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Visualizza Versione Completa : Chi frena lo sviluppo dell'Azienda Italia.



Sir Demos
02-06-02, 11:25
Il vero fatto nuovo nel panorama sociale ed economico di questi ultimi giorni non è la rottura tra Cgil e governo sul fronte del lavoro né l'atteggiamento di Confindustria e neppure la relazione del governatore Fazio con i suoi moniti e le sue pagelle: questi sono semmai gli effetti di un tema che tutti li unifica e li condiziona. Il tema è quello delle dimensioni delle imprese italiane, della produttività e della competitività dell'intero sistema. In una parola, della struttura del capitalismo italiano e della sua capacità di stare in partita in un mondo e in un mercato globali.

È finita la lunga stagione del "piccolo è bello" che ebbe tanti laudatores tra i politici, gli economisti e i sociologi della Seconda Repubblica. Oggi il giudizio si è bruscamente capovolto: si continuano a lodare (ed è giusto farlo) la laboriosità e la creatività degli imprenditori e dei lavoratori italiani, ma si constatano le cifre nella loro spietata crudezza. Cifre che affluiscono da tutte le fonti qualificate e coincidono tra loro anche se si dividono poi nell'indicare le cause del fenomeno e le relative terapie: Istituto di statistica, Banca d'Italia, Confindustria, sindacati, agenzie di ricerca indipendenti. Vediamole dunque queste cifre, almeno quelle essenziali.

Il 95 per cento di tutte le imprese italiane ha meno di 10 addetti. Il 49 per cento di tutta la popolazione occupata lavora in aziende che hanno meno di 10 unità lavorative. L'occupazione media di tutte le imprese è di 3.6 unità.
Nell'industria l'occupazione media è di 8.6 unità a fronte di 15 nella media europea (che sarebbe ancora più alta se il dato italiano non provvedesse ad abbassarla).

Ancora: in Italia opera un quarto di tutte le imprese industriali europee e un quinto delle aziende di servizi; percentuali altissime ma che non debbono affatto inorgoglirci se si osserva il risvolto della medaglia: la percentuale degli addetti rispetto al totale europeo è infatti del 15 per cento per le aziende industriali e dell'11 per quelle di servizi. E veniamo alla produttività. Nelle aziende con meno di 10 addetti la produttività è pari al 44 per cento di quella delle imprese da 10 a 250.


Questo è il quadro nelle sue linee portanti: un'economia pulviscolare basata principalmente sui servizi, sul decentramento dei lavori da parte delle imprese medio-grandi ormai sempre più simili a centri di assemblaggio, su contratti di lavoro atipici, sull'uso di lavoratori immigrati, sulla massima flessibilità sia in entrata sia in uscita sia nelle condizioni di lavoro e nel livello salariale. La grande impresa manifatturiera tende a contrarsi; molte sono scomparse; tra le rimaste in piedi molte sono crisi; da almeno dieci anni se non addirittura da venti l'impresa medio-grande investe in tecnologie labour-saving sostituendo le macchine alla forza-lavoro. Gli esuberi che in questo modo si formano vengono in parte riassorbiti dal terziario e in parte vanno ad ingrossare l'esercito di riserva, cioè la disoccupazione strutturale.

Nei vent'anni tra i Cinquanta e i Settanta lo stesso fenomeno di trasferimento ebbe luogo tra l'agricoltura e l'industria con un saldo positivo in termini di occupazione globale: le fabbriche assorbivano un numero di lavoratori maggiore di quelli fin lì occupati nei lavori agricoli e questo fu il miracolo italiano di quel periodo, reso possibile dal divario tra il livello salariale italiano e quello europeo nonché da imponenti fenomeni di evasione fiscale e contributiva. Dagli Anni '80 del secolo scorso e fino a oggi il flusso ha spostato lavoratori dalle manifatture ai servizi, dall'impresa medio-grande a quella piccola e piccolissima, con relative perdite di produttività e di competitività. Lo sviluppo è frenato, il miracolo tanto auspicato ed erroneamente avvistato dietro l'angolo non si è verificato, i segnali di regressione si sono aggravati né poteva essere diversamente.

Dunque, lo ripeto, la vera sostanziale novità è quella che finalmente questo stato di cose è stato ammesso e addirittura denunciato anche da chi fino a ieri tendeva a ignorarlo ed anzi a lodarne le caratteristiche. * * * Da questo punto in poi si entra nella fase delle terapie e le opinioni divergono radicalmente. Il governo, la Confindustria, la Banca d'Italia puntano il dito sulla rigidità del lavoro che sarebbe la causa principale del "nanismo" dell'economia italiana, insieme ad un'eccessiva pressione fiscale.

Sindacati e opposizione sono di diverso avviso: il nanismo per loro sarebbe dovuto soprattutto allo spirito individualistico e "padroncino" degli italiani e alla loro diffidenza verso la Borsa, il fisco, lo Stato in generale; meglio chiudersi tra le mura dell'azienda familiare che spartirne i frutti con terzi. Del resto non è un caso che anche i pochi esempi di capitalismo di grandi dimensioni abbiano conservato in Italia modalità familiari; pensate alla Pirelli, al Gruppo Orlando, a Marzotto, a Benetton, ai Caltagirone, ai Lodigiani, allo stesso Berlusconi; pensate alla Fiat e alla famiglia Agnelli.

