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Visualizza Versione Completa : 11 giugno 1984 11 giugno 2002 - Per Enrico



Claudio (POL)
09-06-02, 23:54
http://www.cronologia.it/storia/a1970f.jpg


A 18 anni dalla sua morte è ancora viva la sensazione di quell'estate calda, di quel dolore grande e strano. Strano perché il dolore, quello vero e forte, è di solito un sentimento terribilmente riservato e personale. Invece, quel giorno, in quella Roma torrida, milioni di persone vivevano la stessa angoscia, lo stesso dolore. Bisogna vincere l’emozione per parlare di Enrico Berlinguer. E’ un’emozione grande, un’emozione che ha radici profonde. La sua umanità, la sua franchezza, il suo rigore, la sua modestia e la sua discrezione sono connotati che oggi fanno a pugni con le immagini ricorrenti di arroganza, astuzia, presunzione e ostentazione del potere cui siamo ormai abituati. La trasparenza e l’onestà della sua vita privata e pubblica hanno avuto un rilievo eccezionale nella vita politica del nostro paese. Molti hanno parlato della sua coerenza, del suo impegno e della fedeltà verso i propri ideai. E’ giusto e non si poteva fare diversamente. Io vorrei ricordare un’altra cosa, la sua capacità, spesso geniale, di cambiare idee e politica quando questo gli appariva necessario per la classe operaia e per il paese che si sentiva di rappresentare. Per fare questo occorreva un forte coraggio, una ferma convinzione di essere nel giusto. Questa forza Berlinguer l’ha avuta. L’ha avuta col compromesso storico, l’ha avuta quando ha abbandonato quella linea, l’ha avuta con lo strappo cercando una via diversa dallo stalinismo. Quella forza, quel modello, quella capacità di cambiare è l’eredità che ci ha lasciato e che deve continuare a vivere. Se una così grande parte degli italiani, indipendentemente dalle loro posizioni politiche, pensa ancora oggi con dolore e tenerezza alla sua morte, questo nasce dal modello umano e politico che ci ha offerto, da una dignità politica diversa. Nei giorni successivi alla sua morte, Benigni, ricordando la sua leggerezza nel prenderlo in braccio, era sicuro di accendere la televisione e di vederselo apparire con una colorata camicia hawaiana … era e rimane solo un sogno, ma è bello pensarlo! Ciao Enrico.

Claudio.

Roderigo
11-06-02, 09:41
La questione morale:

«I partiti sono diventati macchine di potere»



«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.

Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981

Roderigo
11-06-02, 09:43
Marx, Lenin, l'Est, la spinta che non c'è più


Quello che mi pare si possa dire in linea generale -forse su questo tema potremo tornare- è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell'est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d'inizio nella rivoluzione socialista d'ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l'emancipazione nonché a una serie di conquiste.

Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell'est possa conoscere una nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che prosegua il processo della distensione, perché è chiaro che l'inasprimento della tensione internazionale, la corsa agli armamenti portano all'irrigidimento dei vari regimi, compresi quei regimi; inoltre, è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell'ovest dell'Europa, nell'Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia. Si tratta, in sostanza, della politica, della strategia, dell'ispirazione fondamentale del nostro partito, che ricevono da quei fatti una nuova conferma.

Turone: Non le sembra in questa risposta di avvertire l'eco quasi storica di una felice eresia, a mio giudizio? Lei dice che la capacità di propulsione e di rinnovamento delle società dell'est europeo si è andata esaurendo; si chiude un ciclo. Ora, io vorrei sapere perché si chiude questo ciclo. Solo perché ci sono stati errori o anche perché forse c'è qualcosa che non funzionava nell'ideologia? Mi sembra di ricordare che nel documento già citato ci fosse una frase, quella sulla necessaria indissolubilità fra democrazia e socialismo, richiamata adesso da lei, che, sotto il profilo dell'ortodossia leninista, è veramente, felicemente eretica. Possiamo dedurne che il PCI, il quale è all'avanguardia nella coraggiosa opera di revisione in corso in campo comunista, ha finalmente messo in soffitta accanto a zio Stalin anche babbo Lenin?

Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità, e che vi sia poi, d'altra parte, tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che sono ormai caduti, che debbono essere abbandonati con gli sviluppi nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, che si concentra su un tema che non era il tema centrale dell'opera di Lenin.

