Perdu
07-06-02, 02:25
L'Italia non esiste.
di Sergio Salvi.
Edizioni Camunia. Firenze 1996.
A questo punto ci corre l’obbligo di un risarcimento perlomeno morale nei confronti dei sardi (quelli veri [non quelli del Regno “italiano di Sardegna”, ndr]) e del loro sfortunato regno, istituito una prima volta dall’imperatore nel 1164 e ritagliato su misura per il «giudice» di Arborea, il sardo Barisone: il quale venne sì incoronato ma perse subito la corona poiché non possedeva la somma di 4.000 marchi d’argento (che ne era il prezzo) e non gli riuscì di racimolarla in tempo debito. E, per i sardi almeno, la corona fu persa per sempre.
Il regno venne infatti istituito, una seconda volta, dal papa, nel 1239, col nome di Regnum Sardiniae et Corsicae ma riservato a Enzo, figlio illegittimo di Federico II. Nemmeno Enzo ne entrò mai in possesso. Il titolo venne addirittura restituito, in seguito, a papa Bonifacio VIII che nel 1297, lo concesse al re d’Aragona (purché restituisse la Sicilia agli angioini di Napoli). L’accettazione da parte del re di Aragona fu, all’inizio, soltanto formale: ci vollero molti anni, infatti, perché gli aragonesi si decidessero a sbarcare nell’isola (rinunciando però alla Corsica, che rischiò di finire, come regno separato, nelle mani del granduca di Toscana nel XVI secolo).
I sardi, da tempo in armi contro gli «italiani» (genovesi e pisani), lottarono in seguito accanitamente, per preservare la loro libertà anche contro gli aragonesi. Ma alla fine li accettarono (anche se si ribellarono ancora molte volte). Il regno era del resto una entità politica formalmente sovrana (anche se il re risiedeva a Barcellona), dotata di Parlamento, di moneta, di milizie, di leggi, di tribunali propri (che giudicavano in base al codice della Carta de logu, in lingua sarda, promulgata da Eleonora d’Arborea nel 1388): anche se, a partire salla seconda metà del XV secolo, lingua ufficiale dell’isola diventò il catalano e, subito dopo, il castigliano.
Nel 1718, per effetto del Trattato di Londra, il Regno di Sardegna fu inopinatamente assegnato al duca di Savoia, del Monferrato e di Aosta nonché conte di Nizza e di molti altri luoghi assai meno conosciuti, che aveva regnato per appena cinque anni sulla Sicilia in virtù della Pace di Utrecht (quella che aveva trasferito la Lombardia dalla Spagna all’Austria: 1713). Le isole vennero, insomma, scambiate per i soliti giochi politici tra le grandi potenze.
Il sovrano sabaudo, per non tornare soltanto «duca e conte» e mantenere quindi un titolo regale qualsiasi, acconsentì, sia pure a malincuore, allo scambio. Riuscì però a impossessarsi della sua nuova isola soltanto due anni dopo, grazie alla Pace dell’Aia: e vi mantenne, per qualche tempo, l’autonomia tradizionale compreso lo strapotere dei feudatari spagnoli, limitandosi a esercitare una pressione fiscale crescente.
Poi cominciò a erodere i privilegi del regno e a trattare l’isola come fosse una colonia. Impose l’italiano quale lingua ufficiale nel 1764.
Nel 1793, i francesi sbarcarono nell’isola con l’intento di istituirvi la «Repubblica sarda una e indivisibile». Tra essi c’era il giovane napoleone Buonaparte. Il Parlamento sardo, che non era mai stato riunito dal re sabaudo, si autoconvocò e, obbedendo ai suoi ordini, le milizie sarde ributtarono a mare i francesi. Fiero di questo successo militare, il Parlamento chiese al re, che stava a Torino, di riunirlo almeno una volta ogni dieci anni, di riservargli la nomina dei vescovi nelle diocesi dell’isola, di permettere ai sardi di ricoprire, nella loro patria, le maggiori cariche pubbliche esclusa quella di viceré, di istituire un Ministero per gli affari sardi a Torino e un Consiglio di Stato a Cagliari. Il re rifiutò tutte le proposte.
