebbe perduto, il compenso per il primo lavoro giustificasse la fatica di cercarlo.

In secondo luogo, l'interessato veniva convinto dalla corresponsione dell'assegno che la sua occupazione era un problema per lo Stato, per i politici, non certo per lui. E ancora, mentre percepiva l'assegno, molto spesso svolgeva un altro lavoro, in nero, guadagnando grazie alle due entrate più di quanto avrebbe guadagnato con un lavoro ufficiale. Infine, ma si potrebbe continuare a lungo, avendo percepito soldi dallo Stato per anni, finiva col convincersi di avere semplicemente usufruito di un suo diritto, di modo che finiva per pretendere (e non è detto che non lo ottenesse) un "posto" stabile nell'amministrazione pubblica. Aggiungendo danno al danno, il costo di questa devastante operazione demagogica ha gravato pesantemente sui datori e sui lavoratori del resto dell'economia, riducendo l'occupazione produttiva. La morale è assai semplice: occupazione non significa - come non poteva significare - percepire un reddito, significa produrre un reddito. Perché l'occupazione possa essere stabile deve essere produttiva. Se, col pretesto di creare occupazione, destiniamo risorse a scopi improduttivi, impoveriamo il Paese, sciupando risorse scarse che potrebbero essere utilizzate proficuamente in altro modo. Non è un caso che dove l'intervento pubblico diretto a creare occupazione è stato più largamente usato, il Mezzogiorno, la disoccupazione è stata maggiore e lo sviluppo economico è stato strutturalmente impedito.

Se, invece, di perseguitare ferocemente l'occupazione tassandola in misura che non ha eguali nel mondo industriale, lo Stato avesse consentito ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece di soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le iniziative imprenditoriali, le si fosse incoraggiate; se, ogni qual volta si doveva dar vita ad un insediamento industriale si fosse rinunziato a mettergli i bastoni fra le ruote in mille modi; se, invece di punire il successo, tassandolo, e premiare i fallimenti con le mille forme di "aiuti", si fosse consentito alle imprese di operare in condizioni di piena responsabilità; se si fossero fatte tutte queste cose, l'economia italiana avrebbe da tempo creato in un batter d'occhio molte centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
Tornando al filo principale del nostro discorso, vengo quindi a quella che ritengo la spiegazione vera della esistenza di un toppo largo settore pubblico in Italia. Anzitutto, una riflessione ovvia: quello che conta veramente da un punto di vista economico non è la titolarità dell'impresa, se pubblica o privata, ma la sua gestione, se economica o anti-economica. Ora, se si volesse la gestione economica di una data impresa, questa potrebbe benissimo essere privata; se si vuole che sia pubblica, in altri termini, è perché non si vuole che venga gestita economicamente.

2/continua

10 maggio 2002"



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11-05-2002 18:12



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NOGARIBALDI
08-07-07, 08:50
dal sito di Ideazione:

" Solidarietà o statalismo? [prima parte]
di Antonio Martino

Queste pagine, frutto di riflessioni sviluppatesi negli anni, erano state scritte come contributo alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 13 maggio dello scorso anno. Si proponevano di illustrare la natura dei problemi che affliggono l’assistenzialismo di Stato non solo in Italia, in vista delle riforme che proponevamo in vista della nostra possibile vittoria elettorale. Com’è ovvio, data la sua origine e il suo obiettivo, l’analisi è presentata in forma semplificata, nell’intento di richiamare l’attenzione su quelli che considero gli aspetti più rilevanti degli errori del nostro welfare. Ma il tono non tragga in inganno: non si tratta di un divertissement intellettuale. Pubblicarle oggi, quando ci troviamo a dovere dare esecuzione ad un preciso mandato popolare, può servire a ricordarci la gravità del nostro impegno e le aspettative di cambiamento che la nostra battaglia politica ha determinato. Com’è ovvio, non riusciremo a risolvere in tempi brevi tutti i problemi del welfare – sono ancora insoluti in tutto o in parte in quasi tutti i paesi occidentali – ma può essere utile ricordare a noi stessi qual è la direzione verso cui gli italiani ci chiedono di muovere. Anche se riusciremo a realizzare solo un cambiamento parziale in questa direzione, si tratterà comunque di un’autentica rivoluzione.

Per troppi anni “solidarietà” è stato uno di quei termini usati con grande frequenza, specie dai politici, perché “suonava bene”, aveva un connotato positivo, ma che non veniva quasi mai definito. C’era soltanto la vaga presunzione che essere solidali significasse prelevare quattrini ad alcuni cittadini (i contribuenti) per destinarli ad altri cittadini, beneficiari di quest’atto di solidarietà. Avendo assunto il termine un connotato positivo, c’è stata negli ultimi decenni una nobile gara fra i politici ad accrescere le spese destinate alla solidarietà, ad allargare le dimensioni dello Stato sociale. Questa estensione è stata particolarmente cara alle sinistre, che non hanno mai voluto essere seconde a nessuno in fatto di generosità a spese dei contribuenti. E alla fine ha prevalso l’assunto per cui un paese sarebbe stato tanto più solidale quanto maggiore fosse il livello di spesa pubblica da dedicare allo scopo. La conseguenza di questa idea è che un paese sarebbe tanto più solidale quanto maggiore è il numero delle persone che dipendono dalla carità pubblica per andare avanti. In quest’ottica, il massimo della solidarietà sarebbe la situazione in cui tutti dipendono dalla carità pubblica per sopravvivere.

