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Der Wehrwolf
14-06-02, 20:57
http://utenti.lycos.it/armeria/Giantulli.htm

Der Wehrwolf
14-06-02, 20:58
http://www.grandeoriente.it/riviste/Hiram/indicegenerale.htm

Der Wehrwolf
14-06-02, 21:00
http://www.riccati.it/risorgi/sette.htm

Dopo il 1815 agli intellettuali e ai borghesi seguaci delle nuove idee non restava, contro la severa persecuzione degli organi di polizia, che la cospirazione nell'ambito delle società segrete. Molte di esse, per la verità esistevano già prima del 1815, ma solo in seguito ebbero una grande diffusione: il clima di Restaurazione costituì infatti un terreno adatto per la congiura, in quanto coloro che intendevano battersi per una società di cittadini liberi erano costretti a riunirsi di nascosto per evitare di essere scoperti e perseguitati. Le società segrete, che ebbero maggiore fortuna, furono la Massoneria e la Carboneria.



LA MASSONERIA
Misteriose e antichissime sono le origine della Massoneria, la cui denominazione originale in italiano è Libera Muratoria (in francese Franc-Maçon). Le origini più probabili ci riportano alle corporazioni dei maestri comacini, dei costruttori di cattedrali, alle associazioni artigiane gerarchicamente strutturate (apprendista, compagno, maestro), che conservano gelosamente i segreti del mestiere. Fra le varie associazioni medievali, fra quelle meglio organizzate era senza dubbio quella dei muratori. Essa sopravvisse soprattutto in Inghilterra, dove, com'era d'uso, entrarono a far parte dell'associazione anche membri estranei all'arte muratoria, soprattutto nobili ed intellettuali, la cui presenza era "accettata" e gradita per la protezione, il prestigio e gli aiuti che potevano fornire alla corporazione. Col tempo, nel generale decadere delle corporazioni artigiane, i "liberi muratori accettati" finirono per prevalere anche come numero su quelli esercitanti il mestiere.

Le riunioni si svolgevano nella "loggia", la capanna in cui si riunivano gli operai e i tecnici, ma nel 1717, a Londra, quattro di queste logge si fusero insieme, dando vita alla Grande Loggia di Londra e abbandonando definitivamente ogni carattere di associazione di mestiere. Da questo momento la Libera Muratoria da operativa si trasformò in speculativa, assumendo l'aspetto di un'associazione chiusa e segreta, praticante determinate attività, anche civili e sociali.

La caratteristica ideologica, in questa prima fase, consistette in una comune e aperta professione di fede cristiana. Della vecchia associazione di mestiere furono conservate le caratteristiche dei tre gradi di apprendista, compagno e maestro e il rituale mantenne il simbolismo delle antiche confraternite; la trasformazione del profano venne descritta come la trasformazione della "pietra grezza" in "pietra cubica"; tra i vari simboli figurò il martello, insegna del maestro venerabile che presiedeva le riunioni e le cerimonie della loggia.

In Italia la setta si diffuse dal 1730, a Roma, a Firenze, a Venezia, a Milano e in altre città ancora. Ma in Italia, e in generale nei paesi cattolici, la Massoneria dovette affrontare l'avversione della Chiesa, che non ammetteva deviazione dai suoi dogmi e fulminò contro la società una serie di scomuniche periodicamente rinnovate.

Nella seconda metà del '700 la Massoneria era conosciuta in tutto il continente europeo e divenne così strumento di diffusione delle idee illuministe. In Italia, durante gli anni della restaurazione e delle cospirazioni risorgimentali, la Massoneria fu quasi del tutto assente ma è assai probabile che fossero derivazioni e filiazioni della Massoneria le società segrete (come quella dei carbonari e degli adelfi) che s'impegnarono nella lotta per l'indipendenza e la libertà. Di sicuro gli iscritti a queste sette patriottiche erano, nella quasi totalità dei casi, affiliati anche alla Libera Muratoria.

Negli anni successivi ed immediatamente precedenti all'Unità, molti uomini politici e soprattutto capi del movimento democratico italiano diedero la loro adesione alla Massoneria: basti fare i nomi di Crispi e Garibaldi. Nella seconda metà del seccolo XIX, negli stati cattolici, e prevalentemente in Italia e in Francia, la Massoneria assunse un decisivo carattere materialista, democratico e anticlericale.

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LA CARBONERIA
Nel regno di Napoli, intorno al 1810, alcuni ufficiali francesi dell'esercito di Murat si staccarono dalla Massoneria e dettero vita ad un'altra associazione segreta di tipo settario: la Carboneria. Diffusasi rapidamente nel resto d'Italia, in Francia e in Spagna, fu la principale causa di inquietudine dei governi fino al 1830 e la più importante fra le varie organizzazioni dello stesso tipo che nacquero allora.

Le radici della Carboneria napoletana vanno ricercate fuori dalla penisola italiana e precisamente in Francia. Risale alla seconda metà del 1700 l'esistenza dei Charbonniers (Società dei Buoni Cugini), strumento operativo e reazionario della più famosa Filadelphia. E' molto probabile che alcuni Filadelfi francesi, venuti nel Regno di Napoli, come funzionari o ufficiali dell'esercito, ed incontratisi con gli oppositori del regime in nome dei princìpi giacobini, abbiano suggerito l'idea dei Charbonniers. E' probabile che fra i Filadelfi vi fosse Joseph Briot, ex seguace di Babeuf e sono in molti ad attribuire la paternità della Carboneria a Briot e Babeuf. Una volta organizzatisi questi Carbonari napoletani, strinsero relazioni con gli inglesi per ricevere aiuti economici nella lotta contro il dominio di Murat e del Bonaparte. Sebbene la denominazione provenga dalla Francia e gli aiuti economici dall'Inghilterra, è chiaro che le origini della Carboneria siano da ricercarsi nel movimento giacobino napoletano (che a sua volta deriva dai massoni illuminati).

I membri della Carboneria erano soprattutto ufficiali, aristocratici, intellettuali, membri della borghesia illuminata e liberale. La struttura era regolata rigidamente dall'alto, il comportamento doveva essere ispirato alle regole della massima segretezza. Sia per ragioni di segretezza sia per il gusto del travestimento e del vocabolario cifrato, si fece ricorso a nomi ed espressioni tipici di uno dei più antichi e miseri mestieri del popolo: appunto quello dei carbonari . Un mestiere come quello dei carbonari si prestava d'altronde abbastanza bene: chi lo praticava doveva spostarsi continuamente dovunque ci fosse legname da trasformare in carbone. Inoltre si trattava di un'attività piuttosto diffusa, soprattutto nel meridione d'Italia. Ecco dunque i cospiratori politici camuffarsi da carbonari.

La loro organizzazione è diretta dal centro, da una "grande vendita" di cui fanno parte pochi membri. Gli ordini vengono trasmessi da questa a varie "baracche" o "vendite locali", composte di venti affiliati, detti anche "cugini". I "cugini", all'atto della loro entrata nella Carboneria, sono detti "apprendisti" e conoscono solo in parte la struttura e gli scopi dell'organizzazione. Dopo un periodo di prova, entrano a far parte del grado superiore, diventando "maestri" (anche questi termini derivano dall'organizzazione corporativa del lavoro di origine medievale).

Nella Carboneria vige il gradualismo (già presente nella loggia illuminata), per cui il programma dell'associazione veniva rivelato solo gradualmente all'adepto via via che dai superiori era ritenuto degno di essere iniziato ai segreti. Questa gradualità non era dovuta solamente alla necessità di mantenere la segretezza ma aveva principlamente una funzione di iniziazione pedagogica. Di solito la Carboneria era divisa in tre gradi: apprendista, maestro e gran maestro.

Nel primo grado si professava genericamente alcuni princìpi umanitari, impostati sulla morale e sulla religione tradizionale.
Nel secondo si parlava di costituzione, d'indipendenza e di libertà.
Nel terzo si proclamava l'aspirazione a creare una repubblica ed un regime di eguaglianza sociale, che comportasse la spartizione delle terra e la promulgazione della legge agraria.
Il loro obiettivo era, in generale, la conquista di una costituzione; ma nell'Italia settentrionale - il Lombardo-Veneto - si lottava anche per la conquista dell'indipendenza dalla dominazione austriaca; nello Stato Pontificio si chiedeva, invece, un governo laico dopo tanti anni di malgoverno ecclesiastico; i carbonari della Sicilia esigevano che l'isola diventasse uno Stato separato da quello di Napoli contrariamente a quelli di Napoli che volevano tenerla unita al regno.

La Carboneria aveva due grandi difetti: la mancanza di un'organizzazione centrale, capace appunto di collegare fra loro le diverse iniziative regionali secondo criteri unitari e organici e il carattere misterioso dell'associazione i cui membri ignoravano talora persino i programmi e l'identità dei loro capi e dovevano spesso sottoporsi a riti strani ed incomprensibili. Inoltre, l'origine degli associati faceva della Carboneria un'associazione troppo chiusa e ristretta per poter formulare vasti programmi a carattere nazionale. L'assenza delle classi popolari fu infatti una delle principali cause degli insuccessi, ai quali fra il 1821 e il 1831 andarono incontro i moti carbonari in Italia.



ALTRE ASSOCIAZIONI SEGRETE
La Carboneria fu la più importante e diffusa fra le sette italiane ed europee dell'epoca; ma non fu la sola. Altre nacquero dalla incessante attività di un rivoluzionario di professione: Filippo Buonarroti. Caratteristica delle sette da lui create e organizzate era l'esistenza di un terzo livello rispetto ai due già preesistenti nella Carboneria. Al terzo livello di iniziazione arrivavano solo pochissimi, i più fidati e preparati, i quali erano anche i soli a sapere che, obiettivi ultimi dell'organizzazione, oltre alla conquista della costituzione (1° livello) e della forma repubblicana di governo (2° livello), erano l'uguaglianza sociale e la comunità dei beni, da raggiungere per mezzo di una legge agraria che mettesse in comune il godimento dei beni e la proprietà delle terre.

Tutta Europa conobbe allora forme di organizzazione e di lotta politica di questo tipo: in Russia, le due Società detta l'una del Nord e l'altra del Sud; in Francia, la Carboneria, gli Adelfi e i Filadelfi; in Grecia la Eteria; in Spagna, i Carbonari, i Massoni, i Comuneros. Queste associazioni operavano in segreto ma avevano tra di loro contatti e canali di comunicazione. Potevano così organizzare moti e insurrezioni contemporaneamente in diversi stati come avvenne nel 1820.

Non c'erano solo sette organizzate per affermare nella società le idee liberali e quelle democratiche radicali. Anche coloro che volevano combattere fino in fondo le conseguenze della Rivoluzione francese e dell'Illuminismo si organizzarono in società segrete. Già in Francia, negli anni della Rivoluzione, c'erano state organizzazioni di questo genere. Anche in Italia si diffusero negli anni della Restaurazione società segrete dello stesso genere. Si conoscono vari nomi: i Calderari, che operavano nel Regno delle Due Sicilie, le Amicizie Cristiane, di ispirazione cattolico-rivoluzionaria, i Cavalieri della Fede attivi in Francia. A differenza delle sette rivoluzionarie quelle reazionarie si servirono del segreto solo per combattere meglio i progressi delle idee liberali e democratiche nella società; esse lavoravano al servizio della polizia, del clero e dei governi e ne ottennero mezzi e protezione.

Der Wehrwolf
14-06-02, 21:02
http://www.augustea.it/dgabriele/italiano/s_risorgimento2.htm

Risorgimento Massonico?
di Angela Pellicciari

L'articolo Risorgimento: una guerra civile tra cattolici & massoni, di Angela Pellicciari, è stato largamente ripreso dai giornali (Corriere della Sera, La Stampa, ecc.). Il Tempo gli ha dedicato un'intera pagina con un intervento di Giuseppe Talamo e un'intervista con Gabriele De Rosa. L'autrice, anche in risposta ai critici, qui ribadisce e amplia gli argomenti addotti.

"Vi fu, o signori, un tempo di corruzione, di decadimento, di barbarie, in cui poté credersi virtù evangelica il ritirarsi dal guasto secolo all'ombra d'un romito chiostro. Ma ora, o signori, quei tempi sono trascorsi. Ora non è più sotto un bianco o bigio mantello che si serve il vangelo. E noi intanto osiamo consumare così preziosi giorni ad argomentare, a distinguere, a sottilizzare per sapere quale diversità esista tra un gesuita, un gesuitante, un gesuitino, un gesuitastro"; "Io voterò per quanti più oblati, e paolini, e monaci, e frati di tutti i generi e di tutti i colori vorrà abolire la Camera".
A parlare così è Angelo Brofferio, scrittore benemerito di casa Savoia (Carlo Alberto lo prega di mettere la sua penna al servizio della causa nazionale, Vittorio Emanuele II lo incarica di scrivere la storia del Parlamento subalpino), in un intervento pronunciato alla Camera dei deputati il 19 luglio 1848, mentre è in discussione il provvedimento di soppressione di Gesuiti e ordini affini, genericamente definiti "gesuitanti".

Angelo Brofferio, dunque: come è potuto finire nel Parlamento di uno Stato ufficialmente cattolico un uomo così profondamente anticattolico?

Ce lo racconta Roberto D'Azeglio, fratello del più noto Massimo, scrivendo al figlio Emanuele, diplomatico: "Da informazioni sicure siam fatti certi come a Busca e Caraglio per allettare i paesani a votare Brofferio si faceva loro credere che era un uomo eminentemente religioso, assiduo ai sacramenti, amico della pace e dell'ordine, nemico della repubblica e il più perfetto onest'uomo del paese perseguitato per causa della sua pietà e del suo realismo" [Cfr C. D'AZEGLIO, Souvenirs historiques de la marquise Costance D'Azeglio, Torino 1884, pp. 380-381].

Questo piccolo fatto, tutt'altro che isolato, è esemplare ed emblematico: il Risorgimento è stato realizzato anche facendo sistematico uso di propaganda menzognera, diffusa ad arte tra la popolazione cattolica, ingenua e credulona.

Vecchie polemiche che rispolverano tesi ultraconservatrici: così è stato definito l'articolo comparso nel numero di luglio/agosto. Vecchie polemiche? Per spiegare che così non è, bisogna richiamare alla memoria quanto stampa, libri di testo e saggi storiografici hanno da tempo smesso di raccontare. Si tratta di ricordare perché la Massoneria ha voluto la scomparsa dello Stato della Chiesa (e di conseguenza l'unità della penisola) e la riduzione di Roma da caput mundi a caput Italiae. L'unico modo per farlo è analizzare le fonti dell'epoca.

La visione del mondo della massoneria ottocentesca (se e in che misura questa sia cambiata è questione che qui non interessa) è interamente costruita intorno a due presupposti. Il primo è che la Rivelazione non esiste: rifiutando la Rivelazione i massoni ritengono spetti all'uomo in totale autonomia e col solo aiuto della ragione stabilire quali siano le leggi della morale e del vivere civile. Questo è anzi il compito che i massoni ritengono loro proprio ed esclusivo: ancora il 10 febbraio 1996 una pagina intera di pubblicità sul Corriere della Sera ricorda che i massoni "hanno la responsabilità morale e materiale di essere guida di altri uomini".

Il secondo presupposto è che la natura dell'uomo (della specie umana, non del singolo) è costantemente perfettibile: si tratta del mito del Progresso che induce a ritenere possibile il raggiungimento su questa terra della felicità (il diritto alla felicità tanto solennemente iscritto nella Costituzione americana) conseguito attraverso il pieno sviluppo di tutte le potenzialità umane.

Una strana tolleranza

La massoneria ritiene dunque possibile raggiungere la tangenza uomo-dio con le sole forze della ragione, e cioè per natura, mentre nega che per partecipare alla natura divina ci sia bisogno della grazia, concessa da Dio per i meriti di Suo Figlio Gesù Cristo a coloro che si pentono e si convertono. Gli aspetti di satanismo che colorano tante posizioni massoniche derivano da questa convinzione: nel Libro della Genesi quando Satana si rivolge a Eva lo fa per insinuarle il desiderio di diventare Dio come se ciò fosse possibile in forza di un semplice atto di volontà: "Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio" (Gn 3, 5). Tanto per restare in Italia, è in questo contesto teorico che Giosuè Carducci compone l'Inno a Satana ("Salute, o Satana, \ O ribellione, \ O forza vindice \ De la ragione! ").

Dal momento che la massoneria ritiene suo compito specifico tracciare la distinzione tra bene e male, quale ruolo attribuisce alle religioni positive? Praticamente nessuno. Le ritiene tutte superstizioni locali buone per il volgo, utili solo ancora per qualche tempo: il tempo necessario perché tutti gli uomini imparino a usare la ragione e cioè diventino massoni. Il luminare della massoneria francese J. M. Ragon che scrive con l'esplicita approvazione del Grande Oriente di Francia, sostiene che la massoneria apre i suoi templi agli uomini "per liberarli dai pregiudizi dei loro paesi o dagli errori delle religioni dei loro padri" e afferma che l'Ordine "non riceve la legge ma la stabilisce (elle ne reçoit pas la loi, elle la donne) dal momento che la sua morale, una ed immutabile, è più estesa e più universale di quelle delle religioni native, sempre esclusive" [Cfr Cours philosophique et interprétatif des initiations anciennes e modernes, Parigi 1853, pp. 18, 38].
La massoneria italiana è perfettamente allineata su questa posizione. La Costituente che si riunisce nel maggio del 1863, dopo aver precisato che la massoneria "non prescrive nessuna professione particolare di fede religiosa, e non esclude se non le credenze che imponessero l'intolleranza delle credenze altrui", precisa (art. 3) che i princìpi massonici debbono gradualmente divenire "legge effettiva e suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile" e specifica (art. 8) che fine ultimo dell'Ordine è "raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l'autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell'Umanità" [Cfr L. PARASCANDOLO, La Framassoneria, IV, Napoli 1869, p. 120].
La convinzione che tutte le religioni debbano col tempo cedere il passo alla verità (quella che la massoneria definisce tale), viene espressa dall'Ordine con la magica parola di tolleranza. Definendo se stessa tollerante e pacifica, la massoneria definisce intolleranti e violenti coloro che massoni non sono né vogliono diventare ("Non esclude se non le credenze che imponessero l'intolleranza delle credenze altrui").

Se questo è il discrimine tra tolleranza e intolleranza è chiaro che l'istituzione più intollerante di tutte è la Chiesa cattolica: la Chiesa afferma infatti di possedere la verità e di possederla per intero grazie a un intervento esplicito e definitivo di Dio. Afferma per di più (Pio IX sa quello che fa quando proclama il dogma dell'infallibilità pontificia nel 1870) che il papa, vicario di Cristo, quando si esprime in materia di fede e di morale lo fa in termini buoni in assoluto, perché perfetti e veri.

Con la sua stessa presenza, insomma, la Chiesa cattolica è la negazione della bontà e verità (nonché praticabilità) del credo massonico. È chiaro pertanto che, al di là delle parole, il papa e la Chiesa sono i nemici naturali e mortali di ogni massone: "La massoneria avrà la gloria di debellare l'idea terribile del papato, piantandovi sulla fossa il suo vessillo secolare - verità, amore" [Cfr Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in Italia, 1869, p 328].

Mobilitazione internazionale

L'appoggio internazionale all'unificazione italiana (appoggio che non consiste solo nella copertura politica data ai Savoia, ma anche in concretissimi prestiti e ingenti fondi investiti nell'impresa) è da vedersi principalmente in relazione all'obiettivo prioritario della massoneria: la lotta al papato romano e quindi, nella convinzione che la fine del potere temporale avrebbe fatalmente comportato anche quella del potere spirituale, la guerra allo Stato della Chiesa. Il Bollettino esprime questa realtà con molta chiarezza nell'aprile del 1865: "Le nazioni riconoscevano nell'Italia il diritto di esistere come nazione in quanto che le affidavano l'altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la massoneria si propone; al quale da secoli lavora, attraverso ogni genere di ostacoli e di pericoli".

"A Roma sta il gran nemico della luce. Lo attaccarlo ivi di fronte, direi quasi a corpo a corpo, è dover nostro" [Cfr Gran Maestro Mazzoni, Rivista della Massoneria Italiana, 1872, n 1]: dall'attacco alla Roma pontificia la comunione massonica italiana si ripropone, oltre all'obiettivo comune a tutto l'ordine, il raggiungimento di un suo fine particolare. I massoni italiani si ripromettono infatti di far risorgere la potenza e la forza della Roma pagana e imperiale: è il mito della Terza Roma tanto cara a Mazzini (da questo punto di vista Mussolini trova il terreno ben preparato). Ma lasciamo la parola alla Rivista dell'Ordine: "Il sodalizio massonico in Italia ha combattuto accanitamente e quasi debellato con le armi della ragione, la parte degenere ed imputridita del cristianesimo, ed ha molto cooperato a tagliare le unghie sanguinose alla immonda arpia, che della città più grande e più gloriosa del mondo avea fatto semenzaio di superstizione e propugnacolo contro ad ogni umano incivilimento"; "Facciamo sì che dalla Eterna Città nostra la luce si diffonda per l'Universo, che il mondo ammiri a canto del nero ed avvilito Gesuita, il libero gigante potere della massoneria" [Cfr Rivista della Massoneria Italiana, 1872, n. 1 e n. 3].

Il credo ideologico della massoneria che abbiamo ricordato, è essenziale per capire la storia italiana degli ultimi duecento anni. Per realizzare il suo programma, la massoneria deve infatti neutralizzare la resistenza dei cattolici.

Come evitare che i cattolici di tutto il mondo insorgano in difesa dello Stato della Chiesa che da più di un millennio difende il papa dalla prepotenza di prìncipi e sovrani ed è l'orgoglio e il gioiello di tutta la cristianità? Per scongiurare questo pericolo la massoneria organizza una più che decennale campagna internazionale basata sull'uso sistematico della calunnia e della menzogna in cui dipinge lo Stato della Chiesa come il più sanguinario, retrogrado e mal amministrato di tutta la terra. Contro ogni ragionevolezza e contro ogni verità storica, l'Ordine cerca di convincere i cattolici che la semplice esistenza di uno Stato pontificio è contraria all'insegnamento di Cristo, vissuto povero e morto in croce, e assicura che rinunciando alla sua visibilità (dal momento che non siamo puri spiriti ciò equivale alla rinuncia all'esistenza) la Chiesa avrebbe guadagnato in spiritualità e purezza.
In questa campagna anticristiana un posto di rilievo spetta, in Italia, a Massimo D'Azeglio. D'Azeglio parla da cattolico e può indirizzarsi ai "cattolici più devoti" senza suscitarne la diffidenza ("In Italia e fuori d'Italia, non solo i protestanti ed altri avversari di Roma ma gli stessi cattolici più a lei devoti e gli stessi preti, ove non sien mossi da private passioni, si spogliano di ogni stima del principato temporale del papa, lo predicano dannoso alla fede e alla religione, lo vorrebbero o tolto affatto o ristretto almeno in brevi confini"). Calunniatore dell'amministrazione pontificia che denuncia pessima davanti al mondo intero, arriva a mettere in discussione la legittimità dell'esistenza dello Stato della Chiesa (di gran lunga il più antico stato dell'Occidente e quindi di gran lunga il più legittimato a esistere) con motivazioni di questo tipo: "Se il papa è divenuto principe per le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, della contessa Matilde e d'altri, perché è stato tenuto perciò principe legittimo? Perché l'universale consentiva nel creder legittimo questo modo d'acquistare, nel credere quelli che donavano legittimi possessori della cosa donata; e si comprende che se l'universale avesse creduto tutto l'opposto, non solamente questo acquisto, questo principato, non sarebbe potuto durare, ma neppure sarebbe venuto in mente né agli uni di concederlo né agli altri di accettarlo. Ma le età sono mutate [...]. Si deve dunque riconoscere che l'idea sulla quale posava la legittimità del principato ecclesiastico, come di tant'altri, più non esiste [...]. Le nuove fondamenta, le sole, sulle quali ormai egli possa reggersi, sono nel diritto ammesso dal consenso universale, nel diritto comune" [Cfr M. D'AZEGLIO, Degli ultimi casi di Romagna, in Raccolta degli scritti politici, Torino 1850, pp. 59-60].

La massoneria, dunque, dipinge lo Stato della Chiesa come luogo di rapina, di barbarie e di violenza (dimenticando che si tratta dell'unico stato al mondo a non avere la violenza come madre perché non è frutto di conquista) e si contrappone alla Chiesa anche a questo riguardo presentandosi come l'incarnazione della benevolenza, della mitezza, della fratellanza, del desiderio di pace. Ecco come il Bollettino descrive la natura dell'Ordine: "Ha pigliato essere e modi dolci, qualità e tendenze naturali dell'uomo, onde fraternità e benessere universale sono le sue basi. Proclamando ed attuando questi principi essa conduce l'umanità sulla via del perfezionamento segnatole dalla Provvidenza" [Cfr Bollettino del Grande Oriente Italiano, 1863, n. 9].

Non è cambiata

La storia degli ultimi tre secoli dimostra quale fondatezza abbia una simile convinzione. Mi limito qui con un esempio a ricordare con quale dolcezza sia stata unificata la penisola italiana. Il 3 febbraio 1861, mentre viene ultimata la conquista dello Stato della Chiesa, il generale Pinelli (comandante la colonna mobile degli Abruzzi e dell'Ascolano) detta il seguente proclama: "Un branco di quella progenie di ladroni ancor s'annida fra i monti; correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino [...] sono i prezzolati scherani del Vicario non di Cristo, ma di Satana"; "Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotale vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall'immonda sua bava, e da quella cenere sorgerà più rigogliosa la libertà anche per la nobile provincia Ascolana".

Nonostante l'evidenza dei fatti, la leggenda della Chiesa intollerante e sanguinaria ha vinto la barriera del tempo e si è trasmessa di generazione in generazione fino al nostro secolo. Mentre conversa amabilmente con i suoi ospiti all'ora di pranzo, Adolf Hitler sostiene: "La nostra società attuale è più umana di quanto non lo sia mai stata la Chiesa. Noi obbediamo al comandamento "non uccidere" limitandoci a mandare a morte l'assassino. La Chiesa, invece, fin quando ne ha avuto il potere, ha torturato nel più orribile dei modi i corpi delle sue vittime". Ancora: "Il cristianesimo promulga i suoi dogmi inconsistenti e li impone con la forza. Una simile religione porta con sé l'intolleranza e la persecuzione. Non ce n'è di più sanguinose". Infine l'auspicio: "È verosimile, per quanto concerne la religione, che stiamo per entrare in un’era di tolleranza [...]. La nostra epoca vedrà indubbiamente la fine della malattia cristiana [...]. Noi entriamo in una concezione del mondo che sarà un’era soleggiata, un’era di tolleranza" [Cfr A. HITLER, Idee sul destino del mondo, edizioni di Ar, 1980, II, pp. 282, 300-301, 367].

"Vecchie polemiche ultraconservatrici": i liberali fanno il loro mestiere e oggi come ieri raccontano la stessa versione dei fatti. Niente di nuovo sotto il sole.

La novità è semmai che oggi i liberali non sono più soli. A ripetere il loro ritornello si sono aggiunti gli storici cattolici. "È una polemica del passato, che senso ha riproporla oggi?", "Oggi la massoneria è tutt'altra cosa. Ci sono state profonde trasformazioni. E non ha alcun senso ingaggiare una simile e inutile battaglia": questa l'opinione di Gabriele De rosa su Il Tempo del 14 agosto.

Oggi la massoneria è cambiata? La voce Massoneria di una delle più diffuse enciclopedie mondiali su dischetto (The 1995 Grolier Multimedia Encyclopedia), dopo aver ricordato che in passato l'Istituzione è stata aspramente combattuta dalla Chiesa cattolica, specifica: "A papal ban on Roman Catholic membership in Masonic lodges was rescinded in 1983" (il divieto per i cattolici di far parte di logge massoniche è stato cancellato nel 1983). Che nel 1983 la Chiesa torni a pronunciarsi sulla massoneria (i pronunciamenti di condanna di questa istituzione sono centinaia), è vero. Che lo faccia per annullare il divieto di affiliazione, è falso.

"Rimane immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche [...] e perciò l'iscrizione ad esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa comunione": questa la dichiarazione emessa il 26 novembre 1983 dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Più che la massoneria a essere cambiati sembrano, e lo sono, molti cattolici. O, meglio: alcuni storici cattolici.

Der Wehrwolf
14-06-02, 21:03
http://www.augustea.it/dgabriele/italiano/s_risorgimento1.htm

Una guerra civile tra cattolici & massoni
di Angela Pellicciari

"L'Italia è l'unico Paese d'Europa (e non solo dell'area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale. L'incompatibilità tra patria e religione, tra Stato e cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale": così scrive Ernesto Galli della Loggia. L'unità d'Italia, a suo giudizio, è il frutto di una guerra civile, un'"autentica" guerra civile, combattuta tra cattolici e non cattolici. Guerra che è stata dimenticata, perché "non poteva che essere rimossa, restare non detta e non dicibile" [Cfr E. GALLI DELLA LOGGIA, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in "Il Mulino", n. 349, Bologna 1993 pp. 855-866].
Una guerra civile a fondamento dello Stato unitario?

A cominciare da Pio IX e Leone XIII nel secolo scorso, l'opinione di Galli della Loggia è ampiamente condivisa dai cattolici. I Pontefici (diretti testimoni dei fatti del Risorgimento nazionale) lo ripetono in numerosi pronunciamenti ufficiali: l'unità d'Italia è il risultato della guerra scatenata dalla massoneria nazionale e internazionale contro la Chiesa cattolica.
Pio IX inizia una meticolosa cronistoria dei fatti nel 1849, all'epoca del suo esilio a Gaeta (esilio cui è costretto perché i rivoluzionari di ogni dove sono piombati a Roma trasformandosi in "romani purosangue" a modello del genovese Mazzini), la continua nel 1855 (dopo la soppressione nel Regno di Sardegna degli Ordini contemplativi e mendicanti) e la riprende nel 1861 all'indomani dell'unità.
Il Papa mette a confronto parole e fatti: da una parte le belle parole d'ordine di liberali, repubblicani e socialisti; dall'altra le violenze e la persecuzione anticristiana che a quelle parole fanno seguito. I massoni, ricorda il Papa, proclamano ai quattro venti di agire nell'interesse della Chiesa e della sua libertà. Si professano cristiani e pretendono di rifarsi alle più genuine volontà di Cristo. Le cose non stanno invero così: "Noi desidereremmo prestar loro fede, se i dolorosissimi fatti, che sono quotidianamente sotto gli occhi di tutti, non provassero il contrario". È in corso una vera e propria guerra, ricorda Pio IX (ma anche Leone XIII e così pure il vescovo di Torino, Fransoni, prima imprigionato poi esiliato): "Da una parte ci sono alcuni che difendono i princìpi di quella che chiamano moderna civiltà; dall'altra ci sono altri che sostengono i diritti della giustizia e della nostra santissima religione". L'obiettivo che i massoni perseguono è "non solo la sottrazione a questa Santa Sede e al Romano Pontefice del suo legittimo potere temporale", ma anche, "se mai fosse possibile, la completa eliminazione del potere di salvezza della religione cattolica" [Cfr l'allocuzione Iandudum cernimus, in "Acta Pii IX", I, III, pp. 220-230].
Nel loro magistero i Papi fanno quanto possono per evitare che la popolazione presti ingenuamente fede alla propaganda liberale e cada nell'inganno che le tendono nemici che si proclamano amici.
Se le cose stanno come dicono i Pontefici, bisogna capire che cosa spinge i massoni a professarsi cattolici quando tali non sono.

Una strategia coperta

Nell'Italia dell'Ottocento quasi tutti sono cattolici e la civiltà cristiana, insieme con la lingua, costituisce l'identità vera e profonda di una popolazione che peraltro è da secoli politicamente divisa. Per far trionfare il proprio punto di vista assolutamente minoritario, i liberali ricorrono a una strategia che si potrebbe definire "coperta": da un lato provano in ogni modo a infiltrarsi all'interno della Chiesa per condizionarla dal di dentro (questo obiettivo viene espresso con massima chiarezza in una circolare del 1819 inviata alle varie logge dell'Alta Vendita [Cfr J. CRÈTINEAU-JOLY, L'Église romaine en face de la Révolution, II, Paris 1861, pp. 76-78]); dall'altro colgono ogni possibile occasione per definirsi cattolici perfettamente ortodossi; da ultimo, promuovono sul piano interno e internazionale una campagna di denigrazione e falsificazione sistematica sulle condizioni di tutti gli Stati italiani a eccezione del Piemonte. Si distingue in quest'opera il cattolico Massimo D'Azeglio, teorizzatore della "congiura" all'aria aperta. In I miei ricordi racconta egli stesso del suo incontro a Roma con il "settario" Filippo e del suo aderire alla cospirazione filosabauda per l'ottima ragione di voler scampare alla noia e alla depressione ("perché provavo il bisogno d'aver un'occupazione che sopraffacesse nell'animo mio i pensieri che mi tormentavano", per "aver un modo di passar la malinconia, e finalmente il mio gusto per la vita d'avventure e d'azione"). Con questi sistemi, uniti alla capillare corruzione dei quadri dell'esercito borbonico, la massoneria ritiene di poter convincere la popolazione che sotto i Savoia si può vivere la propria fede in modo più cattolico che sotto il Papa; che i liberali incarnano gli autentici desideri di Cristo meglio del suo presunto Vicario terreno; che la Chiesa può tornare all'originario splendore quando privata delle preoccupazioni terrene, vale a dire quando tutte le proprietà che possiede e che le sono state donate dalla pietà dei fedeli (compresi i conventi in cui vivono monaci e frati con i relativi edifici di culto, i libri, i quadri, le sculture, gli oggetti e gli arredi sacri, incluso ovviamente lo Stato che le appartiene), saranno diventate possesso di quei nobili e borghesi anticristiani che le sapranno far fruttare debitamente in nome delle regole del profitto e del libero mercato.

Con questa operazione che fanno condurre dall'unica Casa regnante disposta, in nome di importanti acquisti territoriali, a svendere la prestigiosa tradizione religiosa, culturale ed etica della nazione, le potenze massoniche e i massoni italiani (tutti esuli a Torino eletta "capitale morale" d'Italia, nuova Gerusalemme, a dire di Pascoli) ritengono di poter finalmente associare l'Italia al novero delle prospere potenze europee che già da tempo (con la Riforma protestante e la Rivoluzione francese) si sono liberate dal "giogo" del cattolicesimo.

Paradossalmente è proprio Galli della Loggia, intellettuale e politologo laico, a rispolverare oggi la guerra civile combattuta durante il Risorgimento. Guerra che la storiografia contemporanea, quella cattolica in testa, ha smesso di ricordare più o meno dal 1925, anno in cui Mussolini pone fuori legge la massoneria.

Per accertare se Galli della Loggia (e i Papi) abbiano o no ragione non ci resta che seguire il metodo di Pio IX: confrontare parole e fatti. Il Regno di Sardegna si autoproclama vessillo dell'onore nazionale, perché unico Stato costituzionale e parlamentare della penisola. I Savoia giustificano l'invasione e l'annessione degli altri Stati (tutti retti da sovrani assoluti) proprio con il pretesto del regime politico costituzionale. Vittorio Emanuele, dicono, non può in alcun modo rimanere insensibile alle grida di dolore che verso di lui si levano da tutte le parti dell'Italia oppressa.

La soppressione degli Ordini religiosi

Esaminiamo allora come i Savoia traducono in pratica questo tanto propagandato amore per la legalità costituzionale e per le libertà dei cittadini.
Il primo articolo dello Statuto (che entra in vigore il 4 marzo 1848) dichiara: "La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione di Stato". "Che cosa fa la Camera dei deputati del Regno sardo-piemontese? Non appena convocata, nella primavera inoltrata del 1848, si esibisce in un attacco frontale alla Chiesa cattolica. È in corso la prima guerra di indipendenza contro l'Austria e le sorti dell'esercito del piccolo Regno sono già compromesse, ma i rappresentanti dell'1,70% della popolazione che ha diritto di voto combattono una loro guerra personale: la guerra contro i gesuiti e gli Ordini affini, definiti "gesuitanti". Per più di due mesi i deputati subalpini si esercitano in interminabili requisitorie contro la Compagnia di Gesù (accusata di essere "rappresentante di un funesto passato", "corruttrice", "appestata", "lue", "eretica", "torbida malaugurata compagnia") e contro gli Ordini religiosi che i deputati ritengono infettati dall'Ordine incriminato. Teorizzano che la Compagnia è una vera e propria peste e che chiunque le si accosta rimane contagiato.

Alla fine di interminabili discussioni, la Camera ratifica la decisione già presa dal re di sopprimere la Compagnia di Gesù, decide di imporre il domicilio coatto ai religiosi (che non si sono macchiati di alcun tipo di reato e sono condannati per il solo "nome" di gesuiti), delibera la requisizione di tutti i beni dell'Ordine (gli splendidi collegi finiscono per trasformarsi per lo più in caserme) e accomuna alla sorte dei figli di sant'Ignazio quegli Ordini religiosi giudicati più pericolosi per la conservazione dell'ordine liberale.

Per qual ragione i deputati Sabaudi fanno tutto ciò? Per amore, ripetono in continuazione, della "vera morale" e della "pura religione". Omettono naturalmente di dichiarare che la morale e la religione cui si rifanno non sono quelle cattoliche.

Nel 1854-1855 è la volta del governo. Il Ministro Cavour-Rattazzi, il governo del connubio tra centro e sinistra costituzionale, si assume la responsabilità di un attacco in grande stile contro la Chiesa cattolica e presenta un progetto di legge per la soppressione (e relativo incameramento di beni) degli Ordini contemplativi e mendicanti [Cfr "Atti del Parlamento subalpino. Documenti", XII, pp. 1631-1640].