Il Parlamento ricorse allora, di nuovo, alle proprie milizie, e cacciò dall’isola i rappresentanti del re. Era il 28 aprile 1794.
Per venire a oggi, si dirà che due anni fa, in un soprassalto di orgoglio e di dignità isolani, la Regione autonoma della Sardegna ha dichiarato il 28 aprile Sa die de sa Sardigna («il giorno della Sardegna»), una sorta di 14 luglio ad uso dei sardi.
Torniamo al 1794. Purtroppo, la «rivoluzione sarda» finì presto e male. Coloro che, uniti, avevano cacciato i sabaudi, si divisero subito e si affrontarono in armi. Il leader dei «democratici», l’indipendentista Giovanni Maria Angioi (che voleva istituire la Repubblica sarda), dopo avere sconvolto i tre quarti dell’isola alla testa di un esercito di contadini e di pastori, venne sconfitto dalle milizie speditegli contro dal Parlamento di Cagliari, impaurito dalla sua predicazione sociale e sobillato dai grandi feudatari e dai vescovi tramite i quali si era messo, nel frattempo, in contatto col re (che aveva acconsentito al perdono).
Paradossalmente, nel 1799, cacciato dalla sua Torino da Napoleone, che ne incamerò il tesoro, il re si rifugiò nell’isola dove rimase per dodici anni, a spese di questi suoi sudditi ombrosi ma, in fondo, generosissimi.
I Savoia, una volta rimessi in sella a Torino, dimenticarono ogni gratitudine e ripresero a interferire nelle vicende dell’isola (nel 1815, con la Restaurazione, avevano ottenuto anche la repubblica di Genova e si sentivano sempre più forti). Nel 1820, emanarono l’Editto delle chiudende col quale venne disposta la recinzione, a favore dei proprietari, dei pascoli fino ad allora lasciati liberi per le esigenze dei pastori..
I proprietari si guardarono bene dal coltivare queste tancas («recinti») e le lasciarono, però affidandole a caro prezzo, al godimento (si fa per dire) dei soliti pastori.
Nel 1827, venne abrogata la Carta de logu, il monumento giuridico del popolo sardo, che aveva regolato la vita dell’isola, nella sua lingua materna, per trecentoventinove anni. Caddero di conseguenza anche i diritti allo sfruttamento delle terre comuni da parte dei contadini e dei pastori. Ciò portò alla sanguinosa rivolta detta de su connottu («del conosciuto»).
Nel 1847, alla vigilia della «prima guerra di indipendenza» italiana, una delegazione di notabili sardi, priva di ogni investitura (fosse essa parlamentare o popolare), chiese al re che il regno fosse abolito. Lo fece nell’intento di fruire dei diritti commerciali e fiscali concessi agli «Stati sardi» di terraferma (Savoia, Aosta, Piemonte, Nizza e Genova) e dai quali l’isola era stata esclusa.
Carlo Alberto accettò di buon grado. Con una vera e propria rapina giuridica, che prese il nome di «fusione perfetta», il Parlamento di Cagliari (che il re, in centotrenta anni, non aveva mai riunito) venne sciolto. L’isola perse così gli ultimi due «privilegi» che le erano rimasti: quello di battere moneta e quello dell’esenzione dal servizio militare dei suoi abitanti.
Il Regno di Sardegna, lungi dallo scomparire, venne trasferito fisicamente in Piemonte. E in suo nome vennero compiute quelle regie annessioni che portarono al ripudio del nome stesso.
Il re restò re: ma d’Italia. I sardi riottennero così l’uso esclusivo del loro nome ma restarono le prime vittime (le più innocenti e inconsapevoli) del Risorgimento, rischiando seriamente di apparirne i protagonisti.
www.sucuncordu.net
di Sergio Salvi.