Noi siamo, invece, convinti che un paese è tanto più efficace e solidale quanto maggiore è il numero di cittadini indipendenti, che riescono ad andare avanti senza doversi affidare alla carità pubblica, e che il massimo di solidarietà si abbia, in realtà, quando nessuno dipende dalle elargizioni pubbliche. Accettando questa seconda impostazione, si perviene all’ovvia conclusione che 1) un paese è tanto più solidale quanto maggiore è il numero di persone che riesce a trovare un lavoro dignitoso che gli consente di essere autosufficiente e, 2) che un sistema assistenziale che, in nome della solidarietà, distrugge posti di lavoro, lungi dall’essere solidale, è in realtà nemico della solidarietà “vera”. Quello che ha prevalso in Italia negli ultimi decenni è stato, appunto, un assistenzialismo di questo tipo, perché le imposte necessarie a finanziare l’assistenzialismo di Stato hanno gravato sulla busta paga dei lavoratori configurando un’autentica imposta sull’impiego. La differenza fra il costo del lavoro (quanto il datore di lavoro spende) e la remunerazione netta (quanto il lavoratore incassa) – il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo” – è arrivato ad aggirarsi sul 50 per cento del totale. Questo significa che per ogni milione di remunerazione netta al lavoratore, il datore è stato costretto a pagare anche una “penale” di un milione allo Stato. È come se lo Stato avesse detto ai datori: «assumete pure, se volete, ma se vi permetterete di farlo, per ogni milione versato al lavoratore dovrete pagare una multa di un milione».

Le conseguenze di questa insensata punizione inflitta all’occupazione sono state devastanti: un tasso di disoccupazione a livelli elevatissimi, un tasso di occupazione fra i più bassi al mondo, una percentuale di disoccupazione “cronica” sul totale inaccettabile (il 70 per cento contro l’11 per cento degli Usa e il 15 per cento del Giappone). Il risultato è stato che la “solidarietà” all’italiana ha avuto come ovvia conseguenza il fatto di avere creato un esercito di persone destinate a dipendere stabilmente dalla carità pubblica perché il costo di questa si è tradotta nella drastica diminuzione di opportunità di impiego produttivo. Il welfare italiano è stato quindi fino ad ora la causa del problema che avrebbe dovuto risolvere. Non sarebbe male, quindi, ripensare a fondo l’intera questione.

L’incertezza ed il rischio sono caratteristiche ineliminabili della nostra vita: qualsiasi attività comporta assunzione di rischi. Quando attraversiamo la strada mettiamo inconsapevolmente a confronto la probabilità di essere travolti da un’automobile con l’importanza che attribuiamo al fatto di passare dall’altro lato della strada. Se decidiamo di attraversare è perché riteniamo la seconda considerazione più importante della prima. Tuttavia, com’è ovvio, la maggior parte di noi preferirebbe ridurre al minimo o eliminare del tutto il rischio dalla propria vita. Anche se si tratta di un auspicio irrealizzabile, gran parte delle decisioni di politica economica è ispirata proprio da quell’obiettivo. L’avversione al rischio sono forse determinati dall’ansia, dalla paura che la mancanza di certezze provoca in noi. Nell’osservare l’organizzazione della società, ci spaventa e rattrista il destino di quanti, senza loro colpa, vengono a trovarsi in condizioni di vita che riteniamo inaccettabili. Non ci sembra “giusto” che ci siano nostri concittadini ammalati privi di assistenza medica adeguata, poveri che non riescono a soddisfare neanche bisogni che ci appaiono elementari, giovani che non riescono a trovare lavoro, anziani privi di mezzi di sussistenza. Si sono trovati in quelle condizioni perché nel gioco della vita hanno estratto a sorte “una carta bassa”, il rischio ha giocato a loro danno. E se la stessa sorte fosse toccata a noi o ai nostri cari?