Il governo ritiene che monache di clausura e frati abbiano fatto il loro tempo. Pensa che siano istituzioni ottime per un periodo di violenza e di barbarie, ma nocive in un'epoca pacifica e liberale. Il ragionamento di Rattazzi è semplice: gli Ordini contemplativi e mendicanti sono inutili: se tali, sono allora nocivi (sic!). L'argomentazione di Cavour è invece più complessa, perché il conte non ritiene l'inutilità motivo sufficiente a giustificare la soppressione. Cavour si fa pertanto carico di dimostrare "matematicamente", "con fatti e con teoremi", che gli Ordini in questione sono nocivi. Nocivi a che cosa? Al progresso della moderna civiltà. Nocivi alla prosperità economica, industriale, agricola e perfino artistica del Paese. Cavour ritiene di dimostrare il proprio assunto ricorrendo a una prova inoppugnabile: la realtà dei fatti. E la realtà che costata è la seguente: sono molto più ricchi, moderni e progrediti quegli Stati in cui gli Ordini sono già aboliti da tempo. Non solo: là dove non esistono più francescani, domenicani o altri religiosi, è lo stesso attaccamento della popolazione al cristianesimo a essere più profondo. Per tutti questi ottimi motivi gli Ordini, secondo Cavour, sono nocivi. Ergo, a buon diritto vanno soppressi.

Con i discorsi di "Lord Camillo" alla Camera e al Senato [Cfr "Atti... Discussioni", XXI, pp. 2862-2871; cfr anche "Atti... Discussioni Senato", VIII, pp. 767-771] si tocca l'apice della costituzionalità del Regno sabaudo: il presidente del Consiglio di uno Stato ufficialmente cattolico, per sua stessa ammissione, ritiene migliori sotto ogni punto di vista (quello religioso compreso) gli Stati protestanti.

Un'ultima considerazione. Rattazzi, quando in qualità di Guardasigilli e ministro del culto espone alla Camera la necessità di sopprimere gli Ordini religiosi, lo fa ribadendo un'esigenza di stretta competenza del dicastero che dirige. Il ministro Guardasigilli ritiene giunto il momento di fare giustizia. Di fare giustizia all'interno della Chiesa. Di fare giustizia ai beneamati parroci che, tanto utili alla popolazione, vivono con poche lire mentre i molti religiosi che non fanno nulla vivono nel lusso: "È forse giusto, è forse consentaneo ai princìpi della religione che esista questa disparità fra i membri del clero? No certamente". Un ministro di Vittorio Emanuele si propone così di realizzare una giustizia di tipo redistributivo, sottraendo risorse finanziarie e proprietà ad alcuni per beneficiare altri. Il principio è quello che chi possiede più soldi deve dividerli con chi ne ha meno. Il principio è anche quello che chi lavora deve guadagnare per lo meno tanto quanto chi induge nell'ozio.

Nei medesimi anni numerosi intellettuali cattolici, primo tra tutti Donoso Cortés, mettono in guardia i liberali: con i metodi che adottano, preparano la strada al comunismo. Anche Pio IX è al riguardo profeta inascoltato. A cose fatte, è indubitabile che tra liberismo e comunismo c'è una continuità obiettiva. Lenin si limiterà ad applicare, su più ampia scala, i princìpi così ben enunciati dai liberali. Questi "fanno giustizia" solo ai parroci poveri entro la Chiesa (una giustizia che ritorna a loro vantaggio perché si impadroniscono con pochi soldi dell'ingente patrimonio di cui la carità cristiana ha fatto dono alla Chiesa), i comunisti "fanno giustizia" a tutti i poveri con i beni degli stessi liberali.

Ma l'incognita tra princìpi e prassi non si limita a quanto finora rilevato. Così l'articolo 24 dello Statuto recita: "Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge". Tutti, meno i religiosi. Tutti, meno quanti donano beni alla Chiesa. I loro testamenti per diventare operativi devono essere approvati dal governo che li deve purgare "dal sospetto di captazione". E ancora l'articolo 28: "La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi". Libera: a essere libera davvero è la stampa liberale (di cui non viene punito alcun abuso); quella cattolica, invece, non è libera per niente.

Un esempio convincente? Nel 1848, di fronte alla persecuzione che si abbatte sui gesuiti, il provinciale dell'Ordine, padre Pellico, così scrive a Carlo Alberto: "Era semplicemente dichiarato da V. M. nella nuova legge sulla stampa che dovesse rimaner inviolato l'onore delle persone e dei ministri della Chiesa. Ma pare che nell'avvilire e calunniare i gesuiti non si tema di trasgredire la legge […] esposti per la sola qualità di gesuiti al pubblico odio o alla diffidenza e al dispregio. Intanto però i giornali e i libelli che ci fanno la guerra, approvati in ciò dalla censura, hanno diritto di rifiutare le nostre smentite; né tuttavia abbiam noi un altro organo imparziale da stamparle con uguale pubblicità, se pure non ci venga concesso di farlo per via della gazzetta del Governo" [Cfr A. MONTI, La Compagnia di Gesù nel territorio della Provincia Torinese, V, Chieri 1920, pp. 78-79].

Un altro esempio? Nel 1852 il Guardasigilli Boncompagni fa arrestare e imprigionare a carcere duro il conte Ignazio della Costa, consigliere di Cassazione, reo di aver pubblicato un libro dal titolo Della giurisdizione della Chiesa cattolica sul contratto di matrimonio negli Stati cattolici. Il conte è incriminato per offesa al re, incitamento al sovvertimento dell'ordine costituzionale e disprezzo della legge dello Stato. Quale la colpa? Richiamare alla coerenza e ricordare che, se si è cattolici, bisogna rispettare i decreti del Concilio di Trento. Un particolare che sta stretto a Boncompagni, il quale, mettendo da parte i decreti tridentini, ritiene ugualmente di essere un buon cattolico [Cfr M. D'ADDIO, Politica e Magistratura (1848-1876), Milano 1996, pp. 31-32].
Un ultimo esempio? Cavour vieta nel cattolico Regno di Sardegna la pubblicazione delle encicliche del Papa.
Segnaliamo infine l'articolo 29, che enuncia: "Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili". Tutte? Tutte, meno quelle della Chiesa.

Monopolio scolastico

Chiudiamo questi esempi di buon governo liberale, ricordando come insorge in Italia l'ostilità alla scuola privata.
I liberali sono all'incirca l'uno per cento della popolazione. È evidente che, potendo scegliere, i cattolici mandino i propri figli a scuole non liberali. A scuole dunque (dal momento che lo Stato è in mano dei liberali) non statali. Si tratta allora di impedire ai cattolici di scegliere, di sopprimere le corporazioni religiose dedite all'insegnamento e di vigilare perché non se ne formino altre. Nessuna libertà di stampa, di parola, di associazione. E nessuna libertà di insegnamento. I cattolici non sono ancora pronti e devono essere pazientemente educati.

La libertà di insegnamento, e cioè la scuola privata, potrà essere reintrodotta solo quando gli italiani avranno imparato a preferire la scuola laica. In pratica, solo quando a nessun genitore verrà più in mente di dare ai propri figli un'istruzione incentrata sul rispetto della fede. A esplicitarlo in modo chiarissimo è uno dei membri più illustri dell'emigrazione italiana a Torino, il filosofo Bertrando Spaventa, che sul Progresso del 31 luglio 1851 scrive: "Noi certo vogliamo la libertà in tutto e per tutto, ma l'applicazione assoluta di questo principio suppone l'eguaglianza di tutte le condizioni". Conclude il filosofo: "Adunque, considerando la questione in modo assoluto, noi vogliamo la libertà d'insegnamento; ma giudichiamo che per essere attuata essa abbisogni di alcune condizioni generali, richieste dallo stesso principio d'uguaglianza e di libertà, le quali ora non si trovano nel nostro Paese". Fedeli a questa logica i governanti liberali del Regno d'Italia sopprimono tutte le corporazioni insegnanti con la conseguenza di riuscire nell'opera meritoria di dimezzare le scuole esistenti.

La prassi politico-ideologica dei governi liberali mette in luce che i princìpi liberali valgono solo e soltanto per coloro che sono liberali. E tutti gli altri? Tutti gli altri devono venire progressivamente illuminati dal credo liberale che a poco a poco lieviterà le masse cattoliche allontanandole dalla superstizione della loro religione. Per il momento è comunque chiaro che i cattolici non devono e non possono contare assolutamente nulla.

Un breve scambio di battute tra Cavour e uno dei membri più influenti della destra, il maresciallo Ignazio della Torre, chiarisce bene questo stato di cose. Siamo nel 1855 e la Camera subalpina discute il progetto di legge governativo per la soppressione degli Ordini religiosi. Della Torre, per smentire la supposta popolarità della legge, invita a entrare in una qualsiasi delle chiese di Torino stracolme di gente e a chiedere per che cosa si stia pregando: "Tutti quelli che interrogherete vi risponderanno che si sta pregando per il progetto di legge". Questa la risposta di Cavour: "L'onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall'onorevole maresciallo l'opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate" [Cfr "Atti... Discussioni Senato", VIII, p. 830.]

Galli della Loggia ha riportato alla luce la guerra civile combattuta in Italia durante il Risorgimento. Non ha però spiegato perché quella guerra è stata "rimossa", essendo "non detta e non dicibile". Gli esempi che abbiamo addotto hanno riempito la lacuna.

Comunque è sicuramente vero: in Italia "l'incompatibilità tra patria e religione, tra Stato e cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale". L'aspetto singolare è semmai perché la storiografia di questo secolo abbia tardato tanto ad accorgersene.

Altra questione è la domanda: ci è convenuto?

Der Wehrwolf
14-06-02, 21:15
http://www.alleanzacattolica.org/temi/massoneria/massoneria_cantoni.htm

Der Wehrwolf
14-06-02, 21:26
http://www.terrelibere.it/segrete.htm

Der Wehrwolf
14-06-02, 21:27
http://www.lamelagrana.net/storia/storia.html

cuoreverde
15-06-02, 00:32
Ottimo lavoro amico!


cuoreverde

BELLOVESO
15-06-02, 01:29
E come dicevano i garibaldini "con le budella dell'ultimo prete impiccheremo l'ultimo re"... i cessi sociali di allora. :D

saluti padanisti

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:37
http://cosco-giuseppe.tripod.com/

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:38
http://www.clarence.com/contents/societa/speciali/000721teschi/001.html

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:44
http://www.esoteria.org/documenti/massoneria/massoneria.htm

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:45
http://www.esoteria.org/web_utenti/giuseppegaribaldielamassoneria.htm

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:45
http://web.infinito.it/utenti/s/s.martino.sannita/Brigantaggio/Personaggi/Garibaldi01.htm

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:47
http://www.orsino.it/scipionyx_00002c.htm

Der Wehrwolf
15-06-02, 11:51
http://www.stellina.net/users/padani/risorgimento.zip

Der Wehrwolf
15-06-02, 15:22
http://space.tin.it/lettura/kxxbar/

Der Wehrwolf
15-06-02, 15:31
http://space.tin.it/lettura/kbtbarto/titoli.htm



Premio Nobel

Wilhelm Ostwald Nobel Chimica 1909

Albert A. Michelson Nobel Fisica 1907

Albert Einstein Nobel Fisica 1921

Enrico Fermi Nobel Fisica 1938

Rudyard Kipling Nobel Letteratura 1907

Winston Churchill Nobel Letteratura 1953

Salvatore Quasimodo Nobel Letteratura 1959

Giosuè Carducci Nobel Letteratura1906

Charles Robert Richet Nobel Medicina 1913

Alexander Fleming Nobel Medicina 1945

Jean-Henry Dunant Nobel Pace 1901

Élie Ducommun Nobel Pace 1902

Theodore Roosevelt Nobel Pace 1906

Alfred Hermann Fried Nobel Pace 1911

Henry La Fontaine Nobel Pace 1913

Léon Victor Bourgeois Nobel Pace 1920

Gustav Stresemann
Nobel Pace 1926

Frank Billings Kellog Nobel Pace 1929

Karl von Ossietzky Nobel Pace 1935

George Catlett Marshall Nobel Pace 1953






I padri fondatori

Robert Stephenson Smyth Baden-Powell Fondatore dell’associazione giovanile dei Boy Scouts

George Catlett Marshall Statista. Autore del piano Marshall per il recupero economico dell’Europa

Alexander Joy Cartwright Padre del baseball

David Sarnoff Presidente RCA. Fu chiamato il padre della televisione americana

Cornelius Hedges Fondatore dello Yellowstone Park in U.S.A.

Melvin Jones Fondatore dei Lions Internazionali 1917

David W. Griffith Regista e produttore, noto come padre del film d’arte, massimo creatore del linguaggio filmico, cofondatore della United Artists 1919

Ernesto Nathan Sindaco di Roma, fu fra i fondatori della Soc. Dante Alighieri

Sigmund Freud Il padre indiscusso della psicoanalisi

Élie Ducommun Fondat. International Bureau of Peace

Paul P. Harris Fondatore del primo Rotary Club, a Chicago nel 1905

Léon Victor Bourgeois Presidente della Società delle Nazioni. Per primo preconizzò la composizione di un vero tribunale delle nazioni

Charles H. Mayo Filantropo e chirurgo, cofondatore della MAYO FOUNDATION for Medical Education and Research, Minn.

Nicola Pasic Statista serbo, uno dei fondatori del partito radicale

Alessandro Vessella Musicista, creatore della nuova partitura per banda

Firmin Gemier Regista e attore, creatore del teatro popolare francese, ha fondato il Théâtre Ambulant (1911-1912) e il Théâtre National Populaire (1920)

Dan Beard (Daniel Cartier Beard) Pittore, è stato l’organizzatore dei Boy Scouts negli USA

Simon Lake Progettista navale. Nel 1897 costruì l’Argonaut, il primo sommergibile a funzionare con successo in mare aperto

William Beaumont Scienziato e medico. Fu il padre della fisiologia americana

Mustafa Kemal Pasha Ataturk Presidente della repubblica turca, il padre della Turchia moderna

Jons Jacob Berzelius Scienziato e chimico, creatore della moderna simbologia chimica

James McHenry Statista, firmatario costituzione USA

Émile Vandervelde Politico, fu il fondatore del partito operaio belga

Andrea Costa Politico, fondatore del partito socialista rivoluzionario di Romagna nel 1881

Edmond François Valentin About Letterato e giornalista, fondatore del XIX Siècle

William C. Handy Musicista e compositore, noto come "Padre dei Blues"

Andrew T. Still Scienziato e medico, fondatore dell’Oste-opatia

Giuseppe La Farina Patriota, fondatore della Società Nazionale

Prospero Moisè Loria Filantropo, fondatore della Società Umanitaria

Stephen Fuller Austin Statista, fondatore dello stato del Texas

Luigi Capolonghi Politico, fondatore della lega italiana dei Diritti dell’Uomo

Pierre Jean Georges Cabanis Giurista, politico e filantropo. Fu il fondatore della medicina legale

Christian Friedrick Samuel Hahnemann Scienziato e medico, fondatore della medicina omeopatica

Henry Ford Industriale, fondatore dell’omonima industria automobilistica

Luigi Orlando Patriota. Fondò il cantiere che costruì la prima nave a vapore






Massoni alla conquista dello spazio

Francesco Baracca Aviatore

Charles A. Lindberg Aviatore, transvolò l’Atlantico nel 1927

Edwin E. Aldrin Jr. Astronauta. Piantò sulla Luna, accanto alla bandiera degli Stati Uniti, quella del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato di Washington

Leroy Gordon Cooper Astronauta

Virgil I. Grissom Astronauta

John Glenn Astronauta, autore del primo volo orbitale col Mercury VI







Altri

Alessandro Cagliostro (Giuseppe Balsamo) Guaritore e alchimista. Fondatore del rito massonico "egiziano"

Giacomo Casanova Diplomatico e scrittore

Lewis Annance Capo indiano

Vittorio Bottego Esploratore

Buffalo Bill (William Frederic Cody) Esploratore

Christopher "Kit" Carson Esploratore

Adolphus W. Greely Esploratore

A. Henson Matthew Esploratore. Fu al Polo Nord nel 1909

James Bruce Esploratore

Robert E. Peary Esploratore ,scopritore del Polo Nord

Robert Falcon Scott Esploratore antartico


Sir Ernest H. Shackleton Esploratore antartico

James Cook Esploratore e navigatore






Le grandi risorse economiche in aiuto dell’ideale

Owen D. Young Economista, autore del piano Young per le riparazioni della 1a guerra mondiale

James Meyer Rothschild Finanziere

Nathan Meyer Rothschild Finanziere

Ismail Pascià Statista e finanziere






Arte Reale nelle arti figurative

Harvey W. Corbett Architetto, autore del Rockfeller Center

Andrea Appiani Pittore

Dan Beard (Daniel Cartier Beard) Pittore

Claude Joseph Vernet Pittore

Francesco Bartolozzi Pittore e incisore

Albrecht Durer Pittore e incisore

William Hogarth Pittore e incisore

Baker Bryant Scultore, eresse la statua di Washington al Washington Masonic National Memorial di Alexandria

Ettore Ferrari Scultore: sue le statue a Roma di Giuseppe Mazzini e di Giordano Bruno; gran maestro del Grande Oriente d’Italia






Nell'armonia pitagorica: la musica

Tito Schipa Tenore lirico

Franco Alfano Musicista

Giovanni Cristiano Bach Musicista

Ludwig van Beethoven Musicista

Hector Berlioz Musicista

G. Brahms Musicista

Charles Wakefield Cadman Musicista

Francesco Saverio Geminiani Musicista

Antonio Carlos Gomes Musicista

Cesare Adolfo Grechi Musicista

Franz Joseph Haydn Musicista

Johann Nepomuk Hummel Musicista

Franz Liszt Musicista

Étienne Nicolas Méhul Musicista

Johann Wolfgang Amadeus Mozart Musicista

Niccolò Paganini Violinista, compositore

Niccolò Piccinni Musicista

Thomas Smith Webb Musicista

Arrigo Boito Musicista e poeta, massone secondo Paul Nettl

Nat King Cole (Nathaniel Adams Coles)

Cantante e musicista

Giacomo Meyerbeer Musicista

Willem Frederik Johannes Pijer Musicista

Franz Schubert Musicista

Jean Sibelius Musicista

John Philip Sousa Musicista







Nel cinema e nel teatro

Cecil Blount De Mille Produttore cinematografico

David W. Griffith Regista e produttore, noto come padre del film d’arte, massimo creatore del linguaggio filmico, cofondatore della United Artists 1919

Firmin Gemier Regista e attore, creatore del teatro popolare francese, ha fondato il Téâtre Ambulant (1911-1912) e il Téâtre National Populaire (1920)

Clark Gable Attore

Gino Cervi Attore

Edmund Kean Attore

Oliver Hardy Attore

Ettore Petrolini Attore

Tom Mix (Thomas Edwin) Attore

Totò (Antonio De Curtis) Attore

John Wayne Attore







Nello sport

Ray Sugar (Walter Smith Robinson) Pugile

Alexander Joy Cartwright Padre del baseball







Il valore delle proprie convinzioni

Francis Fisher Geoffrey Arcivescovo di Canterbury, Primate d’Inghilterra

Louis René E. Rohan Cardinale

Antonio Jerocades Abate cattolico

Fra’ Giovanni Pantaleo Cappellano dei Garibaldini

Rev. James Anderson Codificatore degli "Antichi Doveri" massonici

Rev. John Desaguliers Uno dei fondatori della massoneria moderna

Ugo Bassi Prete barnabita

Calvo Francisco Prete cattolico, canonico della cattedrale San Josè, Costa Rica

Miguel Hidalgo y Costilla Prete cattolico







In difesa della Patria, a tutela della libertà

Orazio Nelson Ammiraglio britannico

Luigi Capello Generale

Francesco Caracciolo Ammiraglio

Arthur duca di Wellington Generale britannico


La Fayette (Marie Joseph Paul du Motier, Marchese di)

Politico, militare, Maggior generale dell’esercito rivoluzionario americano

Simon Bolivar Politico, militare, liberatore di Venezuela, Nueva Granada (oggi Colombia), Ecuador, Perù, Bolivia






Nel mondo della magistratura

Robert Houghwout Jackson Giudice presso la corte suprema USA, procuratore generale al processo di Norimberga

Giovanni Bovio Giurista e politico

John Marshall Magistrato, Capo della Suprema Corte USA - gran maestro della Gran Loggia della Virginia (1793/95)







Nel mondo della politica

Lord Amery Statista e politico

Alexander Fell Whitney Sindacalista, presidente del sindacato dei ferrovieri U.S.A. al tempo della grande crisi del 1929

Luigi Pianciani Sindaco di Roma e patriota

Fracois A. Frédéric La Rochefoucauld Politico e moralista

Fiorello H. La Guardia Sindaco New York

Gustav Stresemann Statista

Jean Paul Marat Politico e pensatore

Honoré-Gabriel Riqueti Mirabeau Politico

Giovanni Amendola Statista

Leonida Bissolati Politico, tra i fondatori del Partito socialista

Eugenio Chiesa Statista

Arturo Labriola Politico

Francesco Saverio Nitti Politico

Agostino Bertani Politico


Ernesto Nathan Sindaco di Roma, fu fra i fondatori della Società Dante Alighieri

Ettore Ferrari Deputato, 1882/1892, 1904/1918

Luigi Settembrini Statista e letterato

Bettino Ricasoli Statista e patriota, partecipò alla Costituente Massonica di Firenze

Beniamino Franklin Statista, filosofo e scienziato

Marchese Pierre Simon di Laplace Statista, filosofo e scienziato

Agostino Depretis Statista

George Catlett Marshall Statista, autore del piano Marshall per il recupero economico dell’Europa

George Jacques Danton Statista, rivoluzionario

John Alexander MacDonald Statista canadese

John B. Floyd Statista, governatore dello Stato della Virginia

Nicola Pasic Statista serbo, uno dei fondatori del partito radicale

Costantino Nigra Statista, diplomatico

Ismail Pascià Statista, finanziere

Arthur H. Vanderberg Statista, giornalista e storico, condusse la politica americana verso il Patto Atlantico

Winston L. Churchill Statista e scrittore

Zéphyrin Camélinat Politico

Aurelio Saffi Politico, triumviro della Repubblica Romana

Cesare Battisti Politico, geografo, giornalista

Marcel Cachin Politico, leader comunista francese

Arthur duca di Wellington Politico, militare

La Fayette (Marie Joseph Paul du Motier, Marchese di)

Politico, militare, Maggior generale dell’esercito rivoluzionario americano

Simon Bolivar Politico, militare, liberatore di Venezuela, Nueva Granada (oggi Colombia), Ecuador, Perù, Bolivia

Giuseppe Garibaldi Patriota, eroe nazionale, eroe dei due mondi







Al servizio dello Stato

J.Edgar Hoover Direttore dell’ F.B.I. per circa cinquanta anni

Felix Eboué Governatore dell’Africa Equatoriale Francese

John B. Floyd Governatore della Virginia

Clinton DeWitt Governatore dello Stato di NewYork

Sir. Robert Laird Borden Primo Ministro del Canada

Hichiro Hatoyama Primo Ministro del Giappone

Robert G. Menzies Presidente del Consiglio dell’Australia

Émiles Combes Presidente del Consiglio di Francia

Pierre Mendès Presidente del Consiglio di Francia

Manuel Azana Y Diaz Presidente del Consiglio di Spagna

George Washington 1° Presidente USA

Thomas Jefferson 3° Presidente USA

James Monroe 5° Presidente USA

Andrew Jackson 7° Presidente USA

James Knox Polk 11° Presidente USA

James Buchanan 15° Presidente USA

Abraham Lincoln 16° Presidente USA

Andrew Johnson 17° Presidente USA

James Abram Garfield 20° Presidente USA

Adlai E. Stevenson 23° Presidente USA

A. Hobart Garrett 24° Presidente USA

William McKinley 25° Presidente USA

Theodore Roosevelt 26° Presidente USA

William Howard 27° Presidente USA

Thomas R. Marshall 28° Presidente USA

Warren Gamaliel Harding 29° Presidente USA

Franklin Delano Roosevelt 32° Presidente USA, eletto per quattro volte

Harry S. Truman 33° Presidente USA

Lyndon B. Johnson 36° Presidente USA

Gerald Rudolf Ford Jr. 38° Presidente USA

Jonas Furrer Presidente della Confederazione Elvetica

Justo Josè De Urquiza Presidente della Repubblica Argentina

Santiago Derqui Presidente della Repubblica Argentina

Josè Figueroa Alcorta Presidente della Repubblica Argentina

Carlos Pellegrini Presidente della Repubblica Argentina

Roque Sáenz Peña Presidente della Repubblica Argentina, sua fu la legge del voto segreto e obbligatorio per tutti i cittadini

Edvard Benes Presidente della Repubblica Cecoslovacca

Salvador Allende Presidente della Repubblica Cilena

Hermes Rodrigues Da Fonseca Presidente della Repubblica del Brasile

Rafael L.Trujllo Molina Presidente della Repubblica Domenicana

Marie François Sadi Carnot Presidente della Repubblica Francese

Paul Doumer Presidente della Repubblica Francese

Gaston Doumergue Presidente della Repubblica Francese

François Felix Faure
Presidente della Repubblica Francese

Jules Grevy Presidente della Repubblica Francese

Émile Loubet Presidente della Repubblica Francese

Sweinn Björnsson 1° Presidente della Repubblica Islandese

Asgeir Asgeirsson Presidente della Repubblica Islandese

Miguel Aleman Presidente della Repubblica Messicana

Antonio Lopez De Santa Anna Presidente della Repubblica Messicana

Plutarco Elias Calles Presidente della Repubblica Messicana

José de la Cruz Porfirio Diaz Presidente della Repubblica Messicana

Francisco I Madero Presidente della Repubblica Messicana

Benito Pablo Juarez Presidente della Repubblica Messicana

Lázaro Cárdenas 45° Presidente della Repubblica Messicana

Leopoldo I 1° Re del Belgio

David Kalakaua Re delle Hawaii

Kamehameha IV Re delle Hawaii

Kamehameha V Re delle Hawaii

Cristiano X Re di Danimarca

Federico VIII Re di Danimarca

Cristiano VIII Re di Danimarca e Norvegia

Cristiano VII Re di Danimarca e Norvegia

Ahmed Fuad Pascià (Fuad I) Re di Egitto

Luigi XVIII Re di Francia

Costantino I Re di Grecia

Giorgio I Re di Grecia

Giorgio II Re di Grecia

Edoardo VII Re di Inghilterra

Edoardo VIII Re di Inghilterra

Giorgio IV Re di Inghilterra

Giorgio VI Re di Inghilterra

Filippo Mountbatten duca di Edimburgo Consorte della regina Elisabetta

Giorgio Edoardo 4° figlio di Giorgio V, caduto in un’azione aerea nel 2° conflitto mondiale, gran maestro della Gran Loggia Unita d’Inghilterra

Edoardo duca di Kent Famiglia reale inglese, figlio di Giorgio Edoardo, gran maestro della Gran Loggia Unita d’Inghilterra dal 1967

Bonaparte Giuseppe Re di Napoli

Murat Gioacchino Re di Napoli

Haakon VII Re di Norvegia

Federico Guglielmo II Re di Prussia

Federico il Grande Re di Prussia

Guglielmo I Re di Prussia

Carlo XIV Re di Svezia

Carlo XV Re di Svezia

Gustavo V Re di Svezia

Gustavo VI Adolfo Re di Svezia

Oscar I Re di Svezia

Oscar II Re di Svezia

Don Antonio Pedro De Alcantara Bourbon Imperatore del Brasile

Francesco I Imperatore del Sacro Romano Impero

Paolo I Imperatore della Russia

Napoleone Bonaparte Imperatore di Francia

Federico III Imperatore di Germania







Per amore della scienza, per il bene dell’Umanità

Antonio Meucci Inventore del telefono, invenzione contestata da G.Bell. Gli fu riconosciuta la priorità del brevetto dalla Corte Suprema USA

Simon Lake Progettista navale. Nel 1897 costruì l’Argonaut, il primo sommergibile a funzionare con successo in mare aperto

Albert Schweitzer Musicologo e medico missionario

Emilio Servadio Pioniere della psicoanalisi in Italia

Raimondo Di Sangro, Principe di San Severo

Scienziato, studioso insigne di alchimia

Albert Einstein Scienziato. Enunciò la teoria della Relatività Generale nel 1916


Enrico Fermi Scienziato, fisico, ricercatore, fondò la "scuola di Roma"

Alexander Fleming Scienziato, scopritore della pennicillina

Edward Jenner Scienziato, introdusse la vaccinazione vaiolosa

Franz Anton Mesmer Scienziato, fondò la teoria del magnetismo animale

Hans Christian Oersted Scienziato, scoprì l’influenza della corrente elettrica sull’orientamento dell’ago magnetico

Beniamino Franklin Scienziato, filosofo e statista, inventò il parafulmine

Pierre Simon Marchese di Laplace Scienziato, filosofo e statista, astronomo e matematico, fu tra i fondatori della teoria della probabilità. Sua è la famosa ipotesi sulle origini del sistema solare.

Nicolas Léonard Sadi Carnot Scienziato e fisico, diede il nome al secondo principio della termodinamica

Crawford W. Long Scienziato, medico. Fu il primo ad usare l’etere come anestetico

Wilhelm Ostwald Chimico e filosofo


Mario Morigi Chimico, si dedicò alla preparazione industriale degli arseniati e delle lecitine, precorse l’invenzione del DDT






Per la ricerca della verità e la diffusione della conoscenza

Johann Gottlieb Fichte Filosofo

Heinrich Schliemann Archeologo, scopritore di Troia

Claude Adrien Helvetius Filosofo

John Locke Filosofo

Swami Vivekananda (Narendranath Datta) Filosofo Yoga e asceta

Denis Diderot Enciclopedista


Marie Jean A. Condorcet Matematico e filosofo

Giandomenico Romagnosi Giurista, filosofo e scienziato

Pasquale Villari Storico positivista

Napoleone Colajanni Filosofo, politico, patriota, medico, studioso dell’uomo, sociologo, antimilitarista, anticolonialista, antirazzista: questo grande uomo è stato un fedele interprete dell’azione risorgimentale del pensiero umano

Gaetano Filangieri Filosofo e scrittore, ha prodotto uno dei più grandi capovalori sulla filosofia del diritto e sulla teoria della giurisprudenza "La scienza della legislazione, il cui contributo storico e filosofico ha guidato e guida tuttora quanti intendano cimentarsi nel diritto costituzionale

Vittorio Alfieri Letterato

Giosuè Carducci Poeta nazionale


Pierre A. de Beaumarchais Commediografo

Jean Baptiste Lerond d’Alembert Letterato, fu il più autorevole degli enciclopedisti

Joseph Dobrowsky (abate) Letterato, fu il padre della letteratura Ceca

Giovanni Wolfango Goethe Letterato

Alessandro Manzoni Scrittore

Antoine Prèvost Abate, scrittore

Andrea Rapisardi Letterato

Francesco Salfi Scrittore

Eugen Lennhoff Scrittore

Leo Tolstoi Scrittore

José Hernandez Letterato

Kipling Rudyard Letterato

Gotthold E. Lessing Letterato

Mark Twain (Samuel L. Clemens) Letterato

Montesquieu Charles-Louis de Secondat Letterato, fu autore di quell’Esprit de Lois in cui per la prima volta si pose e si risolse il problema della divisione dei poteri, fulcro e fondamento della teoria dello stato moderno

Salvatore Quasimodo Letterato

Federico Schiller Letterato

Stendhal (Marie Henry Beyle) Letterato

Carlo Goldoni Letterato, commediografo

Oscar Wilde Letterato, drammaturgo e poeta

Alessandro Dumas Letterato, drammaturgo e giornalista

Voltaire (François Marie Arouet) Letterato e filosofo, fu il massimo degli illuministi

Edmondo De Amicis Letterato e giornalista

Francesco De Sanctis Letterato, patriota e politico

Andrea Chénier Letterato e poeta

Ugo Foscolo Letterato e poeta

Guido Gozzano Letterato e poeta

Vincenzo Monti Letterato e poeta

Giovanni Pascoli Letterato e poeta

Walter Scott Letterato e poeta

Francesco Dom. Guerrazzi Letterato e politico

Sir Arthur Conan Doyle Letterato e romanziere

Luigi Settembrini Letterato e statista







Eroi e rivoluzionari, amanti della Patria e dell’Umanità

Philippe Égalité (Luigi Filippo Giuseppe di Orléans) Rivoluzionario, sostenne la causa della rivoluzione americana e aderì alla rivoluzione francese. Venne ghigliottinato

Giuseppe Cesare Abba Patriota

Camillo Finocchiaro Aprile Patriota

Leonida Montanari Carbonaro

Rosolino Pilo Patriota

Carlo Pisacane Patriota

Abd-El-Kader Patriota algerino, emiro di Mascara

Melchiorre Gioia Patriota, economista

Nino Bixio Patriota, eroe nazionale

Giuseppe Garibaldi Patriota, eroe nazionale, eroe dei due mondi

Federico Confalonieri Patriota, eroe risorgimentale

Giuseppe Mazzini Patriota, filosofo

Nazario Sauro Patriota, irredentista

Giuseppe Guerzoni Patriota, letterato

Pietro Maroncelli Patriota, musicista

Carlo Porta Patriota, poeta

Francesco Crispi Patriota, politico

Giuseppe Zanardelli Patriota, politico

Luigi Pianciani Patriota, sindaco di Roma

Bettino Ricasoli Patriota e statista, partecipò alla Costituente Massonica di Firenze

Der Wehrwolf
16-06-02, 11:48
Il pirata Garibaldi


Il 26 dicembre 1832 Giuseppe Garibaldi, affiliato con il nome di «Pane» alla setta «Giovine Italia» fondata da Mazzini, si arruolò come marinaio di terza classe nella Marina piemontese con il compito di sobillare e di fare propaganda della setta tra i marinai savoiardi. Il Mazzini, che viveva al sicuro in Svizzera, progettò inoltre nel 1834 di invadere la Savoia con il generale Girolamo Ramorino a capo di un centinaio di rivoltosi, mentre a Genova Garibaldi avrebbe dovuto far insorgere la città ed occupare il porto. L’inconsistenza dell’azione ed il feroce intervento delle truppe piemontesi fecero fallire l’inutile sommossa. Molti cospiratori catturati furono condannati a morte. Il Mazzini, rimasto sempre in Svizzera (e poi rifugiatosi prudentemente a Londra), ed il Garibaldi, riuscito fortunosamente a fuggire, furono condannati a morte in contumacia. Garibaldi prima si rifugiò per alcuni mesi a Marsiglia, dove venne raggiunto dalla notizia che, il 3 giugno 1834, il Consiglio Divisionario di Guerra lo aveva condannato a morte ignominiosa come "bandito di primo catalogo", e dopo s’imbarcò sul brigantino mercantile Union, diretto a Odessa, da dove si diresse a Tunisi, per arruolarsi come marinaio nella flotta piratesca di Hussein Bey, Signore di Tunisi.

A Tunisi: "i suoi frequenti viaggi fra Tunisi, Lisbona, Malta, avevano lo scopo di portare dei pieghi in quelle regioni per le pratiche infami della propaganda massonica" come annotò un cronista del tempo.. Dopo qualche mese Garibaldi si portò di nuovo a Marsiglia, dove si imbarcò come secondo sul brigantino Nautonier di Nantes diretto a Rio de Janeiro.

Agli inizi dell’estate del 1836 Garibaldi, però, accusato dalle autorità di Rio de Janeiro di loschi traffici, assieme ad altri italiani fuorusciti, ricevette l’ordine di espulsione dal Brasile. L’avventuriero, allora, rubò una barca dal porto e, con gli altri suoi complici, si diede alla pirateria. Braccato dalla Marina brasiliana, si rifugiò nella provincia di Rio Grande presso Benito Gonçalves, capo della sommossa filocapitalista contro la monarchia del Brasile.

Nel 1837, poi, il Garibaldi, inizialmente con una barcaccia da 20 tonnellate (da lui battezzata Mazzini), successivamente con altre navi catturate, si diede a scorrerie e saccheggi sul Rio Grande contro le navi cattoliche-ispaniche e nei villaggi rivieraschi, sempre protetto dagli inglesi, i quali per suo mezzo raggiungevano così lo scopo di assicurare il monopolio commerciale all’impero britannico. Nell’agosto, tuttavia, la sua nave fu intercettata e colpita, ma il nizzardo riuscì a sfuggire alla cattura con l’aiuto di una nave argentina che la rimorchiò. Tra i pirati feriti c’era Garibaldi, che fu internato e curato in Argentina.

Nel 1838 Garibaldi, lasciato libero dagli Argentini, si diresse a Montevideo e poi ancora nel Rio Grande, dove i ribelli di Goncalves gli affidarono due navi, catturate qualche mese prima ai brasiliani, per la tratta dei negri. In seguito Garibaldi si diede a veri e propri atti di pirateria nei pressi della laguna Dos Patos, dove assaliva navi mercantili isolate, uccidendo gli inermi marinai delle navi catturate. Molte volte assalivano anche i villaggi interni dei contadini, facendo razzie, rubando oggetti di valore e violentando le donne. Fu in questo periodo che incominciò a portare i capelli lunghi perché, avendo tentato di violentare una ragazza, questa gli aveva staccato l’orecchio destro con un morso.

