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Harm Wulf
27-06-02, 10:44
BOLLETTINO INFORMATIVO N°10
A CURA DELL'ASSOCIAZIONE LIMES


ATTENZIONE
DA ALCUNI GIORNI IL SITO DELL'ASSOCIAZIONE LIMES
NON E' PIU' ATTIVO CAUSA PROBLEMI TECNICI.
STIAMO PROVVEDENDO ALLA LORO RISOLUZIONE
PER TORNARE ON-LINE AL PIU' PRESTO.

- L'EPIGRAFE -

"Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo."
T. H. Lawrence

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- NOVITA' LIBRARIE -



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Serge Latouche, La fine del sogno occidentale
Saggio sull'americanizzazione del mondo
Edizioni Elèuthera, pp.180, euro 13,00
I termini di “mondializzazione” e di “globalizzazione” sono ormai entrati nel linguaggio comune per designare una sottomissione senza precedenti delle nostre vite al predominio del mercato. In realtà, con nuove forme, simbolizzate dal trionfo di nuove tecnologie (come quella informatica), si ritrova quello stesso movimento che da alcuni secoli opera per “occidentalizzare” e uniformare il mondo. Con un’analisi lucida delle illusioni e dei limiti della modernità, Latouche suggerisce, al di là del pessimismo prevalente, come sia possibile resistere a questo ordine nuovo che stende la sua ombra su tutto il pianeta.

Eric Schlosser, Fast Food Nation
Il lato oscuro del cheeseburger
Marco Tropea Editore, euro 16,60
Dalle grandi metropoli alla cittadina più sperduta, nessun angolo del nostro pianeta è troppo piccolo o remoto perché non vi campeggi l'insegna di un fast food. Nato negli Stati Uniti, questo modello alimentare ha ormai colonizzato l'Europa e si sta espandendo nel resto del mondo, dove sempre più persone ogni giorno consumano un pasto in tutta velocità. I ristoranti sono luminosi, i prezzi sono bassi, il servizio è rapido, i bambini possono giocare e si portano sempre a casa un regalo: dov'è il trucco?
Per scoprirlo Eric Schlosser è risalito alla provenienza e ai sistemi di lavorazione dei cibi venduti nelle più grandi catene degli Stati Uniti, arrivando a molte verità destinate a scioccare l'ignaro consumatore. Ha visitato laboratori che creano gli aromi e i sapori, stabilimenti in cui le più moderne tecnologie sono finalizzate alla creazione della patatina fritta perfetta. Ha incontrato i pochi allevatori di bestiame rimasti indipendenti, le cui terre sono minacciate dalla morsa delle multinazionali; ha intervistato i ragazzi che per due soldi servono dietro i banconi e gli uomini e le donne che fanno il lavoro più rischioso in enormi macelli strutturati come inarrestabili catene di montaggio. L'indagine di Schlosser mette anche in luce come l'industria del fast food, nonostante la competizione tra le diverse catene, sia ormai un unico e gigantesco sistema economico dai mille tentacoli, in grado di modificare radicalmente la produzione e il consumo di cibo, l'economia, la cultura dei paesi in cui è presente.
Appassionante libro inchiesta, ricco di aneddoti gustosi e testimonianze sconvolgenti, Fast Food Nation svela le verità occultate e occulte dietro i neon sgargianti che giorno dopo giorno si infittiscono nelle nostre città.

Paolo Coluccia, La cultura della reciprocità
I sistemi di scambio locale non monetari
Edizioni Arianna, 14 euro
L'individualismo esasperato e la difficoltà di relazione ripropongono i dilemmi dell'azione collettiva: perseverare nella "diffidenza reciproca... battersi - oppure venire a patti"? Ripercorrendo gli idealtipi più classici legati alla teoria dei giochi è tentato un approccio teorico alle pratiche non monetarie di reciprocità generalizzata. "Nella relazione di reciprocità c'è l'accettazione del rischio che si può dare e non ricevere quando si chiede". Così nel libro La banca del tempo, l'autore aveva introdotto ed anticipato il concetto di rischio nella relazione di reciprocità. Ma è un rischio, tra i tanti di una società complessa, che si può annullare solo con la fiducia nell'altro. Comprendendo i bisogni dell'altro e soddisfacendo le nostre necessità con ciò che gli altri ci offrono possiamo superare le limitazioni dello scambio e del contratto dell'economia di mercato ed inaugurare una società (locale e globale) fondata sul dono libero e sulla reciprocità generalizzata, ovvero sulla "cultura" della reciprocità. All'approccio teorico segue l'approfondita analisi di un'esperienza locale di reciprocità indiretta, cartina al tornasole e paradigma di riferimento del fenomeno trattato. Infine, il testo offre un'ampia appendice, con documentazione tradotta in lingua italiana e tratta dalle pagine WEB della rete Internet, dedicata ai sistemi di scambio locale non monetari (Lets, Sel, Tauschring, BdT, Red Global de Trueque, Interser etc.), per offrire al lettore un panorama inedito e internazionale del complesso fenomeno differenziatosi nel sistema sociale alla fine del millennio appena trascorso

Gian Pio Mattogno, L’antigiudaismo nell’Antichità classica
Edizioni Ar, pp. 230, euro 21,00
L’opera curata da Gian Pio Mattogno costituisce la prima raccolta organica sinora apparsa in Italia di testi antigiudaici relativi all’antichità classica nonché l’unica, in assoluto, dopo le opere di Th. Reinach e di M. Stern. In essa, inoltre -ed è questa una caratteristica che la differenzia da tutte le altre ricerche affini-, i testi sono preceduti da uno studio che li inserisce sistematicamente nel contesto delle origini della questione ebraica nel mondo ellenico-romano. Mentre i numerosi saggi sull’antigiudaismo nel mondo antico si dimostrano, in generale, lavori apologetici che, rifiutando di analizzare le cause reali, preferiscono affidare a espedienti propagandistici la spiegazione dell’ostilità ("calunnia", "menzogna", "pregiudizio" etc.), la ricerca di Gian Pio Mattogno si propone di verificare oggettivamente la veridicità delle accuse degli Autori classici sulla scorta delle fonti giudaiche contemporanee (Bibbia, Talmud di Gerusalemme, Talmaud babilonese, Midrash, Apocrifi)
(dal risvolto di copertina)

