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Der Wehrwolf
04-07-02, 17:15
Nel momento della crisi, occorrono aiuti con lo stesso cuore
con cui i nostri emigranti sono stati accolti in Sudamerica

di Giovanni Meo Zilio

Pur non essendo la prima volta che tratto l’argomento su questo giornale, voglio prendere spunto dall’esemplare articolo di Archimede Bontempi dello scorso 29 giugno (“E ora porte aperte ai padani d’Argentina” con sottotitolo “Deve partire una grande campagna per il rientro dei nostri emigranti travolti dalla crisi”) per associarmi al suo appello sul filo di alcune mie lontane ma vive memorie personali di emigrante, in quel Paese, alla fine degli anni Quaranta.
Come ben sanno i nostri lettori, la Padania, da tempi non sospetti, si è fatta ripetutamente portavoce e cassa di risonanza della sacrosanta determinazione della Lega di far rientrare i nostri emigrati e i loro discendenti con carattere prioritario e mediante un canale preferenziale in vista dell’immissione di questi fratelli “assetati d’Italia” nel nostro “assetato” mercato di lavoro.
D’altronde lo stesso Bossi fu in prima fila nel lanciare questa idea e la “Associazione Federale Padani nel Mondo” fu la prima a farsene paladina.
La recente tragedia dell’Argentina, sulla cui scia purtroppo stanno avviandosi altri Paesi latinoamericani, dal piccolo Uruguay al “gigante brasiliano dai piedi di argilla”, ha reso drammatico il problema in quella grande nazione amica e ha mobilitato il governo italiano - attraverso il tempestivo e fattivo intervento dei suoi ministri Tremaglia e Maroni, in stretta collaborazione col ministero degli Esteri e coi governi regionali (a cominciare da quello veneto) - con iniziative di concreto aiuto per quella gente che ci ha sfamati con le sue rimesse e con l’accoglienza solidale nei confronti dei nuovi arrivati quando noi eravamo alla fame; e che oggi si trova essa letteralmente alla fame.
A parte la convenienza socioeconomica per l’Italia di servirsi prioritariamente di gente a noi omogenea, e comunque affine e pertanto naturalmente incline e più disponibile a una effettiva quanto imprescindibile assimilazione, il nostro è un debito storico e politico ma anche morale ed umano che noi italiani - e soprattutto noi padani che siamo stati i primi ad emigrare (basti pensare ai genovesi, ai lombardo-veneto-friulani, ai piemontesi...) - non possiamo non onorare.
Sì, “morale ed umano” come ben sa chi, come il sottoscritto, ricorda quando varcò l’oceano nell’immediato dopoguerra, in una vecchia nave messa a disposizione dall’Argentina per gli emigranti peninsulari, in cerca di un lavoro irraggiungibile in Italia; e dal mare, col cuore gonfio di commozione e di speranze, vide, tra i fischi lancinanti della sirena, allontanarsi lentamente, inesorabilmente, il porto di Genova e spegnersi via via lo sventolìo dei fazzoletti (ma nessun fazzoletto sventolava per lui...). A bordo, nell’interminabile viaggio di ventidue giorni, uomini, donne e bambini accalcati nelle stive sui letti a castello, di 3-4-5 piani, con un calore infernale e lo stomaco sconvolto dal mal di mare, accarezzavano la speranza di una vita migliore (che molti hanno effettivamente trovato) e inseguivano il sogno della grande avventura al di là di quello che i veneti di una volta solevano chiamare “el fosso grando”. Viaggio incredibile, popolato di incontri umani ma anche di fantasmi per chi lo faceva per la prima volta, vissuto con la prospettiva ormai del non-ritorno: prospettiva che per i più divenne poi lacerante certezza... Gli anziani continuavano a guardare indietro come calamitati dal loro avaro pezzo di terra, lasciato al paesello insieme a un pezzo di cuore, mentre fra i giovani, naturalmente protesi al futuro, nascevano gli amori. Quando la nave, col suo carico di gioie e di dolori, di frustrazioni e di speranze, giunse al porto di Buenos Aires, sul cui molo erano accorsi tanti italiani anch’essi con tanti fazzoletti che si agitavano (ma in un altro modo rispetto a quelli lasciati a Genova: non segnali di addio ma segnali di benvenuto), molti furono accolti da parenti o amici o conoscenti venuti a dare una mano ai nuovi arrivati; e questi ne ebbero, dopo tanta apprensione, immediato conforto: qualcuno, come chi scrive, non aveva nessuno che lo aspettasse e, fin da allora, presentì la solitudine esistenziale, la mortificazione degli affetti, l’impotenza linguistica, lo schianto dell’anima sradicata: sentimenti che ben presto si sarebbero fatti effettivamente sentire e che si sarebbe portato dentro chissà fino a quando... Quegli stessi sentimenti, aggravati dalle ben più avverse condizioni, devono aver provato quei nostri pionieri emigranti che ci hanno preceduto “col sacco sulle spalle” (ancor più indifesi, ancor più affamati), un secolo prima in Argentina come in Brasile; e poi, giù giù, le generazioni successive, fino agli anni Trenta quando il fascismo chiuse le frontiere per incanalare poi la nostra incomprimibile eccedenza di manodopera nella nefasta avventura africana.
Ma pian piano, i nuovi arrivati, alcuni con sacrifici inenarrabili altri con maggiore fortuna, si andarono sistemando anch’essi, come era accaduto per le precedenti ondate migratorie, aiutati, dobbiamo riconoscerlo, da una diffusa simpatia e solidarietà umana (con tutte le sue luci e le sue ombre, naturalmente) da parte di quella popolazione che era per metà di origine italiana. Chi scrive queste righe ne è testimone, in carne viva, e anche per questo si considera personalmente coinvolto negli appelli della Lega (quello, mirato, del senatore Bosco che riguarda l’aiuto alla casa per anziani di Colonia Caroya in provincia di Còrdoba, di cui ha trattato ripetutamente la Padania e che è tuttora attualissimo, come quello ora firmato da Bontempi che ha dato occasione a queste riflessioni su un vissuto tanto drammatico quanto appassionante). Non gli rimane che far sua la conclusione dello stesso Bontempi: «Le associazioni culturali dei “Padani nel mondo” e dei “Padani in Europa” devono farsi portavoce verso tutte le associazioni padane, e verso tutti i padani volenterosi, di una grande riscossa, una grande campagna, per il rientro dei nostri fratelli e per inviare laggiù medicinali e aiuti al più presto». Bontempi sa bene comunque che i padani non solo sogliono parlare col cuore, ma sogliono essere gente di cuore...
Fratelli d’Argentina, siamo con voi.

