04-06-02, 21:46
(dal n. 249 di Diorama Letterario)
Recensione
Murray Bookchin, Democrazia diretta. Idee per un municipalismo libertario, Eleuthera, Milano 2001, pagg. 92, lire 10.000.
Democrazia cristiana; Democrazia proletaria; Partito democratico della sinistra; Alleanza democratica; Cristiani democratici uniti; Centro cristiano democratico; Socialisti democratici In Italia, nel passato e nel presente, abbondano i partiti che si definiscono democratici. Quasi a siglare una rassicurazione verso gli elettori, o la speranza di allargare le possibilità di successo. A tal proposito, Alain de Benoist scrive che l’universalità del termine non contribuisce particolarmente a chiarirne il senso e ricorda che già Guizot, nel 1849, poteva scrivere: "È tale la potenza della parola democrazia che nessun governo, nessun partito osa vivere, né crede di poterlo fare, senza scrivere questo termine sulla bandiera". La democrazia sembrerebbe dunque essere un grande spazio in cui tutti vogliono collocarsi, non qualcosa di cui impossessarsi.
È noto che la democrazia nasce nell’Atene del quinto secolo e dura circa 150 anni. Era una democrazia diretta: tutti i cittadini potevano prendere parte all’ekklesia o Assemblea. Era l’Assemblea a nominare gli ambasciatori, decidere la guerra o la pace, lanciare le spedizioni e porvi termine, esaminare la gestione dei magistrati, emettere i decreti e ratificare le leggi, accordare il diritto di cittadinanza, giudicare i processi che implicavano la sicurezza comune ecc. Si decideva su problemi concreti, non riguardanti la vita privata o famigliare ma d’interesse comune: quelli che determinavano la vita della Polis. Il tipo di gestione democratica subentrato negli stati moderni si chiama invece democrazia rappresentativa: il popolo non governa e neppure decide riguardo alla cosa pubblica, limitandosi ad eleggere periodicamente chi deve occuparsene. Chi predilige questa seconda soluzione, ormai universalmente applicata, espone diverse ragioni: la democrazia diretta, "faccia a faccia", poteva funzionare in un territorio limitato come la Polis ateniese, dove il diritto di cittadinanza era escluso per gli innumerevoli schiavi; oggi la società è diventata molto più complessa, ingestibile a livello settoriale; nessuno è obbligato a partecipare alla politica, ecco perché è necessario eleggere persone che si assumano questo compito, dei "professionisti". C’è chi esprime dubbi verso la democrazia in sé, ma, non sapendo proporre nulla di meglio, si rifà a Hobbes, che diffidava notoriamente del genere umano, e ne difende il principio di rappresentanza.
La democrazia rappresentativa, retta da una fenomenologia che l’antropologa Ida Magli ha definito "sacrale", è ormai entrata nel nostro retroterra culturale ed è vista come l’unica forma di democrazia possibile; mentre sul piano delle idee confrontarsi con la democrazia è ritenuto un atto iconoclastico. E se questa diffidenza può essere comprensibile (ma non giustificabile, in base al rispetto dell’opinione altrui) quando ci si trova di fronte a quei detrattori della democrazia che esaltano governi dispotici, fittizi o reali, magari proiezioni dei regni dell’Età dell’oro o delle Città di Dio, utopici mondi egualitari e regolati ad orologeria, oppure si richiamano ai totalitarismi rossi o bruni, più difficile è comprendere perché siano illegittimi lo studio e la discussione sulla sostanza della democrazia e sulle sue possibili traduzioni in pratica. La critica della democrazia reale è vista con sospetto, come un attacco contro uno status quo pressoché perfetto, anche quando non si propone affatto la distruzione della democrazia sul piano teorico. Chi nega il confronto sulla democrazia attuale, bollando per antidemocratico chiunque ne metta in discussione alcuni aspetti proponendo soluzioni alternative, dovrebbe chiedersi se non stia difendendo qualcosa di cui è ignaro. Per dirla con de Benoist: "Dal momento che oggi ognuno intende essere democratico, ed esserlo nella forma più compiuta che esista, e che d’altronde la democrazia greca non assomiglia affatto a quelle che vediamo esistere, occorre dunque che siano i Greci ad essere stati "meno democratici" di noi". In altre parole, si sente spesso affermare che quella ateniese non era una vera democrazia, ma il ragionamento dovrebbe essere capovolto: cos’è il nostro sistema rappresentativo, se furono i Greci a chiamare democrazia il loro sistema diretto e partecipato?