Gustave Le Bon, Psicologia del Socialismo (Libro V)
Il conflitto tra le leggi dell’evoluzione, le idee democratiche e le aspirazioni socialiste
Edizioni Noctua, euro 11,50
Sommario:
Psicologia darwinistico-sociale e socialismo scientifico di Francesco Ingravalle - Nota del Traduttore di Guido Leone
Capitolo Primo - Le leggi dell’evoluzione, le idee democratiche e le aspirazioni socialiste
Rapporti degli esseri viventi con il loro ambiente - Il conflitto fra le leggi naturali dell’evoluzione e le concezioni democratiche - Il conflitto fra le idee democratiche e le aspirazioni socialiste
Capitolo Secondo - La lotta dei popoli e delle classi - La lotta naturale degli individui e delle specie - La lotta dei popoli - La lotta delle classi - Le future lotte sociali
Capitolo Terzo - Il problema fondamentale del Socialismo. I disadattati - La moltiplicazione dei disadattati - I disadattati per degenerazione - La produzione artificiale dei disadattati
Capitolo Quarto - L’utilizzazione dei disadattati - Il futuro assalto dei disadattati - L’utilizzazione dei disadattati

Pierandrea Amato, Lo Sguardo sul Nulla
Ernst Jünger e la questione del nichilismo
Edizioni Mimesis, euro 17,04
Il volume è la prima monografia in Italia sulla ‘secolare’ opera di Ernst Jünger: alla luce dell’avvento dirompente della tecnica, si indagano i temi che ne hanno sollecitato la riflessione (Guerra - Tecnica - Lavoro - Eros - Libertà - Storia - Morte), si analizzano le figure fondamentali della sua produzione (il Milite Ignoto - il Lavoratore - il Waldgänger - il Titano - l’Anarca). Seguendo il filo rosso della questione del nichilismo, che individua il senso complessivo del suo cammino di pensiero, si illumina, in un orizzonte nietzschiano, l’in-contro ‘nucleare’ di Jünger, quello con Martin Heidegger, da cui il celebre dialogo sulla linea del nichilismo. Jünger si rivela in questo libro come quella figura in grado di cogliere, ‘in diretta’, il nichilismo assoluto che alberga ad Auschwitz e la ‘banalità del male’ ad esso connesso con il trionfo dell’astrazione e del funzionalismo. Evitando ogni polemica sulla sua controversa vicenda biografica, questo volume si propone di interrogare le cristalline sfaccettature del pensatore Jünger: conservando il tono aspro e teso della tecnica moderna ‘a lavoro’, consegna l’immagine di uno dei più grandi diagnostici del Novecento.

Junyû Kitayama, Lo Stile eroico
L'eroismo in Giappone
Collezione Ryû, per i tipi di Sannô-kai, pp. 136, euro 12,00
Severa e sublime come quell’incrocio di destini che portò, con Junyû Kitayama, il Giappone in Prussia, quest’opera sfida i limiti delle rappresentazioni occidentali dell’eroicità: racconto di ‘portamenti’ grandiosi, florilegio di gesta e di gesti magnanimi della personalità. Disegnando una sorta di ‘metafisica dello stile’, l’Autore delinea i profili della condizione eroica.
Junyû Kitayama nasce nel 1902. Dal 1930 al 1936 è ‘lettore’ di cultura e lingua giapponese all’università di Francoforte nonché assistente all’università di Marburgo, in cui, a partire dal 1940, insegna come ‘professore onorario’ religioni e cultura dell’Asia orientale. Nel maggio 1945, arrestato per collaborazionismo a Praga, sconta in diversi campi di concentramento cecoslovacchi la pena di un anno ai lavori forzati. In seguito, dal governo cecoslovacco non gli viene mai consentito di lasciare quel Paese. Muore a Praga nel 1962
(dal risvolto di copertina)

Federico Borca, Horridi Montes
Paesaggi e Uomini di Montagna Visti dai Gallo-Romani
formato 15x20 - pagine 176, brossura, ill. con 15 tavole in b/n
Edizioni Keltia, euro 16,00
Nell'anno dedicato alla Montagna, Federico Borca ci offre un libro affascinante che attraverso la storia dei primi incontri dell'uomo con le Alpi, ci mostra come si sia evoluto il nostro rapporto con l'ambiente montano. "Se davvero vogliamo comprendere quale percezione gli antichi Romani avevano delle montagne, se siamo decisi a capire come essi vedevano e vivevano quei luoghi, e che cosa pensavano dei loro abitanti, allora dobbiamo sforzarci di adottare la loro prospettiva: dobbiamo, cioè, guardare e pensare le montagne con i loro occhi e i loro strumenti concettuali, adottando i parametri del loro codice culturale. Un simile atteggiamento richiede, in primo luogo, l'abbandono di immagini e idee per noi familiari e scontate quali, per esempio, la visione della montagna ­ al suo stato naturale ­ come paesaggio grandioso e sublime, dominio di una natura intatta, non ancora contaminata dall'uomo e dunque da preservare a qualsiasi costo, come luogo privilegiato per il ritiro e la riflessione".

M.Martelli, L'India e il Fascismo.
Chandra Bose, Mussolini e il problema del nazionalismo indiano.
Edizioni Settimo Sigillo, pp. 422, euro 38,00

Alessandro Luparini, Anarchici di Mussolini.
Dalla sinistra al fascismo tra rivoluzione e revisionismo
M.I.R. euro 12,91
Fenomeno spesso rimosso, quando non del tutto ignorato, in sede d'indagine storiografica, l'interventismo di matrice anarchica costituì un filone, minoritario ma non trascurabile, del variegato movimento interventista rivoluzionario ed ebbe una significativa appendice nel dopoguerra, allorché numerosi anarchici interventisti confluirono nei Fasci di combattimento fondati da Benito Mussolini.
Pur nella sostanziale diversità delle esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo integrale e di 'sinistra' del repubblicano Malusardi al revisionismo conservatore e filo-liberale di Rocca), la loro azione all'interno del fascismo fu caratterizzata da uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla comune formazione anarcoindividualista: una residua eredità 'libertaria' inevitabilmente destinata ad esaurirsi con il consolidarsi al potere della 'rivoluzione' fascista.
Questo libro ne ripercorre la complessa vicenda politica, dall'anarchismo al fascismo, attraverso i decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra, sullo sfondo di uno dei periodi più intensi e più drammatici della storia d'Italia.

