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Felix (POL)
05-08-02, 08:06
è uscito un nuovo libro (postumo) del grandissimo e compianto storico francese François Furet.
Ho sempre ammirato, letto e citato moltissimo Furet, che potrei indicare come uno dei miei "padri" intellettuali. Furet si è distinto come storico della rivoluzione francese, per la quale rappresentò in Francia il ruolo rinnovatore e revisionista analogo all'opera di De Felice sul fascismo in Italia. Magistrale il suo libro "Critica della rivoluzione francese", ancor oggi un classico di metodologia storiografica. Acuto e stimolante anche il suo più recente "Il passato di un'illusione", in cui rifletteva da ex-comunista (altra analogia con De Felice) sullo strepitoso fallimento del comunismo nel XX secolo, preceduto da una persistente e misteriosa "presa" sugli intellettuali dell'Occidente.
Putroppo Furet ci ha lasciati quattro anni fa...

Felix

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François Furet
GLI OCCHI DELLA STORIA
Recensito da Fabrizio Gualco

«Gli occhi della storia», recentemente pubblicato in Italia da Mondadori, è un libro particolarmente interessante. Non è un saggio, ma una raccolta antologica: ospita infatti parte dei numerosi articoli scritti dallo storico francese François Furet nell’arco di quaranta anni (dal 1957 al 1997, anno della morte), originariamente pubblicati sulle pagine del Nouvel Observateur.

Furet nasce a Parigi nel 1927. Nel 1960 entra a far parte della VI sezione dell’Ecole Pratique des Hautes Études, di cui a partire dal 1966 diventa Directeur d’études. Nel 1968 collabora con Edgard Faure, ministro per l’Educazione nazionale, per mettere a punto la legge d’orientamento sulle Università. Presidente dell’École de Hautes Études en Sciences Sociales e Direttore (dal 1984) dell’Istituto «Raymond Aron», tra i suoi lavori più importanti ricordiamo «La Révolution française» del 1965, scritto a quattro mani con Denis Richet (trad. it. “La Rivoluzione francese”, Laterza, Bari-Roma 1976, 1986); «Penser la Révolution française» del 1978 (“Critica della Rivoluzione francese”, Laterza, Bari-Roma 1995) «Le passé d’une illusion» edito nel 1995 (“Il passato di un’illusione”, Mondatori, Milano 1995).

Come afferma Marina Valentise nella sua Introduzione, le opere furetiane «rappresentano un riferimento imprescindibile nella bibliografia degli studi sulla rivoluzione francese e sul comunismo». Esse interpretano ed analizzano in modo obiettivo (e originale) i fatti storici, politici e sociali compresi nell’arco temporale Settecento-Novecento, ovvero il periodo che partendo dalla Rivoluzione francese giunge fino al fallimento delle utopie totalitarie del XX secolo. Negli articoli contenuti in questo volume l’attività pubblicistica supporta la ricerca storica. La precisione dello storico e la verve scritturale del giornalista di qualità si integrano l’una all’altra. Il risultato che ne deriva è uno stile è comunicativo, chiaramente lontano dall’astrusità spesso presente nel linguaggio accademico: asciutto, essenziale ma non scarno, rigoroso ma sempre gradevole.

Non a caso, nella Prefazione di Mona Ozouf leggiamo che Furet «non riusciva delineare una frontiera concettuale tra la storia contemporanea e la storia tout court, e nemmeno tra la storia contemporanea e la scienza politica. Era convinto che quello che succede ogni giorno, fornisce attraverso gli occhi dello storico un’illuminazione supplementare aprendo nuovi interrogativi». Dunque, Furet pensa e scrive prendendo le mosse dalla realtà. È la realtà colta nelle sue numerose sfaccettature ad offrirgli la base iniziale per sviluppare in modo adeguato ciò che egli ha da dire: «io sono radicato in un presente, a partire dal quale parlo e scrivo. La differenza tra quello che è il mio presente e quello, per esempio, di uno storico comunista, sta nel fatto che, nel mio caso, mi spinge a disinvestire il passato anziché sovrapporlo alla situazioni attuali». Lo spunto può essere fornito da un fatto d’attualità politica o dal tema di un libro particolarmente significativo, oppure da una polemica nata negli ambienti intellettuali e politici a lui contemporanei, come ad esempio i rapporti fra Israele e la gauche francese o la cosiddetta “Rivoluzione culturale” cinese dove si confonde l’amore per l’uguaglianza con l’odio per la cultura.

Come esperto della Rivoluzione francese e teorico della deriva delle illusioni rivoluzionarie, pone in evidenza la differenza fra le intenzioni dei rivoluzionari e il loro effettivo ruolo storico. Sulla scia di Toqueville e Quinet, Furet non studia gli eventi rivoluzionari per celebrarli o denigrarli, ma per capirli. Contrario alla storiografia “costruttivista” di matrice marxista e leninista, e quindi alla volontà di imporre un determinato canone di interpretazione ritenuto valido a priori, egli concorda con la filosofia di Popper laddove sostiene la tesi del futuro “aperto” e della sostanziale inaffidabilità della futurologia, nella sua pretesa di determinare il corso dell’intero tempo a venire.