Non ci rassicura molto la constatazione che la probabilità di un esito tanto triste sia bassa, nè che essa possa essere ulteriormente ridotta grazie al nostro impegno: la situazione è comunque inaccettabile, dobbiamo fare di tutto per eliminarla. Questo sentimento diffuso e nobile ci spinge in molti casi ad adoperarci in prima persona per alleviare le disgrazie dei nostri simili attraverso attività caritatevoli. Ma anche questo “rimedio” volontario, privato e diretto non appare sufficiente; nasce così la richiesta di intervento pubblico, in assenza del quale si ritiene che l’ammontare di mezzi volontariamente destinati allo scopo si rivelerebbe inadeguato per la soluzione dei problemi. In altri termini, riteniamo necessario che lo Stato faccia ricorso alla coercizione per costringere la collettività a dare a scopi di assistenza più di quanto darebbe spontaneamente. È questa l’idea di base del welfare state. Le origini sono controverse: la tesi sostenuta da diversi studiosi, secondo cui l’inventore dell’assistenzialismo di Stato nella sua forma moderna sarebbe stato Bismarck, che lo avrebbe introdotto (1881) per far perdere terreno all’opposizione socialdemocratica, non è accettata da tutti. Ma, anche se si preferisce credere che il welfare state abbia avuto origini nobili, che sia nato cioè per la sincera preoccupazione di venire incontro alle esigenze dei nostri concittadini meno fortunati, il giudizio difficilmente potrebbe essere oggi positivo.

Questo non perché la desiderabilità degli obiettivi dichiarati dell’assistenzialismo sia venuta meno, ché anzi essa è ormai generalmente riconosciuta, ma perché lo strumento si è rivelato inadeguato allo scopo. Mentre il costo dei programmi di assistenza pubblica, infatti, ha ormai raggiunto livelli astronomici, compromettendo in molti casi la solvibilità dello Stato sociale, i risultati sono stati assai deludenti: l’assistenzialismo di Stato si è rivelato un pessimo affare, specie per coloro che si riprometteva di aiutare: i poveri e i deboli, proprio quelli che avrebbe dovuto liberare dalla paura. Il lettore, comunque, farà bene a non dimenticare che quanto vale per l’Italia vale anche, sia pure in misura diversa, per altri paesi: lo Stato assistenziale è ovunque sotto accusa, sia per il costo eccessivo che per i risultati ritenuti insoddisfacenti.

Il costo dell’assistenzialismo

Per avere un’idea delle dimensioni assolute e della crescita nel tempo dell’assistenzialismo di Stato, può essere utile guardare alla spesa per prestazioni sociali e alla sua evoluzione. Secondo i dati ufficiali, dal 1974 al ’99 la spesa per prestazioni sociali è aumentata di oltre ventiquattro volte in termini nominali, passando dal dodici per cento a oltre il diciassette per cento del Pil. In termini reali, tenendo conto cioè dell’inflazione, l’incremento è stato del 174 per cento; in tutti questi anni, oltre un terzo delle spese totali del settore pubblico è stato destinato appunto a questo scopo. Anche se altre categorie di spesa sono cresciute più rapidamente della spesa per prestazioni sociali, non c’è dubbio che la crescita di questa spesa costituisca una delle ragioni principali dell’iperfiscalità e della conseguente disoccupazione, per non parlare della protesta fiscale. Tanto per darne una illustrazione, nel ’99 la spesa per prestazioni sociali è stata il cinquantasette per cento del gettito combinato delle imposte dirette ed indirette!

E ancora: la crescita della spesa “sociale” è stata in passato largamente responsabile del dissesto finanziario dello Stato: se l’incidenza della spesa “sociale” sul prodotto interno lordo fosse rimasta costante dal 1974 al 1991, nel 1991 il deficit pubblico sarebbe stato inferiore alla metù del suo valore: 68.076 miliardi anziché 151.242, il 4,77 per cento del Pil anziché il 10,6 per cento. Sarebbe stata sufficiente una modesta misura di contenimento della crescita della spesa sociale (non una riduzione del suo valore assoluto) per dare un significativo contributo al risanamento della finanza pubblica. Lo Stato assistenziale, quindi, è arrivato a costare troppo. Tuttavia, se a fronte del costo ingente dell’assistenzialismo di Stato si avessero risultati incontestabili in termini di socialità, la difesa di questo tipo di intervento sarebbe ancora possibile. Le cose, sfortunatamente per i superstiti sostenitori del welfare state, non stanno in questi termini.

Per quanto possa apparire incredibile a chi abbia riflettuto anche solo per un istante sulla realtà della fornitura pubblica di servizi e sul loro costo, c’è ancora chi si dice convinto della natura “sociale” della spesa pubblica. Per difendere l’assistenzialismo di Stato, secondo taluno, basterebbe il richiamo all’articolo 2 della Costituzione, dove si accenna ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La tesi è che le spese assistenziali soddisfano nobili esigenze di “socialità”. Evidentemente, qualcuno crede che l’assistenzialismo sia “sociale”, serva cioè gli interessi dei poveri. Sarà quindi meglio chiarire questo punto. Anzitutto, è perlomeno dubbio che la spesa per prestazioni sociali sia effettivamente motivata dal desiderio di migliorare le condizioni dei meno abbienti. Infatti, alla domanda: «chi ha più bisogno di assistenza, i ricchi o i poveri?» credo che tutti risponderebbero che sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto. Ma, se sono i poveri ad avere più bisogno di aiuto, perché l’assistenzialismo di Stato è aumentato al diminuire della povertà? Oggi il reddito reale è enormemente più alto e più uniformemente distribuito che in passato, eppure, come detto sopra, le spese per lo Stato assistenziale non hanno smesso di crescere al crescere del reddito. Sembrerebbe proprio che l’assistenzialismo pubblico tanto caro alle sinistre non abbia avuto come fine quello di ridurre la povertà.