Paolo Dossena, Hitler & Churchill.
Mackinder e la sua scuola.
Edizioni Terziaria, euro 23,00
Il libro di Paolo Dossena è la più aggiornata e la più completa ricostruzione dell'opera di Halford Mackinder. Nello stesso tempo reca nel titolo (l'accostamento con Hitler) il segno del destino di una disciplina.
La geopolitica (il termine fu usato per la prima volta dal sociologo svedese Rudolph Kjellén nel 1889) conobbe una grande fortuna con l'inizio del secolo, declinò per essere stata considerata una componente fondamentale dell'ideologia nazional-socialista ed è riemersa soprattutto nell'ultimo decennio, per fornire categorie valutative particolarmente utili per interpretare la situazione seguita alla conclusione della guerra fredda.


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- I LIBRI CHE TUTTI DOVREBBERO LEGGERE -

Jerry Mander - Edward Goldsmith, Glocalismo
L'alternativa strategica alla globalizzazione
Prefazione di Serge Latouche
Edizioni Arianna, euro 16.53
La società del prossimo millennio è destinata a trovare forma in un megamercato? Il pluralismo si esaurirà nel trionfo del pensiero unico? Scopo primario di questa raccolta di scritti, voluta e curata da due dei più importanti pensatori ecologisti contemporanei, è di aiutare a capire cosa si intenda per "economia globale" e di mostrare, conseguentemente, in quale modo la corsa alla globalizzazione coinvolga, per molteplici e fondamentali aspetti, la nostra vita. Il secondo scopo è di dimostrare che questo processo deve essere arrestato e invertito il più presto possibile Il modello di sviluppo che ha impoverito i più accentuando la devastazione del pianeta potrebbe condurre a conseguenze irreversibili. Ogni intervento descrive e analizza un aspetto del fenomeno mostrando, nel suo complesso, sia le radici del globalismo che i suoi molteplici fallimenti. Alla fine risulta chiaro che necessita invertirne il corso, agire in controtendenza rivitalizzando il locale e il controllo economico, l'autosufficienza e la salute ecologica dei popoli, perché in ogni luogo c'è un "centro del mondo" possibile. E, se il ritorno al locale viene visto dai più come una utopica regressione nel passato, quello che ci dimostra questo libro è che la vera illusione consiste nel separare la gente dal controllo della propria vita, relegandola nelle mani di una anonima burocrazia tecnocratica dedita al proprio profitto più che al benessere comune.

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- IL PREZZO DELLA GLOBALIZZAZIONE -

Nel pianeta:
- 3 miliardi di persone, la metà dell'umanità, vivono con meno di due dollari al giorno.
- 300 milioni di bambini sono sfruttati nel mondo, in condizioni di schiavitù.
- Il 50% dei bambini soffre di malnutrizione.
- La 5ta parte più ricca della popolazione dispone dell¹80% delle risorse, mentre la 5ta parte più povera dispone di
meno dello 0,5%.
- Le 3 persone più ricche al mondo, hanno un patrimonio superiore a quello che producono tutti i paesi meno
sviluppati, dove vivono circa 600 milioni di persone.
- Più di 600 milioni di persone sono senza casa o vivono in ambienti insicuri e malsani.
- il 40% della popolazione mondiale non ha accesso all'energia elettrica.
- 14 milioni di bambini muoiono prima di compiere 5 anni.
- La ricchezza del mondo è aumentata di 5 volte negli ultimi 30 anni, ciò nonostante, ci sono 600 milioni di poveri in
più.
- Più di un terzo dei tre miliardi di lavoratori è disoccupato o sottoccupato.

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"FMI: i quattro passi verso la dannazione economica"
Joseph Stiglitz, ex capo economista della Banca Mondiale e Premio Nobel per l'Economia nel 2001, svela metodi e obiettivi della globalizzazione economica di FMI, Banca Mondiale e WTO. "A loro non interessa se la gente vive o muore"
di Greg Palast (tratto da www.informationguerrilla.com)

"Ha condannato a morte la gente", mi disse l'ex apparatchick. E' stato come in una scena di Le Carré. Il brillante vecchio agente viene dal freddo, passa dalla nostra parte ed in ore di interrogatorio svuota la sua memoria degli orrori compiuti in nome di un'ideologia politica che ora si accorge essere diventata marcia.

E qui davanti a me vi era una preda molto più grossa di una qualche spia usata della guerra fredda. Joseph Stiglitz era capo economista della Banca Mondiale. Il nuovo ordine economico mondiale era in senso lato la sua teoria divenuta vivente.

Ho "interrogato" Stiglitz per diversi giorni, alla Cambridge University, in un hotel di Londra ed infine a Washington nell'aprile 2001, durante le grandi confabulazioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Invece di presiedere gli incontri con ministri e funzionari delle banche centrali, Stiglitz era tenuto al sicuro in esilio dietro i cordoni di poliziotti blu, come pure le suore che portavano un grande crocifisso di legno, i sindacalisti boliviani, i parenti delle vittime di AIDS e gli altri contestatori "antiglobalizzazione". Il protagonista assoluto ora era fuori.

Nel 1999 la Banca Mondiale ha licenziato Stiglitz. Non gli venne permesso un ritiro tranquillo; mi è stato detto che il Segretario del Tesoro USA Larry Summers ha chiesto una scomunica ufficiale per Stiglitz, avendo questi espresso il suo primo lieve dissenso per la globalizzazione stile Banca Mondiale. Qui a Washington abbiamo terminato l'ultima di diverse ore di interviste esclusive per l'Observer e Newsnight sulle attività reali, spesso nascoste, dell'FMI, della Banca Mondiale e sul proprietario del 51% della banca, il Tesoro USA. E qui, da fonti innominabili (non da Stiglitz) abbiamo ottenuto una cassa di documenti siglati "confidenziale", "vietato" e "non aprire senza l'autorizzazione della Banca Mondiale". Stiglitz ha aiutato a tradurne uno, "Strategia di assistenza ad un paese" in burocratese. Vi è una Strategia di assistenza per ogni nazione più povera, progettata, dice la BM, dopo un'attenta indagine nel paese. Ma, secondo l'insider Stiglitz, l'"indagine" dei funzionari della Banca è un'accurata ispezione di un hotel a cinque stelle della nazione. Si conclude con l'incontro con qualche elemosinante, rovinato ministro delle finanze cui viene dato un "accordo di ristrutturazione" prestampato perché vi apponga la propria firma "volontaria" (ho una selezione di questi).