Alla fine di agosto il Garibaldi, intanto, conosceva Anita nel piccolo borgo uruguayano di Barra. Allora la donna era già sposata col calzolaio Manuel Duarte, che abbandonò il 23 ottobre, giorno in cui lo stesso Garibaldi la rapì e la portò via sulla nave Rio Pardo. Il Duarte dopo qualche giorno fu trovato morto, molto probabilmente anche a causa delle ferite causategli dai banditi garibaldini. Ciò è parzialmente ammesso dallo stesso Garibaldi nelle sue memorie. Solo alla fine dell’anno una squadra navale brasiliana riuscì a intercettare ed a distruggere le navi corsare di Garibaldi

Der Wehrwolf
16-06-02, 11:50
Il tricolore, bandiera massonica




Il 1 settembre 1904 alla Camera francese si verificò un acceso dibattito tra i deputati. Gli incidenti verbali furono provocati da un'affermazione pubblica del marchese di Rosando, il quale, rivolto verso i colleghi della sinistra, aveva esclamato: "La Framassoneria ha lavorato in sordina, ma in modo costante, a preparare la Rivoluzione!". Il deputato Jumel aveva immediatamente replicato: "E' un effetto di cui ci vantiamo!". Lo seguirono a ruota, in un crescendo di attacchi enfatici, Alessandro Zevaes ("E' il più grande elogio che potreste farci!") ed Enrico Michel ("È la ragione per la quale voi ed i vostri amici la detestate!"). Rosando rispose subito: "Siamo quindi perfettamente d'accordo su questo punto, cioè che la Massoneria è stata la sola autrice della Rivoluzione, egli applausi che io raccolgo da sinistra, ed ai quali sono poco abituato, provano. signori, che voi riconoscete con me che essa ha fatto la Rivoluzione francese". E Jumel, di rimando: "Facciamo più che riconoscerlo, lo proclamiamo!". E così, con questa fiera proclama-zione si chiariva definitivamente un evento storico: e cioè che era stata la Massoneria a volere, finanziare e preparare la Rivoluzione francese. Rivoluzione che oltre a portarci le delizie delle teste mozzate dallo strumento del dottor Guillotin, escogitò e ci impose lo stesso vessillo dietro cui si nascondeva la rabbia sanculotta: la bandiera dei tre colori. Come ben si sa, le armate rivoluzionarie, grazie poi al confratello Napoleone Bonaparte (iniziato ai «misteri» massonici sin da quando era semplice tenente ) portarono il proprio emblema multicolore in ogni parte della vecchia Europa, sotto il comando di generali come Ney, Cambronne, Lefebre Bemadotte, tutti affiliati alle logge massoniche. Sul sangue dei Lazzari napoletani, dei montanari di Andreas Hofer, dei guerrilleros spagnoli si piantava l' albero della Libertè con in cima la coccarda tricolore.

In Italia fu lo stesso Bonaparte a consegnare il primo stendardo tricolorato (al blù fu sostituito il verde, colore classico delle logge massoniche) ad un corpo di volontari della Legione Lombarda, i «Cacciatori delle Alpi» che, si badi bene, alla faccia dell'indipendenza italica, erano inquadrati nell'Annata francese. Tanto è vero che al centro di questa bandiera campeggiava il simbolo stesso dei giacobini francesi: il berretto grigio. Inoltre, per mantenere questo suo Corpo di italiani «infrancesati», Napoleone non seppe far di meglio che saccheggiare e profanare tutte le chiese della penisola che si trovavano sfortunatamente sul suo cammino.

II tricolore venne comunque adottato ufficialmente come bandiera di Stato dalla Repubblica Cispadana (altra invenzione napoleonica), riunita a Reggio Emilia il 7gennaio 1797. Ma la Repubblica Cispadana ( così come quella Cisalpina) tutto poteva essere tranne che una difesa di «italianità». Era una repubblica massonica a perfetta imitazione di quella francese, da cui dipendeva in tutto e per tutto.

Marziano Brignoli, direttore delle Raccolte Storiche del Comune di Milano (Museo del Risorgimento e Museo di Storia Contemporanea), non sospetto di simpatie «reazionarie», ha affermato che "è chiaro che la nostra bandiera è nata ad imitazione di quella francese". Per Brignoli "i nostri tre colori provengono dall'insegna di una setta massonica ". Sarà forse un caso, ma è certo che il bianco, il rosso e il verde erano anche i colori della setta di affiliazione massonica del ro-magnolo Giuseppe Compagnoni, il segretario della Repubblica Cispadana che a Reggio Emilia propose di adottare il tricolore come bandiera del nuovo Stato.

Dalla Repubblica Cispadana, seguendo la dominazione francese, il tricolore passò poi a quella Cisalpina (12 maggio 1797). Alla caduta della dittatura bonapartista, nel 1814, il tricolore non solo scomparve ovunque, ma fu generalmente considerato come emblema dei collaborazionisti con gli invasori francesi. Si arriverà poi al 1848 ed ai «moti risorgimentali» per vedere suscitare il vessillo pluricolorato, grazie alla complicità delle stesse dinastie anti-bonapartiste (come quella dei Savoia) che si «adeguavano» ai tempi, e con il Re Travicello

(Carlo Alberto), grande protettore di sette e di logge, rivestendosi coi colori cispadani. Come si sa, giunse poi l'ora dei «fratelli d'Italia». «Fratello» massone era infatti Goffredo Mameli (al quale fu addirittura intitolata una Loggia), e come lui massoni di rango furono tutti i vari «artefici» del «risorgimento» (voluto da un Piemonte in cui si parlava più francese che italiano): da Garibaldi (nominato nel 1862 Gran Maestro e Primo Massone d'ltalia ), a Bixio, a Cavour , a Costantino Nigra, a Bettino Ricasoli, a Ludovico Frapolli, e via dicendo. Ora, tutti questi fatti non potevano essere certo sconosciuti a due appassionati risorgimentalisti come Spadolini e Craxi. Perche, allora, i due governanti "filocisalpini" progettarono di istituire per il 12 maggio la «Festa del Tricolore» invece che per il 7 gennaio, come giustamente rivendicato dalla "cispadana" Reggio Emilia ? Possibile che i due politici in questione erano tanto malaccorti da incorrere in un «infortunio culturale» di tale calibro? Certo che no. La verità è che Craxi e Spadolini tentarono di giocare la carta del 12 maggio, per un fatto culturalmente (e laicisticamente) molto più rilevante. Il 12 maggio è infatti la grande data del laicismo trionfante: quella per cui nel 1974 le forze radical-massoniche sconfissero quelle cattoliche nel referendum sul divorzio. Questo è infatti il vero motivo per cui l'accoppiata Craxi-Spadolini era più filo-cisalpina che filo-cispadana. Dietro la maschera della Repubblica tricolorita, le lobby laiciste nascondevano il volto della repubblica divorzista. A questo occulto progetto, i cattolici ( o almeno, alcuni cattolici) non solo non seppero opporsi, ma addirittura accondiscesero con entusiasmo. A costoro ricordiamo che nel 1871 il Conte di Chambord rifiutò di sedere sul trono di Francia, non accettando l'adozione del tricolore come bandiera dello Stato francese. «Se il vostro tricolore e un simbolo e voi ci tenete tanto come simbolo, allora non si tratta più di riforma, ma di abiura» disse il buon Henry di Chambord ai politici del compromesso. Ha proprio ragione Ploncard d'Assac quando scrive che "una delle più grandi abilità della Rivoluzione sta nel trasformare i conflitti d'idee in scontri simbolici'). Ed è proprio su questo che devono riflettere i vari portabandiere delle cosiddette “meditazioni culturali”.



Pino Tosca

Der Wehrwolf
16-06-02, 12:27
L'influenza della Massoneria
Una notevole spinta all'unificazione italiana fu data dalla massoneria (10), che si muoveva contro la Chiesa Romana. Il documento qui di seguito spiega come andarono i fatti.

[...]bisogna richiamare alla memoria quanto stampa, libri di testo e saggi storiografici hanno da tempo smesso di raccontare. Si tratta di ricordare perché la Massoneria ha voluto la scomparsa dello Stato della Chiesa (e di conseguenza l'unità della penisola) e la riduzione di Roma da caput mundi a caput Italiae. L'unico modo per farlo è analizzare le fonti dell'epoca.

La visione del mondo della massoneria ottocentesca (se e in che misura questa sia cambiata è questione che qui non interessa) è interamente costruita intorno a due presupposti. Il primo è che la Rivelazione non esiste: rifiutando la Rivelazione i massoni ritengono spetti all'uomo in totale autonomia e col solo aiuto della ragione stabilire quali siano le leggi della morale e del vivere civile. Questo è anzi il compito che i massoni ritengono loro proprio ed esclusivo: ancora il 10 febbraio 1996 una pagina intera di pubblicità sul Corriere della Sera ricorda che i massoni "hanno la responsabilità morale e materiale di essere guida di altri uomini".

Il secondo presupposto è che la natura dell'uomo (della specie umana, non del singolo) è costantemente perfettibile: si tratta del mito del Progresso che induce a ritenere possibile il raggiungimento su questa terra della felicità (il diritto alla felicità tanto solennemente iscritto nella Costituzione americana) conseguito attraverso il pieno sviluppo di tutte le potenzialità umane.

Una strana tolleranza

La massoneria ritiene dunque possibile raggiungere la tangenza uomo-dio con le sole forze della ragione, e cioè per natura, mentre nega che per partecipare alla natura divina ci sia bisogno della grazia, concessa da Dio per i meriti di Suo Figlio Gesù Cristo a coloro che si pentono e si convertono. Gli aspetti di satanismo che colorano tante posizioni massoniche derivano da questa convinzione: nel Libro della Genesi quando Satana si rivolge a Eva lo fa per insinuarle il desiderio di diventare Dio come se ciò fosse possibile in forza di un semplice atto di volontà: "Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio" (Gn 3, 5). Tanto per restare in Italia, è in questo contesto teorico che Giosuè Carducci compone l'Inno a Satana ("Salute, o Satana, \ O ribellione, \ O forza vindice \ De la ragione! ").

Dal momento che la massoneria ritiene suo compito specifico tracciare la distinzione tra bene e male, quale ruolo attribuisce alle religioni positive? Praticamente nessuno. Le ritiene tutte superstizioni locali buone per il volgo, utili solo ancora per qualche tempo: il tempo necessario perché tutti gli uomini imparino a usare la ragione e cioè diventino massoni. Il luminare della massoneria francese J. M. Ragon che scrive con l'esplicita approvazione del Grande Oriente di Francia, sostiene che la massoneria apre i suoi templi agli uomini "per liberarli dai pregiudizi dei loro paesi o dagli errori delle religioni dei loro padri" e afferma che l'Ordine "non riceve la legge ma la stabilisce (elle ne reçoit pas la loi, elle la donne) dal momento che la sua morale, una ed immutabile, è più estesa e più universale di quelle delle religioni native, sempre esclusive" [Cfr Cours philosophique et interprétatif des initiations anciennes e modernes, Parigi 1853, pp. 18, 38]. La massoneria italiana è perfettamente allineata su questa posizione. La Costituente che si riunisce nel maggio del 1863, dopo aver precisato che la massoneria "non prescrive nessuna professione particolare di fede religiosa, e non esclude se non le credenze che imponessero l'intolleranza delle credenze altrui", precisa (art. 3) che i princìpi massonici debbono gradualmente divenire "legge effettiva e suprema di tutti gli atti della vita individuale, domestica e civile" e specifica (art. 8) che fine ultimo dell'Ordine è "raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l'autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell'Umanità" [Cfr L. PARASCANDOLO, La Framassoneria, IV, Napoli 1869, p. 120]. La convinzione che tutte le religioni debbano col tempo cedere il passo alla verità (quella che la massoneria definisce tale), viene espressa dall'Ordine con la magica parola di tolleranza. Definendo se stessa tollerante e pacifica, la massoneria definisce intolleranti e violenti coloro che massoni non sono né vogliono diventare ("Non esclude se non le credenze che imponessero l'intolleranza delle credenze altrui").

Se questo è il discrimine tra tolleranza e intolleranza è chiaro che l'istituzione più intollerante di tutte è la Chiesa cattolica: la Chiesa afferma infatti di possedere la verità e di possederla per intero grazie a un intervento esplicito e definitivo di Dio. Afferma per di più (Pio IX sa quello che fa quando proclama il dogma dell'infallibilità pontificia nel 1870) che il papa, vicario di Cristo, quando si esprime in materia di fede e di morale lo fa in termini buoni in assoluto, perché perfetti e veri.

Con la sua stessa presenza, insomma, la Chiesa cattolica è la negazione della bontà e verità (nonché praticabilità) del credo massonico. È chiaro pertanto che, al di là delle parole, il papa e la Chiesa sono i nemici naturali e mortali di ogni massone: "La massoneria avrà la gloria di debellare l'idea terribile del papato, piantandovi sulla fossa il suo vessillo secolare - verità, amore" [Cfr Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in Italia, 1869, p 328].

Mobilitazione internazionale

L'appoggio internazionale all'unificazione italiana (appoggio che non consiste solo nella copertura politica data ai Savoia, ma anche in concretissimi prestiti e ingenti fondi investiti nell'impresa) è da vedersi principalmente in relazione all'obiettivo prioritario della massoneria: la lotta al papato romano e quindi, nella convinzione che la fine del potere temporale avrebbe fatalmente comportato anche quella del potere spirituale, la guerra allo Stato della Chiesa. Il Bollettino esprime questa realtà con molta chiarezza nell'aprile del 1865: "Le nazioni riconoscevano nell'Italia il diritto di esistere come nazione in quanto che le affidavano l'altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la massoneria si propone; al quale da secoli lavora, attraverso ogni genere di ostacoli e di pericoli".

"A Roma sta il gran nemico della luce. Lo attaccarlo ivi di fronte, direi quasi a corpo a corpo, è dover nostro" [Cfr Gran Maestro Mazzoni, Rivista della Massoneria Italiana, 1872, n 1]: dall'attacco alla Roma pontificia la comunione massonica italiana si ripropone, oltre all'obiettivo comune a tutto l'ordine, il raggiungimento di un suo fine particolare. I massoni italiani si ripromettono infatti di far risorgere la potenza e la forza della Roma pagana e imperiale: è il mito della Terza Roma tanto cara a Mazzini (da questo punto di vista Mussolini trova il terreno ben preparato). Ma lasciamo la parola alla Rivista dell'Ordine: "Il sodalizio massonico in Italia ha combattuto accanitamente e quasi debellato con le armi della ragione, la parte degenere ed imputridita del cristianesimo, ed ha molto cooperato a tagliare le unghie sanguinose alla immonda arpia, che della città più grande e più gloriosa del mondo avea fatto semenzaio di superstizione e propugnacolo contro ad ogni umano incivilimento"; "Facciamo sì che dalla Eterna Città nostra la luce si diffonda per l'Universo, che il mondo ammiri a canto del nero ed avvilito Gesuita, il libero gigante potere della massoneria" [Cfr Rivista della Massoneria Italiana, 1872, n. 1 e n. 3]. [...]

Penso che sia abbastanza, ed evito di riportare interamente il documento (che comunque analizza la questione dal punto di vita cattolico), tratto da Studi Cattolici, 440, ottobre 1997.

Der Wehrwolf
16-06-02, 12:28
La massoneria causa della fine della Serenissima


"[...] marzo 1797: il Doge Ludovico Manin, pavido, fiacco nella persona e roso dai vizi, non volle difendere la Repubblica Veneta dall’invasione francese.

C’era ottima truppa, ottimi capitani, ottimo armamento e la possibilità di trasferire il governo in Dalmazia.

Ma la determinazione di quel Doge ******, decretò la fine della Repubblica Veneta.

La famiglia Manin ( il vero cognome è Manini, essendo di origine toscana ) era massone.

Il disegno della Massoneria italiana consiste nell’unificare gli Stati con una lingua in comune al fine di realizzare il massimo vantaggio economico da spartire tra gli aderenti ...

... e la più parte dei nobili e dei notabili veneti e friulani, per acquisire vantaggi economici personali, aderiva al disegno della massoneria italiana. [...]

Der Wehrwolf
16-06-02, 12:28
L'occupazione dei massoni
Con decreto n° 3064 dell’1 agosto 1866: negli uffici di Polizia Veneti e Friulani si insediarono i Commissari mandati dall’Italia e da questo momento una quantità di gente che apparteneva alla massoneria, dall’Italia ( principalmente dall’ex Regno delle due Sicilie e dall’ex Stato Pontificio ) veniva a sostituire i Veneti ed i Friulani nei loro impieghi pubblici!

Der Wehrwolf
16-06-02, 13:38
http://www.amiciziacristiana.it/

Der Wehrwolf
16-06-02, 13:42
http://www.adsum.it/

Der Wehrwolf
16-06-02, 13:47
Documentazione sulla Rivoluzione nella Chiesa

http://www.marcel-lefebvre-tam.com/index_ita.htm

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:27
La sinistra al potere dimostra ignoranza nell’interpretare
perché si arrivò all’unificazione italiana
Lo scopo del Risorgimento?
Distruggere la Chiesa cattolica
di Francesco Mario Agnoli

Non molto tempo fa Arturo Doilo su la Padania ha efficacemente affrontato l’argomento della recente Mostra sul Risorgimento organizzata (ho avuto il piacere e l’onore di esserne il coordinatore, oltre che estensore di alcuni testi) nell’ambito del meeting per l’amicizia fra i popoli svoltosi come ogni anno a Rimini per iniziativa di Cl e delle reazioni dei vari Scalfari, Colombo, Montanelli e degli altri risorgimentalisti duri e puri. Attaccatissimi i più anziani (lo dico a loro scusante) alle bugie apprese sui banchi della scuola pubblica (e, quindi, legate ai ricordi dei tempi felici dell’infanzia e della prima giovinezza), pervicaci sostenitori gli altri, assai più che dell’unità politica dell’Italia (della quale, come indicato a chiare lettere nella presentazione, la mostra metteva in discussione solo la forma e le modalità di realizzazione), allo stato centralista di stampo giacobino.
In realtà, forse ancor più di quelle di giornalisti e intellettuali o invecchiati nel culto di antichi miti o condizionati dalla necessità di difendere il piccolo orticello al sole ottenuto dopo vari fallimenti, risultano significative le reazioni dei politici, in particolare di quelli di base, meno culturalmente attrezzati e quindi, più istintivi dei loro colleghi di maggior rango, che, nell’ansia di distinguersi nel ruolo di primi della classe, hanno rilevato, oltre alla propria ignoranza della storia, quanto siano strumentali e sostanzialmente false le dichiarazioni di fede federalista e le proclamazioni di intenti in ordine allo smantellamento (sempre invocato e mai attuato) delle strutture dello Stato centralista.
La tesi della mostra riminese (se di tesi si può parlare nei confronti di chi si è limitato a riportare alla luce fatti, eventi, dichiarazioni, che si è sì cercato, per convenienza, di cancellare o di alterare, ma la cui realtà ancora oggi nessuno ha potuto, nemmeno per amore di polemica, negare) era sostanzialmente che l’unità politica italiana venne realizzata, scartando le proposte confederali e federali, che avevano tenuto il campo fino al 1848, in forme rigidamente centraliste, perché queste erano le sole che consentissero di raggiungere il principale risultato perseguito dai gruppi riusciti ad impadronirsi, grazie anche all’aiuto del protestantesimo europeo e in particolare dell’Inghilterra (all’epoca ancora visceralmente antipapista) delle leve di comando del processo unitario: la distruzione della Chiesa cattolica e del cattolicesimo.
Questa scelta favorì, attraverso l’accantonamento, oltre che di quelli federali dei progetti repubblicani (molti fra questi erano federalisti convinti), una momentanea alleanza (probabilmente con molte riserve mentali di entrambe le parti per il futuro) con Casa Savoia, che da tempo inseguiva il sogno di allargare i propri tradizionali possedimenti dinastici, mangiandosi, una dopo l’altra come le foglie di un carciofo, le diverse regioni italiane. Ma non solo privò il Risorgimento del sostegno delle popolazioni, attaccate alla loro religione, alle loro tradizioni, ai loro costumi, alle loro particolarità, frutto non del caso, ma di innegabili ed ineliminabili differenze storiche e geografiche, ma lo trasformò in un processo antipopolare, nel “paradosso di un’unità che disunì”, come suona il sottotitolo di un libro pubblicato ancora nel 1988 (Un popolo diviso di Giuseppe Orlandi-Antonio Achille), che, nonostante alcune, del resto scusabili, ingenuità, avrebbe meritato maggiore diffusione ed attenzione.
Tutte cose riuscite perfettamente chiare ai numerosissimi e attenti visitatori della Mostra, non pochi dei quali hanno avuto l’occasione, forse per la prima volta (certamente per colpa non loro, ma dei programmi ministeriali della scuola pubblica, che da centocinquant’anni in qua hanno trasformato lo studio della storia in occasione di indottrinamento ideologico) di scoprire il clamoroso inganno dei cosiddetti plebisciti a favore dell’annessione o di leggere, attraverso gli scritti dei giornali ufficiosi dell’epoca come Il Diritto, e le dichiarazioni di parlamentari come Petrucelli della Gattina, i programmi di quanti ritenevano che fine principale del Risorgimento, considerato fase ulteriore della rivoluzione francese, fosse la distruzione «dell’ultimo resto del medioevo: il cattolicesimo».
Presentando al pubblico del meeting la mostra, ho ricordato come molti dei problemi dell’Italia di oggi riescano incomprensibili e, quindi, di ardua o impossibile soluzione se non si risale alle loro radici risorgimentaliste, al modo in cui la borghesia liberale volle fare l’Italia unita, e come ancora più sventurato di un popolo senza tradizioni e senza passato, sia un popolo con un passato falso, costruito e mistificato a tavolino dai propagandisti del regime.
Torniamo ai politici di secondo piano di cui sopra e precisamente ai componenti del consiglio provinciale riminese, che il 29 agosto hanno votato un ordine del giorno per accusare la mostra e gli organizzatori del meeting di nostalgie reazionarie per il Papa Re (evidente anche la puntata polemica nei confronti della Chiesa, in procinto, in quei giorni, di elevare agli onori degli altari l’ultimo Papa Re, Pio IX) e per il regno borbonico e proclamare la loro inconcussa fede laica col grido finale: “Viva l’Italia repubblicana e risorgimentale”.
Dal momento che il Risorgimento sfociò, consenziente Garibaldi, non nella repubblica auspicata da Mazzini, ma nella monarchia sabauda, primo e forse unico esempio storico di monarchia giacobina, e che la Mostra, senza toccare la repubblica, si chiude col 1898 e la sanguinosa repressione dei moti milanesi (“le cinque giornate di Milano alla rovescia” lamentate dal convertito monarchico Carducci) ad opera del generale Bava Beccaris, poi, per tanta impresa, decorato e premiato da Umberto II. Ciò che i consiglieri provinciali riminesi vogliono in realtà difendere, con un proclama che in uno sferzante articoletto pubblicato dal Resto del Carlino lo storico Franco Cardini paragona a quello murattiano dato sempre a Rimini nel 1815, sono le radici dell’Italia giacobina e centralista. Sempre Franco Cardini ricorda agli estensori del proclama, laici e di sinistra, che la mostra riminese si è mostrata nella sua rivisitazione risorgimentale assai meno feroce di Antonio Gramsci, che definì i protagonisti del Risorgimento “una banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che dopo aver fatto l’Italia l’hanno divorata». Il fatto è che la sinistra ha avuto una cultura finché è rimasta all’opposizione (una condizione cessata già, di fatto, negli anni ’60) e vicina alle sue origini popolari, ma andata alla deriva di una crassa e supponente ignoranza dopo l’ingresso nella stanza dei bottoni e l’ammissione alla cogestione del potere, pagata con l’acritica omologazione ai miti di quella borghesia massonica e laicista, che ha utilizzato l’unificazione politica italiana come strumento per l’obiettivo, in gran parte fallito (ma, nonostante le apparenze, non vi si è rinunciato), della distruzione della Chiesa cattolica e quello, coronato da pieno successo, dell’incremento delle proprie fortune economiche (attraverso la confisca dei beni ecclesiastici, che tanto concorse ad aggravare la miseria delle popolazioni contadine, i due fini erano spesso strettamente congiunti).

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:35
LIBRI La storica Pellicciari ha riletto una pagina
controversa del nostro passato
Non fu Risorgimento ma guerra di religione
di Paolo Gulisano

Ancora Risorgimento: ancora un libro coraggioso, la cui autrice è la studiosa marchigiana Angela Pellicciari, che già si era occupata di fare dell’ottima “controstoria”, che aiuta a liberarsi dalla caterva di menzogne sulla rivoluzione italiana che portò alla nascita dello Stato Unitario all’ombra del Tricolore e delle baionette dei bersaglieri propinateci prima dalla storiografia liberale nell’800, poi dal Fascismo col suo tronfio imperialismo latino e infine dalla cultura del consociativismo clericoprogressista nel secondo dopoguerra. La chiave di lettura offerta dalla Pellicciari in “L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata” (Edizioni Piemme) per interpretare le gesta rivoluzionarie di Garibaldi, Mazzini, Cavour e soci è quella della guerra contro la religione.
In una lettera al cardinale Fornari scritta il 19 giugno 1852, il grande filosofo spagnolo Donoso Cortés scriveva che la Rivoluzione è, essenzialmente, un fenomeno teologico. Le rivoluzioni degli ultimi due secoli hanno pienamente confermato questa affermazione: dai giacobini francesi ai comunisti sovietici, transitando per nazionalismi vari fino al nazionalsocialismo, non c’è stata ideologia che non abbia avuto un substrato teologico, una visione impazzita del sacro e del divino. Ciò vale anche per il risorgimento italiano; anzi, la caduta del potere temporale del papa fu un evento molto più sovversivo e rivoluzionario dell’abbattimento nel 1789 della decadente dinastia borbonica francese. Contro questo immane disastro sociale e umano provocato dalla rivoluzione risorgimentale, che la Pellicciari documenta ampiamente e in modo inconfutabile (si può discutere una teoria, ma come rispondere ai fatti, ai dati, ai numeri?) l’opposizione di chi difendeva le antiche libertà e le antiche autonomie, nonché le ragioni di un cristianesimo ferocemente perseguitato proprio nelle terre dei vari San Francesco d’Assisi, San Benedetto da Norcia, Sant’Antonio da Padova e Sant’Ambrogio, venne schiacciata ferocemente dal nuovo potere giacobino. Il cosiddetto “moderato” Cavour promulgò a partire dal 1855 le leggi che cancellavano gli ordini religiosi (considerati “inutili” e “dannosi”). Ecco dunque il vero volto del Risorgimento, quello che mette da parte i velleitarismi di Garibaldi e Mazzini ma che con il Cavour mette fuori legge gli ordini religiosi, imprigiona sacerdoti, manda in esilio i vescovi. Lo Stato sabaudo proclamava: «Non sono più riconosciuti nello Stato gli Ordini, le Corporazioni, le Congregazioni religiose regolari e secolari, e i Conservatori e i Ritiri anzidetti che importino vita comune, e abbiano carattere ecclesiastico. Pertanto, le case e i fabbricati appartenenti agli Ordini, alle Congregazioni, ai Conservatori e Ritiri anzidetti, sono soppressi». La legge colpì 1.793 conventi e monasteri, mettendo con la forza sulla strada oltre 22mila religiosi e religiose, e i loro beni incamerati dallo Stato. E se malgrado tutto, nonostante gli attacchi che le vennero portati nel periodo risorgimentale e che assunsero fino alla Prima Guerra Mondiale una dimensione particolarmente terribile, la Chiesa non è stata sconfitta dai propri nemici, la memoria di quello scontro epocale si è persa non solo nei libri di scuola, ma anche nella memoria collettiva dei cattolici, generando quei tragici cedimenti di fronte agli errori e agli orrori della Modernità a cui abbiamo assistito in anni recenti. Opere come quella della Pellicciari ci aiutano così a recuperare il senso della nostra identità oggi sottoposta a non meno pericolosi attacchi. Angela Pellicciari, “L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata”, Piemme, Casale Monferrato, 2000, pp. 288, lire 30mila.

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:36
Norberto Bobbio accusa i cattolici “revisionisti”
di essere di destra. Ma la verità è un’altra
“Patrioti” e massoni, uniti contro la Chiesa
di Angela Pellicciari

“La Stampa” del 2 dicembre pubblica il testo dell’intervento inviato da Norberto Bobbio al convegno “Il cosiddetto revisionismo” promosso a Roma dalla Fondazione Nenni. Dopo aver distinto fra “revisione” (necessaria “per uno storico serio”) e “revisionismo” (tipo di “ideologia” con funzione “eminentemente pratica”), Bobbio accenna ad uno degli ultimi esempi di riscrittura ideologica della storia, quella del Risorgimento, proposta “con grande strepito” da parte di “gruppi cattolici militanti”. Si tratta, secondo Bobbio, di «una interpretazione che non esiterei a chiamare di destra, secondo cui il Risorgimento è stato un movimento guidato da élites anticlericali, per non dire addirittura massoniche, il cui scopo ultimo era l’abbattimento del potere temporale dei Papi».
Per giudicare del coinvolgimento massonico nel processo risorgimentale conviene partire dalle affermazioni dei diretti interessati. Nel 1988 il Gran Maestro Armando Corona, tirando le conclusioni del convegno organizzato sul tema La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria, afferma: «La liberazione d’Italia – opera eminentemente massonica – fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dalla iniziativa delle Comunioni massoniche d’oltralpe». La Massoneria «fu il vero ispiratore e motore» del Risorgimento, «perché sua era l’idea guida della liberazione dei popoli». Sulla paternità massonica dell’unificazione italiana non hanno dubbi né i vertici del Grande Oriente d’Italia di palazzo Giustiniani, né quelli di Piazza del Gesù, vale a dire le due più rappresentative comunioni massoniche italiane. Ecco cosa scrive nell’ottobre del 1977 «Il libero muratore» (rivista di Piazza del Gesù) commemorando i 107 anni della presa di Roma: «Accadimento voluto dalle forze massoniche». La rivista riporta poi una citazione di Giuseppe Mazzoni, Gran Maestro dell’epoca: «La falange massonica, oggi, dopo essere stata ispiratrice ed iniziatrice dei movimenti che resero la Patria libera ed una, si colloca da Roma alla custodia dei diritti rivendicati». Per venire a giorni più recenti, il massone dichiarato Augusto Comba scrive in Valdesi e Massoneria di recente pubblicazione: «va detto che dopo aver contribuito con la partecipazione attiva dei suoi uomini, primo fra tutti Garibaldi, al Risorgimento come realtà, dagli anni 1880 in poi la massoneria contribuì a costruirne il mito, quel mito che è simboleggiato dal tricolore. E ciò non solo con i discorsi di Crispi, le poesie di Carducci e Pascoli, i racconti di De Amicis, le statue di Ettore Ferrari, ma anche localmente la toponomastica, la museografia, la monetazione ecc., insomma i minuti accorgimenti che quel mito hanno stampato durevolmente nella mente degli italiani». L’abbattimento del potere temporale dei papi, cui accenna Bobbio, non è certo il principale obiettivo dell’élite risorgimentale: a leggere quello che le fonti del secolo scorso scrivono (sia di parte massonica che cattolica), il Risorgimento mira alla pura e semplice scomparsa del cattolicesimo. I liberali sono convinti che per far crollare il potere spirituale dei papi sia sufficiente la scomparsa del papa re: per controllare la veridicità di questa affermazione basta leggere, da parte cattolica, l’intero magistero dei papi spettatori del Risorgimento (Pio IX e Leone XIII che, non a caso, definisce il risorgimento “risorgimento del paganesimo”), e, da parte liberale, la quasi totalità della letteratura risorgimentale a cominciare dal Bollettino del Grande Oriente. Alcuni esempi, fra i più significativi. E’ del 1818 un interessantissimo documento noto col nome di Istruzione permanente; l’Alta Vendita della carboneria scrive: «Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della Rivoluzione Francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicesimo e perfino dell’idea cristiana». Nel 1832 Mazzini così si rivolge Ai lettori italiani: «Il papato starà finché non lo rovesci dal seggio ov’ei dorme l’Italia rinata. In Italia sta dunque il nodo della questione europea». «Da Roma sola –continua Mazzini- può muovere per la terza volta la parola dell’unità moderna, perché da Roma sola può partire la distruzione assoluta della vecchia unità». Sulla stessa linea, nel 1865, il Bollettino del Grande Oriente Italiano scrive: «le nazioni riconoscevano nell’Italia il diritto di esistere come nazione in quanto che le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del fine che la Massoneria si propone; al quale da secoli lavora». Che (in nome della libertà e della costituzione) il Risorgimento realizzi la più grande persecuzione dopo Costantino (e che quindi l’élite liberale non sia anticlericale ma anticattolica) è scritto nei fatti. Lo Statuto albertino dichiara, nell’articolo primo, la «religione cattolica unica religione di stato»? Subito dopo la sua approvazione, il Parlamento decide la soppressione dei gesuiti e degli ordini definiti “gesuitanti”, nonché l’incameramento di tutti i loro beni. In nome della libertà e dello Statuto i liberali sopprimono uno dopo l’altro tutti gli ordini religiosi della chiesa di stato buttando sulla strada 57.492 persone (i membri degli ordini religiosi) ed appropriandosi per due lire del loro patrimonio (archivi, biblioteche e oggetti d’arte compresi). L’1% della popolazione diventa anche proprietario di circa due milioni e mezzo di ettari di terra (le proprietà della chiesa unite a quelle demaniali), come documenta Emilio Sereni, storico di sinistra doc. Siamo sicuri che la riscrittura delRisorgimento sia una interpretazione “di destra”, e cioè di parte?

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:37
Qui si fa l’Italia. Massonica
Nel Risorgimento trionfa il disegno di sottomettere la Chiesa allo Stato
di Elena Benini

Non si sono ancora spente le recenti polemiche sul Risorgimento e il Consiglio della III Circoscrizione di Como ha voluto promuovere una serata per riflettere sull’argomento, oggi alle ore 21, nella Sala civica di Camerlata (in via Varesina 3 a Como). Fra gli invitati c’è Paolo Gulisano, autore del volume O Roma o morte! recentemente apparso nelle librerie. Il libro ha messo in discussione la versione ufficiale della storia del ’900 italiano rivelando, con molta e precisa documentazione, alcune verità manipolate o cancellate dai libri di storia.
Oggi, grazie ai documenti procurati da studiosi come Gulisano, possiamo provare che il “Risorgimento”, termine che vuole esprimere una grottesca parodia laica del concetto cristiano di Resurrezione, fu l’espressione di una ideologia di origine illuministica e massonica che impose una forzata e violenta unificazione delle diverse realtà nazionali e statali presenti nella penisola, e che aveva anche come ulteriore obiettivo la sottomissione del potere temporale del papa a quello dello Stato. Un sogno che corrispondeva ad un’antica aspirazione della Massoneria, all’utopia più coltivata: distruggere il Cristianesimo e sostituirlo con un culto neo-gnostico, con aspetti esoterici per gli iniziati e con una dimensione essoterica, pubblica, per il popolo. Il grande scontro che ebbe luogo nell’Italia dell’Ottocento non avvenne solo per dar vita ad una nuova entità statale, un paese dalla media importanza strategica proteso nel Mediterraneo, ma era una battaglia preparata da lungo tempo contro la Chiesa di Cristo. L’Italia infatti, caso unico nella storia, venne a crearsi come nazione in opposizione alla religione.
Da sempre il senso dell’appartenenza ad una patria (intesa letteralmente come “terra dei padri”) era andata di pari passo con l’appartenenza ad una fede; il focolare e l’altare erano sempre stati, nella storia dei popoli, una cosa sola. L’identità nazionale si fonda, oltre che su una comunità linguistica ed etnica, sull’elemento religioso. La nascita delle grandi nazioni medievali, come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, vede come protagonisti santi chiamati a battezzare i popoli e ad unirli in una comunità di destino: San Bonifacio in Germania, Sant’Agostino di Canterbury in Inghilterra, Clodoveo in Francia, Stefano in Ungheria, Adalberto e Boleslao in Boemia e in Polonia. La Spagna della Reconquista unisce realtà locali molto diverse per lingua e tradizioni sotto l’egida della fede minacciata dall’avanzata islamica.
Da sempre dunque il senso di appartenenza di un popolo ha trovato fondamento nel senso religioso. Fa eccezione il caso italiano, dove una nazione viene assemblata dando come orientamento politico l’ostilità alla religione, individuando come nemico il capo della Chiesa, il Vicario di Cristo, creando uno Stato senza fondamenta religiose, che confidava di creare un tessuto sociale con riferimenti all’etica massonica del buon cittadino.
Mentre le utopie rivoluzionarie teorizzavano l’abbattimento dei tiranni e la liberazione degli individui dalle catene dell’ignoranza e della superstizione, la realtà fu che gli uomini vennero ridotti ad anonimi fattori di produzione, destinati ad essere “materiale umano” a basso prezzo sul mercato del lavoro, buono per essere sfruttato senza scrupoli nel quadro della rivoluzione industriale. La quale doveva sostenere i sogni scientisti e prometeici di inebrianti avventure tecnologiche. Col risultato di sradicare milioni di persone dalla loro terra, dai loro usi e costumi e dalle loro tradizioni, specialmente religiose, stipandoli in condizioni subumane in degradanti periferie. Questo disegno valse pienamente anche per l’Italia.
L’unità fu una guerra civile cui seguì uno Stato di polizia fra i peggiori d’Europa. Questa era la Rivoluzione italiana, che, nonostante quasi tutti gli storici ritengano che il processo unitario fosse una soluzione dovuta ed inevitabile, poteva non essere affatto una via obbligata: il progetto di unificazione nazionale così come si stava realizzando era in palese, totale contrasto con le tradizioni storiche di una penisola che per secoli aveva conosciuto solo l’universalismo religioso e il federalismo politico.