Non basta. L’assistenzialismo di Stato di derivazione bismarckiana è basato su una concezione paternalistica della povertà: lo Stato individua alcuni bisogni ritenuti “essenziali” e si assume l’onere di fornire, spesso in condizioni di monopolio, i relativi servizi all’intera collettività. Indipendentemente da tante altre possibili considerazioni, questo modo di affrontare il problema della povertà è inefficiente, perché la ridistribuzione in natura, dal momento che viola la libertà di scelta dei beneficiari, ottiene, a parità di costo, un risultato inferiore dal punto di vista del benessere di questi ultimi; o anche, se si optasse per la ridistribuzione in moneta, si potrebbe conseguire un risultato uguale a quello attuale con un esborso complessivamente minore. Se a questo si aggiunge che il costo dell’assistenzialismo di Stato grava su tutti, anche sui poveri, mentre i benefici vanno spesso a tutti, anche a coloro che non sono poveri, ci si può rendere conto del fatto che la “socialità” dello Stato assistenziale è perlomeno dubbia, data la presenza di elementi regressivi di ridistribuzione.

E ancora: dato che i servizi resi sono spesso assai insoddisfacenti, il bismarckismo nostrano, introdotto da forze politiche di centro-sinistra con il pretesto di garantire “uguaglianza di accesso” a servizi pubblici essenziali, finisce col realizzare una “ineguaglianza di uscita” dall’inefficienza pubblica. In genere, solo i benestanti possono, infatti, permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, optando per la fornitura privata. Inoltre, occorre tenere presente una lezione ormai acquisita: lo Stato assistenziale costa enormemente più di quanto rende, il che è ovvio sol che si ponga mente alle modalità del suo funzionamento. Lo Stato, infatti, grava la collettività di costi per poter distribuire benefici, sotto forma di “servizi sociali”. Tuttavia, dal momento che il trasferimento ha un suo costo, quello che la collettività riceve dallo Stato è sempre meno di quello che la collettività deve pagare. Dal momento che è presumibile che i “costi di trasferimento” siano crescenti al crescere delle dimensioni dei programmi, la differenza fra costo dell’assistenzialismo e benefici da esso resi aumenta al crescere della “socialità”. In altri termini, dove vige l’assistenzialismo una gran parte delle somme va, in vario modo, dispersa nei canali burocratici, rappresentando una perdita netta per il Paese (ma non per politici e burocrati) e non raggiungendo mai i beneficiari dichiarati.

Ci limitiamo a un’illustrazione approssimativa ma importante e relativa alla prassi dell’ultimo governo di centro-sinistra: se i 370.367 miliardi di spesa per “prestazioni sociali” nel 1999 fossero stati distribuiti al 25 per cento più povero dell’intera popolazione (supponendo per assurdo che un italiano su quattro sia povero), avrebbero trasformato l’Italia in un paese di soli benestanti, consentendo di elargire un reddito aggiuntivo di quasi 26 milioni (25.955.000) all’anno ad ognuno dei 14.269.500 italiani “poveri”: quasi 104 milioni (103.820.000) per ogni famiglia di quattro persone. Anche se si tratta di un calcolo sovrasemplificato, non c’è dubbio che esso illustra una considerazione importante: se le risorse per anni destinate all’assistenzialismo di Stato fossero state impiegate effettivamente ed efficacemente per venire incontro ai bisogni dei nostri concittadini meno fortunati, la povertà sarebbe oggi scomparsa. Il fatto che la povertà non sia ancora scomparsa, nel momento in cui illustra l’inefficienza dei programmi delle sinistre, fa sorgere il dubbio che, in realtà, scopo vero dell’assistenzialismo non fosse il benessere dei beneficiari. Del resto, se scopo dell’assistenzialismo fosse quello di migliorare le condizioni dei beneficiari dichiarati, si sarebbe ricorsi alla ridistribuzione in moneta come al metodo più efficace.

E ancora: se l’assistenzialismo pubblico avesse avuto come scopo quello di aiutare chi ne ha bisogno, lo Stato assistenziale avrebbe dovuto adottare un criterio selettivo (dare solo a chi si trova, per esempio, in condizioni di provata indigenza) non universale. Così facendo, infatti, la riduzione del numero dei beneficiari avrebbe consentito di massimizzare le dimensioni dell’aiuto agli effettivamente bisognosi. Il criterio di elargizione universale, invece, si è sostanziato nel conferimento di benefici a tutti, anche ai ricchi, nel momento stesso in cui il costo dell’assistenzialismo è pesantemente gravato su tutti, anche sui poveri. È come se lo Stato avesse preso ai poveri per dare ai ricchi con una ridistribuzione regressiva; in ogni caso non sarebbe stato l’aiuto a chi ne ha bisogno a motivare l’assistenzialismo universale.