L'economia di ogni nazione viene analizzata individualmente, poi, dice Stiglitz, la Banca passa a tutti i ministri esattamente lo stesso programma di quattro punti. Il Punto 1 è la Privatizzazione - che Stiglitz disse potrebbe essere più esattamente chiamata "Tangentizzazione". Invece che obiettare alla svendita delle industrie statali, diceva, i leader nazionali - utilizzando le richieste della BM per mettere a tacere le loro critiche - buttavano felicemente le loro società elettriche ed acquedotti. "Potevi vedere i loro occhi sgranarsi" alla prospettiva di una commissione del 10% versata in conti di banche svizzere per aver semplicemente decurtato di alcuni miliardi il prezzo di vendita dei beni nazionali. Ed il governo USA lo sapeva, accusa Stiglitz, almeno nel caso della "liberalizzazione" più grande di tutte, la svendita russa del 1995. "L'opinione del Tesoro USA era questo è grande perché volevamo che Eltsin venisse rieletto. Non ci interessa se sono elezioni truccate. Vogliamo che il denaro vada a Eltsin" attraverso i sostenitori della sua campagna. Stiglitz non è un esaltato di cospirazioni che delira su Elicotteri Neri. L'uomo era all'interno del gioco, un membro del gabinetto di Bill Clinton come presidente del Consiglio dei Consulenti Economici dello stesso.

Ciò che più fa star male Stiglitz è che gli oligarchi sostenuti dagli USA hanno depredato i beni industriali della Russia, con la conseguenza che lo schema della corruzione ha tagliato la produzione nazionale quasi della metà, provocando depressione e fame. Dopo la tangentizzazione, il Punto 2 del piano salvaeconomiabuonopertutti dell'FMI/Banca Mondiale è la "Liberalizzazione del mercato dei capitali". In teoria, la deregolamentazione del mercato dei capitali permette agli investimenti di capitali di fluire dentro e fuori. Sfortunatamente, come in Indonesia e Brasile, il denaro uscì semplicemente sempre più fuori. Stiglitz chiama questo il ciclo del "denaro bollente". Il denaro arriva per speculazioni in proprietà immobiliari e valuta, poi fugge al primo segnale di guai. Le riserve di una nazione possono essere scolate in giorni, in ore. E quando ciò accade, per sedurre gli speculatori per farli ritornare ai fondi di capitale del paese, l'FMI richiede che queste nazioni alzino i tassi d'interesse del 30%, del 50% e dell'80%.

"Il risultato era prevedibile", disse Stiglitz delle ondate di marea di denaro bollente in Asia ed America Latina. Più alti tassi d'interesse demolivano i valori delle proprietà, facevano a pezzi la produzione industriale e svuotavano le riserve nazionali. A questo punto l'FMI trascina la nazione ansimante verso il Punto 3: Prezzi basati sul mercato, un divertente termine che significa alzare il del cibo, dell'acqua e del gas domestico. Questo porta, prevedibilmente, al Punto 3,5 che Stiglitz chiama "Il tumulto dell'FMI". Il tumulto dell'FMI è tristemente prevedibile. Quando una nazione è "a terra fuori gioco, [l'FMI] ne approfitta e spreme da esse l'ultima goccia di sangue. Essi alzano la temperatura finché alla fine l'intero calderone scoppia" - come quando in Indonesia l'FMI eliminò i sussidi di cibo e carburante per i poveri nel 1998. L'Indonesia esplose in tumulti, ma vi sono altri esempi - i tumulti in Bolivia per i prezzi dell'acqua nell'aprile del 2000, e, nel febbraio del 2001, i tumulti in Ecuador per l'aumento dei prezzi del gas domestico imposto dalla Banca Mondiale. Si ha quasi l'impressione che il tumulto sia già stato scritto nel piano.

E lo è. Stiglitz non sapeva dei documenti che la BBC e l'Observer avevano ottenuto da dentro la Banca Mondiale, con sopra i timbri con quei fastidiosi avvertimenti, "confidenziale", "vietato" e "non aprire". Torniamo alla "Strategia di assistenza provvisoria al paese" per l'Ecuador. In esso la Banca dichiara più volte - con fredda accuratezza - che essi si aspettavano che il loro piano scatenasse "disordine civile", per usare il loro termine burocratico per una nazione in fiamme. Ciò non sorprende. Il rapporto segreto indica che il piano per fare del dollaro USA la valuta dell'Ecuador ha spinto il 51% della popolazione sotto la soglia di povertà. Il piano di "Assistenza" della BM richiede semplicemente di fronteggiare la lotta civile e la sofferenza con "risolutezza politica" - e con prezzi ancora più alti.