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:38
Il 3 settembre il Pontefice sarà beatificato. Una figura da rivalutare
Pio IX e i falsi miti del Risorgimento italiano
di Paolo Gulisano

Il prossimo 3 settembre papa Pio IX salirà alla gloria degli altari, essendo state riconosciute dalla Chiesa le sue virtù di santità attraverso un processo scrupolosissimo durato quasi un secolo. Un papa la cui figura ha giganteggiato nell’800, il secolo terribile delle rivoluzioni liberali e nazionaliste, del positivismo e dell’assolutismo scientista, il laboratorio da cui sono scaturiti gli orrori del Ventesimo secolo, alcuni dei quali, come la manipolazione genetica con le sue inquietanti pretese di onnipotenza, ci minacciano ancora. Chi scrive ha voluto rendere omaggio con un libro a questo grande pontefice, che il mondo cristiano intero guardò con ammirazione e che solo l’ideologia italiana liberalmassonica condannò all’esecrazione perpetua per essersi opposto risolutamente all’unificazione forzata dei liberi e sovrani stati della Penisola. Il solo fatto di aver parlato bene di questo pontefice ha procurato a me e agli amici e colleghi dell’Associazione culturale Identità Europea che hanno realizzato al Meeting di Rimini la Mostra “Un tempo da riscrivere: il risorgimento italiano” la condanna aprioristica, intollerante e senza discussioni della cultura giacobina italiana, sia di destra che di sinistra: da Montanelli a Scalfari sono fioccati gli editoriali indignati, gli insulti ineleganti, persino gli “avvertimenti” a chi di dovere perché cose del genere non accadano più. Subito è scattata la parola fatidica – revisionismo!- per cercare di chiudere la bocca a chi cercava semplicemente di aprire un dibattito sui problemi innescati dalla rivoluzione risorgimentale e che rimangono attualissimi, come il federalismo, il rispetto delle identità locali, la difesa delle libertà fondamentali, prima delle quali quella religiosa.
L’UNITÀ: SCELTA NON OBBLIGATA
Non si è voluto minimamente prendere in considerazione la documentazione, le testimonianze, le prove che abbiamo portato per dimostrare che l’unificazione d’Italia, come venne a realizzarsi, non era affatto una scelta obbligata, non era l’unica soluzione possibile e doverosa come insegnano i libri di scuola, ma era anzi la via peggiore, quella che portò allo Stato centralista, all’occupazione militare e al controllo poliziesco delle comunità locali, alla cancellazione degli antichi usi civici, delle lingue e delle culture locali, alla devastazione delle economie di intere regioni. Il Veneto e il Friuli, ad esempio, fiorenti sotto l’amministrazione asburgica, divennero le vittime di una spoliazione che le ridusse a terra desolata e che innescò un processo drammatico fino ad allora assolutamente sconosciuto: l’emigrazione di massa. Pio IX condusse una battaglia in difesa del patrimonio di Fede minacciato da quella che era un’autentica guerra contro la religione voluta dalle forze laiche e giacobine, una esigua minoranza forte solo del potere delle Logge e dell’appoggio determinante del Governo britannico. L’Italia unita fu voluta, infatti, da un’Inghilterra che mirava ad avere come utile alleato un paese strategicamente proteso nel Mediterraneo, e l’oro inglese servì a finanziare la spedizione dei Mille e la conquista del sud. Alle ragioni di interesse geopolitico si aggiungeva un odio ideologico per il cattolicesimo: il ministro degli interessi britannico Lord Russell paragonò la “rivoluzione italiana” alla Glorious Revolution inglese e Vittorio Emanuele a Guglielmo d’Orange, ovvero il simbolo stesso dell’estremismo anticattolico. Forse che Pio IX avrebbe dovuto accettare e avvallare tutto questo, davanti allo spettacolo delle fucilazioni di massa, dei vescovi imprigionati, dei monasteri chiusi a forza? Il Papa aveva davanti a sé lo spettacolo di una persecuzione religiosa e di una aggressione politica che si reggevano sulla truffa e sull’inganno: le annessioni dei vari Stati venivano sancite infatti con dei plebisciti farseschi dove il voto a favore dell’unità era platealmente coatto.
UNA PROPOSTA LUNGIMIRANTE
Pio IX si era a lungo impegnato, con tutta la diplomazia pontificia e col supporto di grandi figure come Antonio Rosmini e Don Bosco perché fosse garantita la libertà a quelli che, con un significativo plurale, chiamava “i popoli italiani”. Quel Papa condannato implacabilmente come reazionario aveva invece una soluzione che oggi, a distanza di tanti anni, sembra l’unica veramente compatibile con le diverse realtà storiche, culturali e sociali italiane: la Confederazione. La Santa Sede si impegnò per arrivare ad un tale assetto politico attraverso contatti e colloqui che, mentre sembravano essere destinati al successo, vennero vanificati dalla scelta sabauda, pilotata da Cavour, del nazionalismo ad oltranza, dello stato centralista. Uno stato che, proprio in odio alla Fede e per umiliare il cattolicesimo, volle conquistare a sé Roma, il centro della Cristianità, città sacra seconda solo a Gerusalemme in ordine di importanza, per farne l’imborghesita capitale di un mediocre regno di secondo piano nel panorama internazionale, benché animato dai furori visionari di chi voleva rilanciare le antiche ambizioni imperiali avventurandosi nelle follie belliche e coloniali. Si volle sradicare l’anima cristiana di Roma per imporle il laicismo mazziniano, si volle cancellare l’eredità della tradizione cattolica per restaurare il paganesimo antico-romano idolatrante l’elmo di Scipio. Si voleva che Pio IX fosse l’ultimo papa, e a questo doveva servire l’assalto del 20 settembre 1870: sconfiggere definitivamente il cattolicesimo. In quegli anni erano accorsi a Roma in difesa del pontefice migliaia di volontari provenienti dall’Europa migliore: dall’Irlanda, dalla Scozia, dalla Bretagna, dalla Vandea, dal Tirolo, dalla Svizzera, e perfino da oltreoceano, dal Québec e dalla Louisiana; venivano dalle piccole patrie perseguitate per difendere la Grande patria della Fede, e le pagine della vicenda di coloro che vennero definiti “mercenari” dal potere italiano sono degne di essere ricordate con commozione. Pio IX sconfitto, umiliato, offeso, maledetto dalla storiografia ufficiale giacobina, resta invece oggi come un gigante della storia cristiana e come un profeta, modello per chi vuole salvaguardare la libertà dei popoli e della Fede.

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:39
Quando la loggia fece la Rivoluzione giacobina
Gian Pio Mattogno indaga i retroscena dell’evento

di Gianluca Savoini

Il tema dell’influenza massonica sulle idee e sugli eventi della Rivoluzione Francese venne affrontato, all’inizio, dagli scrittori controrivoluzionari tra il 1792 e il 1798: F. Lefranc, J. Robinson, A. Barruel. In seguito, i più celebri storici della Rivoluzione hanno teso per lo più a riconoscere la realtà di una presenza socioculturale della massoneria negli avvenimenti rivoluzionari, ma ne hanno generalmente escluso una presenza di carattere politico. La storiografia più recente (Agulhon, Vovelle, Roche, Furet) ha riproposto il problema, sicché la discussione è tuttora in corso. Gian Pio Mattogno ha già al suo attivo una ricerca su La rivoluzione borghese in Italia, che indaga i retroscena del movimento unitario nei vari Stati della penisola; di tale ricerca sono usciti presso le Edizioni all’insegna del Veltro due volumi: il primo che va dal 1700 al 1815, il secondo che va dalla Restaurazione fino ai moti del 1831.Ora Gian Pio Mattogno si inserisce nel dibattito sulla massoneria in Francia con questo saggio intitolato La Massoneria e la Rivoluzione Francese. La prima parte del saggio, che ripropone in sostanza il testo di una conferenza tenuta dall’Autore in occasione del bicentenario della Rivoluzione, approda alle seguenti conclusioni: 1) la Massoneria ha contribuito alla preparazione intellettuale della Rivoluzione, 2) la Massoneria ha lanciato in Francia il mito della rivoluzione vittoriosa con Franklin e Lafayette, 3) la Massoneria ha svolto un ruolo determinante nelle agitazioni che hanno condotto alla presa della Bastiglia, 4) la Massoneria ha partecipato attivamente agli eventi rivoluzionari successivi, 5) i massoni hanno operato come rivoluzionari e come massoni. La seconda parte contiene esaurienti orientamenti bibliografici che fanno il punto sul dibattito storiografico e saranno certamente di grande utilità per ulteriori approfondimenti. In appendice, infine, uno scritto su Encyclopèdie e massoneria, nel quale viene evidenziata la funzione svolta dall’Enciclopedia nella disgregazione dell’ancien règime. Gian Pio Mattogno, La Massoneria e la Rivoluzione Francese, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma (viale Osacca 13), pp.110, lire 15mila.

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:40
Un illuminante testo di Bernard Fay
Grand’Oriente di Francia, ecco chi
nel fatidico 1789 ribaltò il mondo

di Gianluca Savoini

Bernard Fay (1893-1978) fu uno dei più brillanti storici della sua generazione. Cattolico, specialista del XVIII secolo, fu docente di letteratura francese al Collége de France. Nel 1940 fu nominato direttore della Biblioteca nazionale e in questa veste fece in modo che gli archivi del Grande Oriente di Francia (la massoneria francese) fossero trasferiti alla Biblioteca nazionale per esservi esaminati. I "liberatori" non gli perdonarono l’anticonformismo accademico e la fermezza con la quale aveva condotto la sua battaglia culturale. Benchè non si fosse macchiato di alcun crimine, fu arrestato, malmenato, processato e condannato ai lavori forzati, alla confisca dei beni e alla degradazione nazionale. Il libro che presentiamo (La Franc-maçonnerie et la Révolution intellectuelle du XVIIIe siècle) fu pubblicato nel 1935 e per la prima volta è stato tradotto in italiano dalle Edizioni di Ar. L’opera (301 pagine), al di là delle suggestioni e del conformismo della storiografia dominante, indaga i veri retroscena delle rivoluzioni del Settecento, da quelle intellettuali a quelle politiche che sfociarono nella Rivoluzione Francese- la "Grande Rivoluzione". Con la sua opera Bernard Fay documenta il ruolo determinante della massoneria - arma "formidable" - nelle diffusione delle nuove idee illuministiche e nelle preparazione del 1789. Egli offre in questo modo un importante contributo al dibattito storiografico sulle origini della Rivoluzione francese (ma anche americana), inserendosi a pieno titolo nel filone della migliore storiografia controrivoluzionaria che ebbe nell’abate Augustin Barruel il padre incontrastato.
Bernard Fay, La Franc-maçonnerie et la Révolution intellectuelle du XVIIIe siècle, trad. it., Edizioni di Ar (tel. 0338-7438409), pp.301.

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:41
La colpa è della tradizione abbandonata»
Per Don Buzzi, seguace di Lefebvre, questa tragedia era persino prevedibile

di Gianluca Savoini
«La Chiesa di Roma ha ormai spalancato le porte al mondo, deviando dal suo ruolo fondamentale, quindi non c'è da meravigliarsi se accadono orribili episodi persino all'interno del Vaticano». Don Fausto Buzzi, responsabile della Fraternità sacerdotale San Pio X di Montalenghe (gruppo di cattolici tradizionalisti seguaci di Mons. Lefebvre e quindi ostili alla svolta modernista e "massonica" delle gerarchie ecclesiastiche romane), è rimasto scosso dalla tragedia dell'altra notte e si augura che presto la Santa Sede possa scacciare il "fumo di Satana" che da tempo è entrato in Vaticano.Don Fausto, i fedeli non sanno più cosa pensare delle gerarchie cattoliche attuali: affarismo, delitti, ecumenismo spinto, interventi politici. «È la tragica conseguenza dell'abbandono della Tradizione. Anche la moralità dei prelati risente di questa decadenza. Ripeto, non ci si dovrebbe lasciare corrompere dalla mondanità, ma rilanciare la spiritualità, la parola di Dio. Invece ci sono troppi interessi che con la Fede non hanno nulla a che fare».Ad esempio?«Girano troppi soldi. Pensiamo, come caso eclatante, allo Ior, a Marcinkus, alla fine di Calvi. La stessa morte di Papa Luciani è avvolta nel mistero. C'è tanta corruzione ovunque, alimentata da un nemico ben preciso».Quale nemico?«La Massoneria. Si è infiltrata ad altissimo livello anche all'interno della Chiesa. Vent'anni fa la rivista OP del massone Pecorelli, poi eliminato fisicamente, aveva pubblicato un impressionante elenco di alti prelati iscritti alla massoneria, la famosa "loggia San Pietro". Non tutti saranno stati Figli della Vedova, ma alcuni sicuramente.Da sempre i "Fratelli" hanno l'interesse a corrompere il cuore della Cristianità, per edificare la loro tanto amata Repubblica Universale, illuminata dal Grande Architetto dell'Universo».Ci risiamo ancora con la vecchia storia del complotto massonico?«Sappiamo bene che a toccare simili tasti si passa per matti o esaltati. È quello che vogliono i fautori dell'unificazione mondialista. Il fatto che, ogni qual volta si parla di questi argomenti, si levano voci assordanti ed influenti tese a minimizzare e a smentire, dimostra che si colpisce nel segno. Altro che fantasie di pazzi... Ma la cosa grave, il simbolo di decadenza della Chiesa attuale, è un altro».Ovvero, don Buzzi?«L'ecumenismo. Voler disorientare tutti i cattolici, mescolando insieme religioni diverse, in una sorta di cocktail senza gusto e assolutamente velenoso. Dal punto di vista politico le sinistre in Europa incarnano perfettamente questa mentalità di relativismo etico, morale e religioso. Non per nulla l'appoggio di vescovi e alti porporati viene dato ai partiti di sinistra. Il rischio sarà quello di avere un'Europa socialdemocratica in tempi brevissimi. Un'Europa scristianizzata schiava del progetto globalizzante e materialista».Tornando alle questioni della Chiesa, lei spera in una prossima inversione di tendenza?«Guai se così non fosse. Le Scritture lo dicono comunque apertamente. Dopo la grande crisi, ritornerà il sereno. Da umili fedeli, attendiamo il bel tempo. Sicuri che le porte dell'inferno non prevarranno».

Der Wehrwolf
16-06-02, 16:43
Un simbolo di libertà da proporre al posto dell’anonimo vessillo
azzurro a stelle che sa tanto di massoneria
La vera bandiera d’Europa? Sventolò a Lepanto
Fu issata a difesa di Costantinopoli, all’assedio
di Vienna e contro l’invasore islamico
di Brenno

In tutte le più note rappresentazioni pittoriche della battaglia di Lepanto, le navi della flotta cristiana si distinguono per i vessilli che inalberano che si riferiscono alla loro provenienza (il più frequente è il Leone di San Marco: più di metà delle navi erano state messe in mare dalla Serenissima) ma anche alla alleanza di cui facevano parte. L’intera flotta cristiana si era infatti dotata di almeno due segni di riconoscimento che erano comuni a tutti i vascelli: lo stendardo di San Giorgio (croce passante rossa in campo argento-bianco) che era l’antico segno dei Crociati (e il glorioso vessillo di Genova e della Padania), e la bandiera imperiale: l’aquila bicipite nera su campo giallo-oro (o, in alcune varianti marinare in campo argento-bianco).
Si tratta di un simbolo antichissimo che è strettamente legato alla comunità dei popoli d’Europa. Era stato Carlomagno a riprendere l’antico segno imperiale dell’aquila che aveva però “germanizzato” nel disegno e nei colori. Già a partire dal XIII secolo l’aquila viene sempre più di frequente rappresentata con due teste a significare il potere temporale e quello spirituale. E’ però solo nel 1401 che l’imperatore Sigismondo ne ha ufficializzato l’utilizzo: l’aquila imperiale aveva due teste per differenziarsi da tutte le altre - utilizzate da re, città e nobili - che erano considerate ad essa soggette. Nello stesso periodo anche l’Impero d’Oriente aveva cominciato a utilizzare lo stesso simbolo, prima oro in campo rosso, poi con altre varianti cromatiche fino a diventare uguale a quella dell’Impero d’Occidente, nera su campo oro. Questo utilizzo da parte di Bisanzio ha fatto ipotizzare agli studiosi un altro significato simbolico per le due teste: l’Occidente e l’Oriente d’Europa.
Come simbolo dell’Europa cristiana il vessillo dell’aquila bicipite ha comunque sventolato a difesa di Costantinopoli, all’assedio di Vienna, in testa alle armate imperiali e a tutti gli eserciti che combattevano contro l’invasore islamico. Esso ha continuato ad essere impiegato fino alla caduta degli Imperi Asburgico e Russo che avevano raccolto l’eredità dei troni di Occidente e di Oriente.
Oggi l’aquila imperiale è massicciamente presente nell’araldica comunale di tutta Europa (da Arnhem, Nimega e Groninga in Olanda, a Krems e Vienna in Austria, da Brno e Tabor in Moravia, a Ginevra, da Görlitz e Lubecca in Polonia, a Krasnodar e Poltava in Russia, da Norimberga alla spagnola Toledo), nelle bandiere dell’Albania (di Skander Beg, combattente contro i Turchi) e del Monte Santo dell’Ortodossia e nei simboli più amati di alcune grandi nazioni (la Russia, la Serbia, l’Austria). Per tutti questi motivi, oggi che l’Europa dei popoli sta ritrovando vigore e che si devono rialzare gli antichi vessilli per la lotta contro l’Islam risorgente è più che opportuno riscoprire l’antico vessillo imperiale cristiano come simbolo “vero” d’Europa. La bandiera attualmente utilizzata dalla Comunità non ha storia né forza simbolica: forse essa è effettivamente nata da una idea di Schumann che si era ispirato al manto della Vergine ma l’utilizzo di stelle a cinque punte (del tutto assenti nell’iconografia tradizionale europea) non può non ricordare i pentagramma massonici e socialisti. Giova anche ricordare che la disposizione a cerchio di stelle gialle in campo azzurro faceva parte delle prime edizioni della bandiera americana.
E’ perciò del tutto condivisibile la scelta di tornare a sventolare la “Bandiera di Lepanto” per tutti i suoi significati simbolici e anche per la sua bellezza estetica.

nuvolarossa
19-06-02, 22:12
per un piccolo contributo all'argomento segnalo........cliccare qui...: (http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=3876)

Der Wehrwolf
20-06-02, 18:36
Grazie ....non occorreva...lo sapevamo che Mazzini,Garibaldi,Cavour,i Savoia erano TUTTI affiliati alla massoneria inglese e che il tricuolore è un simbolo massonico, che l'inno italiano è un inno massonico ("fratelli d'Italia"=massoni), che l'unità di i-taglia fu voluta dalla massoneria inglese contro gli Imperi Centrali (Austrungheria e Germania) e l'Impero dello Zar....
:D :p :rolleyes: :cool:

Der Wehrwolf
20-06-02, 18:44
Il Mondialismo
di Maurizio Lattanzio

"Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che produce gli avvenimenti; un gruppo un poco più numeroso che vigila alla loro esecuzione e ne segue il compimento, e infine, una stragrande maggioranza che non conosce mai ciò che si è prodotto in realtà".




Il termine 'mondialismo' si riferisce ad una concezione politico-culturale di cui si fanno portatori e diffusori potenti gruppi tecnocratico-plutocratici occulti o, quanto meno, 'defilati', non esposti alle luci dei 'riflettori' &endash; cioè dei mass-media sapientemente manovrati &endash; che 'illuminano' la grande ribalta politica internazionale. Costoro operano tramite istituzioni parimenti occulte o, se si preferisce, semi-pubbliche (Trilateral Commision, Bildeberg Group, Council on Foreign Relations, Pilgrims Society, sistema bancario internazionale ecc.), con l'obiettivo di giungere alla realizzazione di un progetto che prevede l'instaurazione di un unico Governo Mondiale, depositario del potere economico, politico, culturale e religioso. Le articolazioni strutturali di un simile progetto &endash; già in via di attuazione, si pensi solo al M.E.C. &endash; sono fondate sulla integrazione dei grandi insiemi (USA &endash; in posizione preminente &endash; Europa Occidentale, Giappone, Russia e relativi "satelliti", Cina Popolare, Terzo Mondo), che saranno sottoposti al dominio dei tecnocrati funzionari dell'apparato di potere plutocratico installato nei consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali. Sono le strutture operative del comando oligarchico dal quale l'Alta Finanza internazionale pianifica e concretizza l'asservimento dei popoli mediante i diabolici meccanismi della Grande Usura.(1)



La manifesta aspirazione a fare dell'ordine di valori di cui si è portatori il centro di gravità di un processo di unificazione mondiale, è stata sempre caratteristica costante di ogni forma tradizionale, di ogni religione e, più ampiamente, di ogni movimento di Idee ispirato ai valori della tradizione. E' la 'ordinato ad unum', l'universalità &endash; cioè il progetto di integrazione dei popoli nel quadro di un ordine gerarchico a contenuto etico-spirituale, modellato sui valori dell'Essere e culminante nella dimensione metafisica o Unità Principale. Ciò avviene all'interno di differenziate e organiche forme tradizionali conformi alle vocazioni spirituali e alle conformazioni etiche delle diverse comunità umane.



Il mondialismo, invece, è la 'scimmia' dell'universalità; è la contraffazione antitradizionale delle idealità universali che hanno omogeneamente permeato le costruzioni politiche ed hanno ispirato le vicende storiche delle Civiltà tradizionali. L'universalità è un sistema di gerarchi ontologiche che configurano un ordine piramidale 'ascendente' lungo un asse 'cosmico' verticale, mentre il mondialismo, al contrario, è la materializzazione e la decomposizione internazionalistica in senso 'orizzontale' dell'idea-forma universalistica. E' la 'reductio ad unum', un processo dissolutivo 'discendente', il cui tratto distintivo è il riduzionismo, cioè la degradazione dell'umanità ad una poltiglia indifferenziata, secondo i perversi ritmi scanditi da condizionanti e alienanti dinamiche massificatorie. Punto d'arrivo è la serie degli individui-robot che ripetono demenzialmente uno stesso tipo dalle bestiali caratteristiche di tesaurizzatore, trafficante e consumatore di cose materiali. Questo obiettivo 'tattico' è perseguito dall'oligarchia mondialista in funzione di una strategia di dominio planetario. Religione e politica, nazione e razza, cultura e costume, diventeranno puri nomi carenti di qualsivoglia contenuto; rappresentazioni 'multicolori' da immettere nei mercantili e cosmopoliti circuiti della società mondiale dello 'spettacolo'; allucinazioni collettive che surrogano la realtà, estraendo da ogni organico rapporto di interazione con il mondo interiore dell'uomo, il quale, del resto, dovrà essere ed è sostituito da una 'scatola vuota' riempita, anzi, meglio: 'ingozzata' dai falsi bisogni &endash; ci sono anche idioti che le chiamano 'aspirazioni'(sic!) &endash; indotti dall'alienazione consumistica a fini di conservazione e di potenziamento del sistema capitalistico internazionale. Ridotto il valore ad interesse, l'individuo diventa schiavo della ricchezza e, conseguentemente, di coloro che la 'creano', la controllano e se ne servono con diabolica perizia.



L'istituzione mondialista è occulta, o, se si preferisce, per dirla con Bordiot, "discreta". E' quindi necessario l'uso di una metodologia interpretativa storico-politico e sociologico-giuridica che miri alla individuazione di due oggetti o, meglio, di due 'aree' di indagine situate in dimensione diverse: quella dell'istituzionalità pubblica e quella dell'istituzionalità occulta. Queste due nozioni sono meri rilievi descrittivi; per quanto riguarda l'aspetto sostanziale, è più appropriato parlare, rispettivamente, di società "strumentalizzate" e di società "strumentalizzanti".

Il complesso istituzionale pubblico è il quadro di riferimento giuridico-costituzionale nel cui ambito si 'snoda' la vita politica 'ufficiale' delle nazioni (governi e parlamenti, partiti e sindacati, dichiarazioni politiche e prese di posizione diplomatiche, ecc.).



L'istituzionalità pubblica presenta dei profili e delle dinamiche esterne, apparenti, palesi, a volte addirittura 'appariscenti', che si articolano in una serie di atti e di fatti, i quali, ripresi, rilanciati e, soprattutto 'gonfiati' dai mass-media, servono alla fabbricazione delle opinioni che saranno poi 'propinate' come materia di 'dibattito', nel 'libero' confronto democratico, alle turbe di imbecilli che 'infestano' l'epoca contemporanea.



L'istituzionalità occulta o, per usare un eufemismo, 'ufficiosa', è il complesso degli organismi privati (consorterie ebraico-massoniche, Banca, Multinazionale, C.F.R., oligarchia tecno-burocratica nei paesi dell'Est ecc.) privi di qualsiasi rilievo giuridico-costituzionale, mediante i quali l'oligarchia matura le scelte funzionali alla realizzazione dell'obiettivo strategico ultimo: il raggiungimento del potere mondiale.

La corte degli stracci che cela l'esistenza e l'operatività della dimensione istituzionale occulta, è rappresentata dall'istituzionalità pubblica. Essa provvede all'esecuzione di decisioni e progetti adottati dall'oligarchia mondialista in ambienti esclusivi, ristretti, sottratti a qualunque forma di controllo popolare e in regime di assoluta irresponsabilità. Il complesso istituzionale occulto decide felpatamente al riparo da occhi indiscreti &endash; il complesso istituzionale pubblico esegue tra i grandi clamori e le scintillanti coreografie approntati dagli squallidi giullari dell'informazione del Sistema.



La dimensione occulta è il luogo politico, l'ambito di ricezione e lo spazio di aggregazione delle risultanti del processo di 'distillazione' e 'condensazione' verso l''alto sociale' dei soggetti, delle tendenze etiche e delle connotazioni psicologiche che caratterizzano in senso mercantile e materialistico la borghesia e il proletariato. Siamo di fronte a categorie economiche che, nel corso dell'esercizio della loro prassi di potere, non possono esimersi dal subire un processo di 'decantazione' che proietti ai vertici delle 'loro' società &endash; rispettivamente, all'ovest come all'est &endash; l'oligarchia tecno-plutocratica e l'oligarchia tecno-burocratica. Esse &endash; data l'identità del 'materiale' umano da cui sono formate, dalle premesse ideologiche illuministiche da cui muovono e dall'azione di collegamento 'omogeneizzante' sviluppata dalle componenti tecnocratiche, comuni ai due sistemi &endash; sono quindi destinate alla fatale convergenza mondialista.



Dunque da non sottovalutare gli impulsi alla interazione &endash; l'istituzionalità pubblica li definisce "pacifica cooperazione internazionale" &endash; indotti nei due "massimi sistemi" contemporanei dalle tecnocrazie operanti al loro interno, allo scopo di pervenire a una gestione unitaria, su scala mondiale, dei meccanismi di produzione, al di sopra delle distinzioni politiche e al di fuori dei vincoli di sovranità degli stati nazionali.



Ma quali sono le origini storiche-culturali del mondialismo? A quali referenti culturali di fondo va ricondotto questo fenomeno sovversivo operante ormai da secoli?



Universo religioso-culturali dell'ebraismo e massoneria &endash; le cui vicende storiche si intrecciano inscindibilmente con quelle dell'ebraismo, il quale, alla fine, ne farà un suo prezioso strumento &endash; sono la cornice teorica nella quale inquadrare il fenomeno mondialista.



In origine alla Massoneria è un'organizzazione iniziatico-spirituale, espressione, relativa al piano delle forme storiche, procedente dalla dimensione informale nella quale si situa la Tradizione Primordiale.



Rispetto ad essa, la Massoneria rappresenta una Via di partecipazione basata sull'analogia simbolica esistente tra i 'gradi' ontologici della realizzazione spirituale e l'arte della costruzione degli edifici, cioè la "muratoria". Si tratta della "massoneria operativa", formata da adepti: i massoni, i quali svolgono un'attività materiale inerente alla costruzione di edifici e, forse, di templi e cattedrali le cui linee architettoniche esprimono una simbologia metafisico-tradizionale. Di qui l'intima connessione tra massoneria operativa e corporazioni medioevali.



"La costruzione materiale &endash; scrive Julius Evola(2) &endash; divenne cioè una semplice allegoria per un'opera creativa interna e segreta; il tempio esteriore fu simbolo per quello interno; la pietra grezza da squadrare era la comune individualità umana, da rettificare affinché fosse qualificata per l''opus transformationis', cioè per un superamento della caducità umana e per l'acquisizione di un sapere e di una libertà superiore, i gradi di tale realizzazione corrispondendo a quelli originari della vera gerarchia della 'massoneria operativa', e non ancora 'speculativa'".



Però, tra i sec. XVII e XVIII, la Massoneria subirà gli effetti di un processo degenerativo che la ridurrà ad organizzazione profana, ispirata a principi laici ed umanitari, che ne faranno la protagonista del secolo dell'illuminismo e la promotrice delle rivoluzioni borghesi dei secoli successivi. "Effettivamente &endash; scrive Claudio Mutti(3)- nel quadro del processo controiniziatico che vide organizzazioni regolari e tradizionali, o i loro residui, cadere in preda di influenze di segno opposto, anche molte logge massoniche subirono un'inversione di polarità e tradussero in termini individualistici, laici e democratici aspetti del diritto iniziatico, quali, ad esempio, i concetti di libertà, parità, fraternità."



Nell'ambito di questa vicenda che, prima di essere storica, è metastorica, si inserisce la nascita della "massoneria speculativa", cioè della massoneria moderna di Rito Scozzese Antico e Accettato, importante espressione e supporto storico della Sovversione. Essa nasce a Londra il 24 giugno del 1717, giorno della festa di S. Giovanni Battista, patrono dei costruttori della città. In quel giorno, infatti, quattro logge: "Crown Alehouse", "Apple the Taverne", "Rummer and Grape" e "Goose and Gridirion Alehouse", decidono di unificarsi nella "Grande Loggia" di Londra, dalla quale si irradierà un vasto e rapido movimento di espansione che, nel giro di 10-15 anni, vedrà l'Europa punteggiata di logge massoniche.



La Massoneria speculativa ad indirizzo illuministico ed aconfessionale, diventerà il punto di aggregazione di filoni di pensiero ad orientamento umanitario e cosmopolita sparsi nell'Europa; essa ne farà i coefficienti di organizzazione, secondo i moduli di un abile sincretismo, di una ideologia laico-democratica ed egualitaria, il cui internazionalismo di fondo, negatore delle specificità, sarà la solida piattaforma su cui 'poggiare' la "Repubblica Universale" ispirata ai valori del deismo razionalista e vagheggiata &endash;tra gli altri- anche dal massone Giuseppe Mazzini.



Nel corso della storia l'ebraismo si infiltrerà massicciamente nelle logge massoniche, fino a farne sostanzialmente un suo strumento &endash;per altro conforme- di cui servirsi per l'attuazione dell'aspirazione ebraica all'egemonia mondiale.



Nel 1733(4), a Francoforte di Baviera, l'ebreo Mayer Amschel Rothschild &endash;fondatore della casa bancaria omonima- riunisce nella sua casa d'affari 12 alti esponenti del mondo bancario, finanziario e industriale per presentare loro lo schema di fondo di un piano di dominio mondiale. Rothschild affiderà al consanguineo Adam Weishaupt il compito di fornire un decisivo contributo al raggiungimento di questo obiettivo.



Nel 1776(5) nasce l'Ordine degli Illuminati o "Gesellschaft der Perfectibilisten", associazione di indirizzo gnostico-razionalista alla cui fondazione &endash;oltre a Weishaupt- concorreranno gli ebrei Wessely, Moses Mondelssohn, unitamente ai tre banchieri, parimenti giudei, Itzig, Friedlander e Mayer. Il programma(6) degli Illuminati contiene riferimenti teorici che costituiranno i cardini del pensiero radicaldemocratico successivo, specie marxista, e dell'ideologia che alimenterà I Protocolli dei Savi Anziani di Sion e il Patto Sinarchico (su cui ci soffermeremo in altra occasione). In questo programma si afferma la necessità dell'abolizione della proprietà privata e del diritto ereditario, del capovolgimento dell'ordine politico e sociale, della lotta contro le religioni, di rivoluzione permanente internazionale. Inoltre nel punto 20 si descrivono i lineamenti di un Unico Governo Mondiale, la cui direzione politica, nel punto 23, è riservata ad una classe dirigente tecnocratica (finanzieri, industriali, scienziati, economisti).



Nel 1782(7), al congresso massonico di Wilhlemsbad, l'Ordine degli Illuminati confluirà nella Massoneria che, di lì a pochi anni, ricoprirà un ruolo centrale nel sussulto eversivo del 1789, mentre nei secoli seguenti porterà a termine l'attacco decisivo all'ordine aristocratico europeo. Infatti l'assalto coordinato all'Europa aristocratica sarà messo a punto nel corso del Congresso Massonico Internazionale di Strasburgo nel 1847.



L'anno seguente &endash;il '1848' delle barricate tanto care all'oleografia risorgimentale- l'Europa vacillerà sotto i colpi della sovversione giudaico-massonica: da Parigi a Vienna, da Milano a Berlino, da Venezia a Madrid, da Roma a Napoli, le pretestuose parole d'ordine (indipendenza nazionale, costituzione liberale ecc.) e i metodi insurrezionali &endash; i cui sincronismi spaziali e temporali lasceranno chiaramente intuire un'unica regia &endash; non riusciranno a mascherare il vero obiettivo dell'attacco: lo Stato aristocratico-gerarchico e l'universo politico-ideale che le sorregge.



Il talmud ha rappresentato il tessuto unificante e l'elemento di coesione che ha garantito all'ebraismo della Diaspora la conservazione della sua profonda identità religiosa, spirituale ed etico-culturale, a dispetto della sua dispersione nel mondo. In esso e nella cultura dell'ebraismo diasporico sono rintracciabili i più solidi riferimenti storici e religioso-culturali del fenomeno mondialista.



Originariamente la forma tradizionale ebraica si riconnette alla tradizione Primordiale, la cui origine metafisica e non-umana opererà un'indubbia azione disciplinatrice e rettificatrice nei confronti delle perverse e dissolventi tendenze presenti nel 'corpus' razziale ebraico. L'ebraismo, comunque, non si sottrarrà ad un processo di decadenza &endash; comune ad altre forme tradizionali e riferibile ad un periodo compreso tra l'VIII e il VI secolo a.C. &endash; che affonda le sue radici nel piano della metastoria, e che propizierà nell'ebraismo un'assunzione profana e materializzata dei principi dell'antica tradizione, soprattutto il tema dell'elezione divina del popolo ebraico. "Questo tema &endash; scrive Claudio Mutti(8) &endash; che nell'ebraismo antico era stato contenuto, bene o male, entro il quadro organico di una tradizione, subì, col degenerare della tradizione in un tradizionalismo residuale, un processo di materializzazione, dando luogo a un razzismo intransigente e ad un risentimento smisurato nei confronti dei non-ebrei. (…)…la fine politica degli ebrei, la loro dispersione, la loro condanna in quanto popolo deicida fecero scattare, come un'idea di rivalsa e una speranza di "revanche", la teoria di Israele quale popolo destinato al comando universale.



La volontà di dominio mondano, prodotta e giustificata dalla laicizzazione del tema biblico della scelta di Israele quale "popolo di Dio", si legò a un desiderio sfrenato di ricchezza materiale e a una pronunciata propensione per il mercato; e ciò, in parte, è senza dubbio da mettersi in relazione con la materializzazione di un altro motivo tradizionale: quello del 'Regno'."



Il Talmud è la raccolta giurisprudenziale costituita dall'esegesi e dal commento rabbinico del Vecchio Testamento; la codificazione dei rabbini diventerà quindi la depositaria dell'identità cultural-razziale dell'ebraismo. Secondo l'ebreo Graetz, storico del giudaismo, "il Talmud è stato il simbolo che ha tenuto assieme i Giudei dispersi nei vari paesi, custodendo l'unità del giudaismo". Un altro ebreo, I.Epstein, scrive: "…ed è il Talmud che ha formato le dottrine religiose e morali del giudaismo odierno". Senz'altro interessante la considerazione di alcuni passi del Talmud: "Il Messia darà agli Ebrei il dominio del mondo, al quale serviranno e saranno sottoposti tutti i popoli"(9). Oppure: "Il Santissimo parlò così agli Israeliti: Voi mi avete riconosciuto come unico dominatore del mondo, e perciò io vi farò gli unici dominatori del mondo"(10). E, ancora: "Tutti i popoli verranno al monte del Signore e al Dio di Giacobbe e saranno soggiogati dagli Israeliti"(11).



L'etica talmudica, nel corso dei secoli, si sedimenterà nell'anima razziale del popolo ebraico, facendone il principale supporto antropologico delle forze dell'Antitradizione e il più efficace propagatore storico dei processi sovversivi che da essa si esprimono. L'idea-forma mercantile, concepita come condizione dell'anima, connotazione psicologica e 'status' interiore, troverà nel giudeo il riflesso storico più omogeneo e conforme. Ben presto, però, essa esprimerà un'ampia tendenza 'espansiva' che la condurrà a valicare i confini delimitati dall'unità etnica &endash; la razza ebraica &endash; postasi in origine quale sua condizione di manifestazione.



Dal punto di vista storico e culturale, questo 'straripamento' etico si renderà palese attraverso "…quella mercantilizzazione dell'esistenza &endash; scrive Franco Freda(12) &endash; che trovò, almeno in sette secoli di storia europea (effettualmente, data l'europeizzazione del mondo, oggi si può dire, purtroppo: della storia mondiale), nell'anima ebraica la sua matrice più frenetica e virulenta, e nell'ebreo il suo tipico, più incisivo e potente, veicolo d'infezione".



L'affermazione e la diffusione della mentalità giudeo-mercantile &endash; tramite le ideologie individualistiche e materialistiche &endash; anche tra i non-ebrei, rappresenterà una decisiva vittoria giudaica. L'ebraismo fornirà un contributo primario alla propagazione delle ideologi cosmopolite, ma, nello stesso tempo, custodirà gelosamente la propria identità razziale, culturale e nazionale, conscio del fatto che ciò gli avrebbe assicurato una fondamentale posizione di preminenza e di vantaggio nei confronti di popoli sradicati e di civiltà dissolte nella massificazione mondialista.

"Facciamo notare che noi Ebrei siamo una nazione singolare, della quale ogni ebreo è suddito incondizionatamente, quali che siano la sua residenza, il suo mestiere e la sua fede". (Luigi Brandeis del Tribunale Supremo degli Stati Uniti). Joseph Morris, rabbino londinese, autore dell'opera "Israele una Nazione", sostiene che "…Israele costituisce una grande nazione…Nessuna setta, né comunità religiosa avrebbe il diritto di portare tal nome…Negare la nazionalità ebraica equivarrebbe a negare l'esistenza degli Ebrei". O, ancora, Mosé Hess dall'opera "Roma e Gerusalemme": "Ogni ebreo appartiene alla propria razza e di conseguenza al giudaismo e non ha importanza alcuna che egli stesso e i suoi antenati abbiano rinnegato la propria fede religiosa".



