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Rodolfo (POL)
06-06-02, 04:33
Contro il liberismo selvaggio: partecipazione
Intervista con Ivo Laghi sulle politiche dell’occupazione e dello stato sociale


D.: Lo stato sociale è la causa determinante del mostruoso disavanzo dei conti pubblici accumulatosi negli ultimi decenni?

Certamente sì, volendo cedere al frastuono della più becera propaganda neoliberista. Assolutamente no, sulla scorta di calcoli e comparazioni oggettive.
Considerando, cioè, che - in barba alla Costituzione, alle Convenzioni e ai Patti Internazionali - la nostra “Protezione sociale” è “universalistica” solo in parte, ha un costo complessivo inferiore di quasi il 5% a quello medio dell'U.E., e concede tutele che non reggono menomamente il confronto.
Da ciò consegue che, se non sono andate a spianto Germania, Francia, Olanda, Belgio, ecc. - il cui Stato sociale è ben più oneroso del nostro -, le cause del debito pubblico e del disavanzo statale dell'Italia vanno ricercate altrove. Per es. e, anzitutto, nell'evasione fiscale e contributiva (queste sì, mostruose) e nelle “lunghe mani” delle oligarchie che ci dominano.

D.: L'abuso clientelare con cui sono state gestite le istituzioni pubbliche dal potere partitocratico è diretta conseguenza di una eccessiva ingerenza dello Stato nella vita economica e sociale dei cittadini?
Direi che si tratta dell'antico conflitto tra l'interesse generale e le convenienze dei politicanti (convenienze personali, di bottega e dei loro sponsor) che di volta in volta arrivano ad occupare lo Stato.
Sta di fatto che negli ultimi cinquant'anni l'interesse generale non ha mai prevalso. A tutt'oggi, non si è potuto avere uno Stato degno del nome e del ruolo che gli compete. Uno Stato in grado di promuovere opportunità di ascesa economica e sociale per tutti i cittadini.

D.: A quali conseguenze condurrebbe una riforma dello stato sociale improntata alla privatizzazione dei servizi legati all'assistenza e alla previdenza, finora di pertinenza dello Stato?
Tutte le iniziative private, comprese quindi quelle assicurativo-previdenziali, tendono o - meglio - sono tenute a perseguire il massimo profitto per chi le svolge. Senza nessuna compassione per i cittadini e per i lavoratori, dipendenti o autonomi che siano, i quali pertanto restano indifesi. Come insegnano, ad es., certe esperienze dei fondi pensione della Svizzera e degli U.S.A.; o come tragicamente testimoniano i fattacci recenti delle “iperbariche” milanesi.
Da noi, in particolare, privatizzare le assicurazioni previdenziali condurrebbe, anzi, purtroppo, condurrà a più facili e ancora più ingiustificati business per i soliti noti centri di potere economico, nonché per le grandi multinazionali delle assicurazioni e, com'è noto, per i sindacati.

D.: Quali potrebbero essere le direttive fondamentali per una riforma dello stato sociale?
Quelle “minime” previste dalla nostra Legge Generale, che peraltro corrispondono alla civiltà sociale ed agli ordinamenti giuridici dell'Europa: sicurezza sul lavoro ed eque indennità in caso di infortuni e malattie professionali; pensioni sicure, adeguate alla vita lavorativa ed ai contributi versati; sanità efficiente ed efficace; aiuti consistenti in caso di disoccupazione involontaria.
Condizione essenziale per tutto questo, ovviamente, un Fisco ben più giusto: con meno condoni e con maggiore severità (come in America!); per il quale si possa davvero “pagare tutti per pagare meno”, nel riconoscimento dei diritti e dei doveri che discendono dallo status di cittadini.
Altrimenti, si continuerà a legittimare le ingiustizie, i facili e spesso delinquenziali arricchimenti, riversandone le conseguenze sui più deboli e dilatando ulteriormente le plaghe di povertà.