I tumulti dell'FMI (e per tumulti intendo dimostrazioni pacifiche disperse con proiettili, carri armati e gas lacrimogeni) provocano nuove disperate fughe di capitali e bancarotte statali. Tale incendio economico ha il suo lato luminoso - per le società straniere, che ora possono prendersi i rimanenti beni , come varie concessioni minerarie o porti, a prezzi da vendita fallimentare. Stiglitz nota che l'FMI e la BM non sono discepoli senza cuore delle economie di mercato. Nello stesso periodo nel quale l'FMI ha bloccato l'Indonesia nel "sussidiare" gli acquisti di cibo, "quando le banche hanno bisogno di garanzie, l'intervento [nel mercato] è il benvenuto". L'FMI ha tirato su decine di miliardi di dollari per salvare i finanzieri dell'Indonesia e, per estensione, le banche USA ed europee dalle quali essi avevano ottenuto prestiti. Qui emerge uno schema. Vi sono molti perdenti in questo sistema, ma alcuni sicuri vincitori: le banche occidentali ed il Tesoro USA, che fanno un mucchio di soldi da questa folle agitazione del nuovo capitale internazionale. Stiglitz mi ha parlato del suo infelice incontro, all'inizio del suo incarico alla Banca Mondiale, con il nuovo presidente dell'Etiopia dopo le prime elezioni democratiche del paese. La BM e l'FMI avevano ordinato all'Etiopia di deviare gli aiuti in denaro verso i propri conti di riserva al Tesoro USA, che in cambio pagava un pietoso 4%, mentre la nazione prendeva in prestito dollari USA al 12% per nutrire la propria popolazione. Il nuovo presidente pregava Stiglitz di lasciargli usare gli aiuti monetari per ricostruire il paese. Ma no, il bottino andò diretto fino ai forzieri del Tesoro USA a Washington. Ora arriviamo al Punto 4 di quello che FMI e Banca Mondiale chiamano la loro "strategia per la riduzione della povertà": Libero Scambio. Questo è il libero scambio secondo le regole dell'Organizzazione Mondiale del Commercio e della Banca Mondiale. L'insider Stiglitz paragona il libero scambio stile WTO alle guerre dell'oppio. "Anche queste", disse, " erano relative all'apertura dei mercati". Come nel 19° secolo, oggi gli europei e gli americani stanno abbattendo le barriere per vendere in Asia, America Latina ed Africa, mentre barricano i loro mercati contro l'agricoltura del Terzo Mondo. Nelle guerre dell'oppio l'occidente usava i blocchi navali per costringere all'apertura dei mercati verso il loro scambio ineguale. Oggi la BM può ordinare un blocco finanziario altrettanto efficace - e talvolta altrettanto mortale. Stiglitz è particolarmente emotivo riguardo al trattato sui diritti della proprietà intellettuale del WTO (l'acronimo è TRIPS, del quale avremo molto da dire più avanti in questo capitolo). E' qui, dice l'economista, che il nuovo ordine globale ha "condannato a morte la gente" imponendo tariffe impossibili e tributi da pagare alle società farmaceutiche per medicine di marca. "A loro non interessa se la gente vive o muore", disse il professore delle corporations ed ideologo della Banca con il quale lavorava. A proposito, non siate confusi dal miscuglio di FMI, Banca Mondiale e WTO fatto in questa discussione. Essi sono maschere intercambiabili di un singolo sistema di dominazione. Essi si sono racchiusi assieme per quelli che sgraziatamente vengono definiti "grilletti". Prendere un prestito dalla Banca Mondiale per una scuola fa scattare una richiesta ("grilletto") di accettare tutte le "condizioni" - in media 111 per nazione - dettate da entrambe la BM e l'FMI. Infatti, disse Stiglitz, l'FMI richiede alle nazioni di accettare politiche commerciali più punitive delle regole ufficiali del WTO.

La maggiore preoccupazione di Stiglitz è che i piani della Banca Mondiale, concepiti in segreto e guidati da un'ideologia assolutista, non sono mai aperti al dibattito od al dissenso. Nonostante la pressione dell'occidente per elezioni nei paesi in via di sviluppo, i c.d. Programmi per la riduzione della povertà "minano la democrazia". E non funzionano. La produttività dell'Africa nera sotto la guida dell'"assistenza" strutturale dell'FMI è andata in malora.

Qualche paese ha evitato questo destino? Si, ha detto Stiglitz, indicando il Bostwana. Il loro trucco? "Hanno detto all'FMI di fare i bagagli". Dunque mi sono rivolto a Stiglitz. OK, Mr professore intelligente, come aiuteresti i paesi in via di sviluppo? Stiglitz propose una radicale riforma fondiaria, un attacco al cuore del "feudalesimo", sulle rendite da usura richieste dalle oligarchie proprietarie in tutto il mondo, tipicamente il 50% del raccolto dell'affittuario. Così dovetti chiedere al professore: perché la Banca Mondiale non ha seguito il tuo consiglio quando ne eri il principale economista? "Se sfidassero la proprietà della terra, sarebbe un cambiamento del potere delle elite. Questo non è nel loro programma". Apparentemente no. Considerato tutto, quello che l'ha spinto a mettere in gioco il suo posto è stato il fallimento delle banche e del Tesoro USA nel cambiare rotta una volta trovatisi di fronte alle crisi - fallimenti e sofferenze perpetrati dal loro mambo monetarista a quattro passi. Tutte le volte che le soluzioni di libero mercato fallivano l?FMI richiedeva semplicemente più politiche di libero mercato. "E' un po' come il Medioevo", mi disse l'insider. "Quando il paziente moriva, dicevano, 'Ha smesso di perdere sangue troppo presto; ne aveva da perdere ancora un po'". Dai miei dialoghi con il professore mi sono fatto l'idea che la soluzione alla povertà nel mondo ed alle crisi è semplice: sbarazzarsi delle sanguisughe.

Joe Stiglitz è sopravvissuto al suo licenziamento dalla Banca Mondiale ed alle lamentele sulle nostre interviste. Nel settembre 2001 è stato premiato con il Premio Nobel per l'Economia.

Una versione di questa storia venne pubblicata con il titolo "The IMF's Four Steps to Damnation" sull'Observer ed un'altra versione nel Big Issue - la rivista che indossano i senzatetto fuori della stazione di Londra. Big Issue ha offerto uguale spazio all'FMI, il cui "funzionario vice capo media" ha scritto: ...Trovo impossibile rispondere data la profondità ed il respiro da pettegolezzo e disinformazione nel rapporto [di Palast].

Naturalmente, per lui era difficile rispondere. La cosiddetta "disinformazione" veniva dall'infelice gruppo interno dell'agenzia del vice capo e della Banca Mondiale; infelici confidenti che mi hanno anche tranquillamente procurato le informazioni chiave per la prossima storia.

