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hussita
09-08-02, 17:37
Dopo la notizia di avvio della fase tecnico scientifica alla scoperta dei millenari segreti della Grotta della Sibilla Appenninica, appare utile porre i Lettori in condizioni di poter giudicare le iniziative che ruotano intorno a un argomento divenuto recentemente oggetto di contrasti ideologici, politici e amministrativi.
Per questo debbono, da un lato, avere il quadro degli antefatti storici e culturali e, dall’altro, conoscere i caratteri, il significato e gli scopi di tale specifica ricerca geomorfologica e archeologica.
Perché non l’entusiasmo acritico ma il controllo sulla congruità delle iniziative può evitare l’esproprio culturale, da qualunque parte venga, di un patrimonio comune, che ha trovato i naturali custodi in coloro che hanno creduto in queste terre resistendo alle sirene della città.
Ma, seppure sintetico, non potrò essere breve.
Il massiccio dei Sibillini ha catalizzato, nel corso di millenni, una peculiare civiltà agricolo pastorale coinvolgente la Sabina interna e l’entroterra dei Piceni.
L’ambiente e il tessuto socio culturale ereditati dal Parco dei Sibillini sono il risultato della interrelazione plurimillenaria tra l’uomo e il territorio, anche per quei segni che la visione naturalistica in senso stretto potrebbe giudicare negativi (basti pensare al disboscamento).
L’omogeneità di questo amalgama lungo tutta l’estensione del Parco e nelle fasce adiacenti si appalesa anche alla disamina più superficiale: itinerari, manufatti, storia, tradizioni, leggende, dialetto, ci raccontano di un rapporto che viene da molto lontano, sopravvissuto alle stesse invasioni barbariche.
Una siffatta civiltà, in cui si ravvisano elementi vivi di un antico incontro con altre culture (pelasgico/preelleniche, illirica, greca, etrusca, fenicia, celtica, danubiana), si collocò in un rapporto privilegiato, anche se tutto da scoprire, con la nascita della città di Roma (i cui arcaici profili culturale e linguistico, economico e sociale, materiale e mitologico, tanto debbono alla transumanza) e quindi con le radici della moderna civiltà occidentale.

La Sibilla Appenninica, da cui è mutuato il nome dei territori e del Parco, ne rappresentò forse la casta sacerdotale depositaria. Non sfugge che l’esame delle dinamiche storiche, oltre a un interesse accademico e a un risvolto pubblicitario, permette di riscoprire le motivazioni di un prolungato equilibrio uomo/ambiente cui l’Ente Parco dovrebbe ispirarsi per ovviare ai prodromi di una crisi preoccupante se non irreversibile.
In questa ottica sono opportune tutte le iniziative che chiamino a raccolta le menti più preparate, capaci e volenterose, permettendo e stimolando la convergenza di esperienze, di ipotesi e di ricerche.
Di modo che tale collaborazione sia di per se stessa coinvolgente per i Cittadini, oltre che condurre a conclusioni, storiche, letterarie, archeologiche o di altra natura, di cui la portata e i risvolti sono difficilmente quantificabili ma sicuramente notevoli.
Non è qui possibile fare la disamina delle fonti letterarie e degli studi relativi alla Sibilla Appenninica; mi permetto tuttavia di fornire una serie di richiami da cui trarre spunti di riflessione.
Tra i miti delle Sibille quello appenninico fu l’unico veramente attivo nel medioevo e capace di sviluppare un vivace movimento ideologico e letterario.
Lo troviamo protagonista in opere della letteratura italiana ed europea, da “Il Guerrin Meschino” di Andrea da Barberino, a “Il Regno della Regina Sibilla” di Antoine de la Sale, “Il Meschino e il Guerrino” di Tullia D’Aragona, “Il Tannhauser” musicato da Wagner. Lo ritroviamo citato ne “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto, nel “Morgante Maggiore” del Pulci, nel “De Nobilitate et Rusticitate” dell’Hemmerlin, nel “Theatrum orbis terrarum” dell’Ortel. Compare inquietante nei processi per eresia del Nord Italia. Se ne interessano in vari modi Enea Silvio Piccolomini (futuro Papa Pio II), Pietro Aretino, Caracciolo, A.Reumont, Peranzoni, Magini, Lalli, Trissino, Leandro degli Alberti, Panfilo, Von Merle, Ranzano, e (udite, udite) il marchese De Sade !
Non meno numerosi sono stati i filologi che verso la fine dell’800 e nella prima metà del 900 hanno cercato di comprenderne la nascita e gli sviluppi, elaborando le teorie più disparate, rimaste tutte non dimostrate per la mancanza di prove materiali.
Tanto che ha finito per prevalere la teoria della leggenda di origine medioevale (sposata anche dal Paolucci) e quindi quello scetticismo base dell’abbandono di ogni ulteriore tentativo di studio della grotta. In rapida carrellata immaginiamo la Sibilla depositaria delle conoscenze e dei riti nella società matriarcale, pacifista e “comunista” di una arcaica età dell’oro, come ce la suggerisce Joyce Lussu; la ninfa Carmenta, luna sopraggiunta a insegnare il canto e la scrittura e a proteggere i parti, fino a ispirare l’agiografia della Santa di Cascia; la Sacerdotessa della Dea Cupra precorritrice della Cybele cara al Desonay; la Profetessa annunciatrice dell’avvento del Salvatore, come ce la presenta la letteratura cristiana; la Venere lussuriosa, dalla miscela di elementi franco teutonici innestati sui miti classici; la Fata del regno incantato, della tradizione fiabesca celtico bretone; le Streghe della trasmissione orale dei Residenti; le Compagne di Briganti che, fino al secolo scorso, scendevano a valle con fare circospetto e misterioso calzando pelli di capra ...! Ma cosa significa questo polimorfismo ?
Cangianti illusioni di un mito elastico perché fiabesco, oppure sfaccettature storiche di un culto archetipico, tanto radicato e interconnesso con le caratteristiche ambientali da riuscire a sopravvivere migliaia di anni grazie a una congenita stupefacente adattabilità ?