D.: La crescente disoccupazione nella società occidentale è dovuta alla prevalenza assunta dall'economia finanziaria rispetto all'economia produttiva?
In gran parte, sì. Troppo spesso i profitti vengono investiti nella speculazione finanziaria anziché in nuovi impianti produttivi. E nemmeno lo scoppio di tante “bolle speculative” sembra aver consigliato impieghi più assennati.
D'altro canto, quando giustamente si dice che questa è un'era post-industriale, bisognerebbe aggiungere che l'occupazione non arriva più dai prodotti “di massa” da esportare. Tanto meno da quelli di casa nostra, che per qualità e tecnologia non sono più competitivi, nonostante che i cittadini si siano dovuti “svenare” per assistere l'industria (migliaia di miliardi, ventitremila nel solo triennio 1994-1996). Sacrifici di cui si dovrebbe chiedere ragione, visto che non hanno portato a quel miglioramento dei livelli occupazionali che ne avevano motivato l'erogazione; che, anzi, non s'è nemmeno posto un freno ai “dimagrimenti” degli organici, con le note conseguenze decelerative dei consumi interni. Né sono serviti a innovare le antiche, comode “nicchie” produttive.
Insomma, non c'è dubbio che in Italia ... bisogna “studiarne un'altra”. Anche perché la comunicazione telematica fa sì che oramai pure il “terziario avanzato” elimina posti giorno dopo giorno.

D.: L'incidenza del costo del lavoro, quale onere che influisce in modo determinante sulla competitività delle imprese, può essere considerata un ostacolo allo sviluppo in una economia di libero mercato globalizzata?
A onor del vero, il cosiddetto costo del lavoro incide sulle produzioni industriali del nostro paese per non più del 20%. Comunque, il “costo” italiano è inferiore, per es., a quello di Belgio, Germania e Svizzera (ultimi dati OCSE); e, nel periodo agosto 1997-agosto 19998 è ancora calato, del 2,2% (dati ISTAT).
Dunque, è ingiusto - per usare un eufemismo - che tanti “capitani d'impresa” italiani si intestardiscano a voler competere mediante la “libertà di licenziare” e con la riduzione della sicurezza sociale. Quando, invece, dato che nei maggiori paesi europei il lavoro costa molto più che da noi, si dovrebbe saper concludere che la competitività delle imprese italiane non si ottiene con la vecchia, odiosa ricetta di un minor costo di produzione da realizzare attraverso l'impoverimento dei lavoratori. Ci si dovrebbe sforzare di rispondere in termini concreti alla domanda di prodotti qualitativamente appetibili, sia per l'esportazione che per i consumi interni.

D.: Il principio della partecipazione può trovare una sua collocazione a livello europeo? La cogestione e la partecipazione possono essere un'alternativa sociale e politica al liberismo selvaggio del dio mercato che si è imposto in Europa e nel mondo occidentale?
La partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali ed alla gestione economica delle imprese è prescritta da quasi tutte le Costituzioni europee; e nove paesi l'hanno introdotta da gran tempo nei loro ordinamenti positivi.
Cosicché, la nei luoghi di lavoro, che viene intesa come , in termini economico-sociali comporta maggiore produttività, assunta come mezzo per far crescere l'occupazione e come somma di benefici da distribuire fra i lavoratori, il management ed i consumatori.
Sono questi i concetti e metodi - evidentemente alternativi a quelli del neo-liberismo ad oltranza - in ragione dei quali la Commissione europea, fin dal tempo della C.E.E., insiste a proporre una riforma “dualistica” del diritto societario. La speranza è che adesso ... sia la “vil moneta” (l'Euro) a compiere il miracolo. Nel senso che gli organi comunitari, a forza di invocare un “patto sociale per l'occupazione”, decidano finalmente di introdurre in tutti i paesi membri quel tanto di democrazia economica che certamente è alla base di un patto sociale efficace e duraturo.

Roderigo
06-06-02, 22:20
Originally posted by Rodolfo
Sta di fatto che negli ultimi cinquant'anni l'interesse generale non ha mai prevalso. A tutt'oggi, non si è potuto avere uno Stato degno del nome e del ruolo che gli compete. Uno Stato in grado di promuovere opportunità di ascesa economica e sociale per tutti i cittadini.
Negli ultimi cinquant'anni?

R.

Pieffebi
06-06-02, 22:55
Intende probabilmente .....dalla caduta del fascismo.....

Saluti liberisti