Der Wehrwolf
04-07-02, 17:20
La Provincia di Vicenza incontra oggi una delegazione di sindaci
e operatori economici del Brasile
«Oriundi, con la Bossi-Fini rientro più facile»
Dal Lago: siamo sulla buona strada ma la svolta arriverà
con la nuova legge
di Pier Luigi Pellegrin

Si apre un altro significativo capitolo per l’immigrazione di ritorno. In questo caso gli sviluppi riguardano l’iniziativa che aprì la strada a questo progetto, ovvero l’operazione “Ritorno al lavoro a Vicenza”, varata dal Presidente della Provincia berica, Manuela Dal Lago. Oggi la “lady di ferro” del Carroccio si incontrerà con una folta delegazione di sindaci e operatori economici dello Stato del Rio Grande Do Sul, la regione brasiliana nella quale la Provincia vicentina iniziò nel 2000 a sondare il terreno per capire se l’immigrazione di ritorno era una strada praticabile.
Presidente Dal Lago, di cosa parlerete con queste delegazioni?
«Sicuramente faremo il punto della situazione sugli immigrati di ritorno, ma sul piatto ci saranno anche argomenti».
Quali?
«Questa visita va a rafforzare i rapporti economici con le nostre aziende, per molte delle quali si sta già prospettando l’ipotesi di delocalizzazione in Sudamerica. Da parte dei nostri ospiti ho riscontrato anche molto interesse verso le nostre metodologie agricole».
A che punto stanno le cose con gli immigrati veneti di ritorno?
«Il progetto è a buon punto, anche se le cose miglioreranno parecchio dopo l’approvazione della legge Bossi-Fini».
Per quale motivo?
«Perché in questa legge sono previste apposite agevolazioni per figli e discendenti dei nostri emigranti».
Quali, invece, sono state le maggiori difficoltà incontrate finora?
«L’ostacolo principale è stato senz’altro quello della doppia cittadinanza ma, come detto sopra, la Bossi-Fini migliorerà parecchio le cose. Altre difficoltà, poi, le abbiamo avute con la fase di preparazione. Recentemente, però, è stato avviato un progetto del ministero del Lavoro che ci consentirà di inviare personale preparato in grado di pre-selezionare e preparare professionalmente questi ragazzi direttamente nel loro Paese».
È ragionevole pensare che gli immigrati di ritorno possano sostituire gli extracomunitari?
«Senz’altro, anche perché si sta finalmente smascherando la fandonia del centrosinistra, secondo cui gli extracomunitari sono indispensabili per fare i lavori che i nostri giovani non vogliono più fare. Chi gira per le nostre aziende, infatti, si rende conto benissimo che gli imprenditori hanno necessità di manodopera specializzata, esattamente ciò che siamo in grado di fornire con l’emigrazione di ritorno».
Adesso cosa manca per completare l’opera?
«Ci vogliono accordi di più ampio respiro, che coinvolgano anche la Regione, il governo e i consolati».