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Perdu
12-05-02, 13:49
de s'unione sarda
www.unionesarda.it

13 Maggio ’43.
Domani pomeriggio alle 18 al Lazzaretto la commemorazione ufficiale

Colpo mortale alla città ferita
Il giovedì che segnò l’ultimo disastroso attacco dal cielo


Uomo, 17 anni circa, camicia a righe verticali, senz’altro indumento; donna, 40-45 anni, con vestiti neri, maciullata; bimbo di due anni, con maglione giallastro blu; soldato, senza mostrine, senza piastrina; cadavere irriconoscibile; testa umana. È solo l’inizio della gelida conta delle vittime senza nome delle incursioni del 26 e del 28 febbraio del 1943. Almeno centocinquanta cadaveri ai quali fu tolta la dignità di un’identità, e con essa di una sepoltura individuale. Finiti nelle fosse comuni, figurano nel lunghissimo elenco dei cagliaritani che hanno pagato il prezzo più alto alla guerra di liberazione. Tra la notte del 2 giugno del ’42 e il 18 agosto del ’43 furono più di mille i civili spazzati via dalle incursioni aeree degli Alleati. La stragrande maggioranza cadde nel mese di febbraio, il 17, il 26 e soprattutto il 28. Ma Cagliari fu definitivamente ferita a morte il 13 maggio, quando in settanta minuti, tra le 13,35 e le 14,45 di una bella giornata di sole, 197 bombardieri e 186 caccia americani sganciarono in tre ondate successive 893 bombe sulla città semideserta. Già duramente provata dalle precedenti incursioni, Cagliari divenne un immenso cumulo di macerie. Durante la notte arrivarono gli inglesi, a completare l’opera degli americani con bombe e spezzoni incendiari. A proposito di quest’ultima incursione, così scrivono Marco Coni e Francesco Serra nel loro preziosissimo libro “La portaerei del Mediterraneo” (edizioni della Torre 1982): «Nella storia dell’Aeronautica americana si legge: “Attacchi assai pesanti, ai quali parteciparono anche i bombardieri medi, cui seguirono gli Wellingtons, furono lanciati contro Marsala e Cagliari. La simultanea azione del 13 maggio completò la neutralizzazione di quest’ultima città nello stesso giorno in cui l’ultimo comandante dell’Asse offriva formalmente la sua resa incondizionata in Tunisia”».
Neutralizzazione significava una città in ginocchio: con 16 su cento dei 4500 edifici distrutti, e 63 su cento gravemente danneggiati». Neutralizzazione significava un migliaio complessivo di morti. “Bisogna che li ricordiamo, senza pompa di monumenti, magari incidendo i loro nomi sulle antiche mura o in una cappella del cimitero..”, scriveva Francesco Alziator sull’Unione Sarda del 17 febbraio del ’68, 25 anni dopo. “Bisogna che li ricordiamo, ognuno di noi avrebbe potuto essere al loro posto e non avrebbe voluto essere dimenticato. Pure i morti hanno i loro diritti, anche se non parlano perché hanno la bocca piena di terra”.
Per ricordarli, è stato avviato due mesi fa un progetto estremamente interessante. Si intitola “Per una memoria storica nei giovani: dalla Cagliari del 1943 alla Cagliari di oggi”, è rivolto ai docenti delle istituzioni scolastiche, ed è curato dall’Istituto regionale di Ricerca educativa della Sardegna con l’amministrazione comunale, e i club di servizio cittadini, sempre attivi sul fronte della memoria e della sensibilizzazione della cittadinanza. L’iniziativa, che intende occuparsi anche di ciò che accadde dopo la guerra, degli anni difficili della ricostruzione, ha già avviato alcuni momenti di confronto soprattutto con docenti e studenti. Domani, in occasione del cinquantanovesimo anniversario del 13 maggio ’43, vivrà un momento particolarmente intenso. Alle 18, nella sala conferenze del Lazzaretto di Sant’Elia restituito alla città, la rievocazione dei tragici eventi sarà affiancata dal ricordo di alcune personalità del mondo della cultura e dell’arte. Uno spazio significativo sarà riservato al film-documentario “Cagliari 1943” di Giovanni Malagoli. A trarre le conclusioni sarà il sindaco Emilio Floris. Tra le relazioni, quella dell’assessore comunale alla Cultura Giorgio Pellegrini, coinvolto con l’assessore alle politiche giovanili Carlo Sanjust nel progetto, e quella degli storici Giampaolo Marchi e Giuseppe Serri. Le questioni del recupero del passato per la formazione delle nuove generazioni saranno al centro dell’intervento di Gian Piero Liori, segretario dell’Irre Sardegna, mentre lo storico Francesco Floris rievocherà gli episodi drammatici che modificarono radicalmente la fisionomia del capoluogo sardo.
Un incontro fra passato e futuro, tra memoria e progetto che sicuramente richiamerà nel Lazzaretto molti cagliaritani coinvolti in prima persona nella tragedia della guerra, ma anche molti studenti. Quelli che credono che Blackbuster sia solo una catena di autonoleggio di videocassette. Quelli che non sanno, per loro fortuna, che è anche una bomba di 4000 libbre. La notte del 13 maggio, i ventitré Wellingtons inglesi ne lanciarono su Cagliari quattro. Sedicimila libbre di distruzione.