25 aprile 2002"

1/continua



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08-05-2002 22:17



Pieffebi
Senatore dei Fora di POL

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continua l'articolo di Antonio Martino :

" Il punto fondamentale da tenere presente per capire la natura dell'assistenzialismo di Stato è che esso è servito agli interessi di burocrati e di politici legati all' "industria dell'assistenza" molto più di quanto non agli interessi dei poveri. Questo spiega perché si sia avuta crescita della spesa pubblica "sociale" al crescere del reddito. Prendiamo il caso dell'assistenza sanitaria pubblica.
Com'è noto, il servizio sanitario nazionale storicamente è stato introdotto col nobile proposito di garantire a tutti, anche ai meno abbienti, un'assistenza adeguata. Questo scopo non è però stato realizzato: anche se non si condivide l'opinione espressa da diversi organi di stampa, secondo cui il sistema delle Asl (ex-Usl) costituisce "lo scandalo del secolo", non c'è dubbio che il fatto che circa la metà degli aventi diritto all'assistenza pubblica abbia comunque fatto ricorso a cure private fornisce una misura del fallimento dell'operazione.

I più penalizzati dal sistema assistenziale sono stati proprio i meno abbienti, che ne hanno dovuto sopportare una parte del costo senza potersi permettere di rivolgersi ad alternative private all'inefficienza pubblica. Solo i benestanti, infatti, hanno sempre potuto disporre dei mezzi per pagare due volte l'assistenza sanitaria: una volta con le imposte ed una seconda volta con il costo delle prestazioni private o dell'assicurazione. Infine, il finanziamento del servizio sanitario ha provocato negli anni il risentimento dei contribuenti. Per rendersi conto delle dimensioni della ridistribuzione non necessariamente progressiva che il servizio sanitario nazionale ha comportato, invito il lettore a immaginare uno scenario alternativo rispetto al passato prossimo assistenzialista. Nell'analizzare il problema è bene tenere distinti due aspetti diversi: il finanziamento del servizio, che deve essere tale da garantire l'accesso anche ai meno abbienti, e la sua fornitura, che deve essere quanto più efficiente possibile.

Cominciando col finanziamento, teniamo presente che l'assistenza sanitaria pubblica non è mai stata "gratis", costando come qualsiasi altro servizio. Il costo del servizio sanitario pubblico ha raggiunto negli anni un livello di spesa annua superiore ai 130 mila miliardi. Una cifra non disprezzabile: circa 2.300.000 lire a testa per ogni italiano, ricco o povero, giovane o vecchio, pensionato o disoccupato, ecc. Se si fosse ottenuto un dimezzamento di tale spesa, bloccandola a un valore massimo di 65 mila miliardi, si sarebbero "restituiti" gli altri 65 mila miliardi ai contribuenti: ogni cittadino italiano avrebbe ricevuto così un assegno di 1.150.000 lire, libero di spenderle come meglio credeva. Oppure, si sarebbe potuto usare quel risparmio per realizzare - già da anni - una riforma fiscale che avrebbe fatto apparire moderata quella attuata da Reagan: quella cifra è infatti superiore al 20 per cento dell'intero gettito delle imposte dirette. (Tante altre cose si potevano realizzare con 65 mila miliardi: si poteva, per esempio, costruire ogni anno 325.000 alloggi da 200 milioni l'uno, ospitando così un'intera città di oltre un milione di abitanti!).

I restanti 65 mila miliardi di spesa sanitaria avrebbero potuto essere devoluti al 20 per cento più povero della popolazione italiana per garantire anche ai poveri l'accesso all'assistenza, attraverso l'acquisto di un'assicurazione sanitaria privata che avrebbe garantito la copertura di ogni tipo di spese mediche. La cifra sarebbe stata, infatti, ampiamente adeguata, consentendo di elargire ad ognuno degli 11.400.000 italiani "poveri" un assegno di 5.700.000 lire, ben 22.800.000 lire per la famiglia media di quattro persone. Con quella cifra i nostri "poveri" avrebbero potuto dotarsi di assicurazioni sanitarie onnicomprensive, adeguate a coprire qualsiasi spesa sanitaria e garantire quanto il servizio sanitario nazionale si è guardato bene dall'offrire negli ultimi decenni: un'assistenza medica di buon livello per tutti. Si sarebbe potuto, poi, obbligare l'altro 80 per cento della popolazione a stipulare un'assicurazione sanitaria con caratteristiche di copertura fissate per legge, pagandola di tasca propria (non dimentichiamo che tutti gli italiani riceverebbero, in qualche forma, quella famosa restituzione di 1.150.000 lire a testa, 4.600.000 lire per la famiglia media di quattro persone). Un finanziamento di questo genere sarebbe convenuto a tutti: ai poveri, che sarebbero stati dotati di una copertura assicurativa adeguata tale da garantire loro libertà di scelta nel campo dell'assistenza sanitaria; ai non poveri cui lo smantellamento del servizio sanitario nazionale avrebbe consentito di "restituire" reddito attraverso una autentica riforma fiscale e che sarebbero stati liberati dalla necessità di pagare due volte l'assistenza sanitaria.