Vale quindi la pena di leggere o rileggere il libretto di Murray Bookchin Democrazia diretta per cogliere una voce non conformista sull’argomento. L’autore è nato a New York nel 1922 e negli ultimi anni ha diretto l’Istituto d’Ecologia Sociale nel Vermont, nel quale si incontrano e lavorano i maggiori esponenti di quella che è chiamata "ecologia sociale". Il suo pensiero muove da Kropotkin e si inscrive nell’ambito libertario. Del suo precursore conserva l’approccio scientifico.
Nella sua opera maggiore, L’ecologia della libertà, anch’esso tradotto in italiano da Eleuthera, Bookchin esprime un punto di vista che sta diventando essenziale nel pensiero ecologico: non è sufficiente una buona politica di governo per risolvere i gravi problemi ambientali che conseguono a un’idea di sviluppo illimitato, soprattutto di consumismo sfrenato. A suo avviso, "un corretto rapporto con la natura non può non riferirsi a un corretto rapporto sociale tra individui e tra individui e istituzioni sociali, quindi culturali, politiche ed economiche". Questa rivoluzione culturale può compiersi soltanto "con un grande decentramento della politica, con una riassunzione da parte della società di funzioni delegate a istanze trascendenti, ad un recupero di centralità della figura individuale all’interno di comunità restituite al controllo umano (anche per dimensioni e qualità delle chances di vita esperibili), ridisegnate infine secondo criteri non più sussunti dalle condizioni attuali di esistenza alienata". L’ecologia sociale s’innesta dunque "entro una linea di tendenza comunitaria assimilabile a regimi di democrazia diretta di aspirazione ateniese e del comune medievale".
Il libro sulla democrazia diretta nasce dall’esigenza di approfondire uno degli assiomi che reggono il pensiero dell’ecologia sociale: l’unità nella diversità. Andare alle origini della democrazia, dimostrare che la sua forma partecipativa è l’unica compatibile con la proposta di una società ecologica, significa tenere fede a quest’assioma. Boockhin ha ben presente cosa significasse la democrazia per gli ateniesi, e si riferisce a loro quando deve richiamare le virtù di una cultura politica vissuta responsabilmente, "vale a dire su una formazione del carattere, un’etica e una razionalità che possono essere conseguite soltanto grazie ad un’interazione profonda tra individuo e comunità, e su una concezione della politica come veicolo per acquisire saggezza grazie alla discussione della cosa pubblica. Secoli orsono, gli Ateniesi la definirono paideia, pratica perenne per acquisire saggezza e formare il carattere totalmente estranea ad una mera capacità di registrare le proprie opinioni con mezzi elettronici o alla passività che consente ad un programma televisivo di registrare opinioni contrapposte". Ma non si limita a rievocare il mito di un sistema politico durato un secolo e mezzo. Sin dalle prime pagine del volume evidenzia il graduale deperimento subito dalla partecipazione alla cosa pubblica quando è subentrato lo Stato nazionale, dichiarando l’avvento della modernità. La politica "aveva un senso differente da quello odierno. Significava la gestione degli affari pubblici da parte della popolazione a livello comunitario". Ed era una cultura politica vissuta attraverso "feste civiche, celebrazioni, in una condivisione emotiva di gioia e dolore che davano ad ogni località (villaggio, paese, quartiere, città che fosse) un senso di specificità e comunanza che favoriva la singolarità dell’individuo più che la sua subordinazione alla dimensione collettiva".
Bookchin non è un nostalgico del tempo che fu. Nell’opera maggiore ha studiato approfonditamente i rapporti gerarchici che implicano una cattiva gestione del potere. La sua critica tipicamente anarchica allo Stato come origine d’ogni male può apparire parziale ad alcuni, mentre altri possono storcere il naso di fronte a proposte federaliste che non includono un’idea comune come contenitore. Questa parzialità, però, lo preserva dall’essere considerato un reazionario, come accadrebbe a pensatori d’altre tendenze. Egli non chiede agli uomini della postmodernità di rimpiangere il passato, ma neppure si lascia incantare da una concezione esponenziale della storia umana. Pur vedendo nello Stato la più alta forma coercitiva e proponendo all’opposto una società federativa e municipalista, basata su comunità "organiche", con momenti assembleari ed una gestione antiburocratica della cosa pubblica, non opta per il capitalismo come regolatore dei rapporti. Per lui la politica rimane un elemento da recuperare a scapito sia del modello attuale di democrazia, sia della sua negazione attraverso una economia di mercato avida ed espansiva. Al capitalismo riserva osservazioni acute e sferzanti: "i mercati dei villaggi ed anche di molti comuni medievali subivano precisi vincoli culturali all’espansione, vincoli che ponevano limiti morali socialmente accettati al conseguimento della ricchezza"; "Qualunque malefatta abbiano commesso i pirati dell’età del bronzo nel corso delle azioni di brigantaggio o i mercanti dell’era classica e feudale nel corso dei saccheggi perpetrati all’estero, tutti loro consideravano però intoccabili le rispettive comunità, contribuendo generosamente al loro splendore civico. Il nuovo mercante, e specialmente l’industriale che viene appresso, comincia invece a considerare la propria comunità come un territorio di conquista, saccheggiandola sovente senza ritegno. Tale comportamento, elevato a etica degli affari, comincia a soppiantare i precetti religiosi ed i valori culturali ereditati da tempi immemori e precedentemente condivisi anche da mercanti e imprenditori".