L'internazionalismo finanziario, accompagnato e 'coperto' dagli alibi ideologici e dalla parole d'ordine pacifiste e umanitarie, sarà un corrosivo fermento cosmopolita che aprirà continuamente varchi alla marcia, apparentemente inarrestabile, del progetto relativo all'"One World", cioè al livellamento e all'unificazione mondialista degli uomini e dei popoli ridotti a segatura senza identità, senza rango, senza razza, in una parola: senza senso.



"Non esiste &endash; scrive Jean Izoulet(13), professore di filosofia al Collège de France &endash; che un solo problema sulla terra, ed è il problema di Israele. Problema delle due facce, di cui la faccia interna è il laicismo (rapporti tra scienza e fede) e la faccia esterna, l'internazionalismo (rapporti tra patria e umanità). Laicismo e internazionalismo sono le due facce del giudaismo".



Il denaro diventerà strumento di attuazione ed elemento di mediazione del rapporto di schiavitù che lega gli individui &endash; ormai sradicati &endash; all'oligarchia giudeo-plutocratica; l'individuo schiavo del denaro è automaticamente schiavo degli usurai che detengono il monopolio dell'emissione della moneta e della distribuzione del credito. "Dallo stato caotico dell'economia il genio ebraico sviluppò il sistema del capitalismo organizzato, grazie allo strumento più efficace: il sistema bancario(14)…"



L'egemonia ebraica nelle banche e nelle istituzioni finanziarie configurerà i coefficienti di organizzazione di una struttura mercantile internazionale; il pianeta sarà concepito come un immenso mercato che faccia da premessa per la realizzazione di un progetto di unificazione mondiale che, partendo dal piano economico, investirà via via il piano sociale, politico, culturale, religioso.



"Per questa oligarchia il Tempio sarà uno solo, per tutto il mondo cosmico abitato dall'uomo. E si edificherà, nel segreto dei conciliabili bancari, nella Banca del Mondo, centro di emissione dove la cabala degli iniziati trasformerà la carta in oro. Là celebreranno il rito della inversione di tutti i valori. Il prodotto che diventa niente; ed il niente di uno straccio di carta che diventa valore, oro. Affinché il lavoro produca miseria e la miseria intellettuale dei parassiti si trasformi nel controllo di tutte le ricchezze del mondo"(15).



Questi accenni vogliono essere un introduzione e un contributo alla delineazione dello schema culturale di fondo nel quale la fenomenologia mondialista, che nelle istituzioni e nelle strutture del capitalismo internazionale trova le sue più importanti articolazioni organizzative. La comprensione della 'cultura' del mondialismo è la premessa indispensabile per conferire spessore alla conseguente concreta azione di smascheramento basata sulla puntuale denuncia di nomi, atti e fatti che, altrimenti, se non ricondotti alla logica profonda che li sottende, perderebbero la loro efficacia 'dimostrativa'.



La battaglia culturale del sodalizio-comunità nel quale radichiamo la nostra identità sovraindividuale, potrà essere condivisa o respinta, ma, ciò che è certo e che più conta, ad essa non potrà essere disconosciuta una inoppugnabile qualificazione culturale ed un indubbio rigore scientifico.





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NOTE

1) Vedi Giacinto Auriti "L'ordinamento internazionale del sistema monetario", Marino Solfanelli editore, Chieti, 1987;

2) Julius Evola "Ricognizioni", Ed. Mediterranee, Roma, 1974;

3) Claudio Mutti "Stalin, Trotzsky e l'Alta finanza", Quaderni del Veltro, Ferrara, 1974;

4) Vedi Nesta H. Webster "World revolution, the plot against Civilisation", Briston P.Co. Devon, 1971, 6 ed., pag. 32;

5) Vedi Olivia Maria O'Grady "The beasts of the Apocalypse", O'Gray Publications, Benicia USA 1959, pag.118;

6) Vedi Williams Guy Carr, "Pawn in the game", St. George Press, Glendale USA 1970, 7 ed., pagg. 26-31;

7) Vedi Nesta H. Webster "Secret Societies and subeversive Mouvements", Britons Publishing, 8 ed. Londra 1964, pagg. 233-234;

8) Claudio Mutti, "Ebraicità ed ebraismo &endash; I Protocolli dei Savi Anziani di Sion", Ed. Ar, Padova, 1976;

9) Tal. Bab. Trat. Schalb., fol. 120, c.l. e Shanedrin, fol. 88 c. 2; fol. 99 c.l.;

10) Chenga, fol. 3, 3;

11) Commento ad Isaia, fol. 4 c.2;

12) F.G.Freda, "I Protocolli", op.cit.;

13) Cit. in Yann Moncomble, "La Trilaterale et les secrets du mondialisme", Ed. Faits et documents, Paris, 1980;

14) "L'ebreo americano", 10 settembre 1920;

15) "La rivolta del Popolo", citato in Carlo A. Rroncioni, "Il Potere Occulto", Ed. Sentinella d'Italia, Monfalcone 1974.

Der Wehrwolf
20-06-02, 20:56
IL Risorgimento...massonico!

PORTA PIA

Converrà continuare il discorso iniziato nel precedente frammento: riflettere su Roma e il suo destino nell'epoca moderna non è certamente un esercizio provinciale e neppure soltanto italiano, visto il mistero di universalità che - dagli inizi della sua storia - è legato all'insediamento sul Tevere. L'Italia "laica" ha avuto un atteggiamento ambivalente davanti alla Città Eterna: da un lato il mito di Roma, nutrito di ricordi, conditi con non poca retorica, dell'antichità classica. Dall'altro, l'avversione per ciò che quel luogo era divenuto con i papi e per ciò che, dunque, significava per un cattolicesimo identificato come il nemico principale da battere perché colonna dell'oscurantismo, nocciolo duro delta reazione. trincea della resistenza ai "Lumi" della Scienza e del Progresso. Questa avversione per la città-simbolo della vicenda cristiana si estendeva (e si estende), un po' razzisticamente, verso i romani. Giordano Bruno Guerrì, nell'incredibile articolo da cui siamo partiti qui sopra, sentenzia: "lì papa si è ben guardato dal dire che lo sfascio di una città non può dipendere solo da chi l'amministra e che occorre la complicità di chi ci abita: il peggior male di Roma è la romanità dei romani, ovvero quell'accidia arrogante e spocchiosa che non è certo genetica, ma che si è formata in secoli di dominio papale". La Chiesa, dunque, come corruttrice di anime e di caratteri. Ancora Guerri: "Ci vuole la faccia tosta di Wojtyla per prendersela con una città i cui mali, tutt'altro che recenti, sono stati metodicamente preparati dai suoi predecessori nel corso dei secoli. Roma era certamente più fetida di oggi quando le miserabili catapecchie del popolino si addossavano alle mille chiese fastose, quando i papa-re angariavano la città per arricchirsi. impotentirsi, michelangiolarsi: impiccando, arrostendo sui roghi. immiserendo".

Siamo, come si vede, a una sorta di revival anticlericale. davvero sconcertante nella sua ingenua ripetitività ottocentesca che ignora la realtà effettiva, ben diversa, mostrata dagli studi storici. Certo, sorprende in modo particolare, in un intellettuale contemporaneo, considerare una colpa storica della Chiesa il "michelangiolarsi". L'avere cioè, con il costante amore per le arti, permesso agli artisti di esprimersi non lesinando loro i mezzi e a Roma, ridotta a rovine coperte di ortiche, di assumere una bellezza che neppure la "nuova" Italia, dopo il 1870, malgrado ce la mettesse tutta, riuscì a distruggere del tutto. Bellezza che, richiamando da tutto il mondo chi è sensibile alle arti, si è rivelata poi per la città anche il migliore e il più duraturo degli investimenti economici. I Guerri pensano forse che un solo turista si muoverebbe per visitare ciò che dopo il 1870 l'Italia - per oltre mezzo secolo polemicamente anticlericale - ha edificato sui Sette Colli? Quanto alle "miserabili catapecchie del popolino" nella città prima della breccia di Porta Pia, è ben noto (come ci hanno detto Marx, Engels e tutto il movimento socialista e umanitario), che, nello stesso periodo, il "popolino" dei Paesi protestanti - dunque acerrimi nemici del "papismo" toccati dalla rivoluzione industriale, godeva il suo comfort sereno nelle villette con giardino e pianoforte dei sobborghi operai di Manchester, di Londra, di Parigi, di Berlino... Quel "popolino" - che là, tra quelle brume, chiamavano "proletariato" - non si addensava attorno a "chiese fastose" ma a quelle nude, terribili, disumane cattedrali che erano opifici e fabbriche; templi innalzati dalla nuova casta sacerdotale, la borghesia, ai soli dei che ormai riconoscesse: il Denaro, il Profitto, la Produzione.

In realtà, in una certa cultura continua ad agire, magari inconsciamente, il rancore verso i romani per non avere fatto nulla per accelerare l'arrivo della "Ragione e del Progresso" all'interno delle Mura Aureliane. Cerchiamo di ripassare un poco quella storia che oggi sembrano ignorare anche tanti "storici". Nel marzo del l86~, aprendosi il primo parlamento del Regno non più di Sardegna ma d'Italia, la Roma ancora papale è acclamata, simbolicamente, capitale d'Italia. Cavour (che mai volle visitare Roma) è troppo realista per cedere alle declamazioni dei retori sulla mitologia dell'Urbe e sui suoi ricordi imperiali: a lui, quella votazione serve per bloccare sul nascere l'antico municipalismo (già molte città, da Milano a Napoli, avanzavano candidature) e per lasciare a tempo indefinito la capitale nella sua Torino, pur così decentrata e malamata dai sudditi del nuovo Regno. Cavour sa che quella proclamazione è platonica e che lo resterà: la Francia di Napoleone III presidia in armi la Città Eterna e minaccia guerra in caso di occupazione; anche le altre potenze europee, a cominciare dall'Austria cattolica e dalla stessa Prussia protestante, si oppongono alle pretese Italiane. Con la Convenzione con la Francia nel settembre 1864, il Regno, impegnandosi a trasferire la capitale a Firenze, sembra prendere atto definitivamente della impossibilità di installarsi sul Tevere. Due anni dopo, nel 1866, onorando quella Convenzione, la Francia ritira le sue truppe da Roma, lasciando solo un presidio internazionale (composto, tra l'altro, da giovani volontari delle famiglie cattoliche di tutta l'Europa e addirittura delle Americhe:.non solo il Risorgimento ma anche "l'altra parte" ebbe l'equivalente delle "camicie rosse" garibaldine). Nel 1870, schiacciato a Sedan dai prussiani il secondo impero napoleonico (e irritata l'Austria dalla proclamazione, fatta dal Vaticano I, dell'infallibilità papale), l'Italia ha mano libera per occupare Roma da dove i francesi si sono ritirati e per trasferirvi, l'anno seguente, la capitale. Ebbene: poco si riflette sulla grave sconfitta morale, sulla insanabile delusione del nazionalismo borghese, dovute al fatto che il 20 settembre i cannoni di Raffaele Cadorna dovettero sparare quattro ore per aprire una breccia nelle mura e fare irruzione in una città che aspettava muta, inerte, come rassegnata.

I dieci anni dal 1860 al 1870 erano stati, infatti, un testardo quanto inutile sforzo per ottenere l'insurrezione dei romani contro il papa, dando così al governo italiano un pretesto per intervenire. Fino al 1866 i patrioti si consolarono dicendo che la causa della mancata rivolta era la presenza dei francesi. Partiti questi, Garibaldi pensò che il momento fosse giunto ma, penetrato nell'autunno del 1867 in quel che restava dello Stato Pontificio, trovò una popolazione niente affatto festante, bensì largamente ostile (come egli stesso ammise). Riuscì a Spingersi sin quasi sotto le mura di Roma, fidando nella insurrezione che gli era stata promessa e per la quale il governo italiano non aveva lesinato aiuti in denaro e in armi. "Ci basterebbero solo dieci schioppettate dei romani!", gemeva, a Firenze, il capo del Governo, Giovanni Lanza. Ma quelle schioppettate non ci furono; anzi, non mancarono i popolani laziali che si arruolarono volontari per contrastare l'invasione garibaldina. I 'congiurati", pagati dal governo dì Firenze e da Garibaldi, spiegarono poi che la promessa rivoluzione contro il papa non era stata fatta perché, la sera convenuta, si era messo a piovere... Così, a Mentana, i pontifici e i francesi mettono in fuga i garibaldini e l'esercito italiano non può intervenire (come era stato programmato) prendendo a pretesto morale la rivolta degli abitanti del Lazio e di Roma che non ci fu. Lo stesso accade nel 1870, quando la Francia sconfitta e poi in preda al marasma della Comune richiama il suo presidio. Anche stavolta si cerca di suscitare un insurrezione; ma anche stavolta denari, sforzi, agenti provocatori si rivelano inutili. Tanto che ancora il 10 settembre, quando già le truppe di Cadorna convergono sulla città, Pio IX, acclamatissimo dal popolo, si reca a inaugurare una fontana sulla piazza di Termini. E, irrompendo dieci giorni dopo da Porta Pia su quella che sarà, appunto, la via XX Settembre, i bersaglieri trovano strade deserte, imposte chiuse, una città che sembra considerarsi più invasa che "liberata". E che sempre distinguerà tra essa e gli "italiani", chiamati buzzurri, cioè forestieri rozzi e non invitati.

Un bello smacco per la retorica nazionalista e laicista: questa delusione è tra i motivi di una tenace avversione contro i romani, colpevoli di non avere voluto muovere un dito per togliersi di dosso quella che (stando allo schema) sarebbe stata "l'intollerabile oppressione papalina". Un disprezzo "laico" che si aggraverà ancora perché, nel 1943, fuggito dal Quirinale il nipote del re giunto nel 1870, e dissoltosi non solo il governo ma persino lo Stato entrato a cannonate, i romani si strinsero di nuovo attorno al papa, ridandogli spontaneamente l'antica autorità; e, partiti i tedeschi, si riversarono in massa a piazza San Pietro per acclamarlo come "difensore della città" che, unico tra i potenti, non aveva abbandonato. Fu, questo, un finale coerente con gli inizi, con quel lontano 1793 in cui in Francia regnava il Terrore dei giacobini, i quali inviarono nella Roma papale - con funzioni di propagandista e di provocatore coperto dalla immunità diplomatica - Hugon de Bassville, tanto mediocre cantore della Rivoluzione quanto fazioso e virulento miscredente. Bassville, come sintetizza uno storico contemporaneo, "in occasione delle principali cerimonie religiose, accompagnato da servitori e guardie del corpo, era solito mescolarsi ai fedeli e, nei momenti di maggior devozione, si faceva beffe a gran voce dei sacramenti, dei celebranti e dei luoghi e oggetti di culto e invitava, bestemmiando, a devastare le chiese e a consegnargli i sacerdoti affinché, tradotti a Parigi, venissero decapitati". A fronte della eccessiva tolleranza del papa, che si limitava a proteste cui dalla Francia si rispondeva con sarcasmo, intervenne il popolo, quello vero (e non "la plebaglia" come ancora si legge in enciclopedie e testi scolastici), il popolo credente che, ferito nel suo sentimento religioso, un bel giorno perse la pazienza e alle bestemmie ripetute per l'ennesima volta proruppe in tumulti che culminarono con il linciaggio di Bassville. Ne seguì la dichiarazione di guerra della Francia giacobina allo Stato pontificio: dichiarazione, per il momento, platonica, visto che a Parigi c'era ben altro da fare in quei mesi che muovere a battaglia contro il papa. Ma Napoleone non dimenticò e anche per questo, quando giunse in Italia, calcò particolarmente la mano contro Roma. Ma questa, con l'uccisione del giacobino blasfemo Bassville, si assicurò un primato: era stata la prima città italiana a dimostrare, e violentemente, contro la Rivoluzione. Deve esserci anche questo nel subconscio degli "illuminati" che disprezzano il popolo romano. I Guerri, dunque, non hanno torto: come non detestare gente che massacrò Bassville, che non volle scacciare Pio IX e che ritrovò in Pio XII un "papa-re" cui essere grata?

Vittorio Messori

Der Wehrwolf
20-06-02, 20:57
I MILLE

Per il capo dei socialisti, Bettino Craxi, è ormai una tradizione passare a Caprera la prima domenica di giugno, giorno in cui si celebra la festa della Repubblica. Caprera, si sa, vuoi dire Garibaldi: per un giorno, nei quindici chilometri quadrati di quell'isola, Craxi medita su colui che qualcuno ancora chiama "l'Eroe dei Due Mondi".

In realtà, la polemica cattolica aveva storpiato quel nome, trasformandolo in "Eroe dei Due Milioni", alludendo alla pingue rendita assegnatagli dallo Stato italiano. Non mancarono, in effetti, polemiche sulla "povertà" di colui che (stando a quanto si leggeva nei libri edificanti) "donò un Regno ai Savoia senza nulla chiedere per sé". Ma, proprio adesso, nuove ricerche, con relativi documenti sinora sconosciuti, gettano una luce inquietante sul mito "francescano" del Nizzardo (o, meglio, fatta salva la sua personale integrità, su quello dei suoi collaboratori diretti), e possono aprire nuove prospettive sui retroscena dell'epopea risorgimentale. Ci sono brutte novità, insomma, per i superstiti devoti dell'Eroe in capelli biondi, camicia rossa e poncho bianco.

Prima di venire a quelle novità, vediamo ciò che già si sapeva: come se la passava, economicamente, Garibaldi? Era davvero così povero come vorrebbe il mito?

Va detto che sin dal 1854 aveva abbastanza denaro per comprare almeno parte di un'isola come, appunto, Caprera. Quando vi si ritirò, dopo la spedizione contro siciliani e napoletani, la sua azienda agricola contava una trentina di dipendenti e altre decine di persone (tra cui i membri della numerosa famiglia) ne vivevano. I capi di bestiame superavano i 500 e, in una rada, era ancorato un grande panfilo regalatogli da un ammiratore.

Poiché le abitudini di Garibaldi erano frugali (e poiché ciò che gli interessava era la "gloria" e non il denaro), avrebbe potuto vivere da benestante, non fosse stato per i figli - Ricciottì e Menotti - che si misero a speculare sul boom edilizio di Roma divenuta capitale italiana. Una storia poco edificante, anche dal punto di vista patriottico: i due, cioè, parteciparono a quel "sacco urbanistico" che, in pochi anni, distrusse la vecchia Roma, divenuta terra di conquista di speculatori che crearono orribili quartieri "da rendita" dove erano splendidi parchi, rovine antiche, palazzi medievali e rinascimentali. Già ne parlammo. Ricciotti e Menotti finirono però per lasciarci le penne e, disperati, ricorsero, per soccorso, al famoso padre.

Sparsasi la voce delle difficoltà in cui si trovava la famiglia Garibaldi, il Governo (sempre pronto a tenere buono un uomo dei cui colpi di testa diffidava: e non a torto) deliberò un "Dono di gratitudine nazionale" di ben 50.000 lire l'anno vita natural durante. Una somma enorme, pari alla rendita di due milioni di lire-oro. Da qui il beffardo nomignolo cattolico di "Eroe dei Due Milioni" inventato dall'implacabile Civiltà Cattolica.

Garibaldi cercò di salvare le forme: sulle prime respinse la rendita con sdegnate parole; poi ci ripensò e finì coll'accettarla, approfittando del fatto che al governo era salito Agostino Depretis, uno dei Mille. E pensare che, poco più di un anno prima, saputo che il Parlamento aveva votato la legge che lo faceva ricco rentier, aveva gridato: "Cotesto governo, la cui missione è impoverire il Paese per corromperlo, si cerchi dei complici altrove!". Ma, si sa, si deve pur campare...

Anche se si tratta di un episodio che mal si inquadra con il mito, tra le tante riserve cui la storia quella "vera" - obbliga davanti a Garibaldi, non c'è più quella di avidità di denaro. Le grandi somme da lui dilapidate furono inghiottite da una torma di familiari, profittatori, parassiti, oltre che dalla sua nullità come amministratore di se stesso.

Adesso, ecco la sconcertante rivelazione. Viene dal convegno "La liberazione d'Italia nell'opera della Massoneria", organizzato a Torino nel settembre del 1988 dal Collegio dei Maestri Venerabili del Piemonte, con l'appoggio di tutte le Logge italiane. Di recente sono stati pubblicati gli Atti, a cura dell'editrice ufficiosa dei massoni. Una fonte sicura dunque, visto il culto dei "fratelli" per quel Garibaldi che fu loro Gran Capo. Un breve intervento - poco più di due paginette, ma esplosive - a firma di uno studioso, Giulio Di Vita, porta il titolo Finanziamento della spedizione dei Mille. Già: chi pagò? Come riconosce lo stesso massone autore della ricerca: "Una certa ritrosia ha inibito indagini su questa materia, quasi temendo che potessero offuscare il Mito. Quanto viene solitamente riferito è un modesto versamento - circa 25.000 lire fatto da Nino Bixio a Garibaldi in persona all'atto dell'imbarco da Quarto".

E invece, lavorando in archivi inglesi, l'insospettabile Di Vita ha scoperto che, in quei giorni, a Garibaldi fu segretamente versata l'enorme somma di tre milioni di franchi francesi, cioè (chiarisce lo studioso) "molti milioni di dollari di oggi". Il versamento avvenne in piastre d'oro turche: una moneta molto apprezzata in tutto il Mediterraneo. A che servì quell'autentico tesoro? Sentiamo il nostro ricercatore: "È incontrovertibile che la marcia trionfale delle legioni garibaldine nel Sud venne immensamente agevolata dalla subitanea conversione di potenti dignitari borbonici alla democrazia liberale. Non è assurdo pensare che questa illuminazione sia stata catalizzata dall'oro". Anche perché ai finanziamenti segreti se ne aggiunsero molti altri (e notevolissimi, palesi) frutto di collette tra tutti i "democratici" di Europa e America, del Nord come del Sud.

Sarebbero così confermate quelle che, sinora, erano semplici voci: come, ad esempio, che la resa di Palermo (inspiegabile sul piano militare) sia stata ottenuta non con le gesta delle camicie rosse ma con le "piastre d'oro" versate al generale napoletano, Ferdinando Lanza. Con la prova dei molti miliardi di cui disponeva Garibaldi si può forse valutare meglio un'impresa come quella dei Mille che mise in fuga un esercito di centomila uomini (tra i quali migliaia di solidi bavaresi e svizzeri), al prezzo di soli 78 morti tra i volontari iniziali.

Ma c'è di più: il poeta Ippolito Nievo se ne tornava da Palermo a Napoli al termine della spedizione. Il piroscafo su cui viaggiava, l"'Ercole", affondò per una esplosione nelle caldaie e tutti annegarono. Si sospettò subito un sabotaggio ma l'inchiesta fu sollecitamente insabbiata. Le cose possono ora chiarirsi, visto che il Nievo, come capo dell'intendenza, amministrava i fondi segreti e aveva dunque con sé la documentazione sull'impiego che nel Sud era stato fatto di quei fondi. Qualcuno evidentemente non gradiva che le prove del pagamento giungessero a Napoli: non si dimentichi che recenti esplorazioni subacquee hanno confermato che il naufragio della nave del poeta fu davvero dovuto a un atto doloso.

Si cominciava bene, dunque, con quella "Nuova Italia" che i garibaldini dicevano di volere portare anche laggiù: una bella storia di corruzioni e di attentati Ma Nievo portava, pare, solo ricevute: dove finirono i miliardi rimasti, e dei quali solo pochissimi capi dei Mille erano a conoscenza?

In ogni caso, era una somma che solo un governo poteva pagare. E, in effetti, la fonte del denaro era il governo inglese (non a caso lo sbarco avvenne a Marsala, allora una sorta di feudo britannico, e sotto la protezione di due navi inglesi; e proprio su una nave inglese nel porto di Palermo fu firmata la resa dell'isola).

Come riconosce il "fratello" Di Vita, lo scopo della Gran Bretagna era quello già ben noto: aiutare Garibaldi per "colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè l'Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico". Le monarchiche isole pagarono cioè il repubblicano Eroe perché distruggesse un Regno, quello millenario delle Due Sicilie, purché anche l'Italia, "tenebroso antro papista", fosse liberata dal cattolicesimo.

Vittorio Messori

Der Wehrwolf
20-06-02, 20:57
PIO IX (1792-1878)

di Andrea Arnaldi

1. Un pontificato in tempo di Rivoluzione

Giovanni Maria Mastai Ferretti, nato a Senigallia, nelle Marche, il 13 maggio 1792, ordinato sacerdote nel 1819, consacrato vescovo nel 1827, creato cardinale nel 1840 e asceso alla cattedra di Pietro, con il nome di Pio IX, il 16 giugno 1846, vive in anni di enormi rivolgimenti politici, ma prima ancora filosofici e dottrinali: nasce mentre infuria la Rivoluzione francese, inizia la carriera ecclesiastica al tempo dell’illusoria Restaurazione ed è vescovo durante il tumultuoso periodo dei moti italiani, che preparano il terreno al Risorgimento, vero e proprio tentativo d’importazione delle idee e delle realizzazioni che hanno caratterizzato la Rivoluzione in Francia e, perciò, correttamente identificabile come Rivoluzione italiana.

Il conclave dal quale Mastai Ferretti uscirà eletto si svolge in un clima di grandi disorientamento e attesa: la Chiesa, soprattutto con il pontificato di Papa Gregorio XVI (1831-1846), si è rafforzata nella convinzione che i sommovimenti politici e militari che vanno scuotendo l’Europa e l’Italia non costituiscono semplicemente la risposta a richieste d’indipendenza e di libertà, ma sottendono una precisa volontà di scristianizzare popolazioni abituate da sempre a vedere nella religione e nelle tradizioni locali i caratteri costitutivi della propria civiltà.

Papa Pio IX, spirito profondamente religioso prima che politico, s’appresta a governare la Chiesa per trentadue anni. Sarà il più lungo e, forse, il più travagliato pontificato della storia della Chiesa, nel corso del quale si verificano eventi di portata epocale: la proclamazione dei dogmi dell’Immacolata Concezione di Maria, nel 1854, e dell’infallibilità pontificia, nel 1870; lo svolgimento, in un clima di enorme tensione, del Concilio Ecumenico Vaticano I (1869-1870); la fine traumatica del dominio temporale dei Pontefici romani e l’esplosione del conflitto fra la Chiesa e il nuovo Stato unitario italiano, noto come la Questione Romana, di una gravità tale da produrre nel corpo sociale una lacerazione che verrà risanata diplomaticamente e giuridicamente, ma non culturalmente, solo nel 1929 con la stipulazione del Concordato e dei Patti Lateranensi.

2. La questione italiana

L’elezione di Mastai Ferretti suscita inizialmente l’entusiasmo dei circoli liberali: erano noti infatti la genuina "italianità" dell’allora vescovo di Imola e il suo desiderio di trovare una soluzione equa al problema dell’unità politica della nazione italiana, al di là di ogni progetto illuministico di omogeneizzazione artificiale e forzata. Gli avvenimenti non consentono però al nuovo Pontefice, comunque non sospettabile di aver mai nutrito simpatie liberali, d’assecondare il disegno dei fautori dell’unità, ideologico prima che politico. Infatti, sfumato il tentativo d’edificare lo Stato nazionale su basi federali — soluzione che avrebbe consentito di preservare la ricchezza costituita dall’articolazione del paese in diversi Stati, tutori ed eredi delle diverse tradizioni locali, tutte legate dal comune patrimonio culturale e religioso — le élite politiche del Risorgimento accentuano la polemica anticattolica e imprimono agli eventi una forte accelerazione in senso centralista e "annessionista".

Nel corso di un drammatico ventennio Papa Pio IX assiste così all’insurrezione rivoluzionaria del 1848 — con l’assassinio del ministro dell’interno Pellegrino Rossi (1787-1848) e l’instaurazione della Repubblica Romana —, che lo costringe all’esilio di Gaeta; all’inasprimento della legislazione repressiva emanata dal Governo sabaudo per colpire la Chiesa e le sue prerogative, gli ordini religiosi e i beni ecclesiastici; alla brutale repressione della resistenza che altri italiani, bollati con il marchio infame di briganti, opponevano nel Regno delle Due Sicilie al tentativo di eliminare con la forza le libertà e le tradizioni di mezza penisola; finalmente, all’occupazione di Roma, il 20 settembre 1870.

Il Pontefice, strumentalmente osannato all’atto dell’elezione da quanti si mostreranno successivamente suoi irriducibili avversari, si rende conto molto presto che non potevano essere queste le modalità e le motivazioni di fondo sulle quali edificare il nuovo Stato e basare la convivenza delle popolazioni italiane: non contro l’unità d’Italia, ma contro quella unità diveniva perciò indifferibile intervenire con chiarezza, richiamare l’attenzione sui princìpi e sui valori, illuminare le coscienze dei fedeli.

Lo scontro con il Regno d’Italia giunge all’apice con la sua inaudita decisione di procedere alla conquista di Roma e di por fine alla sovranità temporale dei Papi, passata indenne attraverso le alterne vicissitudini di mille anni di storia. La resistenza del Papa — che ordinerà agli zuavi un’opposizione formale allo scopo di evitare inutili spargimenti di sangue e di rendere comunque evidente la violenza subìta — non può essere ricondotta a un’inesistente volontà di potere, ma risponde alla duplice esigenza di garantire alla Chiesa gli spazi minimi necessari per esercitare il suo ministero in piena libertà e di difendere l’integrità del Patrimonio di San Pietro, appartenente a tutta la Cristianità; esigenze tanto più sentite quanto più il clima ideologico e politico diventava ostile alla Chiesa e al libero esercizio della sua missione.

Le motivazioni di fondo del contrasto fra Papa Pio IX e le classi dirigenti che guidarono il processo di unificazione politica sono dunque essenzialmente di natura dottrinale e non implicano affatto un’opposizione preconcetta alla creazione di uno Stato unitario italiano, idea di per sé né buona né cattiva, dovendosene valutare la bontà sulla base dei princìpi posti quali punti di riferimento del nuovo Stato. "Tutto il mio operare in Dio, con Dio e per Dio": questo era il proposito espresso da Giovanni Maria Mastai Ferretti all’inizio della vita sacerdotale e su questo programma egli basa la sua azione pastorale e politica.

3. Guida della Chiesa universale

La lettera enciclica Quanta cura, dell’8 dicembre 1864, con annesso il Sillabo, e il Concilio Ecumenico Vaticano I, costituiscono le più rilevanti — e per certi aspetti a tutt’oggi "scandalose" — risposte della Chiesa alla degenerazione del quadro ideologico e politico. Nel Sillabo Papa Pio IX enumera una serie di proposizioni erronee, già condannate in precedenti documenti magisteriali, attraverso le quali è possibile comprendere la natura e gl’intenti dell’ideologia rivoluzionaria. Con il Concilio Ecumenico Vaticano I la Chiesa ribadisce e sviluppa la dottrina tradizionale sul primato del Pontefice romano e definisce il dogma dell’infallibilità del Papa quando si pronuncia solennemente, nella pienezza della propria autorità apostolica, su temi di fede e di morale, sottolineando così che, oltre e al di sopra di tutte le discussioni e di tutte le opinioni umane, vi è una Verità alla quale è dovuto ossequio e che la Chiesa ha il compito di trasmettere.

Sedici anni prima il Pontefice aveva proclamato un’altra grande verità di fede, secondo la quale la Vergine Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal suo concepimento. Questo dogma, patrimonio secolare della comunità cristiana, oltre a rendere il dovuto culto a Colei che la Chiesa venera come Madre di Dio, ribadiva la realtà del peccato originale e la stoltezza dell’uomo che crede di bastare a sé stesso e di poter edificare impunemente una società senza Dio o contro Dio. Nel 1858, appena quattro anni dopo la solenne definizione dogmatica, una splendente figura di Donna, apparendo nella grotta di Massabielle, a Lourdes, nella Francia Meridionale, si qualificherà come l’Immacolata Concezione, confermando in modo del tutto soprannaturale l’operato del Sommo Pontefice.

Il pontificato di Papa Pio IX non si esaurisce dunque nel lungo e drammatico scontro con la Rivoluzione italiana, ma si distingue per la feconda attività apostolica e pastorale, per l’acuta sensibilità religiosa e per l’ardente spirito di carità. Oltre a costituire il Patriarcato Latino di Gerusalemme, egli erige 29 sedi metropolitane e fonda 132 nuove sedi episcopali; dà slancio all’attività missionaria, con particolare riguardo all’America Latina, e crea il primo cardinale nordamericano; ricostituisce la gerarchia in Inghilterra e in Olanda e favorisce le tradizioni e i riti della Chiesa Orientale; fonda molti seminari e rinnova i più antichi istituti e ordini religiosi.

Inoltre, interpretando la mentalità moderna soprattutto come un rifiuto dell’amore divino, dà notevole impulso non solo alla devozione mariana e a quella eucaristica ma anche al culto del Sacro Cuore di Gesù — estendendo a tutta la Chiesa la relativa festa liturgica e beatificando Margherita Maria Alacoque (1647-1690), la visitandina francese fervente apostola di tale devozione —, che ritiene i mezzi più idonei per riavvicinare gli uomini a Dio. Una risposta al laicismo e al naturalismo del secolo è costituita anche dalle numerose beatificazioni e canonizzazioni, rispettivamente 52 e 222, che confermano la fede nella redenzione e nell’efficacia della grazia. Infine, dichiara san Giuseppe Patrono della Chiesa universale e conferisce il titolo di Dottore della Chiesa a sant’Ilario di Poitiers (315 ca.-367), a san Francesco di Sales (1567-1602) e a sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Alla domanda "Perché tanti santi?" rispondeva in maniera significativa: "Mai abbiamo noi avuto tanto bisogno d’intercessori in cielo e di modelli in terra".

Nella travagliata vicenda umana di Papa Pio IX non vi è mai traccia di quella scissione fra fede e cultura, fra fede e politica, che costituisce l’esito del processo di secolarizzazione caratteristico della modernità e ormai diffusissimo. Ogni sua azione politica — anche quelle meno comprensibili per la sensibilità contemporanea, come la difesa a oltranza della sovranità temporale dei Papi — è espressione dell’unica preoccupazione che conta, quella per il destino soprannaturale degli uomini: "Miei cari figli, ricordatevi che avete un’anima... un’anima creata all’immagine di Dio e che Dio giudicherà! Occupatevi di lei, ve ne scongiuro, più che di speculazioni, di industria, di vie ferrate e di tutte quelle miserie che costituiscono i beni di questo mondo. Non vi vieto già di interessarvi di questi beni che passano, purché con giusta misura; ma ricordatevi, ve ne scongiuro di nuovo, che avete un’anima!".

4. La causa di beatificazione

Papa Pio IX muore il 7 febbraio 1878 nei Palazzi Vaticani, dai quali non era più uscito dopo che l’esercito "liberatore" lo aveva costretto a lasciare il Quirinale, creando una frattura drammatica nel paese e nelle coscienze dei cattolici. Nel 1907 viene introdotta la causa di beatificazione, che, con ritmo molto lento, è giunta a una fase decisiva negli anni 1980. Con un decreto del 6 luglio 1985, infatti, la Congregazione delle Cause dei Santi ha riconosciuto l’eroicità delle virtù del Servo di Dio Papa Pio IX, al quale è attribuito il titolo di Venerabile. È il primo, significativo passo sulla strada dell’elevazione di Giovanni Maria Mastai Ferretti all’onore degli altari, strada ancora ardua e controversa a causa delle reazioni contrastanti che la sua figura continua a suscitare.

"Come Sacerdote, come Vescovo e come Sommo Pontefice — si legge nel decreto — il Servo di Dio, senza interruzione e in modo continuo, apparve e fu veramente "Uomo di Dio"; uomo di preghiera assidua, senz’altro desiderio che la gloria di Dio, il bene della Chiesa e la salvezza delle anime; e non cercava niente altro se non compiere in tutte le cose la volontà di Dio e a quella aderiva con tutta l’anima, per quanto grandi fossero le sofferenze che doveva sopportare. Questo solo fu sempre la regola principale della sua vita e della sua attività pastorale. Mirando solo a questo, egli cercò di risolvere problemi talvolta difficilissimi che nel più alto ministero pastorale non raramente fu costretto ad affrontare".



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Per approfondire: sulla figura e sul periodo storico, vedi monsignor Alberto Polverari, Vita di Pio IX, Libreria Editrice Vaticana, 3 voll., Città del Vaticano 1986-1988; Roger Aubert, Il Pontificato di Pio IX (1846-1878), ed. it. a cura di Giacomo Martina S.J., 2 voll, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1990; G. Martina S.J., Pio IX, Pontificia Università Gregoriana, 3 voll., Roma 1974-1990; Manlio Brunetti, Pio IX: giudizio storico-teologico, Edizione dell’Opera Pia Mastai Ferretti, Senigallia (Ancona) 1992; vedi la produzione magisteriale, in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emananti dal 1740, vol. IV, Pio IX (1846-1878), a cura di Ugo Bellocchi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995.

