Alessandra
24-07-02, 00:31
Con la schiena saldamente sprofondata nel materasso, gli arti come paralizzati, non può parlare, la sensazione di un grosso insetto a gambe all'aria; ma la mente irradia segnali, il corpo risponde allora prontamente, è dritta in piedi, pervasa da un senso di capogiro, di calore, di disorientamento, costretta a ripiombare sul letto. Ma è sveglia, ora, ben sveglia, ha sete, rimette a posto la cornetta, ingolla un bicchiere d'acqua di frigorifero, rigorosamente gasata, le ultime gocce versate sul collo, riconosce la camera, osserva la luce del giorno, può rispondere ai trilli insistenti del telefono.
Quando lo aveva conosciuto lei aveva era così come era sempre stata, ma ogni tempo che aveva vissuto l'aveva sentito come non suo. La prima sera che lui la notò era a una festa con amici: aveva una gonna di pelle nera opaca, stretta intorno alla vita, ai fianchi, alle cosce, e un golf morbido, azzurro, a maglie larghe, sopra una camicetta bianca. I capelli lunghi, a frangia sulla fronte, erano appena ondulati. Aveva una bocca dalle labbra piene, naturalmente colorite. Dipingeva velocissima, o schizzava rapidamente su spessi blocchi di fogli. Fumava abbastanza, e aveva piccoli gesti ansiosi, ogni tanto, fuggevoli gesti da nevrotica lieve. Era capace di sculture cariche di simboli, insolite, che creava con gesti energici e sicuri, e plasmava la creta in modo naturalmente sensuale. Quella sera ballava senza ritmo, persa in assenze malinconiche: a certe musiche il suo sguardo diventava liquido e vuoto, bellissimo, tenero e acerbo.
A conclusione di una serata durante la quale l'aveva invitata a ballare più volte, con ostinazione e senza incontrare alcuna resistenza, lui sperimentò una sorgente imprevedibile di eccitazione fisica e mentale, una specie di potente disagio, che gli tolse per lungo tempo tranquillità e pace, dando luogo a una specie di struggimento ansioso, di affanno materiale, di primordiale sovrastimolazione. Uscito dal suo primo abbraccio, interminabile, ebbe paura dell'esistenza di sensazioni maggiori e di non potere più stringere quel corpo. Emozioni di questo tipo lo avevano una volta sfiorato, violente come la creazione e il compimento di un istante, con una occasionale compagna di ballo, un’amica, e fu quella la prima volta che sentì pelle diversa contro la propria guancia, e il contatto inaspettato, non ricercato, lo aveva esaltato, confuso, eccitato, allertato e catturato insieme, rendendogli il cuore caldo e vuoto, dissolvendo tutto ciò che era esterno ai loro corpi in contatto. Ma adesso c'era lei che lo fissava negli occhi e si incupiva, avida di carezze e baci leggeri, riservandogli sguardi e attenzioni che avevano il potere di espandere in ore apparentemente infinite l'istante vissuto con l'amica. Ore tuttavia scandite, stagionali, effimere, a termine.
Così arrivò ad odiarla, non ne volle più sapere, evitò le occasioni d'incontro pur incontrandola tutti i giorni, evitò i rapporti ambigui degli amici, e infine le fece dei regali: lei se ne compiaceva, afferrava i pacchetti con la curiosità di una bambina e li scartava subito, ovunque si trovassero, in un bar, in un ristorante, perfino nel silenzio di un teatro, con commozione, ringraziando e tremando, rendendolo partecipe di qualche altra sua aspirazione, di qualche sua illusione, con parole crude e liberatorie, rinnegando il proprio sfogo, confondendolo, allontanandolo con sfuggenti agglomerati di termini senza filo conduttore, quasi versi rubati a una poesia, a una canzone, a una nenia infantile.
Tenera, egoista, generosa, estroversa, la perse per sbilenca timidezza, per incapacità d'ascolto, per eccesso di silenzio, in sprazzi di luci in cui lei baciava e si dava all'altro con impeto vendicativo, in cui lo stringeva freneticamente, e nel fragore di suoni ritmati e ripetitivi, senza fine, percossa dai quali si inginocchiava a lui, ne abbracciava implorante le gambe, cercando un'irrealizzabile attenzione, esponendo alle luci multicolori roteanti al ritmo della musica il suo viso bellissimo e puro, disilluso.