Si parla molto in questi giorni delle cause che hanno fatto esplodere l'ennesima crisi della nostra unica compagnia automobilistica, ma secondo me si è trascurato un aspetto che ne ha condizionato la storia degli ultimi trent'anni. Arrivata a certe dimensioni, la Fiat ha avvertito quanto pesasse sul suo sviluppo la natura familiare dell'azionista di controllo. La partecipazione della famiglia Agnelli ha sempre oscillato in questo periodo tra il 25 e il 35 per cento del capitale con diritto di voto; che fosse tempo di vacche grasse oppure magrissime, questo è stato il rapporto tra partecipazione familiare e azienda.

Per conseguenza il finanziamento e lo sviluppo dell'impresa hanno dovuto soggiacere alla capacità e alla disponibilità del gruppo proprietario a impegnarsi, più che ai bisogni oggettivi di investimento Ciò spiega perché anche la Fiat abbia privilegiato la struttura piramidale a scatole cinesi e la molteplicità dei titoli diffusi tra il pubblico, dall'accomandita Giovanni Agnelli e C. fino ai vari livelli dell'Ifi e poi della Fiat Spa, a cascata fino al fondo-valle della Fiat Auto. Spiega anche il ricorso in grande stile all'indebitamento bancario e agli incroci azionari con gruppi amici. Spiega infine la politica di capital intensive, di sviluppo verticale, di esternalizzazione dei processi produttivi, di innovazioni processuali più che di mutamento dei modelli.

Insomma: capitalismo familiare dal vertice alla base della struttura capitalistica italiana, diffidenza e infrequenza della public company, rachitismo dell'intero sistema d'intermediazione finanziaria, imperfetta trasparenza delle gestioni, imperfetta cultura antitrust, vocazione verso settori sottratti alla concorrenza come gran parte del terziario, peso degli ammortamenti sulle innovazioni. Infine: svalutazione monetaria (finché è stato possibile), bassi salari, salari differiti, evasione fiscale, come strumenti essenziali per mantenere la competitività in presenza del nanismo aziendale e del capitalismo familiare a tutti i livelli del sistema.

Si diceva prima che l'attuale governo, la Confindustria, la Banca d'Italia, puntano il dito soprattutto sulla rigidità del lavoro quale causa determinante di questo stato di cose. Questa vera e propria ossessione è smentita da una quantità di riscontri oggettivi, il primo dei quali deriva da un'analisi attenta della storia dell'economia italiana. Le caratteristiche strutturali del suo nanismo e la natura familiare del capitalismo italiano si sono formate molto prima che nel mercato del lavoro venissero introdotti alcuni limitati elementi di rigidità. Nel 1970, data di nascita della legge Brodolini-Giugni sulla giusta causa, la struttura del sistema imprenditoriale italiano quale noi la conosciamo a tutt'oggi era già compiutamente formata. Le ricerche dell'Istituto di statistica mettono in rilievo che il vero luogo di addensamento delle imprese e degli addetti che vi prestano il loro lavoro si colloca nel settore 1-10 dipendenti e il nocciolo duro di tale addensamento pulviscolare sta attorno al punto medio di 3.6 addetti. Il che porta l'Istat a concludere che "non sembra apprezzabile l'effetto soglia per la crescita dimensionale intorno ai 15 dipendenti"; una conclusione che cancella interamente le motivazioni confindustriali e governative dello scontro sull'articolo 18, svelando quale ne è la vera natura. Poiché 14 milioni e mezzo di lavoratori su un totale di 23 operano già in condizioni di totale flessibilità, lo scontro in atto non riguarda affatto la piccola impresa per agevolarne e stimolarne la crescita, ma riguarda invece la media e la grande con l'obiettivo non solo di adeguare compiutamente il livello della forza-lavoro agli investimenti intensivi già effettuati e tuttora in fase di ammortamento, ma anche se non soprattutto i livelli salariali vigenti con quelli dei paesi di nuovo sviluppo. Qui sta il punto, qui si concentra il peso dello scontro in atto tra sindacati (ma si dovrebbe ora dire Cgil) e padronato: meno addetti nell'impresa medio-grande, libertà di assumere e di licenziare, esternalizzazione del lavoro, livello salariale più basso e agganciato a una frazione della produttività aziendale; quest'ultima determinata a sua volta dalla diminuzione del costo del lavoro, ottenuta con la sostituzione di polizze assicurativo-previdenziali alla previdenza obbligatoria; trasferimento di gran parte dei meccanismi di ammortizzazione sociale alla fiscalità generale e allo stock di salario differito tuttora a disposizione delle imprese per finanziare gli investimenti.

Chiuderei questa analisi con una considerazione: il mercato del lavoro italiano è stato caratterizzato fin dal '46 dal cosiddetto salario differito, cioè dall'accantonamento presso le imprese di una parte (almeno un terzo) del salario lordo, da erogarsi nel momento dell'uscita del lavoratore dal circuito produttivo. Questo salario differito è tuttora nella disponibilità delle imprese e ha costituito un elemento essenziale di finanziamento a bassissimo costo. Paradossalmente è stato utilizzato dal sistema-imprese per effettuare investimenti capital intensive e labour saving cioè per sostituire le macchine al lavoro delle persone. I lavoratori cioè hanno dovuto accontentarsi di salari netti largamente inferiori alla media europea nel corso di mezzo secolo (di quanto succedeva prima nell'Italia contadina non stiamo nemmeno a parlare) finanziando con la parte differita del loro salario politiche d'investimento volte alla tendenziale riduzione dell'occupazione. Che è quanto s'è puntualmente verificato e tuttora continua a verificarsi.


Buona Domenica.

ARI6
03-06-02, 02:43
L'hai scritto tu, vero?