Der Wehrwolf
20-06-02, 20:58
IL SILLABO, 136 ANNI DOPO

di Rino Cammilleri

L'8 dicembre 1864, lo stesso giorno in cui dieci anni prima era stato proclamato il dogma dell'Immacolata Concezione, veniva pubblicata l'enciclica Quanta cura . Recava annesso un catalogo (in latino Syllabus ) di dottrine, idee, teorie e affermazioni che la Chiesa condannava. Fosse uscita da sola, l'enciclica, avrebbe avuto un effetto meno dirompente: si sa, le encicliche sono generalmente prolisse, avvolte in uno stile solenne e severo che stempera in qualche modo il rigore delle affermazioni. Ma quel repertorio di brevi proposizioni, secche, precise, terribili, ebbe l'effetto di un macigno piombato in un negozio di specchi. Non potevano esservi dubbi, né vi era spazio per erudite controversie di teologi: quelle ottanta frasi erano lì, nero su bianco, seguite dal richiamo ai pronunciamenti pontifici che le fulminavano. Un pugno diretto allo stomaco del mondo moderno (anzi, al suo cuore), così come esso si era venuto sviluppando negli ultimi due secoli. La semplice impostazione di condanna (...la Chiesa condanna chiunque affermi questo e quest'altro...) costituiva una sorta di prontuario per il credente: gli bastava fare il contrario per essere nella verità cattolica. Solo che in quel documento c'era l'universo intero, lo spirito della modernità era folgorato in toto , né rimaneva quasi spazio per altro. In genere si dice che a chi crede bastano poche parole; è per chi non crede o per quelli paucae fidei che, sempre in genere, "questo linguaggio è duro" (Gv 6,60). Duro, quello del Sillabo , lo era senz'altro; ma, altrettanto sicuramente, chiaro ed efficace. Infatti, all'epoca tutti capirono perfettamente. E da allora le cose non sono più state le stesse, con implicazioni e complicazioni che tutt'ora perdurano, a centotrentasei anni di distanza. Molti cattolici, infatti, considerano il Sillabo una sorta di scheletro nell'armadio, un momento della loro storia di cui vergognarsi e scusarsi. Per mettere in difficoltà un cattolico in una discussione basta a un certo punto scagliargli in faccia un "...e il Sillabo ?". Di solito l'effetto che si ottiene è paragonabile a quello, terroristico e paralizzante, che si aveva quando, in tempi neanche tanto remoti, si dava del "fascista" a qualcuno. Coloro che, quasi un secolo e mezzo fa, sostennero e difesero quel documento sono considerati, nella migliore delle ipotesi, "anime povere di vita che non sapevano nulla dei vasti orizzonti del mondo moderno". L'affermazione è di uno storico laico, Gabriele Pepe, ed è contenuta in un libretto dal titolo: Il Sillabo e la politica dei cattolici . Non vi sarebbe niente di strano, rispetto ai giudizi ancora correnti sul Sillabo , se queste parole non fossero datate Capodanno 1945, cioè a pochi mesi dalla fine dell'incubo peggiore che il "mondo moderno" (anzi, il mondo tout court ) avesse mai conosciuto. Dopo lo spaventoso carnaio della seconda guerra mondiale, dopo i lager, dopo Hiroshima, dopo le purghe sovietiche, dopo l'Europa ridotta a un cumulo di rovine fumanti, dopo la cavalcata in armi di spaventose ideologie che non distinguevano tra soldati e popolazione civile, tutto coinvolgendo in un conflitto totale in cui la scienza si era trasformata in inaudito strumento di distruzione, forse era davvero il momento di chiedersi se il Sillabo non avesse avuto per caso ragione. Se, cioè, quel vecchio papa che un secolo prima era stato "sconfitto dalla storia" non avesse voluto lanciare un grido profetico alle generazioni presenti e future; un ultimo grido disperato, una messa in guardia tagliente e forte contro le ineluttabili conseguenze di certe premesse, contro gli abominevoli frutti che sarebbero cresciuti sui tronchi delle ideologie; un monito contro tutti gli "ismi" che si presentavano, allora, radiosi e gravidi di futuro; contro quelle sperate "magnifiche sorti e progressive" di cui la Chiesa, "maestra in umanità" (espressione dell'attuale pontefice), già allora antivedeva gli esiti; esiti che -secondo la nota categoria vichiana della "eterogenesi dei fini"- si sarebbero ineluttabilmente rovesciati nel contrario delle premesse e promesse da cui erano partiti. Se c'è qualcuno che può veramente capire e apprezzare la lucidità del Sillabo , quelli siamo proprio noi, uomini del Duemila. Noi, che possiamo mettere in fila e valutare tutti i disastri che sono venuti dopo e che hanno avuto come portato finale l'epoca in cui viviamo, contrassegnata dal nichilismo e dal rifiuto della vita. Il secolo seguito al Sillabo è stato definito, nella migliore delle valutazioni, "breve". Ma anche "del male" e "dei martiri", nonchè "della morte di Dio" che ha portato con sé quella "dell'uomo". Si noti che tutte queste definizioni sono rigorosamente di mano laica. Mano mano che si spegne la luce portata dal Cristo (riflessione del cardinale Ratzinger), tornano superstizione e schiavismo, suicidi e violenza diffusa, il vizio premiato e la virtù derisa... Ma è inutile fare l'elenco: basta leggere la cronaca quotidiana. Il sottofondo comune è la paura , paura del presente e, soprattutto, del futuro. Dalla stessa scienza si prendono le distanze: la diffusa preoccupazione ecologica e la sfiducia nella medicina ufficiale valgano per il tutto. Ma è una paura che gli uomini dell'Ottocento, abbagliati dalle promesse degli "ismi", non avevano. Anzi. In parte di certo mondo clericale è invalso oggi l'uso di qualificare come "profetici" gesti, atteggiamenti, parole che altri protrebbero trovare, piuttosto, opinabili o magari, in qualche caso, insignificanti. Allorchè un termine finisce per dar luogo a interpretazioni disparate è segno, in genere, che dall'uso si è passati all'abuso ed è quindi venuto il momento di tornare al dizionario. "Profetico" vuol dire "capace, per ispirazione, di vedere e rivelare il futuro". Quanti, di quelli che criticano il Sillabo , possono dire di averlo letto e, magari, studiato? Forse troverebbero che quel vituperato e negletto documento della Chiesa docente fu realmente "capace, per ispirazione, di vedere e rivelare il futuro". Certo, non c'è scritto, per esteso, che il comunismo finisce invariabilmente nei gulag. Ma non è profetico già il solo averne inserito la voce nel 1864? Si faccia caso alla data; il Manifesto cominciò a circolare clandestinamente solo durante la Comune di Parigi del 1871. Certa storiografia, anche di parte cattolica, ha opposto per lungo tempo il magistero di Leone XIII a quello di Pio IX, tanto "chiuso", questo, nei confronti del mondo moderno quanto quello sarebbe stato "aperto". Eppure fu proprio Leone XIII, quando era l'arcivescovo di Perugia Gioacchino Pecci, a lanciare l'idea di un Sillabo fin dal 1849, e a battersi e insistere affinchè un "catalogo" di errori venisse stilato a modo di vademecum riassuntivo. Leone XIII lo si cita a proposito e a sproposito come il papa della Rerum novarum , senza mai ricordare che la terza parola dell'enciclica è cupiditas : "il desiderio smodato di novità...". Così comincia, con una condanna perfettamente in linea con quelle del predecessore, la famosa enciclica leoniana. Giudicare il Sillabo senza conoscere niente del clima in cui maturò è come deridere i fucili ad avancarica avendo l'occhio sulle moderne armi al laser. Il susseguirsi degli eventi storici e la modifica di alcun dati di partenza ha reso possibile alla Chiesa l'accantonamento e addirittura la rimozione di molte delle condanne contenute nel Sillabo . Ma quello scarno elenco vide la luce in una cittadella assediata e prossima alla fine, mentre antichissimi diritti venivano irrisi e schiacciati in nome di un "Progresso" che oggi non pochi storici -anche laici- cominciano a vedere nella sua giusta luce di sopraffazione politica e ideologica. Nessuno più osa negare che, a partire dai philosophes settecenteschi, la Chiesa da cui uscì il Sillabo aveva dovuto affrontare il giacobinismo, il bonapartismo e infine il liberalismo virulentemente anticattolico risorgimentale. Inquadrato storicamente, il Sillabo rivela, nel suo linguaggio, tutto l'orgasmo e l'angoscia di chi vedeva un mondo finire forse per sempre. Ma lo studio sereno e pacato non potrà non rivelare in esso il grido -ripetiamo, profetico- di un Pastore che dice al suo gregge: state attenti, quel che vi sembra "sol dell'avvenire" si rivelerà puro veleno. La beatificazione in contemporanea di due papi, Pio IX e Giovanni XXIII, mostra tangibilmente che la Chiesa è sempre la stessa; cambia solo il modo di predicare un identico messaggio a uomini di epoche differenti. Ma è quanto meno singolare osservare quante voci si sono levate a dichiarare il "gradimento": questo papa sì, quello no. Tanto per cambiare, i più critici sono quelli a cui le beatificazioni dovrebbero importare meno, visto che sono dichiaratamente i più distanti dal credo cattolico. Ma chiunque abbia esperienza di dialogo sa che i difensori della "tolleranza" diventano virulentemente intolleranti quando sono i loro dogmi a venir messi in discussione. La "libertà" deve dunque venire difesa anche da sé stessa? Deve essere tutelata a qualunque costo anche dalle critiche che essa stessa potrebbe generare? Ecco un bel paradosso su cui il pensiero cosiddetto laico potrebbe più utilmente esercitarsi anzichè cercare di insegnare alla Chiesa il suo mestiere.

Der Wehrwolf
20-06-02, 20:58
IL BRIGANTAGGIO (1860-1870)

di Francesco Pappalardo

1. Dai vandeani agli insorgenti italiani

Il termine "brigante", che comunemente designa chi vive fuori legge o comunque un nemico dell'ordine pubblico, ha acquistato nel tempo anche un significato ideologico e indica, in senso spregiativo, chi si è opposto con le armi al nuovo ordine inaugurato dalla Rivoluzione francese. Adoperato in Francia per designare i combattenti realisti e cattolici della Vandea, è impiegato negli anni seguenti anche in Italia per indicare gli "insorgenti", cioè i componenti delle bande popolari che si sollevavano in armi contro gli invasori francesi e i giacobini locali, loro alleati. Il fenomeno assume rilievo particolare nelle province napoletane, dove, sia nel 1799 sia nel 1806, le bande - guidate da popolani, da borghesi e anche da sacerdoti, e che raccolgono impiegati, soldati sbandati, contadini e pastori - difendono la loro patria e la loro religione. Tale comportamento valoroso, però, è definito sbrigativamente "brigantaggio" dai rivoluzionari e il temine è tramandato tuttora da una storiografia mendace.

2. Gli oppositori dell'Unità nel Regno delle Due Sicilie

Anche l'unificazione forzata della penisola italiana, nel decennio dal 1859 al 1870, suscita ovunque resistenze e reazioni, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, dove la lotta armata contro l'invasore assume proporzioni straordinarie. Pure in questo caso gli insorti, che combattevano contro l'imposizione di una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose, sono stati bollati come briganti.

La resistenza nel Mezzogiorno ha inizio nell'agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia. La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e con arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano masse, migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un'altra bandiera, pastori, braccianti e montanari.

Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno e il controllo del territorio da parte degli unitari diventa precario. In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno d'Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituisce un fronte unito contro la "reazione", arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e perseguitando il clero e i nobili lealisti, i quali sono costretti a emigrare, lasciando la resistenza priva di una valida guida politica. Il governo adotta la linea dura e il generale Cialdini ordina eccidi e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli. In questo modo viene impedita l'insurrezione generale, e viene scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello Stato unitario.

3. Dalla repressione all'emigrazione

Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire "nel mucchio", per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila. Viene introdotto per la prima volta nel diritto pubblico italiano l'istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà. La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'"industria" della delazione, che è un'ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Attenzione particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna "informazione deformante".

In questo modo viene distrutto il cosiddetto "manutengolismo", cioè quel vasto movimento di sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresenta un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale. Infine, la proclamazione dello stato d'assedio, le uccisioni indiscriminate, il terrore, il tradimento prezzolato stroncano la volontà di resistenza della popolazione. Quando le bellicose energie sono esaurite, l'estraneità al nuovo ordine si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione "napoletana", che coinvolge alcuni milioni di persone.

4. Oltre la censura storiografica: le ragioni ideali e politiche

Questo periodo doloroso della storia della nazione italiana è censurato e deformato da oltre un secolo. La storiografia di ispirazione liberale, da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) a Giustino Fortunato (1777-1862) e a Benedetto Croce (1866-1952), interpreta la resistenza popolare come manifestazione di criminalità comune e come esito della sobillazione "reazionaria", abile a sfruttare mali endemici e secolari del Mezzogiorno. Su un altro versante, ugualmente deformante, si pongono quanti partono dalle considerazioni di Antonio Gramsci (1891-1937) sulla "questione meridionale" per proporre una lettura del Brigantaggio come manifestazione della lotta di classe, identificando nella guerra per bande una forma di lotta armata condotta in prima persona dalle masse contadine contro le classi dominanti.

In realtà, un'interpretazione esauriente del complesso fenomeno del Brigantaggio deve partire dalla considerazione che l'opposizione armata fu soltanto uno degli aspetti della resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali, che presentò contorni più vasti e profondi di quelli che avevano caratterizzato le insorgenze dell'età napoleonica. Infatti, negli anni successivi al 1860, la resistenza si presenta con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l'opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l'emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo (1814-1867), che difendono con gli scritti i calpestati diritti di una monarchia da sempre riconosciuta nel consesso delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale.

La resistenza armata è però il fenomeno più evidente, che coinvolge non soltanto il mondo contadino, ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano.

Nei primi anni il motivo legittimistico è dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici e popolo, sono tali da richiamare alla mente l'epopea vandeana. Questa continuità contro-rivoluzionaria non è affatto simbolica, ove si consideri che, a capeggiare gli insorgenti, "il fior fiore della nobiltà lealistica europea discese dalle brume dei propri castelli nel fuoco di una lotta senza quartiere "per il trono e l'altare", "per la fede e la gloria"", come era scritto su uno dei pannelli della mostra su Brigantaggio, lealismo e repressione, organizzata a Napoli nel 1984. Il conte Henri de Cathelineau (1813-1891) - discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea -, il barone prussiano Teodoro Klitsche de La Grange (1799-1868), il conte sassone Edwin di Kalckreuth, fucilato nel 1862, il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour, fucilato nel 1861 all'età di trent'anni, il conte Émile-Théodule de Christen (1835-1870), i catalani José Borges (1813-1861), definito "l'anti-Garibaldi", e Rafael Tristany (1814-1899), sono artefici di memorabili imprese e fanno a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia.

5. Le ragioni socio-economiche e le motivazioni religiose

Con queste considerazioni non si intende sottovalutare il carattere anche sociale delle insurrezioni. L'eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della Chiesa durante l'età napoleonica, che avevano trasformato l'assetto della società e dato origine alla questione demaniale, hanno una parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata, ma questo aspetto non basta da solo a spiegare l'intensità, l'estensione sociale, l'ampiezza territoriale e la durata del Brigantaggio. L'attribuzione di un prevalente carattere sociale alla resistenza antiunitaria è causata sia da pregiudizi ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o a negare la componente politica del fenomeno, sia dalla diffusione e dalla persistenza del mito dell'oggettiva potenzialità rivoluzionaria delle sommosse contadine.

Questa impostazione è caratterizzata da una generale incomprensione e negazione della cultura delle popolazioni italiane, e ciò vale in particolare per la componente religiosa, che ne rappresentava l'anima. L'elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d'epoca, così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi - benché spesso scacciati dalle loro sedi - sostengono efficacemente l'insurrezione, pubblicando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede. L'autorevole La Civiltà Cattolica esprime ripetutamente il suo appoggio a quello che era ritenuto uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale.

Il Brigantaggio, dunque, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due mentalità, fra due differenti impostazioni culturali, ma soprattutto ha rappresentato l'espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l'ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con la difesa di Roma a opera degli zuavi, per combattere la Rivoluzione con le armi.

Se la resistenza antiunitaria non riesce a ripetere il successo della Santa Fede nel 1799, ciò è dovuto non soltanto alla situazione internazionale sfavorevole e allo scontro con lo Stato unitario, di cui non si conoscevano i meccanismi e che può concentrare per alcuni anni imponenti forze nel Mezzogiorno, ma anche all'assenza di una classe dirigente valida e ben determinata, che sapesse animare e coordinare la reazione popolare, spontanea e generale, ma non autonoma.



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Per approfondire: vedi una significativa testimonianza, in Giacinto de' Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, del 1861, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994; lo studio più documentato sull'argomento, che risente però dell'impostazione marxista secondo cui il Brigantaggio è un episodio della lotta di classe, in Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Feltrinelli, Milano 1979; quindi Carlo Alianello (1901-1981), La conquista del Sud. Il Risorgimento nell'Italia meridionale, Rusconi, Milano 1994; Aldo Albonico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d'Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Giuffrè, Milano 1979; Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, Gaetano Macchiaroli, Napoli 1984; e Francesco Mario Agnoli, La conquista del Sud e il generale spagnolo José Borges, Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1993; vedi una sintesi nel mio Il brigantaggio, in Cristianità, anno XXI, n. 223, novembre 1993, pp. 15-22

Der Wehrwolf
20-06-02, 20:59
LA QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO

di Francesco Pappalardo

1. Per una definizione

La Questione del Mezzogiorno o Questione Meridionale nasce dall’annessione forzata del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, nel 1861, e la sua storia è la storia dei tentativi compiuti dallo Stato italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all’incontro-scontro fra realtà disomogenee. Questo contrasto fra il "Nord" e il "Sud" — indicazioni geografiche che nascondono realtà sociali complesse e differenziate — è ricondotto dal politologo Ernesto Galli della Loggia a "[...] una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana" e dall’antropologo Carlo Tullio Altan a "uno scontro di civiltà", cioè a un urto fra differenti modelli culturali e forme diverse di organizzazione sociale, che dopo l’Unità sarà affrontato soprattutto come un problema di sviluppo ineguale.

2. Le origini

La rappresentazione del "Mezzogiorno", cioè delle province continentali e insulari dell’ex Regno delle Due Sicilie, come un blocco unitario d’arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologica. I primi a diffondere giudizi falsi sugl’inferiori coefficienti di civiltà di quell’area sono gli esuli meridionali che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud, riproponendo secolari stereotipi sul "paradiso abitato da diavoli", presto ripresi dai titolari d’inchieste pubbliche o private. Dopo il 1860, l’intreccio di brigantaggio e di legittimismo borbonico spinge la classe politica unitaria a individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia interna di eversione e ad assegnarsi la missione d’inserire nella nuova compagine statale l’ex regno napoletano, anche a costo di cancellarne l’identità storica. "La differenza tra il Mezzogiorno e il resto del paese — scrive lo storico siciliano Giuseppe Giarrizzo — si configura come polarità simbolica di barbarie e civiltà, di borbonismo e liberalismo, di "feudalesimo" nel Sud e vita borghese nel Nord — una polarità esasperata dal contrasto mitico tra la difficile natura del Centro-nord e la naturale disposizione del suolo e del clima meridionale alla fertilità e agli agi".

I temi del meridionalismo saranno enfatizzati, a partire dai primi decenni del secolo XX, dal nuovo ceto politico locale allo scopo di rivendicare ingenti provvidenze pubbliche e di porsi come mediatore nella loro distribuzione. Dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945), la Questione del Mezzogiorno viene affrontata con una politica d’interventismo statale, caratterizzata da una mole crescente di trasferimenti di risorse verso il Sud, che sono destinate prevalentemente a fini non produttivi e che in parte alimentano il circuito perverso politica-affari-criminalità.

3. Le interpretazioni economiche

Da Pasquale Villari (1826-1917) ad Antonio Gramsci (1891-1937) il Mezzogiorno viene letto soprattutto nei termini di un grande problema sociale e, pur nella diversità delle interpretazioni, l’analisi prende le mosse abitualmente dalla sua condizione materiale. Per il primo meridionalismo, definito "classico", la Questione del Mezzogiorno consiste nella mancata integrazione dell’economia del Sud nel processo di sviluppo capitalistico, mentre per le correnti d’ispirazione marxista — e anche per Rosario Romeo (1924-1987), che "aggiorna" il meridionalismo liberal-democratico — questa integrazione è avvenuta, ma nei modi peculiari con i quali il capitalismo avanzato subordina a sé l’economia dei paesi arretrati, rendendola funzionale al suo sviluppo. In entrambi i casi la lettura del Sud in termini di arretratezza — vista talvolta come divario d’origine rispetto alle regioni settentrionali del paese, altre volte come frutto del processo di unificazione gestito dallo Stato unitario — ha come riferimenti il modello economico liberale, nato dalla rivoluzione industriale che determinò anche una profonda trasformazione dei rapporti sociali, e un’impostazione culturale idealistica, che giudica la storia del Mezzogiorno secondo il parametro della crescita della coscienza civile, che sarebbe giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento. Il Meridione d’Italia viene valutato, dunque, in ragione della sua devianza da quei modelli e viene descritto in termini d’individualismo e di carente spirito civico, di arretratezza tecnologica e di resistenza alla modernizzazione, di corruzione e di clientelismo, utilizzando le dicotomie sviluppo/sottosviluppo e progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una scala ideale da percorrere.

In realtà, nel 1860 la società "napoletana" viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo di tipo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale — cioè i germi di un "altro" modello di sviluppo —, e ciò determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d’Italia, anche a causa della "sistematica e non graduata demolizione di un’immensità di istituzioni, di interessi, di amministrazioni" — denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) —, che aveva prodotto "una lesione troppo estesa e profonda".

4. Le interpretazioni sociali e culturali

Nel secondo dopoguerra la fioritura degli studi sociologici sul Mezzogiorno si concretizza nella elaborazione di alcune opinabili categorie interpretative — come quelle di "paganesimo perenne" e di "cultura subalterna", riferite al mondo contadino dallo scrittore Carlo Levi (1902-1975) e dall’antropologo Alfonso Maria Di Nola (1926-1997) —, oppure nella lettura della specificità meridionale nei termini di una sua vocazione quasi antropologica a una religiosità elementare e superstiziosa, come per l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965), o del Sud come sacca arretrata e deposito di mentalità pre-moderne, come per il sociologo statunitense Ernest C. Banfield, teorico del "familismo amorale", a suo avviso causa determinante di una disgregazione permanente della società. La categoria dell’arretratezza ricompare così come nodo ineliminabile della storia del Mezzogiorno, in relazione alla sua subordinazione economica o alla sua struttura sociale e culturale, entrambe legate a presunti, secolari condizionamenti. In realtà, i preconcetti di certi studiosi, alcuni dei quali stranieri, servono ad alimentare una letteratura d’impostazione discutibile, diffusa soprattutto nel mondo protestante, secondo cui "[...] la vita religiosa del Sud — come nota lo stesso De Martino — sta in fondo come pretesto fin troppo scoperto per condurre la polemica anticattolica".

Gli studi degli storici Gabriele De Rosa e Giuseppe Galasso hanno consentito, però, di superare il luogo comune di una cristianizzazione superficiale delle regioni meridionali e d’individuare in alcune sopravviventi pratiche magiche — ritenute comunemente parte integrante della religiosità delle popolazioni rurali — solo il relitto di arcaiche strutture psicologiche e religiose. Anche il grande rilievo assunto dalla famiglia nella società meridionale — e nelle altre regioni d’Italia, dove la socialità, secondo lo storico Marco Meriggi, "si sgrana quasi naturalmente in un ventaglio di famiglie, molto più che in una miscela di individui" — non è più ritenuto un sintomo di arretratezza, anzi proprio questa tenace caratteristica sociale ha rappresentato un limite quasi invalicabile all’espansione soffocante dello Stato unitario e il più sicuro antidoto nei confronti dell’individualismo politico ed economico. L’unione forzata in un "grande Stato", nel 1861, ha determinato, prima ancora della spoliazione economica, la dispersione d’una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali del Mezzogiorno, ma l’insieme dei caratteri e degli aspetti che contraddistinguono gli abitanti di queste contrade, soprattutto a livello del costume e della vita di relazione, s’è mostrato per lungo tempo resistente e impermeabile alla modernità, intesa come insieme di valori globalmente alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale.

Il Sud, dunque, non è un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto una società dotata d’una forte personalità storica e d’una inconfondibile fisionomia, in cui si sono riconosciute per lunghissimo tempo tutte le sue componenti sociali, una "nazione" che ha le sue radici remote nella vigorosa sintesi, realizzata dopo il secolo VI, fra tradizioni autoctone, cultura greco-romana e apporti germanici. Il Sud non è neppure una periferia d’Europa, caratterizzata da una lunga separazione dal mondo civile o da note di subalternità o d’arcaicità, né è il luogo di coltura della "napoletanità", intesa come un isolato universo antropologico e culturale. Al contrario, la civiltà del Mezzogiorno è stata una delle molteplici versioni della civiltà cristiana occidentale ed è vissuta per secoli in uno stretto rapporto con l’"altra Europa" — presente ovunque nel continente durante l’età moderna e collocata idealmente "sotto i Pirenei" dal giurista e storico spagnolo Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978) —, che per molto tempo ha rappresentato la sopravvivenza di un’area di Cristianità e ha costituito un limite all’espansione della modernità.

5. Conclusioni

Negli ultimi centocinquant’anni il popolo italiano ha subìto un processo di alienazione della propria identità e della propria tradizione, romana e cattolica — che avevano vivificato e modellato nel corso dei secoli i costumi, la mentalità e il comportamento degli abitanti della penisola —, da parte di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama "[…] partito anti-italiano. Per questo partito "fatta l’Italia" non si trattava soltanto di "fare gli italiani"; si trattava piuttosto di fare l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo".

Il Mezzogiorno, in particolare, è stato aggredito contemporaneamente, e da più parti, da fermenti incalzanti di trasformazione, ma ha costituito un luogo di resistenza alla modernizzazione forzata. Dunque, non il particolare modo d’essere del popolo "napoletano", ma il tentativo diffuso d’annientarne la personalità e di dissolverne l’eredità ha innescato un processo di alienazione culturale, mentre il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali ha aperto la strada allo sviluppo della criminalità organizzata, la cui forza non è il radicamento nel Mezzogiorno — dove tutt’al più ha riattivato i circuiti classici della delinquenza locale, ampliandone le cerchie — ma l’incontro con fenomeni nuovi e poco "meridionali", come il commercio internazionale di droga e d’armi e la lotta per il controllo di enormi risorse finanziarie.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni 1950 — con una nuova frana emigratoria, che ha prodotto la disarticolazione definitiva dell’antica organizzazione sociale e territoriale, e con l’assimilazione dei comportamenti proposti dal modello consumistico, ritenuto superiore a quello tradizionale — l’identità del Mezzogiorno si sta dissolvendo nel crogiolo dell’omologazione, favorita dalla scuola, dai partiti politici e dai grandi mezzi d’informazione.

Pertanto, quanti si accostano alla Questione del Mezzogiorno non possono ignorare che la sua soluzione passa attraverso una rinascita religiosa e civile, che può essere perseguita soltanto con il ricupero di quanto sopravvive delle radici storiche e nazionali del Mezzogiorno stesso, da tempo conculcate e disprezzate, purtroppo non solamente da parte di estranei.



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Per approfondire: vedi Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi, Donzelli, Roma 1997; Giuseppe Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Argo, Lecce 1997; Giuliano Minichiello, Meridionalismo, Editrice Bibliografica, Milano 1997; e Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:01
La Rivoluzione Francese: rivoluzione massonica!

SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE: INTERVISTA A PIERRE CHAUNU

"Un'aula della Sorbona, a Parigi. Fuori un tiepido gennaio. Dentro comincia la prima lezione dell'anno 1989. Sulla cattedra è il professor Pierre Chaunu, una delle autorità per la storia moderna, membro dell'Institut de France, con una sessantina di titoli al suo attivo.

Esordisce in tono sarcastico: "Dunque questa è la prima lezione dell'anno: voi sapete che cadono nell'89 una quantità di anniversari importanti". E snocciola una filza di eventi storici, scientifici, economici, ma neanche una parola sulla Grande Commemorazione, quella che infiamma la Francia da otto anni: "Ho dimenticato qualcosa?" chiede beffardo il professor Chaunu, "no, non mi sembra ci sia altro di importante da ricordare".

È stato il Grande Guastafeste del bicentenario della Rivoluzione. Brillante, corrosivo, preparatissimo, ha appena dato alle stampe un libro di fuoco, La révolution declassée, dove fa a pezzi il mito della Rivoluzione dell'89 e soprattutto il conformismo degli intellettuali di corte e la retorica di regime di questo bicentenario. I suoi stessi avversari non osano contestarlo: persino Max Gallo, obtorto collo, lo ha definito "un ottimo storico". Ed è praticamente invulnerabile, non essendo né cattolico, né reazionario (è infatti protestante e liberale). C'è una lunga tradizione liberale di critica aspra alla Rivoluzione, che comincia addirittura a fine Settecento con l'inglese Edmund Burke. Ma Chaunu si è spinto oltre. Ha guidato le ricerche di alcuni giovani e brillanti storici francesi fra documenti e dossier finora rimossi dalla storiografia ufficiale, e ne sono venuti fuori libri esplosivi, sconvolgenti, come quelli di Reynald Secher sul genocidio della Vandea. Incontriamo Chaunu nella sua casa di Caen.

Professore, il suo libro è uscito in Francia a marzo, già da alcuni anni lei si è ribellato al coro degli intellettuali e alle ingiunzioni del potere politico, contestando la legittimità di queste celebrazioni. Perché?

È una mascherata indecente, un'operazione politica elle sfrutta le stupidaggini che la scuola di Stato insegna sulla Rivoluzione. Pensi alle bétises del ministro della Cultura Lang: "L’89 segna il passaggio dalle tenebre alla luce". Ma quale luce? Stiamo commemorando la rivoluzione della menzogna, del furto e del crimine. Ma trovo scioccante soprattutto che, alle soglie del '92, anche tutto il resto d'Europa festeggi un periodo dove noi ci siamo comportati da aggressori verso tutti i nostri vicini, saccheggiando mezza Europa e provocando milioni di morti. Cosa c'è da festeggiare? Eppure qua in Francia ogni giorno una celebrazione, il 3 aprile, il 5, il 10. È grottesco.

Ma è stato comunque un evento che ha cambiato la storia.

Certo, come la peste nera del 1348, ma nessuno la festeggia. Ad un giornalista tedesco ho chiesto: perché voi tedeschi non festeggiate la nascita di Hitler? Quello è sobbalzato sulla sedia. Ma non è forse la stessa cosa?

Dica la verità, lei è diventato reazionario. Ce l'ha con la modernità?

lo sono liberale, con una certa simpatia per l'illuminiamo tedesco e inglese. Ma proprio questa è la grande menzogna che pare impossibile poter estirpare: tu sei contro la Rivoluzione, dunque tu sei contro la modernità, sei per la lampada a petrolio e per la carrozza a cavalli. Al contrario. Io sono contro la Rivoluzione francese proprio perché sono per la modernità, per la penicillina, per il vaccino contro il vaiolo. Perché non festeggiamo Jenner che con la sua scoperta, dal '700 a oggi, ha salvato più di un miliardo di vite umane? Questo è il progresso. La Rivoluzione ha semmai bloccato il cammino verso la modernità; ha distrutto in pochi anni gran parte di ciò che era stato fatto in mille anni. E la Francia, che fino al 1788 era al primo posto in Europa, dalla Rivoluzione non si è più sollevata.

Ma lei lo può dimostrare?

Guardi, circa trent'anni fa ho contribuito a fondare la storia economica quantitativa, e oggi, con i modelli econometrici, chiunque può arrivare a queste conclusioni. Sono fatti e cifre. Tutte le curve di crescita del mio Paese si bloccano alla Rivoluzione. Era un Paese di 28 milioni di abitanti, il più sviluppato, creativo, evoluto, con un trend da primato: la Rivoluzione, insieme alle devastazioni sull'apparato produttivo, ha scavato un abisso di due milioni di morti, un crollo di generazioni che ha accompagnato il crollo economico.

Nella produzione media procapite, Francia e Inghilterra, i due Paesi più sviluppati del mondo, avevano rispettivamente, nel 1780, un indice 110 e 100. Ebbene nel 1815 la Francia era precipitata a 60, contro 100 dell'Inghilterra, che da allora non ha avuto più concorrenti. È stato il prezzo della Rivoluzione.

Ce ne spieghi almeno un motivo.

Attorno al '93 - e per un decennio - la Francia ha cominciato a vivere al 78 per cento del prelievo sul capitale e per il 22 per cento sulle tasse e le rendite, che non venivano reinvestite, ma consumate, bruciate e rubate per arricchire la Nomenklatura. È stata una dilapidazione spaventosa, un impoverimento storico. Quando Chateaubriand è tornato in Francia, nel 1800, ha avuto un'intuizione fulminante: "è strano: da quando sono partito non hanno più pitturato persiane e porte". Quando le finestre sono sverniciate e le latrine non funzionano può star certo che c'è stata una rivoluzione.

Ma comunque la Rivoluzione ha spalancato il pensiero umano.

Oh, santo cielo! Ma è stata una colossale distruzione di intelligenze e di ricchezze.

Se lei taglia la testa a Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, a 37 anni, il costo per l'umanità è enorme. Moltiplichi quel caso per cento. Come finì tutta l'élite scientifica e intellettuale? Quelli che non sono emigrati sono stati massacrati. Una perdita gigantesca. Sarebbe questa la conquista della civiltà?

Il 43 per cento dei francesi, nel 1788, sapeva firmare, sapeva scrivere. Dopo la Rivoluzione si crolla al 39 per cento, perché si erano sottratti i beni alla Chiesa (che per secoli aveva educato il popolo) e si erano distribuiti alla Nomenklatura.

E le chiese trasformate in porcili e i tesori d'arte devastati.

È vero: fecero a pezzi le statue di Notre Dame, distrussero Cluny, e quasi tutte le chiese romaniche e gotiche...

Le ripeto: furto, menzogna e crimine, questa è la vera trilogia della Rivoluzione, che ha messo a ferro e fuoco l'Europa.

I francesi sono persuasi che la democrazia sia nata nell'89 e che l'umanità abbia imitato loro. È pazzesco! In realtà la sola rivoluzione da festeggiare sarebbe quella inglese del 1668: da lì è venuto il sistema rappresentativo e il governo parlamentare, lo Stato liberale che tutta Europa ha imitato.

Ma qualcosa di buono ci sarà pùr stato: per esempio la Dichiarazione dei diritti dell'uome e del cittadino.

Quello fu l'inganno più perverso. Le due Costituzioni più democratiche che siano mai state fatte sono quella sovietica di Stalin del 1936 e quella dei ghigliottinatori francesi del 1793. I loro frutti furono orrendi. Al contrario, il Paese che ha fondato la libertà, l'Inghilterra, non ha mai avuto Costituzioni. Delle Dichiarazioni io me ne infischio! E d'altra parte libertà, fraternità e uguaglianza non esistono che davanti a Dio. Le dirò che il miglior giudizio sulla Dichiarazione dei diritti dell'uomo lo formulò Fustelle de Coulange, il più grande storico francese dell'800 e mio predecessore all'Accademia di scienze morali e politiche. Egli disse: questi principi hanno mille anni, semmai la Dichiarazione li formula in modo un po' astratto. Ma una cosa nuova c'è: hanno spacciato dei principi antichi per una scoperta loro e l'hanno usata come un'arma contro il passato. Questo è perverso.

La conseguenza politica della Filosofia dei Lumi, no?

No. L’Illuminismo c'è stato in tutta Europa. Kant non era certo da meno di Voltaire. Ma la Rivoluzione c'è stata solo qui da noi. Non si può certo credere che i francesi fossero gli unici a pensare, in Europa. Dunque non c'è un nesso storico. È una menzogna anche parlare di fatalità storica, inevitabile. La persecuzione contro la Chiesa e il progetto di sradicare il cristianesimo dalla Francia ebbe come sua prima causa degli interessi finanziari, non questioni metafisiche.

Ci spieghi, professore.

Nel XVII secolo tutti gli Stati europei hanno istituzioni rappresentative. La Francia però, a poco a poco, le lasciò cadere in desuetudine. Per questo divenne una sorta di paradiso fiscale, perché - è noto - non si possono aumentare le imposte senza istituzioni rappresentative. Un esempio: la pressione fiscale fra 1670 e 1780 in Francia rimane ad un indice 100, mentre in Inghilterra sale da 70 a 200, in proporzione. La Francia si trova così ad avere uno Stato moderno, un moderno esercito, 450mila uomini, una potenza di prim'ordine, ma con risorse finanziarie vicino alla bancarotta perché per poterle mantenere come l'Inghilterra dovrebbe aumentare le tasse del 100 per cento.

Dunque viene chiamata ad affrontare la questione la rappresentanza del popolo, gli Stati generali.

Sì, i rappresentanti eletti però sono la più colossale assemblea di dementi che la storia abbia mai visto. Irresponsabili. Sfrenati solo nelle pretese, perché nessuno voleva farsi carico dei sacrifici (basti pensare che fra i deputati del Terzo stato c'erano un banchiere, 30 imprenditori e 622 avvocati senza causa). Non capiscono nulla di economia, hanno chiaro solo che a pagare devono essere gli altri. Così cominciano a vedere cosa possono confiscare: prima sopprimono la decima alla Chiesa, che nessuno nel popolo chiedeva di sopprimere perché significava sopprimere i finanziamenti per le scuole e gli ospedali. Si confiscano i beni del clero, donati alla Chiesa nel corso dei secoli, che ammontavano però solo al 7-8 per cento delle terre. Si comincia a diffondere l'idea che la Chiesa nasconda i suoi tesori, si confiscano i beni delle Abbazie.

E l'operazione si dà pure una maschera ideologica.

Certo. Si impone la Costituzione civile del clero, perché senza modificare e manomettere la struttura della Chiesa non avrebbero potuto rubare. I beni della Chiesa, che da secoli mantenevano scuole e ospedali, vengono accaparrati da una masnada di 80mila famiglie di ladri, nobili e borghesi, destra e sinistra: è per questo che tuttora la Rivoluzione in Francia è intoccabile! Perché fu una Grande Ruberia a vantaggio della classe dirigente. Il furto ha bisogno della menzogna e della persecuzione perché non era facile imporre ai preti e al popolo il sopruso. Per questo si impose il giuramento ai preti e chi non giurò fu massacrato. La Rivoluzione è stata una guerra di religione.

E in Vandea cos'è accaduto?

Il popolo si ribellò per difendere la sua fede. Il Direttorio voleva imporre la coscrizione militare obbligatoria (è una loro invenzione perché fino ad allora solo i nobili andavano a far la guerra e per il tributo del sangue erano esonerati dalle tasse). Nello stesso giorno chiudono tutte le, loro chiese. I contadini vandeani si sono ribellati: allora tanto vale morire per difendere la nostra libertà. Hanno imposto ai nobili, assai refrattari, di mettersi al comando dell'esercito cattolico di Vandea e sono andati al massacro, perché sproporzionata era la loro preparazione al confronto di quella dell'esercito di Clébert. Così la Vandea è stata schiacciata senza pietà. Ma vorrei ricordare che sotto le insegne del Sacro Cuore combatterono anche dei battaglioni dei paesi protestanti della Vandea. Cattolici, protestanti ed ebrei affrontarono insieme la ghigliottina, per esempio a Montpellier, per difendere la libertà.