Questo breve libro costituisce un testo fondamentale per chi non condivide le prerogative della vulgata liberale e liberista e non per questo rimpiange le ideologie autoritarie e totalitarie che hanno permeato il secolo appena trascorso. Pur provenendo da esperienze diverse, ci si può non riconoscere in quella proposta di annullamento delle distanze e di eternizzazione del presente in cui Marco Tarchi ha di recente indicato una delle caratteristiche tipiche dell’ideologia liberale. Si può non ritenere che quello in cui viviamo sia inevitabilmente il migliore, se non addirittura l’unico, dei mondi possibili. Con altre parole, Murray Bookchin sembra pensarla nello stesso modo: "La presunzione che ciò che esiste debba necessariamente esistere è l’acido corrosivo di ogni pensiero immaginativo". Ed è confortante leggere queste sue altre parole: "Non c’è nulla di nostalgico o innovativo nel tentativo dell’umanità di armonizzare il collettivo con l’individuale. L’impulso a realizzare questi scopi complementari (soprattutto in tempi come i nostri, in cui entrambi rischiano una rapida dissoluzione) è una costante ricerca umana che si è espressa tanto nel campo religioso quanto nel radicalismo secolare, negli esperimenti utopici come nella vita cittadina di quartiere, nei gruppi etnici chiusi come nei conglomerati urbani cosmopoliti. È la coscienza, e non altro, che in ultima istanza determinerà se l’umanità sarà in grado di raggiungere un senso pieno nella dimensione collettiva senza nulla sacrificare a un senso pieno della propria individualità".
Claudio Ughetto
Recensione
Murray Bookchin, Democrazia diretta. Idee per un municipalismo libertario, Eleuthera, Milano 2001, pagg. 92, lire 10.000.
Democrazia cristiana; Democrazia proletaria; Partito democratico della sinistra; Alleanza democratica; Cristiani democratici uniti; Centro cristiano democratico; Socialisti democratici In Italia, nel passato e nel presente, abbondano i partiti che si definiscono democratici. Quasi a siglare una rassicurazione verso gli elettori, o la speranza di allargare le possibilità di successo. A tal proposito, Alain de Benoist scrive che l’universalità del termine non contribuisce particolarmente a chiarirne il senso e ricorda che già Guizot, nel 1849, poteva scrivere: "È tale la potenza della parola democrazia che nessun governo, nessun partito osa vivere, né crede di poterlo fare, senza scrivere questo termine sulla bandiera". La democrazia sembrerebbe dunque essere un grande spazio in cui tutti vogliono collocarsi, non qualcosa di cui impossessarsi.
È noto che la democrazia nasce nell’Atene del quinto secolo e dura circa 150 anni. Era una democrazia diretta: tutti i cittadini potevano prendere parte all’ekklesia o Assemblea. Era l’Assemblea a nominare gli ambasciatori, decidere la guerra o la pace, lanciare le spedizioni e porvi termine, esaminare la gestione dei magistrati, emettere i decreti e ratificare le leggi, accordare il diritto di cittadinanza, giudicare i processi che implicavano la sicurezza comune ecc. Si decideva su problemi concreti, non riguardanti la vita privata o famigliare ma d’interesse comune: quelli che determinavano la vita della Polis. Il tipo di gestione democratica subentrato negli stati moderni si chiama invece democrazia rappresentativa: il popolo non governa e neppure decide riguardo alla cosa pubblica, limitandosi ad eleggere periodicamente chi deve occuparsene. Chi predilige questa seconda soluzione, ormai universalmente applicata, espone diverse ragioni: la democrazia diretta, "faccia a faccia", poteva funzionare in un territorio limitato come la Polis ateniese, dove il diritto di cittadinanza era escluso per gli innumerevoli schiavi; oggi la società è diventata molto più complessa, ingestibile a livello settoriale; nessuno è obbligato a partecipare alla politica, ecco perché è necessario eleggere persone che si assumano questo compito, dei "professionisti". C’è chi esprime dubbi verso la democrazia in sé, ma, non sapendo proporre nulla di meglio, si rifà a Hobbes, che diffidava notoriamente del genere umano, e ne difende il principio di rappresentanza.