L'ultimo incontro avvenne una sera: un appuntamento del subconscio, breve e casuale, crudele, definitivo, nuovamente senza parole, perchè non ci fu nulla da dire dopo che lui le disse: *tu non capisci un cazzo*.
Quando lo aveva conosciuto lei aveva era così come era sempre stata, ma ogni tempo che aveva vissuto l'aveva sentito come non suo. La prima sera che lui la notò era a una festa con amici: aveva una gonna di pelle nera opaca, stretta intorno alla vita, ai fianchi, alle cosce, e un golf morbido, azzurro, a maglie larghe, sopra una camicetta bianca. I capelli lunghi, a frangia sulla fronte, erano appena ondulati. Aveva una bocca dalle labbra piene, naturalmente colorite. Dipingeva velocissima, o schizzava rapidamente su spessi blocchi di fogli. Fumava abbastanza, e aveva piccoli gesti ansiosi, ogni tanto, fuggevoli gesti da nevrotica lieve. Era capace di sculture cariche di simboli, insolite, che creava con gesti energici e sicuri, e plasmava la creta in modo naturalmente sensuale. Quella sera ballava senza ritmo, persa in assenze malinconiche: a certe musiche il suo sguardo diventava liquido e vuoto, bellissimo, tenero e acerbo.
A conclusione di una serata durante la quale l'aveva invitata a ballare più volte, con ostinazione e senza incontrare alcuna resistenza, lui sperimentò una sorgente imprevedibile di eccitazione fisica e mentale, una specie di potente disagio, che gli tolse per lungo tempo tranquillità e pace, dando luogo a una specie di struggimento ansioso, di affanno materiale, di primordiale sovrastimolazione. Uscito dal suo primo abbraccio, interminabile, ebbe paura dell'esistenza di sensazioni maggiori e di non potere più stringere quel corpo. Emozioni di questo tipo lo avevano una volta sfiorato, violente come la creazione e il compimento di un istante, con una occasionale compagna di ballo, un’amica, e fu quella la prima volta che sentì pelle diversa contro la propria guancia, e il contatto inaspettato, non ricercato, lo aveva esaltato, confuso, eccitato, allertato e catturato insieme, rendendogli il cuore caldo e vuoto, dissolvendo tutto ciò che era esterno ai loro corpi in contatto. Ma adesso c'era lei che lo fissava negli occhi e si incupiva, avida di carezze e baci leggeri, riservandogli sguardi e attenzioni che avevano il potere di espandere in ore apparentemente infinite l'istante vissuto con l'amica. Ore tuttavia scandite, stagionali, effimere, a termine.
Così arrivò ad odiarla, non ne volle più sapere, evitò le occasioni d'incontro pur incontrandola tutti i giorni, evitò i rapporti ambigui degli amici, e infine le fece dei regali: lei se ne compiaceva, afferrava i pacchetti con la curiosità di una bambina e li scartava subito, ovunque si trovassero, in un bar, in un ristorante, perfino nel silenzio di un teatro, con commozione, ringraziando e tremando, rendendolo partecipe di qualche altra sua aspirazione, di qualche sua illusione, con parole crude e liberatorie, rinnegando il proprio sfogo, confondendolo, allontanandolo con sfuggenti agglomerati di termini senza filo conduttore, quasi versi rubati a una poesia, a una canzone, a una nenia infantile.
Tenera, egoista, generosa, estroversa, la perse per sbilenca timidezza, per incapacità d'ascolto, per eccesso di silenzio, in sprazzi di luci in cui lei baciava e si dava all'altro con impeto vendicativo, in cui lo stringeva freneticamente, e nel fragore di suoni ritmati e ripetitivi, senza fine, percossa dai quali si inginocchiava a lui, ne abbracciava implorante le gambe, cercando un'irrealizzabile attenzione, esponendo alle luci multicolori roteanti al ritmo della musica il suo viso bellissimo e puro, disilluso.
L'ultimo incontro avvenne una sera: un appuntamento del subconscio, breve e casuale, crudele, definitivo, nuovamente senza parole, perchè non ci fu nulla da dire dopo che lui le disse: *tu non capisci un cazzo*.