Quanto all'efficienza, è evidente che i problemi sanitari sono stati per un lungo periodo la conseguenza del fatto che i fornitori del servizio hanno operato in condizioni di irresponsabilità senza essere sottoposti alle regole della concorrenza e non rispettando il vincolo del bilancio. Se avessero dovuto finanziarsi sul mercato, coprendo i costi con gli incassi per le prestazioni fornite, avrebbero avuto un incentivo poderoso ad essere efficienti, correndo il rischio di perdere clienti a favore dei loro concorrenti. Disponendo, invece, di un finanziamento "a piè di lista", non hanno di fatto avuto nessuna ragione per migliorare la qualità delle loro prestazioni. Immaginate cosa fosse accaduto se il reddito del salumaio fosse stato fissato dallo Stato e se fossimo stati costretti ad effettuare tutti i nostri acquisti esclusivamente da lui, senza possibili alternative.
Per ciò che riguarda la fornitura, quindi, sarebbe stato opportuno privatizzarla del tutto e costringere gli operatori a rispettare il vincolo del bilancio, finanziandosi esclusivamente con gli incassi connessi alla fornitura del servizio. Se questo progetto si fosse realizzato, tutti gli italiani avrebbero già goduto di un'assistenza sanitaria davvero adeguata, cosa che oggi la nostra spesa sanitaria non può fornire.

In realtà, il vantaggio non riguarderebbe proprio tutti, ed è per questa ragione che quel progetto è stato di difficile realizzazione. In un sistema come quello delineato, l'offerta di servizi sanitari diverrebbe competitiva; le istituzioni relative (ospedali, cliniche, laboratori di analisi, ecc.) verrebbero disciplinate dalla concorrenza e dovrebbero far quadrare i bilanci. I medici e tutti gli operatori sanitari capaci guadagnerebbero forse più di adesso, i pigri e gli incapaci dovrebbero modificare le proprie abitudini o cambiare mestiere. Non ci sarebbe più burocrazia sanitaria e gli attuali burocrati dovrebbero trovare lavoro altrove; nè ci sarebbero più prebende per i politici della sanità, che si vedrebbero costretti a farne a meno. Le frodi si ridurrebbero drasticamente (le compagnie di assicurazione avrebbero interesse a vigilare per impedirle) e quanti per anni si sono "guadagnati da vivere" truffando l'erario nel settore della sanità sarebbero stati costretti a darsi ad attività socialmente meno dannose.

Questo esercito di politicanti, burocrati inutili, operatori sanitari pigri o incompetenti, e profittatori ha goduto di una percezione corretta del proprio interesse: sapendo che la trasformazione dell'assistenza sanitaria nel senso delineato, se avrebbe giocato alla collettività, avrebbe comunque danneggiato il loro interesse privato. Si trattava, del resto, di una lobby potentissima, che difficilmente avrebbe reso possibile una seria riforma del settore. In questa chiave risulta evidente che i famosi 130 mila miliardi non erano affatto destinati all'assistenza sanitaria della collettività, ma avevano invece come scopo principale l' "assistenza" di politici e burocrati che hanno vissuto a spese della sanità pubblica.

Le pensioni

Se è quindi ormai necessario e improrogabile che tutto l'assistenzialismo italiano vada al più presto riformato, è altrettanto vero che alcune riforme sono più urgenti di altre. E la più urgente di queste riforme è senz'altro quella che ci viene da anni inutilmente chiesta da tutti gli esperti del settore, oltre che da organismi indipendenti, come il Fondo monetario, l'Ocse, l'Ue, Bankitalia, ecc.: quella delle pensioni. Per quanto riguarda, infatti, la sostenibilità del nostro sistema pensionistico pubblico nella sua forma attuale - ferma restando una fisiologica, anche se in verità assai contenuta, discordanza di pareri - sembra ormai esserci un consenso assai diffuso: a meno di dar vita a riforme radicali, quel sistema non è davvero più sostenibile.

In aggiunta alla dubbia sostenibilità del sistema sociale assistenziale, va detto che, prescindendo dagli aspetti ridistributivi (per molti fortunati, la sua "generosità" è stata per anni un'autentica manna dal cielo), il sistema a ripartizione non costituisce affatto un buon affare: se gli interessati avessero potuto impiegare liberamente le somme che sono ancora costretti a versare al sistema pensionistico pubblico, avrebbero ottenuto tassi di rendimento marcatamente maggiori. Secondo alcune stime, il rendimento dell'impiego in azioni ed obbligazioni sarebbe in media superiore di circa due volte e mezzo a quello del sistema pubblico a ripartizione. E non mancano stime che suggeriscono una differenza ancora più marcata. Per esempio, fino al 1983 negli Stati Uniti era possibile uscire dal sistema pensionistico pubblico (Social Security) ed optare per un fondo pensione privato. Uno studio relativo a circa un milione di lavoratori che hanno esercitato quella opzione8 mostra come i lavoratori che hanno optato per il sistema privato godono di pensioni da tre a sette volte maggiori di quelle dei pensionati della Social Security.