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- PALESTINA -

Una guerra coloniale - da Internazionale 434, aprile 2002
di Noam Chomsky
Israele non ha mai voluto un accordo di pace che riconoscesse i diritti dei palestinesi. E gli Stati Uniti sono suoi complici. L'opinione di Noam Chomsky

Un anno fa il sociologo dell'Università ebraica Baruch Kimmerling osservava: "Quello che temevamo si è avverato", israeliani e palestinesi stanno "regradendo a un tribalismo superstizioso...La guerra appare come un destino inevitabile", un "malvagia guerra coloniale". Dopo l'invasione dei campi profughi da parte di Israele, il suo collega Ze'ev Sternhell ha scritto che "nell'Israele colonialesta..la vita umana non vale nulla".
I suoi leader “non si vergognano più di parlare di guerra quando quella in cui sono realmente impegnati è un operazione di polizia coloniale, che ricorda gli attacchi da parte della polizia dei bianchi ai quartieri neri poveri del Sudafrica all’epoca dell’apartheid”. Entrambi sottolineano una cosa ovvia: non c’è simmetria tra i due gruppi etno-nazionali che sono regrediti al tribalismo. Il conflitto è in atto in territori che sono sottoposti a una dura occupazione militare da trentacinque anni. L’occupante è una grande potenza che agisce con il supporto militare, economico e diplomatico della più grande potenza mondiale. I suoi sudditi sono soli e inermi: molti sopravvivono in miserabili campi profughi, sottoposti a un clima di terrore sempre più brutale, simile a quello delle “malvagie guerre coloniali”. E anche loro si vendicano con terribili atrocità.
L’inganno di Camp David
Il “processo di pace” avviato a Oslo ha cambiato le modalità dell’occupazione, ma non il concetto di base. Poco prima di entrare nel governo di Ehud Barak, lo storico Shlomo Ben-Ami scriveva che “gli accordi di Oslo erano fondati su una base neocolonialista, che prevedeva l’eterna dipendenza di una popolazione dall’altra”. Ma divenne ben presto uno degli autori delle proposte israelo-americane di Camp David dell’estate del 2000, che non modificavano questo quadro.
Queste proposte furono molto elogiate dai giornali americani. I palestinesi e il loro malvagio leader furono accusati di essere responsabili del fallimento delle proposte e della violenza che ne era conseguita. Ma era una menzogna bella e buona, come dichiararono Kimmerling e altri commentatori rigorosi. Nessuno può seriamente dubitare del fatto che il ruolo degli Stati Uniti continuerà a essere decisivo. È dunque di cruciale importanza capire quale sia stato questo ruolo, e come viene percepito all’interno del paese. La versione delle “colombe” è presentata dal New York Times, che il 7 aprile elogiava il discorso “di svolta del presidente e la “nuova visione” emersa dalle sue parole. Se il terrore palestinese finirà, scriveva qualche tempo dopo il quotidiano statunitense, gli israeliani saranno incoraggiati a “prendere più sul serio la storica offerta della Lega araba che prevede pace totale e il riconoscimento in cambio del ritiro di Israele”. Ma prima i leader palestinesi devono dimostrare di essere “partner diplomatici legittimi”. La realtà ha ben poco a che fare con questo ritratto autogiustificatorio. La prima barriera contro la “nuova visione” è stata e rimane l’atteggiamento di rifiuto americano. Non c’è niente di nuovo nella “storica offerta della Lega araba”. Riprende fondamentalmente i termini di una risoluzione del Consiglio di sicurezza del gennaio 1976 sostenuta praticamente da tutto il mondo, compresi i principali Stati arabi, l’Olp, l’Europa, il blocco sovietico - in pratica, tutti quelli che contavano. Israele si dichiarò contraria e gli Stati Uniti opposero il veto, impedendole quindi di entrare nella storia. La risoluzione invocava un accordo politico sulla base di confini riconosciuti a livello internazionale “con misure appropriate... per garantire... la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti gli Stati della regione e il loro diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti”.
Le linee guida di Kissinger
L’atteggiamento di rifiuto statunitense risaliva già a cinque anni prima, al 1971, quando il presidente egiziano Sadat aveva offerto a Israele la pace totale in cambio del ritiro dal territorio egiziano, senza fare alcuna menzione dei diritti della nazione palestinese o del destino dei loro Territori occupati. Il governo laburista israeliano aveva riconosciuto che questa era una vera offerta di pace, ma l’aveva rifiutata, perché aveva intenzione di estendere i suoi insediamenti al Sinai nord-orientale; cosa che fece ben presto con estrema brutalità e che costituì la causa immediata della guerra del 1973. Kissinger riuscì a bloccare la pace, dichiarando la sua preferenza per quella che chiamava “una fase di stallo”: niente negoziati, solo la forza. Anche le offerte di pace giordane furono respinte. Da allora, la politica ufficiale degli Stati Uniti si è attenuta al consenso internazionale sul ritiro - fino a Clinton, che ha efficacemente ignorato le risoluzioni delle Nazioni Unite e le considerazioni del diritto internazionale. Ma in pratica, la loro politica ha sempre seguito le linee guida di Kissinger, accettando di negoziare solo quando non potevano farne a meno.
Degradante umiliazione
Non c’è da sorprendersi che il principio fondamentale dell’occupazione sia sempre stato l’incessante e degradante umiliazione, insieme alla tortura, al terrore, alla distruzione delle proprietà, allo spostamento forzato e all’insediamento, e all’acquisizione delle risorse fondamentali, soprattutto l’acqua. Questo, naturalmente, ha richiesto il decisivo appoggio degli Stati Uniti per tutto il periodo Clinton. “Il governo Barak lascia al governo Sharon una sorprendente eredità”, commentava la stampa israeliana all’epoca della transizione: “Il più alto numero di costruzioni avviate nei Territori dal tempo in cui Ariel Sharon era ministro dell’Edilizia e degli Insediamenti nel 1992, prima degli accordi di Oslo”.