Il tema su cui noi ci concentriamo è quello della via al socialismo e dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche quali sono le società dell'occidente europeo. È chiaro che l'esplorazione di vie verso il socialismo, in questa parte dell'Europa e del mondo, richiede soluzioni del tutto originali, rispetto a quelle che si sono attuate nell'Unione Sovietica e che poi si sono via via attuate negli altri paesi dell'est, sia europeo sia asiatico.

Da questo punto di vista, noi consideriamo l'esperienza storica del movimento socialista, nel suo complesso, nelle sue due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione di partiti comunisti nell'est europeo. Ognuna di queste esperienze ha dato i suoi frutti all'avanzata del movimento operaio, ma entrambe vanno considerate criticamente con nuove formule, con nuove soluzioni, con quella, cioè, che noi chiamiamo terza via, la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell'est europeo. Si tratta di una ricerca nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia, dove questo stesso tema viene discusso e approfondito.

Nichols: Vorrei parlare della crisi polacca, però allargando un pochettino le cose per parlare della crisi più generale che abbiamo in Europa. Il papa sta facendo, come sappiamo, molti passi e molti interventi sempre interessanti in questo campo. Lo ha fatto per molto tempo, lo sta facendo adesso. Nel campo della pace -diciamo- e nel campo dell'unità dell'Europa orientale e occidentale. Dànno fastidio questi passi ai comunisti, o sono ben visti da voi?

Tutt'altro. Io penso che le parole che soprattutto in questi ultimi tempi il papa ha pronunciato in modo chiaro per condannare la corsa agli armamenti e, in particolare, la corsa verso nuove armi atomiche, siano delle parole giuste, che dànno ascolto ed espressione alla volontà di milioni e milioni di credenti che hanno manifestato insieme a noi, o in forme autonome, nel corso di questi ultimi mesi, in Italia e in altri paesi europei.

Valuto soprattutto in modo positivo la più recente iniziativa presa dal papa, che non è più soltanto un appello alla pace. Il papa, come è noto, ha inviato suoi rappresentanti, scelti tra i membri della Pontificia Accademia delle Scienze, per illustrare ai rappresentanti delle massime potenze -Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Inghilterra- uno studio compiuto dalla stessa Pontificia Accademia delle Scienze sulle conseguenze di un conflitto atomico, affinché tutti ricavino, da questo studio e dai terribili disastri addirittura di proprozioni catastrofiche per tutta l'umanità che ne deriverebbero, le dovute conseguenze.

Non soltanto occorre subito arrestare ogni passo nuovo verso la corsa agli armamenti, ma occorre lavorare per la messa al bando delle armi atomiche. Questa è anche la nostra posizione e la posizione di numerosi Stati. È la stessa posizione che si è espressa potentemente nei movimenti della pace che si sono avuti in questo ultimo periodo quasi in contemporaneità, ed è un fatto nuovo di estrema importanza, in numerose capitali europee.

Noi pensiamo che si tratti di un movimento che coinvolge un insieme di forze: Stati, governi, movimenti popolari, Chiesa cattolica e altre chiese, e che premerà in questo senso. Ci sarà effettivamente la prospettiva di porre un termine a questa corsa che non posso giudicare altro che una follia.

Nichols: E sull'Europa orientale?

Il papa ha espresso un concetto che, dal punto di vista generale, è valido: l'Europa ha una sua unità, una sua civiltà comune. I popoli europei, indipendentemente dai loro regimi sociali e politici, debbono avvicinarsi, debbono comunicare maggiormente fra loro, debbono comprendersi. Anche questo è un concetto che non ci è estraneo, anche se noi lo esprimiamo e lo manifestiamo in forme e con iniziative diverse.

Dalla conferenza stampa televisiva del 15 dicembre 1981, dopo la presa del potere del generale Jaruzelski in Polonia

Roderigo
11-06-02, 09:45
http://www.mclink.it/comunit/contesti59/somm59.htm

Tovarish
11-06-02, 19:01
Voi revisionisti ex-figgicciotti adorate pure il marchese Berlinguer, noi abbiamo il presidente Mao-Tse Tung!!:p :p