Edizioni Camunia. Firenze 1996.
A questo punto ci corre l’obbligo di un risarcimento perlomeno morale nei confronti dei sardi (quelli veri [non quelli del Regno “italiano di Sardegna”, ndr]) e del loro sfortunato regno, istituito una prima volta dall’imperatore nel 1164 e ritagliato su misura per il «giudice» di Arborea, il sardo Barisone: il quale venne sì incoronato ma perse subito la corona poiché non possedeva la somma di 4.000 marchi d’argento (che ne era il prezzo) e non gli riuscì di racimolarla in tempo debito. E, per i sardi almeno, la corona fu persa per sempre.
Il regno venne infatti istituito, una seconda volta, dal papa, nel 1239, col nome di Regnum Sardiniae et Corsicae ma riservato a Enzo, figlio illegittimo di Federico II. Nemmeno Enzo ne entrò mai in possesso. Il titolo venne addirittura restituito, in seguito, a papa Bonifacio VIII che nel 1297, lo concesse al re d’Aragona (purché restituisse la Sicilia agli angioini di Napoli). L’accettazione da parte del re di Aragona fu, all’inizio, soltanto formale: ci vollero molti anni, infatti, perché gli aragonesi si decidessero a sbarcare nell’isola (rinunciando però alla Corsica, che rischiò di finire, come regno separato, nelle mani del granduca di Toscana nel XVI secolo).
I sardi, da tempo in armi contro gli «italiani» (genovesi e pisani), lottarono in seguito accanitamente, per preservare la loro libertà anche contro gli aragonesi. Ma alla fine li accettarono (anche se si ribellarono ancora molte volte). Il regno era del resto una entità politica formalmente sovrana (anche se il re risiedeva a Barcellona), dotata di Parlamento, di moneta, di milizie, di leggi, di tribunali propri (che giudicavano in base al codice della Carta de logu, in lingua sarda, promulgata da Eleonora d’Arborea nel 1388): anche se, a partire salla seconda metà del XV secolo, lingua ufficiale dell’isola diventò il catalano e, subito dopo, il castigliano.
Nel 1718, per effetto del Trattato di Londra, il Regno di Sardegna fu inopinatamente assegnato al duca di Savoia, del Monferrato e di Aosta nonché conte di Nizza e di molti altri luoghi assai meno conosciuti, che aveva regnato per appena cinque anni sulla Sicilia in virtù della Pace di Utrecht (quella che aveva trasferito la Lombardia dalla Spagna all’Austria: 1713). Le isole vennero, insomma, scambiate per i soliti giochi politici tra le grandi potenze.
Il sovrano sabaudo, per non tornare soltanto «duca e conte» e mantenere quindi un titolo regale qualsiasi, acconsentì, sia pure a malincuore, allo scambio. Riuscì però a impossessarsi della sua nuova isola soltanto due anni dopo, grazie alla Pace dell’Aia: e vi mantenne, per qualche tempo, l’autonomia tradizionale compreso lo strapotere dei feudatari spagnoli, limitandosi a esercitare una pressione fiscale crescente.
Poi cominciò a erodere i privilegi del regno e a trattare l’isola come fosse una colonia. Impose l’italiano quale lingua ufficiale nel 1764.
Nel 1793, i francesi sbarcarono nell’isola con l’intento di istituirvi la «Repubblica sarda una e indivisibile». Tra essi c’era il giovane napoleone Buonaparte. Il Parlamento sardo, che non era mai stato riunito dal re sabaudo, si autoconvocò e, obbedendo ai suoi ordini, le milizie sarde ributtarono a mare i francesi. Fiero di questo successo militare, il Parlamento chiese al re, che stava a Torino, di riunirlo almeno una volta ogni dieci anni, di riservargli la nomina dei vescovi nelle diocesi dell’isola, di permettere ai sardi di ricoprire, nella loro patria, le maggiori cariche pubbliche esclusa quella di viceré, di istituire un Ministero per gli affari sardi a Torino e un Consiglio di Stato a Cagliari. Il re rifiutò tutte le proposte.