I finanziamenti erano forniti tra gli altri dai contribuenti americani, ingannati da fantasiosi racconti sulle “visioni” e sulla “magnanimità” dei leader statunitensi, frustrate da terroristi come Arafat, che hanno tradito “la nostra fiducia” e forse anche da alcuni estremisti israeliani che reagiscono in modo eccessivo ai loro crimini. Come dovrebbe comportarsi Arafat per riconquistare la nostra fiducia viene spiegato in modo sintetico da Edward Walker, il funzionario del dipartimento di Stato responsabile della regione sotto Clinton. Il subdolo Arafat deve annunciare senza ambiguità: “Noi rimettiamo il nostro futuro e il nostro destino nelle mani degli Stati Uniti”, che da trent’anni conducono la campagna contro i diritti dei palestinesi.
Il problema fondamentale, ieri come oggi, rimanda a Washington, che ha sempre sostenuto il rifiuto di Israele di un accordo politico nei termini di un ampio consenso internazionale, ripreso nelle sue linee essenziali dalla “storica offerta della Lega araba”.
Gli attuali cambiamenti di questo atteggiamento di rifiuto sono solo tattiche di minore importanza. Per non mettere in pericolo il loro progetto di un attacco all’Iraq, gli Stati Uniti hanno approvato una risoluzione dell’Onu che chiedeva il ritiro di Israele dai Territori appena invasi “senza indugio” - cioè, “al più presto possibile”, ha spiegato immediatamente il segretario di Stato Colin Powell.
Il terrorismo palestinese deve fermarsi “immediatamente”, ma l’ancor più estremo terrorismo israeliano - che va avanti da trentacinque anni - può prendersela comoda. Israele ha subito intensificato gli attacchi, portando Powell a dire: “Sono felice di sentire che il primo ministro ha accelerato le operazioni”. Si sospetta fortemente che l’arrivo di Powell in Israele sia stato rimandato per permettere a Israele di “accelerare” ulteriormente. Questa posizione degli Stati Uniti potrebbe cambiare, ancora una volta per motivi tattici.
Un regime cliente
Gli Stati Uniti hanno anche approvato una risoluzione delle Nazioni Unite che invita a prevedere “l’idea” di uno Stato palestinese. Questa prova di disponibilità, che è stata molto elogiata, non arriva a livello del Sudafrica di quarant’anni fa, quando il regime dell’apartheid mise in atto la sua “idea” di Stati gestiti dai neri che erano realizzabili e legittimi almeno quanto la dipendenza neocoloniale che gli Stati Uniti e Israele hanno in mente per i Territori occupati.
Nel frattempo gli Stati Uniti continuano a “fomentare il terrore”, per usare le parole del presidente, fornendo a Israele mezzi di distruzione, come dimostra la recente spedizione dei più moderni elicotteri dell’arsenale statunitense. Questa è la normale reazione alle atrocità di un regime cliente. Per citare un solo distruttivo esempio, nei primi giorni dell’attuale intifada Israele ha usato gli elicotteri statunitensi per attaccare obiettivi civili, uccidendo dieci palestinesi e ferendone trentacinque, e non si può proprio dire che si trattasse di “autodifesa”.
Clinton, scrive Ha’aretz, ha risposto con un accordo per “il più importante acquisto di elicotteri militari da parte dell’aeronautica israeliana degli ultimi dieci anni”, e di pezzi di ricambio per gli elicotteri da attacco Apache. E la stampa ha dato una mano rifiutando di diffondere la notizia. Qualche settimana dopo, Israele ha cominciato a usare gli elicotteri americani anche per assassinare. Uno dei primi atti dell’amministrazione Bush è stato quello di inviare in Israele gli elicotteri Apache Longbow, i più distruttivi che aveva a disposizione. Di questo si è parlato marginalmente nelle notizie economiche.
Washington ha dimostrato ancora una volta il proprio impegno a “fomentare il terrore” lo scorso dicembre, quando ha opposto il suo veto alla risoluzione delle Nazioni Unite che invocava l’applicazione del Piano Mitchell e l’invio di osservatori internazionali a verificare la riduzione degli atti di violenza, il sistema più efficace a detta di tutti, rifiutato da Israele e regolarmente bloccato da Washington. Il veto è stato posto durante un periodo di 21 giorni di calma - il che significa che un solo soldato di Israele era stato ucciso, rispetto a 21 palestinesi compresi il bambini, e c’erano state 16 incursioni israeliane nelle zone controllate dai palestinesi.
Dieci giorni prima del veto, gli Stati Uniti avevano boicottato - e quindi vanificato - la conferenza internazionale di Ginevra che ancora una volta è giunta alla conclusione che la Quarta Convenzione di Ginevra è applicabile ai Territori occupati, così che praticamente tutto quello che gli Stati Uniti e Israele fanno lì è una “grave violazione”, in parole povere un “crimine di guerra”.
La conferenza ha dichiarato che gli insediamenti israeliani finanziati dagli Stati Uniti sono illegali, e ha condannato la pratica “illegale e arbitraria” di uccidere deliberatamente, torturare, deportare illegalmente, privare del diritto a un processo giusto e regolare, danneggiare e appropriarsi dei beni”.
Gli Stati Uniti sono obbligati da un solenne accordo a perseguire le persone responsabili di questi crimini, compresi i loro stessi leader politici. Ma come al solito, tutto questo passa sotto silenzio.
Gli Stati Uniti non hanno ufficialmente ritirato il loro riconoscimento dell’applicabilità delle Convenzioni di Ginevra ai Territori occupati, o la loro censura nei confronti delle violazioni di Israele in quanto “potenza occupante” (affermata per esempio da George Bush senior quando era ambasciatore presso le Nazioni Unite).
Un vuoto nella memoria
Nell’ottobre del 2000, il Consiglio di Sicurezza riaffermava la propria posizione, invitando Israele, la potenza occupante, a rispettare scrupolosamente gli obblighi legali previsti dalla Quarta Convenzione di Ginevra”.
La votazione finì 14 a 0. Clinton si astenne, presumibilmente perché non voleva opporre il suo veto a uno dei principi basilari del diritto internazionale umanitario, soprattutto alla luce delle circostanze in cui era stato concepito: per condannare formalmente le atrocità commesse dai nazisti. Anche tutto questo è stato messo rapidamente nel dimenticatoio, un altro contributo al “potenziamento del terrore”.
Fino a quando non sarà possibile discutere di questi temi, e non saranno state comprese le loro implicazioni, non ha nessun senso parlare di “impegno degli Stati Uniti per il processo di pace" e le prospettive di un’azione costruttiva rimarranno scarse.