Tutti questi dati non lasciano adito a dubbi: è innegabile che l'impiego sul mercato del risparmio previdenziale è la via per consentire di elargire pensioni molto più generose, a parità di contributi, e di ridurre sensibilmente i contributi, a parità di pensione. Per esempio, Jeremy Siegel della Wharton School10 ha calcolato che fra il 1802 ed il 1992 l'investimento in Borsa negli Stati Uniti ha fruttato un rendimento medio annuo reale (al netto cioè dell'inflazione) del 7 per cento. E, com'è ovvio, questo esclude gli anni più recenti, quando i rendimenti si sono rivelati nettamente maggiori della media storica. A parità di benefici, quindi, il costo del finanziamento verrebbe ad essere sensibilmente minore: in base ad una ipotesi, la differenza potrebbe rappresentare quasi i 2/3 dei contributi attuali. I vantaggi del passaggio dal sistema pubblico a ripartizione ad uno "privato" a capitalizzazione sarebbero enormi: aumenterebbe il reddito disponibile, si ridurrebbero le aliquote marginali di imposta, causa di notevoli effetti distorsivi, e diminuirebbe l'imposta sull'occupazione responsabile principale dell'attuale intollerabile tasso di disoccupazione. Infine, si potenzierebbe il mercato finanziario con vantaggi notevoli per l'intera economia nazionale. Secondo l'economista di Harvard Martin Feldstein, "nessun paese sarebbe avvantaggiato più dell'Italia (dal passaggio ad un sistema prevalentemente a capitalizzazione)".

L'assistenzialismo indiretto

Com'è noto una delle paure più diffuse in economia è quella connessa all'occupazione, sia quella determinata dal timore di non riuscire ad entrare nel mondo del lavoro sia quella relativa alla stabilita dell'impiego. Questo induce a prendere in considerazione in questo contesto l'intervento pubblico diretto in economia, anche se non si tratta esplicitamente di un aspetto del "welfare state". All'apparenza sembrerebbe, infatti, trattarsi di assistenzialismo, di intervento cioè volto a ridurre incertezza e paura, a vantaggio dei meno abbienti. Un'analisi spassionata del fenomeno conduce però alle stesse conclusioni cui siamo pervenuti in tema di sanità. L'intervento diretto dello Stato nell'economia è stato, nel corso degli anni, variamente giustificato. La prima, e più popolare, giustificazione, com'è noto, è stata quella attinente alla necessità di "sostenere" l'occupazione, di "creare" posti di lavoro. L'idea ispiratrice è stata che, in assenza di intervento pubblico, il mercato avrebbe determinato livelli di occupazione complessiva inaccettabilmente bassi.

Tale tesi, molto diffusa in passato, si è rivelata pericolosissima, proprio perché plausibile: è stato detto che le ipotesi sono come le calunnie, sono tanto più pericolose quanto più sono plausibili. Si tratta di un classico esempio della differenza fra effetti visibili ed effetti invisibili delle decisioni di politica economica. L'intervento pubblico "crea" posti di lavoro per quanti sono assunti nell'impresa in questione; questo è l'effetto visibile. Ma chiediamoci anche da dove sono venuti i quattrini con cui sono stati finanziati i "lavori socialmente utili", la creazione di imprese pubbliche o il ripianamento delle perdite di imprese passive; com'è ovvio, dalle tasche dei contribuenti. Questi hanno avuto, quindi, meno soldi da spendere, e sono stati costretti a ridurre i propri consumi e risparmi. Sia la riduzione dei consumi sia quella dei risparmi si sono sostanzialmente tradotti in una diminuzione di fondi al sistema produttivo, con conseguente riduzione di posti di lavoro: questo è stato l'effetto invisibile.

Il teorema corretto è, in realtà, il seguente: se l'intervento pubblico può "creare" direttamente o indirettamente posti di lavoro nel settore assistito (pubblico o privato), il suo costo ne distrugge però nel settore privato (produttivo). Certo, fortunatamente, anche nel piano teorico le opinioni sull'intervento pubblico e l'occupazione si sono modificate negli ultimi tempi, soprattutto per via della rapida crescita della fiscalità. Il "cuneo salariale" cui si accennava prima - la penale inflitta all'occupazione dagli oneri fiscali e contributivi destinati a finanziare il welfare - ha messo in luce i meccanismi attraverso i quali lo statalismo ha distrutto e continua a distruggere posti di lavoro, chiudendo di fatto le porte del mondo del lavoro ufficiale ai giovani che tentano di entrarvi.