Ma in Vandea non finisce così.

Questo è il capitolo più orrendo. Nel di cembre 1793 il governo rivoluzionario d ordine di sterminare la popolazione dell 778 parrocchie: "Bisogna massacrare le donne perché non riproducano e i bambini perché sarebbero i futuri briganti". Questo scrissero. Firmato dal ministro della Guerra del tempo Lazare Carnot. Il generale Clébert si è rifiutato di eseguire quell'ordine: "Ma per chi mi prendete? Io sono un soldato non un macellaio". Allora hanno mandato Turreau, un cretino, alcolizzato, con un'armata di vigliacchi.

Fu il massacro?

Nove mesi dopo il generale Hoche, nominato comandante, arrivò in Vandea. Restò inorridito. Scrisse una lettera memorabile e ammirabile al governo della Convenzione: "Non ho mai visto nulla di così atroce. Avete disonorato la Repubblica! Avete disonorato la Rivoluzione! Io porto alla vostra conoscenza che a partire da oggi farò fucilare tutti quelli che obbediranno ai vostri ordini...". Cosa aveva visto? 250.000 massacrati su una popolazione di 600.000 abitanti, paesi e città rase al suolo e bruciate, donne e bambini orrendamente straziati. A Evreux e a Les Mains si ghigliottinavano a decine colpevoli solo di essere nati a Fontaine au Campte. Questo fu il genocidio vandeano. È questo che festeggiamo?

Fece scandalo, nel 1983, quando lei, per la prima volta, usò la parola genocidio, imputando la Rivoluzione. Perché?

I fatti parlano. Nessuno ha saputo negarli. E nulla può giustificare un simile orrore. Ma prima di me, nel 1894, fu un rivoluzionario socialista, Babeuf, che denunciò "il popolicidio della Vandea" (in un libro introvabile che noi abbiamo fatto ristampare). Non c'è differenza alcuna fra ciò che ha fatto il governo rivoluzionario in Vandea e ciò che ha fatto Hitler. Anzi una c'è. Hitler era scaltro e non dette mai per scritto l'ordine di eliminazione degli ebrei. Questi dell'89, oltreché assassini, erano anche stupidi e dettero l'ordine per scritto e lo pubblicarono perfino su Le Moniteur.

Certe persecuzioni hanno rinsaldato la fede del popolo. Ma questa francese sembra aver cancellato la cristianità.

Sì, è così. Per 15 anni fu resa impossibile la trasmissione della fede. Un'intera generazione. Pensi che Michelet fu battezzato a 20 anni e Victor Hugo non ha mai saputo se era stato battezzato o no. Le chiese chiuse. I preti uccisi o costretti a spretarsi e sposarsi o deportati e esiliati. Francamente io non capisco come oggi i cattolici possano inneggiare alla Rivoluzione, Altra cosa è il perdono e altra solidarizzare con i carnefici, rinnegando le vittime e i martiri. Penso che la Chiesa tema, parlando male della Rivoluzione, di sembrare antimoderna, di opporsi alla modernità. lo credo che sia il contrario. E sono orgoglioso che sia stato un Paese protestante come l'Inghilterra a dare asilo ai preti cattolici perseguitati. Infatti non c'è libertà più fondamentale della libertà religiosa."

[Il Sabato, 29 apr 1989, pp. 72/6]

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:03
la rivoluzione francese

La Rivoluzione Francese non è stata solo ed essenzialmente un tentativo di democratizzazione della vita politica francese (abbattimento dell'assolutismo e partecipazione popolare alla gestione del potere), e nemmeno un avvicendamento, brusco, di alcune classi sociali (la borghesia) ad altre (la nobiltà e il clero).
La Rivoluzione Francese è stata, nella sua componente egemonica, un primo, grandioso ed organico tentativo di sostituire il Cristianesimo come riferimento culturale della vita pubblica, con una nuova visione totalizzante della realtà, che poneva al centro una soggettività umana concepita in termini di antropocentrismo e di razionalismo.
Non si capirebbe altrimenti perché la Rivoluzione si sia occupata tanto di fornire una nuova concezione della realtà, di tipo totalizzante, attivando al contempo la prima grande ondata persecutoria anticristiana dai tempi di Diocleziano.
in particolare
(FORMALMENTE) È LECITA UNA RIVOLUZIONE?
Possiamo ricordare che un grande pensatore come Tommaso d'Aquino non nega, in linea di principio che una rivoluzione possa essere giusta, se

a)il regime da rovesciare è effettivamente e gravemente oppressivo
b)vi sono ragionevoli probabilità che
la rivoluzione riesca
e provochi una quantità nettamente minore di morti e di violenze di quanto non avverrebbe lasciando indisturbata la tirannide

(CONTENUTISTICAMENTE) ERA GIUSTA QUELLA RIVOLUZIONE?
<< da un lato

il Cristianesimo non preferisce la monarchia alla repubblica (vi è indifferente: dipende da caso a caso, tant'è che nel Basso Medioevo fioriscono le democrazie comunali)
e infatti l'Ancien Régime non era certo il massimo della fedeltà al Cristianesimo (lo era molto meno del medioevo): si pensi al gallicanesimo di Luigi XIV. L'assolutismo era nato in contrapposizione alla tradizione cristiana, che privilegiava le autonomie regionali e una maggior distribuzione del potere.
esistevano oggettive ingiustizie sociali (si può però dire che non erano maggiori a quelle esistenti oggi, nelle società capitalistiche. Oggi nel mondo il 20% della popolazione dispone dell'80% delle risorse; ad esempio in Venezuela il 90% della ricchezza è nelle mani dell'8% della popolazione; si vedano i grafici comparativi)
esisteva una arretratezza di rappresentatività politica (però va detto che la democrazia può funzionare se ve ne sono le condizioni: o in uno stato piccolo, o in presenza di informazione e di istruzione).>> d'altro lato
la teoria che informò la Rivoluzione Francese fu l'illuminismo anticristiano, e un progetto di riplasmazione radicale della società e dell'uomo basato su valori anticristiani di antropocentrismo e di razionalismo.
la classe che la guidò un la parte più individualistica della borghesia e dell'aristocrazia, animata da rapacità economica più che ideali di bene comune del genere umano
la Rivoluzione fu un fenomeno oggettivamente violento (la Chiesa vi conobbe la prima PERSECUZIONE dal 313)
secondo Chaunu la Rivoluzione Francese ha causato 2 milioni di morti
si pensi solo alla Vandea (cifre di R.Secher, vi sono stati almeno 120.000 morti per repressione violenta da parte dei repubblicani)
anche per questo gli slogans della Rivoluzione vanno esaminati con senso critico:

LIBERTE' intesa in senso di rottura di legami (fare tutto ciò, che non nuoce ad altri, non limitandone la libertà);
EGALITE' sul piano "naturale" (=naturalistico, perchè la vera natura è davvero identica in tutti gli individui) è un falso, dato che i più forti prevalgono sui deboli e li sopraffanno

cause
1. In generale. Nel contesto di complessiva deriva antropocentrica della civiltà europea, in particolare di quella occidentale (si veda la nostra scheda di sintesi sulla parabola della storia), si era giunti nel '700 a una progressiva affermazione di principi razionalistici, che riducevano sempre più il fattore religioso e i valori gerarchico-comunitari dalla vita pubblica. L'illuminismo fu il movimento culturale che guidò tale processo, e il dispotismo illuminato fu la sua applicazione politica in molti stati europei. La Francia però fu uno dei pochi stati a non conoscere una esperienza di dispotismo illuminato, pur ospitando i fermenti più vivi della cultura illuministica (da Voltaire a Diderot, da Rousseau a D'Holbach, da Montesquieu a D'Alembert).
Si verifica dunque questo paradosso: la Francia è epicentro dell'Illuminismo, ma il suo regime politico è tra i più distanti d'Europa da tale cultura.

Con categorie storicistiche qualcuno direbbe: la Francia era la più progredita dal punto di vista culturale, e la più arretrata dal punto di vista politico. In realtà questo modo di intendere le cose è presuntuoso: chi stabilisce quale sia il progresso? E prima ancora: che cosa sia il progresso e perché il meglio stia sempre col nuovo? Di fatto il '900 ha smentito come fallace la pretesa storicistica che il nuovo sia automaticamente meglio dell'antico: i regimi totalitari che lo hanno funestato con oltre 100 milioni di morti (tra le due guerre mondiali e i vari lager e gulag) pretendevano appunto di rappresentare "il nuovo", rompendo i ponti con la tradizione.

In ogni caso il regime politico francese era ormai una anomalia nel contesto europeo, in cui le istanze dell'individualismo borghese trovavano sempre più spazio politico, appunto col dispotismo illuminato. Mancava d'altra parte una cultura che giustificasse i valori gerarchico-comunitari su cui si basava l'Ancien Régime [?], di cui d'altronde non si possono negare anche i lati effettivamente negativi.

La rivoluzione, figlia della povertà: dati e grafici smentiscono che vi fosse in Francia una situazione di particolare ingiustizia sociale.


tappe principali
in generale
La Rivoluzione Francese conobbe tre fasi principali:
una iniziale, (relativamente) moderata e (parzialmente) legalitaria, in cui il Re, tra mille contraddizioni e esitazioni, sembrò accondiscendere alle richieste "rivoluzionarie".
ma queste richieste non si fermavano mai, assestandosi su una situazione di monarchia costituzionale di tipo inglese, e andavano prendendo una piega sempre più corrosivamente anticristiana (vedi Rivoluzione e Chiesa): a questo punto il Re rompe, sostanzialmente, benché mai formalmente, col processo innovativo, che diviene così esplicitamente rivoluzionario. Si entra nella seconda fase, più estremista e dirompente, della Rivoluzione: mentre gli stati europei si coalizzano per abbattere il nuovo regime, la situazione di emergenza così creatasi legittima i più palesi sovvertimenti dei diritti umani: gli oppositori (reali o presunti) vengono massacrati in proporzioni inaudite.
Ma tale situazione di continua insicurezza per la propria vita, un vero e proprio inferno sulla terra, non poteva a lungo essere sopportata e perciò, non appena la minaccia esterna delle potenze europee coalizzate viene meno, il regime terroristico dei giacobini viene rovesciato e si instaura un nuovo regime, più moderato ma pur sempre repubblicano e anticristiano, espressione sociale soprattutto degli strati più alti della borghesia francese. Da notare che questa stessa ultima tappa della Rivoluzione, pur più moderata del periodo giacobino, non riesce a stabilizzare la situazione: le forze eversive, una volta evocate, non arrestano la loro danza dionisiaca, e per anni la Francia e l'Europa saranno sconvolte dalla violenza imperialista di Napoleone, degno frutto della Rivoluzione.
la rivoluzione e la Chiesa
Si veda la pagina sula Rivoluzione e la Chiesa

La Rivoluzione e LA CHIESAi FATTI iniziali
4 agosto 1789: l'abolizione dei diritti feudali lede anche la Chiesa, che ne è detentrice, ma viene indennizzata [Dizionario critico della Rivoluzione francese, tr. it. Bompiani, d'ora in poi: "DC"]
nei giorni seguenti l'abolizione delle DECIME la danneggia, e non ne viene indennizzata [DC]
2 novembre 89 i beni della Chiesa sono messi a disposizione della nazione (per rimediare al deficit)
MOTIVO: è un servizio pubblico, e come tale non proprietaria, ma usufruttuaria
PRECEDENTI: i re inglesi, molti principi tedeschi, Giuseppe II
febbraio 1790 l'Assemblea Costituente non riconosce più agli effetti civili i voti monastici.
n.b. fino a questo punto i rapporti tra clero e Rivoluzione non si erano guastati (molti parroci avevano migliorato la loro posizione economica grazie al sussidio statale stanziato per l'anno '90).
Da quel momento parte dell'opinione pubblica cattolica inizia a preoccuparsi.
PIO VI aveva già un giudizio molto negativo [DC, p. 491] e condannò in un concistoro segreto la dichiarazione dei dir dell'h [ibi].

LA COSTITUZIONE CIVILE DEL CLERO (12 luglio 1790)
dibattuta nell'Assemblea Costituente da fine maggio a metà luglio 90 (secondo Furet, DC 492, senza alcuna profondità nè originalità)

inglobava la Chiesa nello stato


1)NUOVE CIRCOSCRIZIONI ricalcate sugli 83 dipartimenti statali (abolendo le precedenti 130 diocesi)
2)il clero diventava "pubblico ufficiale ecclesiastico", stipendiato dallo Stato, alla cui Costituzione deve giurare fedeltà,
eletto dal BASSO (da tutti i CITTADINI , in quanto tali, come avrebbe fatto anche l'URSS)
e dal "basso" affiancato ( i vescovi dovevano governare assistiti da un consiglio permanente di vicari)
separandola dal Papa


<< a cui veniva riconosciuto (art. 5 del titolo I) un primato puramente simbolico,
>> ma i cui brevi dovevano subire la censura del governo francese

Giudizio: grave intrusione del potere politico nella vita Chiesa.
< questas obiezione venne avanzata (dal vescovo di Aix, DC 492);
> ma si ribatté dal Treilhard

a. la Chiesa essere corresponsabile degli abusi dell'ancien régime
b. l'elezione dal basso la riportava alla purezza delle origini
c. la subordinazione allo Stato era nelle tradizione gallicane.
REAZIONI
PIO VI condannò la Costituzione civile solo il 10 marzo 1791 ma il clero francese capì subito la gravità della situazione :

solo TRE SU 130 vescovi giurarono
una frazione esigua del clero parrocchiale
il POPOLO > a Parigi invece vi furono episodi di segno opposto (ad es il parroco di St.Sulpice fu prelevato dalla Chiesa e trascinato a giurare)

il gencidio vandeano: la Rivoluzione colpevole di sangue innocente"La Vandea deve essere un cimitero nazionale"

«Per tutto il 1793 vi sono distruzioni e massacri, ma in generale avvengono durante i combattimenti. L'esercito di Magonza non è senza colpa; si fa precedere all'uscita da Nantes da carriaggi di zolfo e annienta diversi villaggi. Westennann non perde occasione per bruciare e per massacrare e il suo soprannome di "macellaio di Vandea" è anteriore alla battaglia di Savenay. Si possono menzionare diversi massacri, come quello di Noirmoutier, dal 3 al 6 gennaio, quando Haxo ha dato la sua parola che avrebbe lasciato la vita a tutti coloro che si fossero arresi. Non bisogna dimenticare l'incendio di Machecoul da parte degli uomini dell'aiutante generale Guillaume, il 17 o 18 dicembre 1793, a causa dell'"indisciplina della truppa"; la distruzione di Saint-Christophe-du-Ligneron il 7 gennaio e dei dintomi di Légé l'l I dello stesso mese. I rappresentanti Choudieu e Bellegarde confessano, in una lettera alla Convenzione del 15 ottobre, che l'esercito della Repubblica era ovunque preceduto dal terrore: "Ilferro e ilfuoco sono le sole armi di cui facciamo uso".

Il progetto di distruzione totale infatti fu applicato soltanto con la proposta del piano di Turreau, nuovo generale in capo dell'armata dell'Ovest (211) . Fin dal suo arrivo in Vandea, all'indomani di Savenay, scrive al Comitato di Salute Pubblica perché venga deliberato il piano che conta di seguire e per sollecitare un documento che lo copra: "Vi chiedo un'espressa autorizzazione o un decreto per bruciare tutte le città, villaggi e frazioni della Vandea che non sono ormai più nell'alveo della Rivoluzione e che forniscono senza posa nuovo alimento alfanatismo e alla monarchia".

Nessuna risposta. Lo stesso Carrier, messo al corrente, si rifiuta di dargli la copertura con un ordine; il nuovo generale in capo aveva fatto una domanda simile il 28 dicembre (211 ). Non solo, i Rappresentanti in missione, Louis Turreau e Bourbotte, desiderando evitare ogni responsabilità e ogni compromissione, si fanno richiamare a Saumur con il pretesto di una malattia "derivante dalle fatiche della loro troppo lunga missione".

Il generale Turreau ritorna tuttavia alla carica il 17 gennaio: "La mia intenzione è proprio di incendiare tutto, preservando solo i punti atti a stabilire gli acquartieramenti necessari all'annientamento dei ribelli, ma questa importante risoluzione deve essere prescritta da voi. Io sono solo un agente passivo [... ]. Dovete pavimenti pronunciarvi in anticipo sulla sorte delle donne e dei bambini. Se bisogna passarli tutti a fil di spada, io non posso adottare una simile misura senza un ordine che metta al riparo la mia responsabilità".

Lo stesso giomo, dopo aver scritto di suo pugno in testa alla sua carta da lettere il motto: "Libertà, Fraternità, Eguaglianza o la Morte", Turreau manda le seguenti istruzioni ai suoi luogotenenti: "Tutti i briganti che saranno trovati armi alla mano, o rei di averle prese, saranno passati a filo di baionetta. Si agirà allo stesso modo con le donne, le ragazze e i bambini [ ... ].Neppure le persone semplicemente sospette dovranno essere risparmiate. Tutti i villaggi, i borghi, le macchie e tutto quanto può essere bruciato sarà dato alle fiamme".

Ciononostante, inquieto per il silenzio di Parigi, indirizza una nuova supplica al Comitato di Salute Pubblica: "La passeggiata militare che medito sarà finita il 4 o il 5 febbraio. Lo ripeto, considero indispensabile bruciare città, villaggi e poderi, altrimenti non potrò rispondere dell'annientamento di quest'orda di briganti, che sembrano trovare ogni giorno nuove risorse".

Da Cholet, nel Maine-et-Loire, il 31 gennaio, aveva informato "dello stato di perplessità in cui lo si lascia".

Soltanto l'8 febbraio 1794 il Comitato fa pervenire a Turreau il suo assenso tramite Carnot: "Ti lamenti, cittadino generale, di non aver ricevuto dal Comitato un'approvazione formale alle tue misure. Esse gli sembrano buone e pure, ma, lontano dal teatro delle operazioni, attende i risultati per pronunciarsi: stermina i briganti fino all'ultimo, ecco il tuo dovere [ ]" (I').

L'11 febbraio Turreau accusa ricevuta: "Ho ricevuto con piacere l'approvazione che avete dato alle misure che ho preso [ ]" (149) , e il 15 febbraio confida al rappresentante Bourbotte: "Tu sai che, senza alcuna autorizzazione, ho preso e messo in esecuzione le più rigorose misure per porre fine a questa orribile guerra. Il Comitato di Salute Pubblica ha certo voluto darmi la sua sanzione, ma io ero tranquillo, mi appoggiavo, mi sia permesso dirlo, sulla purezza delle mie intenzioni".

Quello stesso giorno, il Comitato di Salute Pubblica scrive al Rappresentante Dembarère: "Uccidete i briganti invece di bruciare le fattorie, fate punire i fuggitivi e i vigliacchi e distruggete totalmente questa orribile Vandea [ ]. Concorda con il generale Turreau i mezzi più sicuri per sterminare tutto di questa razza di briganti [ ]" ("').

Dalla lettura di questo dichiarazione si può vedere fino a che punto la responsabilità sia interamente del Comitato di Salute Pubblica.

Il 17 gennaio, il generale Grignon, capo della prima colonna, arringa i suoi soldati in questi termini: "Compagni, entriamo nel paese insorto. Vi dò l'ordine di dare alle fiamme tutto quanto sarà suscettibile di essere bruciato e di passare a filo di baionetta qualsiasi abitante incontrerete sul vostro passaggio. So che può esserci qualche patriota in questo paese; è lo stesso, dobbiamo sacrificare tutto" (251).

Il 19 gennaio Cordelier redige, a uso dei suoi comandanti di corpo, istruzioni relative all'esecuzione degli ordini dati da Turreau. Il generale deve "occuparsipersonalmente" della riva destra della Loira. "Sarà comandato giornalmente e a turno un picchetto di cinquanta uomini con i suoi ufficiali e sottufficiali, che sarà destinato a scortare i pionieri a fare il loro dovere. L'ufficiale comandante di questo picchetto prenderà tutti i giorni gli ordini dal generale prima della partenza e sarà responsabile difronte a lui della loro esecuzione. A questo scopo, agirà militarmente nei confronti di quei pionieri che mostreranno di non eseguire ciò che comanderà e li passerà a filo di baionetta.

"Tutti i briganti che saranno trovati con le armi in pugno o indiziati di averle prese per rivoltarsi contro la loro patria, saranno passati afilo di baionetta. Si agirà nello stesso modo con le fanciulle, le donne e i bambini. Neppure le persone solamente sospette dovranno essere risparmiate, ma nessuna esecuzione potrà essere fatta senza che il generale l'abbia preliminarmente ordinata.

"Tutti i villaggi, i poderi, i boschi, le macchie e in genere tutto quanto può essere bruciato sarà dato allefiamme, ma dopo che si saranno portate via dai luoghi, ove sarà possibile, tutte le derrate che vi saranno; ma, lo si ripete, queste esecuzionipotranno essere effettuate solo quando il generale lo avrà ordinato. Il generale designerà quegli oggetti che devono essere risparmiati" (212).

Garantiti da questo programma, i repubblicani di stanza in Vandea si scindono in due armate: la prima si dispone da SaintMaixent a Les Ponts-de-Cé e il generale Turreau, da Cholet, ne prende il comando; la seconda va da Les Sables a Paimboeuf ed è affidata a Haxo (213) . Tutta la Vandea Militare si trova così accerchiata. Queste due armate contano ciascuna sei divisioni: Dufour a Montaigu, Amey a Mortagne, Huché a Lugon, Grignon a Argenton-le-Cháteau, Cordelier a Le Loroux; Beaufranchet, Grammont, Dalliac, Commaire, Charlery, Caffin, Chalbos sono scaglionati dall'est all'ovest del dipartimento della Vandea. Ciascuna di queste divisioni comprende due colonne suddivise in dodici corpi che devono avanzare l'uno verso l'altro da est o da nord-est, da ovest o da sud-ovest. In realtà la seconda armata è formata di sole otto colonne, ciascuna di circa 800 uomini, non sdoppiate e rinforzate di reclute.

Il paese insorto deve essere traversato in sei giorni. Anche la via da seguire è precisata dettagliatamente, come pure la località da raggiungere. La partenza è fissata per il 21 gennaio, giorno anniversario dell'esecuzione del re, l'arrivo per il 27. Di conseguenza, bisogna marciare "ora di giorno, ora di notte" (211).

E difficile fare un racconto globale di "questa passeggiata militare". Alcuni passaggi dei rapporti giornalieri indirizzati dai comandanti di divisione al loro generale in capo non richiedono commenti (111).

Da Maulévrier, Caffin scrive il 25 gennaio 1794 a Turreau: "Per il bene della Repubblica, Echaubrognes non esiste più: non ne resta una sola casa. Niente è sfuggito alla vendetta nazionale. Nel momento in cui ti scrivo, ho fatto fucilare quattordici donne che mi sono state denunciate [ ]".

Lo stesso giorno un altro comandante di colonna, Grignon, che operaunpo'piùlontano,nelleDeux-Sèvres,commentadaCerizay: "Continuo sempre a far portar via le derrate, a bruciare e a uccidere tutti quelli che hanno preso le armi contro di noi. Tutto va bene, ne uccidiamo più di cento al giorno [ ]. Dimenticavo di dirti che mi hanno arrestato una decina dipanatici [ ... ]andranno al quartier generale".

Il 26 gennaio, da Maulévrier, Caffin prosegue: "Un distaccamento di centocinquanta uomini rimasto a La Tessouale hafatto evacuare e incendiare tutte le fattorie sulla strada di SaintLaurent [ ]. Prima di stasera mi aspetto più di duecento fra buoi e vacche. Tutto il bestiame è sparso nei campi. Ieri ho fatto bruciare tutti i mulini che ho visto [ ]. Oggi posso far bruciare, senza correre. rischi, i tre quarti della città di Maulévrier".

Il 27 gennaio, da Jallais, Cordelier insiste: "Avevo ordinato di passare afil di baionetta tutti gli scellerati che si sarebbero potuti incontrare e bruciare le fattorie e le frazioni nei dintorni di Jallais; i miei ordini sono stati puntualmente eseguiti e, in questo momento, quaranta fattorie rischiarano la campagna [ ]".

Il 31 gennaio, da Maulévrier, Caffin interviene ancora: "Ti informo che tutto il villaggio di Yzernay è stato incendiato ieri senza avervi trovato né uomo né donna. Restavano quattro mulini a vento che mando a incendiare stamattina, perché non voglio lasciarne nemmeno uno. Ho fatto bruciare questa mattina tutte le case che restavano a Maulévrier, senza eccettuarne nessuna, salvo la chiesa dove vi sono ancora molti beni che sarebbe opportuno mandare a cercare in seguito [ ] .

"Il borgo di Toútlemonde è stato incendiato l'altro ier"i

Il I' febbraio, a Saint-Laurent, sempre Caffin: "A mezzogiorno ti scrivo ancora da Saint-Laurent [ ]. Poiché voglio assolutamente recarmi a La Verrie questa sera, temo di non poter incendiare tutto come desidererei [ ]. Hofatto condurre a Cholet trentadue donne che erano nel convento [ ]. Ho trovato ancora una ventina d'uomini, che ho fatto fucilare prima di partire. Se ne trovo altri sulla mia strada, subiranno la stessa sorte [ ]".

Il 3 febbraio, a La Verrie, Caffin termina: "Ti informo che andrò domani mattina, con la mia colonna, a bruciare quel borgo [La Gaubretière], a uccidere senza alcun riguardo quanti vi incontrerò, essendo il covo di tutti i briganti. Tutto sarà passato a ferro e a fuoco

è Turreau non nmane indietro, come spiega nei suoi resoconti indirizzati al Comitato di Salute Pubblica e al ministero della Guerra.

Il 22 gennaio: "Le nostre truppe immolano ai mani dei nostri fratelli i resti sparsi di questa esecrabile armata".

Il 24 gennaio: "Le mie colonne hanno già fatto meraviglie; non un ribelle è scampato alle loro ricerche [ ]. Se le mie intenzioni sono ben assecondate, non esisteranno più nella Vandea, entro quindici giorni, né case, né viveri, né armi, né abitanti. Bisogna che tutti i boschi, tutti gli alberi di alto fusto che esistono in Vandea siano abbattuti [ ]".

Il 31 gennaio: "Esse [le colonne] hanno passato a filo di baionetta tutti i ribelli sparsi che attendevano solo un nuovo segnale di ribellione [ ]. Si sono incendiate fattorie, villaggi, borghi [..]. Non si può concepire l'enormità di granaglie e di foraggi che si è trovata nelle fattorie e nascosta nei boschi.

"Ho dato gli ordini più precisi perché tutto sia portato via da questo maledetto paese e portato nei magazzini della Repubblica. E partito questa mattina per Saumur un convoglio di quasi due leghe di lunghezza [ 1".

Gli ufficiali subaltemi, spesso disgustati, testimoniamo anche loro: "Amey - scrive l'ufficiale di polizia Gannet in un rapporto -fa accendere i forni e quando sono ben caldi, vi getta le donne e i bambini. Gli abbiamo fatto delle rimostranze; ci ha risposto che proprio così la Repubblica voleva far cuocere il suo pane. Inizialmente si sono condannate a questo genere di morte le donne briganti e non abbiamo detto molto; ma oggi le grida di queste miserabili hanno tanto divertito i soldati e Turreau che hanno voluto continuare questi piaceri. Mancando le femmine dei monarchici, si rivolgono alle spose dei veri patrioti. A nostra conoscenza, già ventitré hanno subito questo orribile supplizio ed erano colpevoli soltanto di adorare la nazione [ ]. Abbiamo voluto interporre la nostra autorità e i soldati ci hanno minacciato della stessa sorte [ ]".

Il presidente del distretto, il 25 gennaio, se ne stupisce: "I tuoi soldati sedicenti repubblicani si abbandonano alla dissolutezza, allo sperpero e a tutti gli orrori di cui neppure i cannibali sono capaci [ ]".

Il capitano Dupuy, del battaglione della Libertà, invia a sua sorella, il 17 e il 26 nevoso - gennaio 1794 -, due lettere molto esplicite: "I nostri soldati percorrono per sentieri spaventosi i tristi deserti della Vandea [ ]. Dovunque passiamo, portiamo le fiamme e la morte. L'età, il sesso, niente è rispettato. Ieri, uno dei nostri distaccamenti bruciò un villaggio. Un volontario uccise di sua mano tre donne. È atroce ma la salvezza della Repubblica lo esige imperiosamente [ ]. Che guerra! Non abbiamo visto un solo individuo senza fucilarlo. Dappertutto la terra è ricoperta di cadaveri; dappertutto le fiamme hanno portato la loro distruzione [ 1".

"I delitti non si sono limitati al saccheggio - aggiunge Lequinio -. Lo stupro e la più sfrenata barbarie si sono ripresentati in ogni luogo. Si sono visti militari repubblicani violentare donne ribelli su pietre ammucchiate al bordo delle strade principali e fucilarle e pugnalarle uscendo dalle loro braccia; si sono visti altri portare lattanti sulla punta della baionetta o della picca che aveva trafitto con lo stesso colpo madre e figlio [ ]".

"Ho visto bruciare vivi uomini e donne - scrive il chirurgo Thomas -. Ho visto centocinquanta soldati maltrattare e violentare donne, ragazzine di quattordici e quindici anni, massacrarle subito dopo e lanciare di baionetta in baionetta teneri bambini rimasti a fianco delle loro madri stese a terra [ ]".»

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:04
LA VANDEA

di Renato Cirelli

1. Un fatto divenuto un simbolo

Il termine "Vandea", grazie alla storiografia filo-rivoluzionaria, è divenuto sinonimo di rivolta reazionaria e di resistenza contro l’affermarsi del progresso, che hanno come protagoniste popolazioni contadine ignoranti, sobillate da clero e nobili, che utilizzano il fanatismo religioso per scopi in realtà riconducibili ai loro interessi e privilegi di classe. Questa interpretazione non ha potuto essere adeguatamente controbilanciata dalla storiografia filo-vandeana, perché, a tutt’oggi, gli storici di parte rivoluzionaria hanno praticato l’occultamento dei fatti e imposto la damnatio memoriae nei confronti dei protagonisti, quindi anche dei valori che stanno all’origine della rivolta vandeana.

2. I motivi della rivolta

Il territorio indicato come Vandea Militare è situato nella Francia Occidentale, sulla costa atlantica, con un’estensione di circa 10.000 kmq e con una popolazione, all’epoca, di ottocentomila abitanti. Non si tratta di una regione povera e marginale, ma la sua ricchezza e la sua popolazione sono superiori alla media francese, così come la ricchezza e la popolazione francesi sono superiori alla media europea del tempo.

Gli abitanti della regione sono noti per l’attaccamento alle consuetudini e alle libertà locali, oltre che per un radicato sentimento religioso, segnato dalla predicazione di san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716), che aveva combattuto lo scetticismo del tempo soprattutto con la devozione mariana.

Alla fine del secolo XVIII l’Ovest, come tutta la Francia, patisce gli esiti di un processo di centralizzazione che si è sempre più sviluppato a partire dal regno di Luigi XIV di Borbone (1638-1715).

Il costo di questa politica è la causa principale della voracità statale in materia fiscale e una delle conseguenze del governo dei ministri illuministi, sì che fra il 1775 e il 1789 la pressione fiscale diventa sempre più sostenuta e male sopportata da tutti.

Quando, per avviare una riforma generale che affronti il problema fiscale e il deficit dello Stato, vengono convocati da re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) gli Stati Generali l’assemblea costituita dai rappresentanti del clero, della nobiltà e della borghesia , anche dalla Vandea arrivano i cahiers de doléance, raccolte di rimostranze e di petizioni che esprimono, insieme a un profondo attaccamento alla monarchia, anche una serie di proteste contro il sistema di imposizione fiscale, i suoi abusi e la sua irrazionalità.

I vandeani auspicano, quindi, un rinnovamento e con questo spirito mandano a Parigi i loro rappresentanti, perché se ne facciano portavoce presso il sovrano. E la disillusione è tanto più cocente quanto più grande è stata la speranza.

Diventa sempre più chiaro, e non solo in Vandea, che a Parigi non si lavora alle sperate riforme, ma a emanare leggi destinate ad aumentare il potere coercitivo delle amministrazioni, a colpire la Chiesa e le tradizioni religiose del popolo in una inquietante accelerazione distruttiva.

La confisca e la vendita dei beni ecclesiastici, che avvantaggia solo borghesi e nobili, e l’introduzione della Costituzione Civile del Clero, nell’estate del 1790, creano un diffuso malcontento, al quale le autorità rispondono con insensibilità, con incapacità di governo e con una crescente repressione, che sfocia nell’irrimediabile frattura fra le popolazioni e i pubblici poteri.

Gli avvenimenti precipitano nel 1793. La rottura provocata dalla Costituzione Civile del Clero, che pone le basi di una rivolta di natura religiosa, si consuma con la notizia che il 21 gennaio 1793 re Luigi XVI è stato ghigliottinato, e si manifesta quando il Governo di Parigi ordina in tutta la Francia l’arruolamento di trecentomila uomini da mandare al fronte.

3. La guerra contro-rivoluzionaria

La rivolta scoppia perché la popolazione della Vandea rifiuta di abbandonare le case per andare a morire per una repubblica che considera illegittima, colpevole di perseguitare la religione, di aver assassinato il sovrano legittimo e di aver inasprito la crisi economica.

Già dal 1790, a causa delle tasse e in difesa dei sacerdoti detti "refrattari", cioè quelli che non avevano giurato fedeltà alla Costituzione, scoppiano un po’ dovunque tumulti e la Guardia Nazionale, più di una volta, non esita a sparare sulla folla.

Anche in altre regioni della Francia scoppiano rivolte, però ovunque la Repubblica le soffoca più o meno rapidamente, perché sono improvvisate, mancano di coordinamento e di decisione. Ma in Vandea, nel marzo del 1793, inizia un’insurrezione generale, annunciata dal suono delle campane a martello di tutte le chiese. Gli insorti si organizzano militarmente sulla base delle parrocchie e costituiscono un’Armata Cattolica e Reale di molte decine di migliaia di uomini, guidati da capi che essi stessi si sono scelti e che spesso, specie fra i nobili, sono restii a farsi coinvolgere.

Jacques Cathelineau (1759-1793), vetturino, è l’iniziatore della sollevazione e viene eletto primo generalissimo dell’Armata vandeana; muore in battaglia a trentaquattro anni. Il marchese Louis-Marie de Lescure (1766-1793) è un ufficiale che gli insorti liberano dalla prigionia, ed egli ne diviene un capo autorevole; quando muore in combattimento, a ventisette anni, gli viene trovato addosso il cilicio. Henri du Vergier de la Rochejaquelein (1772-1794) è eletto generalissimo a soli ventuno anni; Napoleone Bonaparte (1769-1821) ne esalterà il genio militare. Jean-Nicolas Stofflet (1753-1796), guardiacaccia, si rivela un formidabile tattico e non accetterà mai di arrendersi. François-Athanas de la Contrie (1763-1796), detto Charette, è un ufficiale di marina "costretto" a diventare un capo leggendario dagli insulti dei contadini che lo traggono da sotto il letto, dove si è nascosto per sottrarsi alle loro ricerche; muore fucilato. Vi è anche chi è prelevato a forza e portato in battaglia sulle spalle dei contadini. Fra le poche eccezioni vi è Antoine-Philippe de la Trémoille, principe di Talmont (1765-1794), che torna dall’esilio per mettersi alla testa della cavalleria, unico dei grandi signori di Francia a combattere e a morire con i vandeani.

Vittorie e sconfitte si alternano fino allo scacco di Nantes e alla sconfitta di Cholet, nell’autunno del 1793. L’Armata Cattolica e Reale decide, allora, di attraversare la Loira e di raggiungere il mare in Normandia, dove pensa di trovare la flotta inglese. Ma all’arrivo gli inglesi non vi sono e i vandeani, con le famiglie al seguito, ritornano sui propri passi, inseguiti dai repubblicani che li sconfiggono in una serie di scontri, che si risolvono in carneficine dove gli insorti, donne e bambini compresi, vengono sterminati a migliaia.

4. La repressione rivoluzionaria

Nel gennaio del 1794 la Repubblica ordina la distruzione totale della Vandea. Spedizioni militari punitive, dette "colonne infernali", attraversano la regione facendo terra bruciata e perpetrando il genocidio della popolazione, con una metodicità e con strumenti da "soluzione finale", che anticipano gli orrori del secolo XX; né mancano intenti di controllo demografico.

Parallelamente inizia la campagna di scristianizzazione del territorio e il Terrore rivoluzionario si abbatte sulle popolazioni con la più dura delle persecuzioni mentre gli imprigionati, i deportati in questo periodo viene inaugurata la colonia penale di Caienna, nella Guyana , le esecuzioni di ogni tipo sono in un numero imprecisato. Nel febbraio del 1794 la Vandea insorge ancora e conduce una spietata guerra di guerriglia, che mette la Repubblica alle corde. Finalmente, nel febbraio del 1795, a La Jaunnaye, i capi vandeani firmano una pace con la quale il Governo di Parigi s’impegna a riconoscere la libertà del culto cattolico, concede l’amnistia, un’indennità di risarcimento e, a quanto pare, in alcuni articoli segreti, s’impegna a consegnare ai vandeani il figlio di Luigi XVI, prigioniero nella Torre del Tempio di Parigi. Però, in seguito al mancato rispetto degli accordi, nel maggio del 1795 Charette e altri capi riprendono le armi, ma questa volta l’insurrezione non ha l’ampiezza della precedente, anche perché è grande la delusione per il mancato arrivo di un principe che si metta alla testa degli insorti; mancato arrivo di cui sono responsabili anche gli intrighi inglesi.