La democrazia rappresentativa, retta da una fenomenologia che l’antropologa Ida Magli ha definito "sacrale", è ormai entrata nel nostro retroterra culturale ed è vista come l’unica forma di democrazia possibile; mentre sul piano delle idee confrontarsi con la democrazia è ritenuto un atto iconoclastico. E se questa diffidenza può essere comprensibile (ma non giustificabile, in base al rispetto dell’opinione altrui) quando ci si trova di fronte a quei detrattori della democrazia che esaltano governi dispotici, fittizi o reali, magari proiezioni dei regni dell’Età dell’oro o delle Città di Dio, utopici mondi egualitari e regolati ad orologeria, oppure si richiamano ai totalitarismi rossi o bruni, più difficile è comprendere perché siano illegittimi lo studio e la discussione sulla sostanza della democrazia e sulle sue possibili traduzioni in pratica. La critica della democrazia reale è vista con sospetto, come un attacco contro uno status quo pressoché perfetto, anche quando non si propone affatto la distruzione della democrazia sul piano teorico. Chi nega il confronto sulla democrazia attuale, bollando per antidemocratico chiunque ne metta in discussione alcuni aspetti proponendo soluzioni alternative, dovrebbe chiedersi se non stia difendendo qualcosa di cui è ignaro. Per dirla con de Benoist: "Dal momento che oggi ognuno intende essere democratico, ed esserlo nella forma più compiuta che esista, e che d’altronde la democrazia greca non assomiglia affatto a quelle che vediamo esistere, occorre dunque che siano i Greci ad essere stati "meno democratici" di noi". In altre parole, si sente spesso affermare che quella ateniese non era una vera democrazia, ma il ragionamento dovrebbe essere capovolto: cos’è il nostro sistema rappresentativo, se furono i Greci a chiamare democrazia il loro sistema diretto e partecipato?
Vale quindi la pena di leggere o rileggere il libretto di Murray Bookchin Democrazia diretta per cogliere una voce non conformista sull’argomento. L’autore è nato a New York nel 1922 e negli ultimi anni ha diretto l’Istituto d’Ecologia Sociale nel Vermont, nel quale si incontrano e lavorano i maggiori esponenti di quella che è chiamata "ecologia sociale". Il suo pensiero muove da Kropotkin e si inscrive nell’ambito libertario. Del suo precursore conserva l’approccio scientifico.
Nella sua opera maggiore, L’ecologia della libertà, anch’esso tradotto in italiano da Eleuthera, Bookchin esprime un punto di vista che sta diventando essenziale nel pensiero ecologico: non è sufficiente una buona politica di governo per risolvere i gravi problemi ambientali che conseguono a un’idea di sviluppo illimitato, soprattutto di consumismo sfrenato. A suo avviso, "un corretto rapporto con la natura non può non riferirsi a un corretto rapporto sociale tra individui e tra individui e istituzioni sociali, quindi culturali, politiche ed economiche". Questa rivoluzione culturale può compiersi soltanto "con un grande decentramento della politica, con una riassunzione da parte della società di funzioni delegate a istanze trascendenti, ad un recupero di centralità della figura individuale all’interno di comunità restituite al controllo umano (anche per dimensioni e qualità delle chances di vita esperibili), ridisegnate infine secondo criteri non più sussunti dalle condizioni attuali di esistenza alienata". L’ecologia sociale s’innesta dunque "entro una linea di tendenza comunitaria assimilabile a regimi di democrazia diretta di aspirazione ateniese e del comune medievale".