Purtroppo, il contrasto fra la visibilità dell'occupazione "creata" dall'intervento pubblico e l'invisibilità dell'occupazione da esso distrutta permane, e si traduce nel fatto che pochi si rendono conto dei danni determinati dallo statalismo; e ancora oggi, a sinistra, c'è che crede che esso crei occupazione.
Una seconda argomentazione a favore dell'intervento pubblico diretto nell'economia è stata quella che, in Italia, si potesse promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Ma anche questa è oggi una tesi alquanto desueta: dopo i risultati a dir poco deludenti (il tasso di disoccupazione al Sud è quasi quadruplo rispetto a quello del Centro-Nord), chi continua a sostenere l'opportunità dell'intervento pubblico come terapia per lo sviluppo delle regioni meridionali appare quasi provocatorio.

Come meridionale, tuttavia, non posso tacere del danno enorme e duraturo che lo statalismo ha prodotto per decenni all'economia meridionale, distorcendo il sistema di incentivi e rendendo più attraente per i nostri giovani la "sistemazione" nel settore politico-parassitario a scapito di quello produttivo. Anche se di difficile quantificazione, si tratta di un grave colpo inferto alle potenzialità di sviluppo del Sud. Prendiamo, per esempio, i cosiddetti "lavori socialmente utili" che hanno avuto origine nel Mezzogiorno (in Sicilia sono stati creati da un articolo della finanziaria regionale, i beneficiari vengono, pertanto, chiamati "articolisti" e sono ancora un autentico esercito) e sono stati poi esportati anche altrove. Il giovane che per anni ha percepito un assegno, sia pure modesto, ha in realtà subìto un danno permanente per una serie di ragioni. L'incentivo a cercarsi un'occupazione produttiva è stato pesantemente ridotto: se, infatti, trovava un lavoro perdeva l'assegno per il "lavoro socialmente utile", ed è dubbio che, al netto di quello che avrebbe perduto, il compenso per il primo lavoro giustificasse la fatica di cercarlo.

In secondo luogo, l'interessato veniva convinto dalla corresponsione dell'assegno che la sua occupazione era un problema per lo Stato, per i politici, non certo per lui. E ancora, mentre percepiva l'assegno, molto spesso svolgeva un altro lavoro, in nero, guadagnando grazie alle due entrate più di quanto avrebbe guadagnato con un lavoro ufficiale. Infine, ma si potrebbe continuare a lungo, avendo percepito soldi dallo Stato per anni, finiva col convincersi di avere semplicemente usufruito di un suo diritto, di modo che finiva per pretendere (e non è detto che non lo ottenesse) un "posto" stabile nell'amministrazione pubblica. Aggiungendo danno al danno, il costo di questa devastante operazione demagogica ha gravato pesantemente sui datori e sui lavoratori del resto dell'economia, riducendo l'occupazione produttiva. La morale è assai semplice: occupazione non significa - come non poteva significare - percepire un reddito, significa produrre un reddito. Perché l'occupazione possa essere stabile deve essere produttiva. Se, col pretesto di creare occupazione, destiniamo risorse a scopi improduttivi, impoveriamo il Paese, sciupando risorse scarse che potrebbero essere utilizzate proficuamente in altro modo. Non è un caso che dove l'intervento pubblico diretto a creare occupazione è stato più largamente usato, il Mezzogiorno, la disoccupazione è stata maggiore e lo sviluppo economico è stato strutturalmente impedito.

Se, invece, di perseguitare ferocemente l'occupazione tassandola in misura che non ha eguali nel mondo industriale, lo Stato avesse consentito ai datori di assumere senza penali di sorta; se, invece di soffocare sotto una montagna di adempimenti amministrativi le iniziative imprenditoriali, le si fosse incoraggiate; se, ogni qual volta si doveva dar vita ad un insediamento industriale si fosse rinunziato a mettergli i bastoni fra le ruote in mille modi; se, invece di punire il successo, tassandolo, e premiare i fallimenti con le mille forme di "aiuti", si fosse consentito alle imprese di operare in condizioni di piena responsabilità; se si fossero fatte tutte queste cose, l'economia italiana avrebbe da tempo creato in un batter d'occhio molte centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro.
Tornando al filo principale del nostro discorso, vengo quindi a quella che ritengo la spiegazione vera della esistenza di un toppo largo settore pubblico in Italia. Anzitutto, una riflessione ovvia: quello che conta veramente da un punto di vista economico non è la titolarità dell'impresa, se pubblica o privata, ma la sua gestione, se economica o anti-economica. Ora, se si volesse la gestione economica di una data impresa, questa potrebbe benissimo essere privata; se si vuole che sia pubblica, in altri termini, è perché non si vuole che venga gestita economicamente.

2/continua

10 maggio 2002"



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11-05-2002 18:12



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belle parole peccato che antonio martino (messinese come me) sia figlio di quel gaetano, massone ma fascista, e poi democristiano, tanto per far capire il voltagabbanismo tipico dei politici che hanno sempre ossanato l'unità d'Italia