Il Parlamento ricorse allora, di nuovo, alle proprie milizie, e cacciò dall’isola i rappresentanti del re. Era il 28 aprile 1794.
Per venire a oggi, si dirà che due anni fa, in un soprassalto di orgoglio e di dignità isolani, la Regione autonoma della Sardegna ha dichiarato il 28 aprile Sa die de sa Sardigna («il giorno della Sardegna»), una sorta di 14 luglio ad uso dei sardi.
Torniamo al 1794. Purtroppo, la «rivoluzione sarda» finì presto e male. Coloro che, uniti, avevano cacciato i sabaudi, si divisero subito e si affrontarono in armi. Il leader dei «democratici», l’indipendentista Giovanni Maria Angioi (che voleva istituire la Repubblica sarda), dopo avere sconvolto i tre quarti dell’isola alla testa di un esercito di contadini e di pastori, venne sconfitto dalle milizie speditegli contro dal Parlamento di Cagliari, impaurito dalla sua predicazione sociale e sobillato dai grandi feudatari e dai vescovi tramite i quali si era messo, nel frattempo, in contatto col re (che aveva acconsentito al perdono).
Paradossalmente, nel 1799, cacciato dalla sua Torino da Napoleone, che ne incamerò il tesoro, il re si rifugiò nell’isola dove rimase per dodici anni, a spese di questi suoi sudditi ombrosi ma, in fondo, generosissimi.
I Savoia, una volta rimessi in sella a Torino, dimenticarono ogni gratitudine e ripresero a interferire nelle vicende dell’isola (nel 1815, con la Restaurazione, avevano ottenuto anche la repubblica di Genova e si sentivano sempre più forti). Nel 1820, emanarono l’Editto delle chiudende col quale venne disposta la recinzione, a favore dei proprietari, dei pascoli fino ad allora lasciati liberi per le esigenze dei pastori..
I proprietari si guardarono bene dal coltivare queste tancas («recinti») e le lasciarono, però affidandole a caro prezzo, al godimento (si fa per dire) dei soliti pastori.
Nel 1827, venne abrogata la Carta de logu, il monumento giuridico del popolo sardo, che aveva regolato la vita dell’isola, nella sua lingua materna, per trecentoventinove anni. Caddero di conseguenza anche i diritti allo sfruttamento delle terre comuni da parte dei contadini e dei pastori. Ciò portò alla sanguinosa rivolta detta de su connottu («del conosciuto»).
Nel 1847, alla vigilia della «prima guerra di indipendenza» italiana, una delegazione di notabili sardi, priva di ogni investitura (fosse essa parlamentare o popolare), chiese al re che il regno fosse abolito. Lo fece nell’intento di fruire dei diritti commerciali e fiscali concessi agli «Stati sardi» di terraferma (Savoia, Aosta, Piemonte, Nizza e Genova) e dai quali l’isola era stata esclusa.
Carlo Alberto accettò di buon grado. Con una vera e propria rapina giuridica, che prese il nome di «fusione perfetta», il Parlamento di Cagliari (che il re, in centotrenta anni, non aveva mai riunito) venne sciolto. L’isola perse così gli ultimi due «privilegi» che le erano rimasti: quello di battere moneta e quello dell’esenzione dal servizio militare dei suoi abitanti.
Il Regno di Sardegna, lungi dallo scomparire, venne trasferito fisicamente in Piemonte. E in suo nome vennero compiute quelle regie annessioni che portarono al ripudio del nome stesso.
Il re restò re: ma d’Italia. I sardi riottennero così l’uso esclusivo del loro nome ma restarono le prime vittime (le più innocenti e inconsapevoli) del Risorgimento, rischiando seriamente di apparirne i protagonisti.
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