Il libro sulla democrazia diretta nasce dall’esigenza di approfondire uno degli assiomi che reggono il pensiero dell’ecologia sociale: l’unità nella diversità. Andare alle origini della democrazia, dimostrare che la sua forma partecipativa è l’unica compatibile con la proposta di una società ecologica, significa tenere fede a quest’assioma. Boockhin ha ben presente cosa significasse la democrazia per gli ateniesi, e si riferisce a loro quando deve richiamare le virtù di una cultura politica vissuta responsabilmente, "vale a dire su una formazione del carattere, un’etica e una razionalità che possono essere conseguite soltanto grazie ad un’interazione profonda tra individuo e comunità, e su una concezione della politica come veicolo per acquisire saggezza grazie alla discussione della cosa pubblica. Secoli orsono, gli Ateniesi la definirono paideia, pratica perenne per acquisire saggezza e formare il carattere totalmente estranea ad una mera capacità di registrare le proprie opinioni con mezzi elettronici o alla passività che consente ad un programma televisivo di registrare opinioni contrapposte". Ma non si limita a rievocare il mito di un sistema politico durato un secolo e mezzo. Sin dalle prime pagine del volume evidenzia il graduale deperimento subito dalla partecipazione alla cosa pubblica quando è subentrato lo Stato nazionale, dichiarando l’avvento della modernità. La politica "aveva un senso differente da quello odierno. Significava la gestione degli affari pubblici da parte della popolazione a livello comunitario". Ed era una cultura politica vissuta attraverso "feste civiche, celebrazioni, in una condivisione emotiva di gioia e dolore che davano ad ogni località (villaggio, paese, quartiere, città che fosse) un senso di specificità e comunanza che favoriva la singolarità dell’individuo più che la sua subordinazione alla dimensione collettiva".
Bookchin non è un nostalgico del tempo che fu. Nell’opera maggiore ha studiato approfonditamente i rapporti gerarchici che implicano una cattiva gestione del potere. La sua critica tipicamente anarchica allo Stato come origine d’ogni male può apparire parziale ad alcuni, mentre altri possono storcere il naso di fronte a proposte federaliste che non includono un’idea comune come contenitore. Questa parzialità, però, lo preserva dall’essere considerato un reazionario, come accadrebbe a pensatori d’altre tendenze. Egli non chiede agli uomini della postmodernità di rimpiangere il passato, ma neppure si lascia incantare da una concezione esponenziale della storia umana. Pur vedendo nello Stato la più alta forma coercitiva e proponendo all’opposto una società federativa e municipalista, basata su comunità "organiche", con momenti assembleari ed una gestione antiburocratica della cosa pubblica, non opta per il capitalismo come regolatore dei rapporti. Per lui la politica rimane un elemento da recuperare a scapito sia del modello attuale di democrazia, sia della sua negazione attraverso una economia di mercato avida ed espansiva. Al capitalismo riserva osservazioni acute e sferzanti: "i mercati dei villaggi ed anche di molti comuni medievali subivano precisi vincoli culturali all’espansione, vincoli che ponevano limiti morali socialmente accettati al conseguimento della ricchezza"; "Qualunque malefatta abbiano commesso i pirati dell’età del bronzo nel corso delle azioni di brigantaggio o i mercanti dell’era classica e feudale nel corso dei saccheggi perpetrati all’estero, tutti loro consideravano però intoccabili le rispettive comunità, contribuendo generosamente al loro splendore civico. Il nuovo mercante, e specialmente l’industriale che viene appresso, comincia invece a considerare la propria comunità come un territorio di conquista, saccheggiandola sovente senza ritegno. Tale comportamento, elevato a etica degli affari, comincia a soppiantare i precetti religiosi ed i valori culturali ereditati da tempi immemori e precedentemente condivisi anche da mercanti e imprenditori".
Questo breve libro costituisce un testo fondamentale per chi non condivide le prerogative della vulgata liberale e liberista e non per questo rimpiange le ideologie autoritarie e totalitarie che hanno permeato il secolo appena trascorso. Pur provenendo da esperienze diverse, ci si può non riconoscere in quella proposta di annullamento delle distanze e di eternizzazione del presente in cui Marco Tarchi ha di recente indicato una delle caratteristiche tipiche dell’ideologia liberale. Si può non ritenere che quello in cui viviamo sia inevitabilmente il migliore, se non addirittura l’unico, dei mondi possibili. Con altre parole, Murray Bookchin sembra pensarla nello stesso modo: "La presunzione che ciò che esiste debba necessariamente esistere è l’acido corrosivo di ogni pensiero immaginativo". Ed è confortante leggere queste sue altre parole: "Non c’è nulla di nostalgico o innovativo nel tentativo dell’umanità di armonizzare il collettivo con l’individuale. L’impulso a realizzare questi scopi complementari (soprattutto in tempi come i nostri, in cui entrambi rischiano una rapida dissoluzione) è una costante ricerca umana che si è espressa tanto nel campo religioso quanto nel radicalismo secolare, negli esperimenti utopici come nella vita cittadina di quartiere, nei gruppi etnici chiusi come nei conglomerati urbani cosmopoliti. È la coscienza, e non altro, che in ultima istanza determinerà se l’umanità sarà in grado di raggiungere un senso pieno nella dimensione collettiva senza nulla sacrificare a un senso pieno della propria individualità".
Claudio Ughetto