Inserendosi nel solco tematico tracciato dal suo amico Raymond Aron, Furet non si dimentica del mondo intellettuale di sinistra. Con sano realismo ne disegna il profilo, mettendo in evidenza omissioni interessate e palesi contraddizioni. Concordando con il giudizio di Orwell, secondo cui i difensori dell’utopia comunista sono antifascisti ma non antitotalitari, egli denuncia ad esempio la pressione dell’egemonia comunista su gran parte dell’antifascismo democratico.

E’ evidente che la libertà sbandierata nelle rivoluzioni finisce ben presto per rovesciarsi nel suo contrario. Anche all’intelligenza succede qualcosa di simile: gli ideali utopici esercitano sulla mente e sull’animo di molti un fascino quasi onnipotente, rendendoli inetti a cogliere la differenza fra realtà e illusione, sogno ed incubo, cambiamento e sovversione.

Nadezda Mandel’stam, vedova del grande poeta assassinato dagli stalinisti, testimonia che un’intera generazione di intellettuali russi fu rovinata dalla parola “rivoluzione”: tant’è vero che fu proprio questa ad impedire loro di fare esercizio d’intelligenza nei confronti della dittatura. In Europa non accade di meglio: al mondo intellettuale di sinistra piace evadere dal reale, piace palleggiarsi fra turibolo e indice, esaltazione e denigrazione, apologia e accusa. Prendendo a prestito un’espressione di Marc Bloch, possiamo vedere l’intellettuale “impegnato” vestire i panni del giudice degli Inferi, che confidando nella sua presunta onniscienza distribuisce elogi e condanne agli eroi defunti.

Furet dimostra un grande rispetto per i suoi lettori. Li intrattiene con discorsi semplici ma mai superficiali. L’autore sa che una riflessione seria non sfiora le cose né le manipola in modo tale da alterarne la realtà, ma penetra all’ interno di esse liberando fatti e idee dalla pochezza dei luoghi comuni e dalla miopia storica e politica causata dall’ inquinamento ideologico. Per fornire un’interpretazione storica seria ed affidabile occorre essere ben consci del proprio presente in modo tale da non cedere mai alla tentazione di guardare la storia con gli occhi di qualcun altro. Si legge il presente fruendo del passato e il passato fruendo del presente, considerando i fatti come oggetti di un confronto senza pregiudizi, dove la serenità di giudizio si accompagna all’analisi più circostanziata.

Fabrizio Gualco
gualco@ragionpolitica.it

Felix (POL)
05-08-02, 08:46
Il fascino del bolscevismo

di François Furet
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Nel bolscevismo c'è l'idea delle leggi della storia, ma c'è anche l'idea giacobina della preponderanza della volontà umana. L'idea bolscevica è doppia, è duale, e per questo, a mio avviso, ha sedotto il secolo: perché mescola due elementi contraddittori: la fede nella capacità dell'uomo di prendere in mano il suo destino e l'idea di legge storica. Idee contraddittorie, ma che coesistono perfettamente nell'angoscia dell'uomo moderno. Coesistono perfettamente, perché permettono di trovare all'azione dell'uomo una garanzia quasi trascendente nell'idea di scienza. La scienza ha preso qui le funzioni della religione. Dunque nel bolscevismo si trovano mescolate due formidabili idee che sono la libertà, l'autonomia dell'individuo, arbitro del suo destino, e l'idea di legge. Due idee contraddittorie, che la tradizione bolscevica e comunista ha mescolato e da cui ha tratto, a mio avviso, il suo ascendente quasi religioso. Sull'idea di legge condivido la critica di Popper: non ci sono leggi della storia. Ci sono uomini che avanzano nell'oscurità, le cui azioni hanno conseguenze impreviste e spesso non prevedibili, che fanno una storia di cui bisogna correggere continuamente il corso.
Oggi noi siamo in questa situazione: abbiamo abbandonato l'idea che il futuro sia conoscibile e ne è conseguita una grande depressione della politica e della democrazia. Sappiamo di inoltrarci in una storia che ignoriamo. Abbiamo visto il capitalismo succedere al comunismo, contraddicendo l'ordine canonico fissato dai dottrinari socialisti e sotto i nostri occhi si è verificato l'imprevedibile: il capitalismo, pur tra enormi difficoltà, è diventato l'avvenire dell'Unione Sovietica. Perciò credo che tra le grandi, profonde angoscie del mondo in cui viviamo, in questo scorcio di secolo, ci sia anche la sparizione dell'idea di legge storica.

(intervista a F.F., 1997)