Maria Paola Masala

Perdu
12-05-02, 13:50
Giampaolo Loddo: «Io sono stato molto fortunato»

Ma per quel ragazzino la guerra era solo un gioco


«Era un giovedì, come potrei dimenticarlo. Giovedì 13 maggio 1943. Avevo tredici anni». Sono ricordi in bianco e nero quelli di Giampaolo Loddo, lo stesso colore seppiato delle fotografie che ritraggono la Cagliari offesa dalle bombe. Ricordi nitidi, di una sorprendente precisione nei dettagli come riesce solo alla memoria di un ragazzino curioso della vita; immagini che improvvisamente si accendono, diventano a colori quando a illuminarle sono le luci di fotoelettriche, fiamme, esplosioni di quello che «per i ragazzini come me fu uno spettacolo: allora nella nostra incoscienza i bombardamenti erano come fuochi d’artificio che guardavamo da lontano». Dall’alto di un quartiere, Sant’Avendrace, dove le tempeste di fuoco del ’43 non arrivarono mai a distruggere case e vite, come avvenne nel resto della città: «La bomba che cadde più vicina distrusse il pastificio Lotti-Magrini che sorgeva dove oggi c’è il palazzo della Regione, in viale Trento».
Quasi sessant’anni dopo, Giampaolo Loddo ha la fortuna di dire che per lui è stata una guerra senza lutti familiari, vissuta con l’innocenza di un adolescente che solo dopo molti anni ha capito cosa è stato. C’è voluto tempo per rielaborare emozioni e paure inconsce, per ricordare le scalate di gruppi di bambini sui cumuli di macerie del Corso Vittorio Emanuele «dove trovavo sulla mia strada centinaia di libri e resti di vetri e specchi preziosi che non avevo neppure il coraggio di calpestare, perché ”mindi moria su coru”». Non c’è la morte nei ricordi di Loddo, ma altre sofferenze come la fame («Mio zio Efisinu il pescatore rubava i pesci e arrivava a casa con sogliole nelle tasche e una murena per tenere su i pantaloni»), la miseria, lo sfollamento a Las Plassas che «ci sembrò una villeggiatura, ma solo per poco».
Avvolto dalla nuvola di fumo delle sigarette, Giampaolo Loddo ha la capacità di immergersi nel suo passato trascinandovi chi lo ascolta con quella genuina cagliaritanità che ha sempre portato nei suoi programmi radiofonici, in televisione, al teatro e al cinema. «Quel giovedì ero in via Montello, dove abitavo, a pochi metri dal rifugio di Sant’Avendrace. Mio padre Chicchino aveva deciso che avremmo lasciato la città il giorno dopo, bontà sua. Nel rifugio sarebbero potute entrare cinquecento persone, ce n’erano più di mille: molte famiglie si erano trasferite lì. Vivevamo accatastati, ma a 13 anni era uno spasso stare con branchi di ragazzini e spiare quel mondo. Mi vengono in mente le suore della Casa del bambino che correvano dentro il rifugio insieme a decine di donne incinte che dicevano il rosario e cantavano senza tregua Cuor di Gesù tu vuoi, Cuor di Gesù tu sai, Cuor di Gesù tu puoi… C’era chi raccontava barzellette come Carletto Nurchi, tornato dalla Russia; chi si disperava; chi ne approfittava per guadagnare poche lire vendendo il proprio corpo. «In poche stanze noi eravamo più di quindici: babbo e mamma con cinque bambini, zio Efisinu e zia Gigina con altrettanti figli. A casa c’era un viavai continuo, tanto che il parroco di Sant’Avendrace, don Tidu, confessava nella nostra cucina. Non ricordo d’avere mai avuto terrore quando suonavano le sirene ed entravano in funzione le fotoelettriche. Stavamo a fissarle fuori dal rifugio e un ragazzo del quartiere ogni volta gridava: “Sminci smincendi su sminci-sminci”. Prima del 13 maggio ne avevamo visti di bombardamenti feroci: quelli del 17, 26, 28 febbraio, poi alla fine di marzo sul porto e sulla bottega di nonno che era stata distrutta in viale Bonaria. Andavo a scuola in via Eleonora D’Arborea: attraversai più volte la città distrutta e ricordo il dispiacere davanti alla chiesa di Sant’Anna e ai palazzi svuotati di via Garibaldi. Ricordo le lacrime di mio padre mentre leggeva sull’Unione la cronaca della processione di Sant’Efisio. Eppure lo spezzonamento aveva sempre colpito zone della città che osservavamo da lontano, convinti nella nostra incoscienza che a Sant’Avendrace non potesse succedere niente. «Stavamo all’aperto a vedere lo spettacolo anche il giorno in cui le bombe distrussero mezza città. Era l’ora di pranzo quando udimmo le prime esplosioni. Non potemmo far altro che guardare la città che bruciava, mentre aspettavamo notizie. Le portò signor Loi e ci disse: “Unu dannu mann’e mortu. Casteddu tottu sciuxiau”».


Serena Schiffini