La guerriglia continua senza speranza fino alla cattura e alla fucilazione di Charette, nel marzo del 1796. Il tentativo di sbarco a Quiberon da parte di settecentocinquanta "emigrati" persone che hanno lasciato la Francia dopo gli avvenimenti del 1789 , molti dei quali ufficiali di marina cui l’Inghilterra ha promesso aiuto e appoggio militare, si conclude in un disastro. Traditi, cadono nelle mani dei repubblicani, che promettono loro la vita in cambio della resa e invece li fucilano; tutto finisce in una tragica Baia dei Porci ante litteram.

Con la morte di Charette si conclude l’epopea vandeana. Vi sarà un’altra insurrezione negli anni 1799 e 1800, guidata dai capi vandeani superstiti e da George Cadoudal (1771-1804) in Bretagna; poi ancora nel 1815, durante i Cento Giorni napoleonici; e, infine, l’ultimo episodio sarà la fallita insurrezione legittimista contro il governo liberale di Parigi nel 1832.

5. Il costo della guerra

Anni di guerra e di guerriglia spietata, ventuno battaglie campali, duecento prese e riprese di villaggi e di città, settecento scontri locali, centoventimila morti di parte vandeana, numerosissimi di parte repubblicana, la regione completamente devastata: queste sono le cifre impressionanti che molti cercano di nascondere.

Quella che Napoleone ha chiamato una lotta di giganti è una guerra popolare, cattolica e monarchica, che i vandeani hanno condotto diventando coscientemente un ostacolo all’affermazione del primo grande tentativo di repubblica rivoluzionaria e totalitaria della storia moderna. Per questo la Vandea ha pagato con un terribile genocidio, seguito dal silenzio di chi si riconosce nell’albero ideologico della Rivoluzione francese.

6. La vittoria dei vinti

Il riconoscimento dei sacerdoti fedeli a Roma, il ristabilimento del culto cattolico e infine, con tutti i suoi limiti, il Concordato Napoleonico del 1802 sono da molti ascritti a merito anche del sacrificio dei vandeani. Questa, in ultima analisi, può essere definita la grande vittoria dei vinti. Vinti in questo mondo, dal momento che molti di questi martiri sono stati elevati alla gloria degli altari dalla Chiesa.

Quindi, questa è la ragione per cui, fuori dal linguaggio corrente della storiografia, il termine "Vandea", al di là del suo contesto storico, ha valenza positiva, esempio e sinonimo di contrapposizione radicale ai princìpi rivoluzionari dell’epoca moderna, e difesa e proposizione dei valori sui quali si fonda la civiltà cristiana; perciò termine contro-rivoluzionario perché esprime non solo ostilità alla Rivoluzione in tutti i suoi aspetti, ma anche sostegno dei princìpi cristiani, che sono a essa radicalmente contrari.

Per approfondire: vedi un quadro generale della Rivoluzione francese, in Pierre Gaxotte (1895-1982), La Rivoluzione Francese, trad. it., Mondadori, Milano 1989; sulla Vandea in particolare, vedi la monografia di Reynald Secher, Il genocidio vandeano, prefazione di Jean Mayer, presentazione di Pierre Chaunu, trad. it., Effedieffe, Milano 1991; e lo straordinario documento di François Noël "Gracchus" Babeuf (1760-1797), La guerra della Vandea e il Sistema di Spopolamento, introduzione, presentazione, cronologia, bibliografia e note di R. Secher e Jean-Joël Brégeon, trad. it., Effedieffe, Milano 1991; per la "fortuna" del termine come categoria storica, vedi gli atti di un convegno tenuto in Vandea nel 1993, per ispirazione dello storico P. Chaunu, AA. VV., La Vandea, premessa di Sergio Romano, trad. it., Corbaccio, Milano 1995; per un’analisi delle interpretazioni del fenomeno "Rivoluzione francese", vedi Massimo Introvigne, Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996, pp. 24-59.

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:05
«Contro l'Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive»



Con il canto del Vexilla Regis - inno dei Vespri nel tempo della Passione composto a Poitiers attorno al 569 da Venanzio Fortunato in occasione dell'arrivo di una reliquia della Santa Croce donata a santa Redegonda da Giustiniano II, imperatore d'Oriente, e spesso intonato dai combattenti della Contro-Rivoluzione vandeana - nel pomeriggio di sabato 25 febbraio 1989 si è aperto a Roma, presso l'Augustinianum, il Convegno Internazionale Contro l'Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive, promosso da Alleanza Cattolica e da Cristianità.



La prima sessione

Davanti a quasi seicento persone - un pubblico in parte proveniente dalle più diverse località del territorio nazionale e composto prevalentemente da giovani, con una buona presenza di esponenti del clero regolare e secolare -, a nome dell'associazione promotrice ha introdotto i lavori, e presieduto la prima sessione, il professor Marco Tangheroni, ordinario di Storia Medioevale all'Università di Pisa. Indicando gli scopi del Convegno il docente ha affermato che gli organizzatori non avevano intenzioni commemorative - fatta naturalmente salva la pietà per le vittime della Rivoluzione francese e l'ammirazione per quanti hanno opposto a essa una coraggiosa resistenza -, ma volevano piuttosto portare, e attirare, l'attenzione sulle idee all'origine del fenomeno sovversivo, sui fatti che lo caratterizzarono e sui miti ancora oggi ampiamente presenti nella storiografia: a questo proposito ha denunciato un tentativo di falsa "demitizzazione" - attualmente messo in opera, fra altri, dal sociologo Francesco Alberoni - consistente nel separare, se non addirittura nel contrapporre, la Rivoluzione dell'Ottantanove e l'illuminismo, per liberare quest'ultimo dalle responsabilità delle sue conseguenze pratiche, scomode verità di fatto - ormai quasi alla portata di tutti - sugli avvenimenti e sulle ideologie che li hanno generati.

Dopo aver ricordato come il tema affrontato dal Convegno sia sempre stato al centro della riflessione culturale di Alleanza Cattolica - nata appunto dalla volontà di comprendere le cause della crisi dell'uomo e del mondo contemporanei per contribuire a porvi adeguato rimedio -, il professor Marco Tangheroni è passato a presentare i relatori della prima sessione in cui si è articolato il Convegno, cioè gli storici francesi Jean Dumont e Reynald Secher.



"La Rivoluzione francese contro la Chiesa cattolica"

Autore, fra l'altro, di opere in cui fonda su solida documentazione e sostiene polemicamente la tesi del carattere essenzialmente anticristiano della Rivoluzione dell'Ottantanove, Jean Dumont ha descritto, in una relazione intitolata La Rivoluzione francese contro la Chiesa cattolica, il programma di distruzione dell'istituzione ecclesiastica messo in opera fin da subito e senza interruzione dai rivoluzionari. Dopo aver ricordato che la violenza rivoluzionaria non viene inaugurata - come recita il luogo comune - dalla presa della Bastiglia il 14 luglio 1789, ma dal saccheggio e dalla distruzione della casa parigina dei lazzaristi il giorno precedente, il 13 luglio, lo storico ha ripercorso le tappe in cui si è sviluppato il tentativo di scristianizzazione totale della Francia, dalla nascita della Chiesa Costituzionale, in contrapposizione a quella fedele al Papa, all'interdizione completa del culto cattolico decretata nell'autunno del 1793. Concludendo, Jean Dumont ha messo in evidenza come la programmata scristianizzazione totale non si sia potuta realizzare grazie alla strenua resistenza vandeana, che costrinse la Repubblica a concedere la libertà di culto con il trattato di Le Jounais, del 1795, trattato di cui beneficerà poi tutto il paese. Ma se la Rivoluzione non è riuscita a tradurre in pratica il suo programma di completa scristianizzazione, ha comunque inferto un grave colpo alla presenza della religione cattolica in Francia, come dimostrano i dati - accuratamente riferiti dallo storico francese e raccolti nelle sue opere - che attestano come la pratica religiosa non si sia a tutt'oggi ristabilita nella misura precedente gli accadimenti rivoluzionari laddove maggiormente si è prodotta la testimonianza negativa del clero costituzionale.



"Il genocidio vandeano"

Inserendosi nel quadro generale tracciato da Jean Dumont, ha quindi preso la parola il professor Reynald Secher, le cui opere hanno già dato un importante contributo per far uscire dall'oblio, in cui erano stati relegati dalla storiografia ufficiale, uomini e fatti della Resistenza cattolica contro-rivoluzionaria nella cosiddetta Vandea militare, nonché i massacri ordinati dalla Convenzione e dal Comitato di Salute Pubblica contro le popolazioni della stessa regione. Il giovane studioso di Nantes ha svolto il suo applauditissimo intervento, intitolato Il genocidio vandeano, per provare appunto che i massacri perpetrati contro le popolazioni della Francia centro-orientale non possono essere semplicemente presentati come eccessi occasionali, ma configurano inequivocabilmente un genocidio. Iniziata nel marzo del 1793, dopo la promulgazione della legge Jourdan, che prevedeva l'arruolamento forzato di trecentomila uomini nell'esercito repubblicano, l'insurrezione vandeana conosce una prima fase, che si prolunga fino al dicembre dello stesso anno, una fase in cui è soltanto una guerra civile culminata nella sconfitta dell'esercito degli insorti a Savenay nei giorni 21 e 23 dicembre. A questa prima fase - ha spiegato Reynald Secher - segue "l'applicazione fredda del genocidio, i cui princìpi sono stati enunciati molto presto, sembra dal maggio del 1793": si tratta di un genocidio realizzato dalle "colonne infernali" del generale Louis Turreau de Lignières, che attraversano la regione insorta animate dall'intenzione di far sì che "nulla sfugga alla vendetta nazionale"; dalla flottiglia sulla Loira, che mira a "ripulire" i territori rivieraschi dai ribelli; e, infine, dal Comitato di Sussistenza, creato il 22 ottobre 1793 per "portare l'ultimo colpo" alla Resistenza vandeana, privando la popolazione di ogni risorsa materiale, cioè requisendo metodicamente bestiame, vettovaglie e le stesse proprietà immobiliari proscritte e abbandonate.

Al termine del suo intervento - costellato dalla rievocazione di episodi agghiaccianti - Reynald Secher ha fornito i dati per fare un bilancio quantitativo dell'insurrezione e della repressione: la Vandea militare, costituita da quattro degli attuali dipartimenti della Francia con un totale di 773 comuni disposti su circa diecimila chilometri quadrati, ha perduto quasi il 15% della popolazione - 117.257 persone su 815.000 - e circa il 20% delle proprietà immobiliari registrate - 10.309 case su 53.273 -, cifre di un autentico olocausto voluto per estirpare una "razza maledetta", giudicata ideologicamente irrecuperabile da quanti hanno pensato la Rivoluzione e da quanti l'hanno realizzata.



La seconda sessione: "Religione e Rivoluzione francese"

Conclusa la prima sessione del Convegno, dopo un breve intervallo i lavori sono ripresi sotto la presidenza del professor Mauro Ronco, straordinario di Diritto Penale nell'Università di Cagliari, che ha cortesemente accettato di sostituire il dottor Francesco Mario Agnoli, membro del Consiglio Superiore della Magistratura e scrittore, improvvisamente impossibilitato a essere presente. Il professor Mauro Ronco ha proceduto alla presentazione del dottor Massimo Introvigne, autore di saggi di carattere giuridico e filosofico-morale oltre che specialista di fama internazionale nel settore dei nuovi movimenti religiosi - è direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni -, che ha svolto una relazione sul tema Religione e Rivoluzione francese. Dopo aver descritto, sulla base della più recente e accreditata storiografia, lo stato e la situazione della religione nel regno di Francia prima, durante e dopo gli accadimenti che ne hanno sovvertito l'antico regime, il relatore ha trattato dei fenomeni di "nuova religiosità" che si sono manifestati, soprattutto a Parigi, nel clima rivoluzionario, fra cui i culti razionalisti, lo spiritismo e la cartomanzia; successivamente ha analizzato i due esiti scismatici che si sono prodotti nel mondo cattolico relativamente ai rapporti della Chiesa con la Rivoluzione, cioè la Petite Église, sorta dal rifiuto del Concordato fra la Santa Sede e Napoleone Bonaparte, nel 1801, ad opera di tre vescovi e di circa ventimila fedeli, e la Chiesa Costituzionale, promossa da quattro vescovi e da circa il 48% del clero francese e caudataria del regime rivoluzionario.

Quindi il dottor Massimo Introvigne ha esposto l'interpretazione della Rivoluzione dell'Ottantanove da parte delle grandi correnti storiografiche dell'Ottocento, soprattutto di quella cattolico-democratica, che tratta la Grand Révolution alla stregua di un "mito di origine", indispensabile alla sua stessa esistenza; poi ha sinteticamente ricordata la lettura che dello stesso fenomeno storico danno gli studiosi e i cattolici che lo hanno in diversi modi contrastato e combattuto. Fra questi ultimi il relatore ha particolarmente evidenziato quanti, fondandosi su una teologia della storia drammatizzante, hanno preso atto delle novità del contesto culturale creato dalla Rivoluzione - quelle novità che costituiscono propriamente la modernità -, ma non hanno assolutamente trasformato il fatto in un ideale, piuttosto proponendosi di operare realisticamente nella prospettiva di una nuova evangelizzazione, che possa restituire all'influenza della Chiesa cattolica non solo i singoli ma anche le nazioni che sono state a essa surrettiziamente o violentemente sottratte.



La terza sessione

I lavori del Convegno sono ripresi la mattina di domenica 26 febbraio con la terza - e conclusiva - sessione presieduta dal professor don Luigi Negri. Nel suo intervento il sacerdote lombardo, docente di Filosofia Morale nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha ricordato come l'unico frutto storico della Rivoluzione francese sia stata la creazione di uno Stato che non riconosce nessuna istanza superiore a sé, così pregiudicando gravemente gli sforzi compiuti dopo la Rivoluzione per individuare modalità di gestione del potere più partecipate, cioè più veramente democratiche, e ha sottolineato la necessità che, nella prospettiva di una nuova evangelizzazione, prenda "forma non l'utopia di uno Stato perfetto, ma il processo, eminentemente umano perché sostanzialmente etico, della creazione della "civiltà della verità e dell'amore": il massimo della giustizia e della pace per tutti gli uomini".



"L'influsso della Rivoluzione francese nel diritto pubblico e privato attuale"

Presentato dal professor Marco Tangheroni, che ne ha brevemente illustrato la cospicua opera scientifica, ha quindi preso la parola il giurista e accademico di Spagna Juan Vallet de Goytisolo, fra l'altro fondatore dell'Editorial Speiro e della rivista Verbo, che da anni alimentano di dottrina la cultura cattolica contro-rivoluzionaria di tutto il mondo. Nel suo magistrale e articolato intervento - dedicato a L'influsso della Rivoluzione francese nel diritto pubblico e privato attuale - l'illustre studioso e pensatore spagnolo ha anzitutto descritto le conseguenze dell'ideologia rivoluzionaria nel diritto pubblico, mostrando come essa abbia favorito la massificazione della società e la conseguente onnipotenza dello Stato, così promuovendo un tipo di democrazia rappresentativa ma non ugualmente partecipativa.

Relativamente all'influsso della Rivoluzione francese nel diritto privato, Juan Vallet de Goytisolo ha tracciato la storia della concezione e della redazione del codice civile, dal periodo della Convenzione a quello del Consolato, quando viene definitivamente approvato un testo che introduce nell'ordinamento giuridico il principio della sovranità assoluta della legge positiva, opera dello Stato e del suo potere legislativo illimitato, e che così apre le porte a tutta la legislazione rivoluzionaria successiva sulla famiglia. Il relatore ha anche messo in evidenza come l'ideologia illuministica, all'origine del fenomeno rivoluzionario in Francia, con il suo riferimento a un tipo di uomo astratto, astorico quando non antistorico, ha indotto la formulazione di un preteso diritto perfetto, applicabile a tutti gli uomini in ogni luogo e in ogni tempo, in questo modo dilatando smisuratamente il potere dello Stato - un pericolo già paventato, cinquant'anni prima dell'esplosione della Rivoluzione, da Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu - e lasciando il cittadino solo di fronte alla pubblico autorità, senza più protezioni naturali e sociali. "Il preteso trasferimento di sovranità - dal re alla nazione - nasconde una creazione", ha detto Juan Vallet de Goytisolo citando il giurista francese Georges Ripert: "Il re di Francia non ha mai avuto il potere legislativo o, almeno, un potere paragonabile a quello del parlamento moderno. Non è necessario ricordare le ragioni storiche per cui era obbligato a condividere la sovranità. Basta constatare che non osava toccare il diritto civile". Alla drammatica situazione di onnipotenza dello Stato, che si è venuta creando con e grazie alla Rivoluzione francese, si può far fronte - ha concluso il relatore - soltanto con una revisione previa di tutti i miti rivoluzionari e con il rifiuto di tutte le aberrazioni che li hanno seguiti, ma soprattutto con il ritorno alla trascendenza che appunto la Rivoluzione dell'Ottantanove ha inteso soppiantare elevando la ragione umana a legge, a verbo del Leviatano che viene oggi presentato come Demos.



"La Rivoluzione dell'Ottantanove nel processo rivoluzionario"

La relazione ultima - e conclusiva - del Convegno è stata svolta da Giovanni Cantoni, reggente nazionale di Alleanza Cattolica e direttore di Cristianità. Dopo aver ricordato che la dottrina sociale della Chiesa rientra nell'ambito della teologia morale e si può qualificare come teologia della società, il relatore si è soffermato sulla teologia della storia come parte della teologia della società, teologia della storia presente nel pensiero di sant'Agostino e nella dottrina spirituale di sant'Ignazio di Loyola e di san Luigi Maria Grignion di Montfort e recepita dal Magistero: nel quadro di questa dottrina, che descrive e interpreta la storia sub specie aeternitatis, viene compreso e illuminato nelle sue cause più profonde il secolare processo di scristianizzazione di cui la Rivoluzione francese costituisce un episodio fra i più carichi di conseguenze. Essa infatti - ha ricordato Giovanni Cantoni - ha dato origine all'individualismo e all'ugualitarismo politico nonché all'individualismo economico, che hanno fatto seguito all'individualismo e all'ugualitarismo religiosi promossi dalla Riforma protestante, e deve essere studiata - ha aggiunto, indicando così uno dei principali scopi del Convegno - per "conoscere e [...] far conoscere la Rivoluzione in una sua tappa rilevante per quanto ha prodotto e per quanto è ancora vigente". Ma lo studio non deve essere fine a sé stesso: ne deve prendere le mosse un'azione volta a rimuovere gli ostacoli che la Rivoluzione ha posto sulla via del reditus, del ritorno al Padre, tanto che "rimuovere questi ostacoli [...] significa fare la Contro-Rivoluzione". Rimuovere questi ostacoli in rapporto alla Rivoluzione francese significa, concretamente, battersi per una collaborazione fra Chiesa e Stato sulla base di un rapporto privilegiante, fatta salva la dottrina sulla libertà religiosa; promuovere una concezione della nazione non come "messa insieme di individui", ma come insieme gerarchico di gruppi; valorizzare nella vita socio-politica non solo l'uguaglianza fondamentale fra gli uomini, ma anche le loro differenze tradizionali e vocazionali, avendo perciò attenzione ai corpi intermedi, a partire dalla famiglia; infine, rivalutare il mandato imperativo di contro all'uso indiscriminato e mistificante di quello ampio e indeterminato.



L'"Angelus" con il Santo Padre Giovanni Paolo II

Al termine dei lavori i partecipanti si sono portati nell'adiacente piazza San Pietro per ascoltare la domenicale riflessione di Sua Santità Giovanni Paolo II e per recitare l'Angelus con il Sommo Pontefice: una significativa coincidenza ha voluto che il tema della meditazione fosse, nell'occasione, l'Incoronazione di spine del Signore Gesù, soggetto privilegiato di contemplazione nella spiritualità di Alleanza Cattolica, che in essa legge la figura di ogni negazione storica della regalità sociale del Signore.

Infine, nella cappella di Santa Monica il reverendo don Alfredo Morselli, del clero di Massa Carrara-Pontremoli, ha celebrato la santa Messa secondo il messale del 1962. La cerimonia liturgica è stata accompagnata da canti eseguiti dal coro della Societas Sancti Gregorii di Ferrara, che già aveva guidato, in apertura del Convegno, l'esecuzione dell'inno Vexilla Regis.



Adesioni e presenze

Al Convegno ha fatto pervenire il suo augurio S.E. il Signor Cardinale Silvio Oddi, prefetto emerito della Sacra Congregazione per il Clero: il porporato, che avrebbe dovuto celebrare la santa Messa di chiusura dei lavori, era assente dall'Italia in quanto inviato straordinario in missione speciale ai funerali dell'imperatore del Giappone Hirohito. Attraverso Juan Miguel Montes Cousiño, che dirige l'Ufficio Tradizione Famiglia Proprietà in Roma, il professor Plinio Corrêa de Oliveira, presidente della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Família e Propriedade - la TFP brasiliana -, ha inviato a Giovanni Cantoni un messaggio di adesione amicale in cui afferma che "l'iniziativa merita ogni plauso, perché non si apriranno mai sufficientemente gli occhi di un pubblico coltivato sui guasti operati dalla Rivoluzione francese in Occidente, a danno della santa Chiesa e della civiltà cristiana", sì che "il semplice ricordo delle sue realizzazioni mostra come i loro effetti si fanno ancora sentire attualmente". Una comunicazione Sulle conseguenze della Rivoluzione francese nel diritto penale ha fatto pervenire il professor Ubaldo Giuliani Balestrino, ordinario di Diritto Penale Commerciale all'Università di Torino. Lettere di adesione hanno mandato l'on. Roberto Formigoni, vicepresidente del Parlamento Europeo, e l'on. professor Gianni Roberti.

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:06
Nel bicentenario della rivolta
ONORE ALLA MEMORIA DELLA RESISTENZA E DEL SACRIFICIO DEGL’INSORTI VANDEANI DEL 1793 CONTRO LA RIVOLUZIONE

Sabato 25 settembre 1993, in Francia, invitato dal presidente del consiglio generale di Vandea, Philippe de Villiers, lo scrittore russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn ha presenziato all’inaugurazione di un monumento a Les Lucs-sur-Boulogne, dedicato, in uno dei luoghi più significativi del martirologio vandeano, a ricordare l’insorgenza popolare contro la Rivoluzione detta francese, una rivolta scoppiata appunto nel 1793. Dell’avvenimento ha dato notizia la stampa internazionale, soprattutto — evidentemente — quella francese. Il quotidiano parigino Le Monde, del 28 settembre 1993, ne ha fatto ampia cronaca, riportando anche il testo del discorso, pronunciato dallo scrittore di fronte a circa trentamila persone, con il titolo "Toute révolution déchaîne les instincts de la plus élémentaire barbarie" e sottotitoli. Il nuovo titolo e la traduzione sono redazionali.

Due terzi di secolo fa, quand’ero bambino, leggevo già con ammirazione nei libri il racconto che rievocava l’insorgenza della Vandea, così coraggiosa e così disperata, ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che da vecchio avrei avuto l’onore di partecipare all’inaugurazione del monumento in onore degli eroi e delle vittime di tale insorgenza.

Sono passati venti decenni, decenni diversi a seconda dei diversi paesi, e non solo in Francia, ma anche altrove, l’insorgenza vandeana e la sua sanguinosa repressione sono state sempre di nuovo illuminate. Infatti gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.

Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa!

I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gl’istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarli, veniva già considerato un crimine.

Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo. Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione.

Uno "slogan" intrinsecamente contraddittorio

Il termine stesso "rivoluzione" — dal latino revolvo — significa "rotolare indietro", "ritornare", "provare di nuovo", "riaccendere", nel migliore dei casi mettere sossopra, una sequenza di definizioni poco desiderabili. Attualmente, se da parte della gente si attribuisce a qualche rivoluzione la qualifica di "grande", lo si fa ormai solo con circospezione, e molto spesso con molta amarezza. Ormai capiamo sempre meglio che l’effetto sociale che desideriamo tanto ardentemente può essere ottenuto attraverso uno sviluppo evolutivo normale, con un numero infinitamente minore di perdite, senza comportamenti selvaggi generalizzati. Bisogna saper migliorare con pazienza quanto ogni giorno ci offre. E sarebbe assolutamente vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana. Ebbene, la vostra Rivoluzione, e in modo assolutamente particolare la nostra, la rivoluzione russa, avevano avuto questa speranza.

La Rivoluzione francese si è svolta nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: Libertà, uguaglianza, fraternità. Ma, nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: infatti, la libertà distrugge l’uguaglianza sociale, è proprio questa una della funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, non è della loro famiglia, è un’aggiunta avventizia allo slogan: la vera fraternità non può essere costruita da disposizioni sociali, è di ordine spirituale. Inoltre, a questo slogan ternario veniva aggiunto con tono minaccioso "o la morte", il che ne distruggeva ogni significato.

Mai, a nessun paese, potrei augurare una "grande rivoluzione". Se la Rivoluzione del secolo diciottesimo non ha portato la rovina della Francia è solo perché vi è stato Termidoro. La rivoluzione russa non ha conosciuto un Termidoro che abbia saputo arrestarla, e, senza deviare, ha portato il nostro popolo fino in fondo, fino al gorgo, fino all’abisso della perdizione. Mi spiace che non vi siano qui oratori che possano aggiungere quanto ha insegnato loro l’esperienza all’estremo limite della Cina, della Cambogia, del Vietnam, a dirci che prezzo hanno dovuto pagare, da parte loro, per la rivoluzione.

Le grandi insorgenze contadine

L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto bastare perché i nostri organizzatori razionalisti della "felicità del popolo" ne traessero lezioni. Ma no! In Russia tutto si è svolto in un modo ancora peggiore, e in una dimensione senza confronti. Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leniniani e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini.

Non abbiamo avuto un Termidoro, ma — e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza — abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’una. Sono le grandi insorgenze contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio (1), armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciate dalle mitragliatrici. L’insorgenza di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti, per reprimerla, abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban, di Tersk, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio.

Inaugurando oggi il Monumento della vostra eroica Vandea, la mia vista si sdoppia: vedo con la mente i monumenti che verranno eretti un giorno, in Russia, testimoni della nostra resistenza russa allo scatenamento delle orde comuniste. Abbiamo attraversato insieme a voi il secolo ventesimo, un secolo di terrore dall’inizio alla fine, terribile coronamento del Progresso tanto sognato nel secolo diciottesimo. Oggi, penso, crescerà sempre più il numero dei francesi che capiscono meglio, che valutano meglio, che conservano con fierezza nella loro memoria la resistenza e il sacrificio della Vandea.

Aleksandr Isaevic Solzenicyn

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:06
http://gvendee.free.fr/

Der Wehrwolf
20-06-02, 21:08
La Vandea e la Rivoluzione Francese

Oltre 770 Comuni situati nell'ovest della Francia, chiamati comunemente "Vandea Militare", furono teatro, più di due secoli fa, di una delle più sanguinose rivolte che la storia ricordi.
Nel 1789 queste popolazioni, offuscate dai fumi della Rivoluzione Francese, si schierarono con i "Blesi" Repubblicani credendo alle loro false promesse di libertà e progresso, ma quattro anni dopo, nell'anno della decapitazione "rituale" del Re di Francia Luigi XVI e della Regina Maria Antonietta, scoppiò l'insurrezione.
Diverse furono le ragioni dei vandeani, da un lato il perdurare di pesanti imposte e la coscrizione obbligatoria, che oltre ad essere antitradizionale (la guerra è sempre stata compito di una determinata casta'', quella guerriera) toglieva forza lavorativa; dall'altra, come scintilla su della polvere da sparo, lo Stato Repubblicano decise la "Costituzione Civile del Clero", che comportava il completo asservimento al potere centrale, negando così anche la libertà religiosa e con essa l'identità spirituale del popolo.
La costituzione di una "Chiesa Nazionale" rientrava inoltre, in un progetto più vasto, quello di estirpare il cattolicesimo dalla Francia, quale ultimo baluardo della resistenza tradizionale, passando appunto dall'allontanamento dalla comunione con il Romano Pontefice.
Ma lo scontro fu essenzialmente tra due visioni del mondo antitetiche, da un lato vi era la nuova classe dirigente giacobina "illuminata" e "libertaria" che dopo la distruzione di ogni ordinamento legittimo in Francia, mirava con un piano di spopolamento, all'indisturbato instaurarsi della borghesia mercantile. Dalla controparte vandeana invece, il forte radicamento alla propria terra, l'incrollabile fede in Dio e nei valori tradizionali, perfettamente racchiusi nel motto "vive Dieu et le Roi" (viva Dio e il Re), furono scudo contro gli pseudo-valori della rivoluzione
giacobina, e prova vivente della loro falsità.
Inizialmente i vandeani riuscirono a tenere il loro territorio, ma troppo sicuri delle loro forze si spinsero alla conquista di altre regioni allo scopo di arrivare fino a Parigi.
L'inevitabile disfatta portò alla perdita di uomini fondamentali come il generale Cathelincau, ed ebbe come seguito un periodo di equilibrio tra le parti difficilmente sostenibile. Questo spinse i comandanti vandeani a partire verso la Bretagna e la Normandia fiduciosi di un aiuto inglese. Ma davanti alle mura di Granville, dove attendevano le navi Inglesi, la loro avanzata venne arrestata bruscamente e, furono costretti a ritirarsi nelle loro terre. Inevitabilmente anche il rientro venne impedito, infatti le truppe giacobine a Savenay sconfissero le truppe superstiti ottenendo la definitiva vittoria.
Qui si concluse la resistenza vandeana, schiacciata dall'aberrante ferocia giacobina, sintetizzata perfettamente nelle parole rivolte da uno degli artefici di quel massacro, al Comitato di Salute Pubblica: "Non vi è più Vandea, cittadini repubblicani. È morta sotto la nostra libera spada, con le sue donne e i suoi bambini. L'ho appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le donne, così che, almeno quelle, non partoriranno più briganti. Non ho un prigioniero da rimproverarmi. Ho sterminato tutto...". Ma per questo popolo in armi non era ancora finita, restava, infatti, ancora il decreto della Convenzione del primo agosto del 1793 che ordinava di trasformare la Vandea in un cimitero nazionale.
Proprio quando tutto sembrava finito i vandeani si trovarono a fare i conti con gli esecutori di questo piano: da un lato il generale Turreau che con le sue "colonne infernali" (mai un nome fu più adatto!) si occupava della distruzione di villaggi e campagne, dall'altra il commissario Carrier si occupava delle città e dei dintorni.
I metodi furono tra i più efferati mai adottati prima, come l'annegamento di massa, i cosiddetti "bagni patriottici", o quello a coppie, chiamato "matrimonio repubblicano", con cui si facevano morire legati insieme in posizioni oscene preti e suore, padri e figlie o fratelli e sorelle.
Tutto si arrestò definitivamente con la morte di Robespierre, ideatore e mandante di questi massacri, che avvenne il 17 luglio 1794, e con il conseguente abbandono da parte della Convenzione della politica di "pulizia" etnica. I nuovi capi della Vandea furono costretti a riconoscere la repubblica e alla Vandea vengono conseguentemente riconosciuti dalla Repubblica i diritti alla libertà religiosa e per dieci anni all'esenzione dalla coscrizione obbligatoria e dalle tasse.
Quella della Vandea è una storia che non troveremo mai sui libri di scuola, ma che è destinata, come tante altre, a sopravvivere nella memoria degli uomini.

Der Wehrwolf
21-06-02, 17:36
Risorgimento, il grande saccheggio
Nel 1855, insieme alla confisca dei monasteri finirono
in malora biblioteche e opere d’arte
di Angela Pellicciari

Con la legge 29 maggio 1855 il governo subalpino decide la soppressione degli ordini religiosi contemplativi e mendicanti: 8.593 persone sono cacciate dalle proprie case e private di tutto e ben 373 conventi e 232 monasteri vengono rapinati di ogni avere. Questo il contesto in cui don Margotti racconta la storia del monastero della Novalesa e paragona - con molta verosimiglianza, bisogna ammettere - le gesta dei liberali a quelle dei Saraceni. “I Saraceni erano barbari, usciti da Sara nell’Arabia, che valicarono i Pirenei nel 719 e, guadagnate le Alpi marittime, discesero a devastare il Piemonte. Un povero vescovo d’Asti, mentre visitava la sua diocesi, fu fatto a pezzi da quei barbari. Ma il peggio incolse ai poveri monaci della Novalesa. La Novalesa è un villaggio del Piemonte su quel di Susa, che deve tutta la sua rinomanza all’antichissimo monastero. Fin dal secolo X questo monastero era celebre per le scienze e dai dotti si cita anche oggi come gloria non solo del Piemonte, ma dell’Italia, e come prova del primato italico, in fatto di cultura, su tutta l’Europa nei secoli più tristi della barbarie. Ludovico Antonio Muratori racconta, secondo la cronaca dell’Abbadia della Novalesa, il mal governo che fecero i Saraceni del monastero e dei monaci. Beni sacri e profani, le chiese, le case, gli armenti, le vettovaglie e le persone caddero sotto i feroci artigli di quella gente brutale“. Dopo aver precisato che i monaci scampati dall’eccidio portarono con sé a Torino ben 6.666 preziosissimi codici, Margotti viene a descrivere la realtà a lui contemporanea: “Ora usciamo dal medio evo per entrare nell’evo della libertà, del progresso, delle Costituzioni, dei principi dell’89. La scena si rappresenta ancora in Piemonte; il monastero della Novalesa è ancora una volta conquistato e vengono dispersi i monaci. Ma i conquistatori non sono più forestieri, non saraceni, non barbari; sono italiani, sono piemontesi, sono liberali che violano il domicilio altrui, che cacciano i padroni dalla casa propria: italiani e piemontesi che distruggono le loro glorie e cancellano le nobili memorie che illustrano la propria storia“. Rievocata l’ingiunzione del guardasigilli Deforesta di lasciare l’edificio entro la fine dell’ottobre ’56, Margotti scrive: “Detto fatto il mattino del 25 ottobre giungono alla Novalesa tre agenti di pubblica sicurezza, si presentano nella cella del priore e gli mostrano l’ordine che hanno ricevuto di sfrattare lui ed i suoi dal proprio monastero. Il padre priore legge la protesta collettiva, in presenza dei suoi comprofessi, e tutti soggiacciono alla forza. Il padre priore viene accompagnato per breve tratto dalle persone che avevano avuto il nobile incarico di cacciare via i monaci. Le quali poi ritornarono nel monastero per toglierne subito i quadri“. La vita di migliaia di persone che vivono santamente pregando ed operando per il benessere dell’intera comunità - questa è la funzione di monaci e frati - disprezzata e distrutta; nel nome dell’uguaglianza e del diritto di proprietà - ufficialmente sancito per tutti (le sbandierate conquiste dello Statuto) - vengono violate le più elementari norme del vivere civile: questo il vanto dei governi liberali. Oltre alle sofferenze senza numero inflitte ad un’intera categoria di persone (quella dei religiosi, rea, secondo il ministro di giustizia Rattazzi, di essere “inutile, quindi dannosa“), quale è il danno che i liberali infliggono al patrimonio culturale ed artistico della nazione? Quanti sono i dipinti, le statue, gli oggetti di culto, che - insieme agli archivi ed alle biblioteche - prendono la strada di abitazioni private o sono semplicemente distrutti? Margotti rievoca i meriti “scientifici” della Rivoluzione Francese che i liberali piemontesi si accingono a ricalcare: la rivoluzione “saccheggia più di ottantamila biblioteche. Gli ufficiali comunali corrono a enmagaziner i libri - come dicevano - li misurano a piedi ed a tese e li vendono per la maggior parte ai droghieri“. Nel campo artistico, prosegue Margotti, la rivoluzione “manda in malora i capolavori di pittura e di scultura, i quadri delle chiese diventano insegne delle botteghe dei venditori di vino. Ora uno sguardo alla rivoluzione medesima in Piemonte. Essa non fa che abolire. Abolizione dei gesuiti; abolizione delle Dame del Sacro Cuore; abolizione della Compagnia di S. Paolo, della Compagnia della Misericordia; abolizione dell’Accademia di Superga; abolizione delle collegiate: una cosa sola non si abolisce, le imposte, che invece aumentano di continuo. V’era in Piemonte un monastero celebre nelle nostre cronache, che aveva reso immensi benefici alla città ed ai cittadini, alle arti ed alle scienze, il monastero della Novalesa, ed anche questo fu distrutto il 25 di ottobre 1856. Già ne furono conquistati i quadri, invasi gli archivi. O Vandali, o Saraceni, ed è a questo modo che volete promuovere la civiltà? Il vostro delitto non è solo di lesa religione, ma di leso onor patrio. Non chiamate barbaro il Medio Evo, barbari siete voi che avete distrutto tutto quello che in quel tempo era nato“. Cacciati i legittimi proprietari e depredati gli arredi, a quale uso viene adibito il monastero? “Espulsi i monaci dal loro monastero ne prese possesso la Cassa Ecclesiastica, che avendo bisogno di denaro, non tardò a metterlo in vendita. Pochi avventori si presentarono e non si trovò nessuno che lo acquistasse al prezzo, pur basso, che la Cassa aveva stabilito. Ma un medico, pensando che il monastero della Novalesa sarebbe andato bene per una casa di pazzi, lo comperò e convertì in tale uso. Già il governo stesso aveva convertito in manicomio la Certosa di Collegno tolta ai certosini, e l’esempio del governo fu seguito da un privato. Ora sapete chi fu tra i primi a doversi recare in questa nuova Casa di sanità? Fu il cavaliere Luigi Carlo Farini (nella foto), presidente del Consiglio dei ministri“.Uno dei più illustri rappresentanti della classe di governo liberale che finisce pazzo nell’ex monastero della Novalesa. Magra consolazione.

cm814
11-07-02, 11:40
[QUOTE]Originally posted by Der Wehrwolf
http://www.grandeoriente.it/riviste/Hiram/indicegenerale.htm [/QUOTE

Tutti i links non funzionano... PURTROPPO! ;)

Totila
11-07-02, 13:46
Danno anche l'elenco aggiornato degli iscritti?:D