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Boicottate Israele

"I palestinesi sono un incubo di cui dobbiamo liberarci", disse Shimon Peres nel 1988.
Fate in modo, cari amici ed amiche, che questo "sogno" non sia realizzato con l'aiuto del vostro denaro. Boicottare i prodotti che servono al finanziamento diretto ed indiretto di Israele e' un dovere morale e civile, oggi piu' che mai, dal momento che la comunita' internazionale ha fallito nel garantire il rispetto dei diritti umani, civili e nazionali del popolo palestinese. Ogni volta che acquistate un prodotto, assicuratevi che non serva ad armare la mano di criminali di guerra e a finanziare l'occupazione militare delle terre palestinesi.
Iman Hejjo e gli altri 499 bambini palestinesi trucidati nel corso di quest'ultima intifada potrebbero essere stati uccisi con il contributo inconsapevole del nostro denaro. Pensiamoci!
Al seguente indirizzo troverete notizie aggiornate sui prodotti che finanziano Israele.
http://www.inminds.co.uk/boycott-israel.html
Grazie a tutti
www.arabcomint.com

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Brano tratto dal nuovo libro di Israel Shamir “Carri armati e ulivi della Palestina: il fragore del silenzio” (edizioni CRT, Pistoia)

Gli ulivi di Abud - 16 giugno 2001
Grazie alla mediazione della C.I.A. c'è il cessate il fuoco. Ho ricevuto una telefonata preoccupata dal villaggio di Abud, sulle pendici occidentali delle colline della Samaria. Il villaggio era stato attaccato dall'esercito, che aveva ferito due uomini. Oggi sono andato là per vedere il villaggio e rendermi conto del cessate il fuoco.
Abud è circondato da tutte le parti dai nuovi insediamenti ebraici. Una nuova, bella strada per gli ebrei conduce in zona. C'è una deviazione per Abud a circa tre miglia dal villaggio, dove la strada è bloccata da enormi mucchi di terra che vengono dagli scavi della strada. Cerchiamo un passaggio da un'altra parte ma senza risultato. Finalmente riusciamo a trovare un piccolo sentiero sterrato che i contadini avevano aperto la mattina e attraverso quello arriviamo al villaggio. Abud è uno dei più bei villaggi palestinesi, ricorda proprio la Toscana. Le sue case, dai colori addolciti dal tempo, si spargono sulle gentili pendici delle colline. Dai balconi pendono i tralci dell'uva mentre gli alberi di fico ombreggiano le sue strade. Si capisce la prosperità del villaggio dalla grandezza delle case, dalle strade perfettamente pulite. I vecchi siedono in cortili piccoli e ombrosi, circondati da muri, su panchine di pietra, proprio come i vecchi di Itaca che si radunavano intorno al giovane Telemaco. Questa è la porta biblica della città, ovvero un diwan. I ragazzi portano il caffè e frutta fresca. Le persone che abitano qui non sono i rifugiati di Gaza e di Deheishe; qui, come in una stampa del passato, si può vedere come dovrebbe e potrebbe essere la Terra Santa. Duemila anni fa, Abud ricevette la fede di Cristo dallo stesso Cristo, come dice la tradizione locale, e c'è una chiesa che lo prova, una delle più antiche del pianeta, costruita al tempo di Costantino nel quarto secolo, o forse addirittura più antica, come sostengono alcuni archeologi. La chiesa è in ottimo stato, perfettamente restaurata e tenuta in modo esemplare. I capitelli bizantini delle colonne raffigurano la croce e foglie di palma. Di recente si è scoperta un'iscrizione in aramaico antico, murata nella parete meridionale della chiesa. Abud ha più di una chiesa, perché c'è quella cattolica, quella greco-ortodossa e la chiesa di Dio costruita dagli americani. C'è anche una nuova moschea, visto che i cristiani ed i musulmani, qui nella Terra Santa, vivono insieme in grande armonia. Il 17 dicembre, tutti, cristiani e musulmani vanno a venerare la santa patrona del villaggio, Santa Barbara. Era una ragazza del posto che si innamorò di un ragazzo cristiano e fu battezzata. Poi, siccome erano gli anni dell'imperatore Diocleziano, soffrì il martirio durante le persecuzioni. Le rovine della più antica chiesa bizantina di Santa Barbara si vedono ancora sulla collina, a circa un miglio dal villaggio. Ai piedi della collina, c'è anche una grotta nella quale la santa è stata sepolta ed è lì che i contadini vanno ad accendere le candele e a chiedere la grazia. È un bel posto per capire l'assoluta follia della narrazione ebraica, oggi egemone, che descrive la Palestina come una terra senza popolo, abitata qua e là da nomadi arabi giunti nel settimo secolo. Gli archeologi hanno dimostrato che questo villaggio non è mai stato distrutto né abbandonato da tempo immemorabile, e noi, vedendolo, non possiamo che essere d'accordo. Vecchissimi alberi di ulivo coprono le colline, confermano le profonde radici di Abud e lo forniscono di olio, che rappresenta la principale risorsa e fonte di reddito. Ma subito fuori del villaggio ci sono due giganteschi bulldozer, Caterpillar americani che lentamente stanno divorando gli ulivi. Sono enormi, ricoperti ovunque da lastre d'acciaio. Sembrano inespugnabili, come delle fortezze mobili. Sovrastano tutto il paesaggio come i mostri meccanici dell'Impero del Male che attaccano Ewocks in Guerre Stellari. I contadini stavano in cima alla salita, cercando di bloccare l'entrata del villaggio e vedevano le macchine che stavano distruggendo la loro fonte di vita. E non potevano andare incontro ad esse, essendo vietato uscire dal villaggio, la loro prigione. C'era una tenda e alcuni soldati con i fucili mitragliatori sulla collina, all'entrata, che avevano l'ordine di tenere la gente a bada. Ieri sera, sabato, avevano aperto il fuoco sugli abitanti del villaggio che avevano tentato di uscire, e ne avevano feriti due. Poi, tutti gli altri erano corsi a rifugiarsi nel villaggio. Allora l'esercito è arrivato con le jeep, ha attraversato il villaggio, sotto una gragnuola di pietre scagliate dai ragazzi. I coloni ebrei e i soldati hanno scaricato le loro armi automatiche ricoprendo le finestre ed i tetti di proiettili, apparentemente convinti di aver compiuto il loro dovere del Sabato. A me è permesso di attraversare la linea invisibile che vale soltanto per i palestinesi. C'era un ufficiale israeliano in una jeep, una grossa Hummer americana, che sovrintendeva alla devastazione. “Ma perché fate questo, gli ho chiesto, non lo sapete che c'è il cessate il fuoco?” “Vallo a raccontare ad Arik (Sharon), ha risposto, noi stiamo semplicemente eseguendo degli ordini.” Ma lui, e gli altri soldati, e i manovratori dei bulldozer non erano certamente contrari a quegli ordini. Questi ulivi centenari non significavano niente per loro, come non significavano niente il villaggio e la chiesa vecchia di duemila anni e nemmeno le persone significavano niente per loro, lì c'era soltanto qualcosa che doveva essere distrutto. La Palestina non è mai stata una terra deserta come dissero i primi sionisti quando arrivarono, ma certamente lo diventerà a meno che non riusciremo a fermare queste macchine.


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