Tra l'autunno del 1952 e la primavera del 1953, quattro Operai sotto la direzione di un sedicente Tecnico a tutt'oggi non identificato, dopo aver saggiato un pertugio aggettante su una vasta e insondabile cavità, rinvenivano e asportavano una epigrafe, collocata nei recessi della grotta, in vari giorni di duro ma razionale scalpellamento della viva roccia !
L'unico Testimone rimasto, scovato con la fortuna che talora accompagna il fervore delle ricerche, ci racconta di una scrittura che il Direttore dei lavori definì "greca".
Definizione che, al di là della sommarietà dettata dal momento e dagli interlocutori, porta a immaginare verosimilmente caratteri "piceno arcaici" ovvero "medio adriatici"!
E pensare che, intorno a quei periodi, la ambiziosa spedizione condotta dal Desonay, insieme al Falzetti e all'Annibaldi, risulta dai resoconti non aver portato alla luce quasi nulla (salvo una moneta francese del seicento forse collocata ad arte da qualche furbo Montemonachese !).
Come mai ? Quali vie ha preso il prezioso documento ? Per quali motivi l'interesse internazionale di centinaia di artisti, umanisti, studiosi, ricercatori, perdurato almeno cinque secoli, è venuto meno quando la cultura è divenuta appannaggio di tutti ?
Perché una grotta che ha resistito a più di tremila anni di storia, alla controriforma, ai terremoti, scompare quando la tecnologia è diventata in grado di sollevare i veli del mistero ?
A sentire il racconto, chi guidò gli Operai aveva le idee molto chiare.
Sapeva cosa e dove cercare. Sapeva pure che la ricerca doveva cessare con l'asportazione della epigrafe. Sapeva infine che non bisognava lasciare tracce.
Indubbiamente sull'episodio sono doverose delle indagini. Ma quand'anche non si riuscisse a identificare il Tecnico, né a recuperare l'epigrafe ovvero il suo importantissimo contenuto, la testimonianza inedita dell'Operaio è suffragata da riscontri tali da spazzare ogni dubbio sulla veridicità dell'episodio.
A questo punto, posta l'esistenza di una epigrafe in caratteri verosimilmente piceno arcaici, vengono meno le perplessità sulle radici storiche o preistoriche del mito e già si motiverebbero sufficientemente nuove ricerche archeo-speleologiche.
Le sorprese non finiscono qui. Testimonianze della tradizione orale, unite alla identificazione di suggestivi portali di roccia, ci indicano la presenza di un ulteriore sbocco della grotta sul versante del Tenna.
Le ipotesi affascinanti, già dell'Amadio, rielaborate dal Rocchi, circa l'esistenza di un labirinto divenuto scrigno di tesori letterari e archeologici dopo il crollo degli imbocchi provocato in periodo di controriforma, prendono corpo ... E cosa dire dei rilievi condotti nel'68 da uno Studio Tecnico Geologico di Pesaro e nell'84 dal Gruppo Speleologico di Ancona, che ammettono l'esistenza di un cunicolo orientato in basso verso Nord-Est, di una variazione termica e di una percettibile corrente d'aria, laddove in passato si individuava la grotta ?
E delle sciagurate opere di captazione del Consorzio Idrico del Piceno che permettono di asportare 900 o 1000 litri al secondo (praticamente un intero fiume) senza intaccare sostanzialmente la portata dell’Aso poiché attingono direttamente in un enorme lago sotterraneo ?

Ho accennato sopra al fenomeno della Transumanza.
L’importanza che ha rivestito nella nascita della città di Roma è indiscutibile.
Tuttavia gli studiosi hanno con perseveranza trascurato l’apporto socio culturale di questo nomadismo ciclico alla nascita delle “civitates” nelle campagne laziali, nonostante che località e toponomastica, storia e mitologia, culti e tradizioni, popoli e gentes, reperti e codici di diritto, raccontino una “saga pastorale”. Hanno sempre preferito elaborare contorte e fragili teorie per definire determinante e primigenio l’apporto greco ed etrusco; in realtà tanto marginale e posteriore da non riuscire neppure a imporre lingue e alfabeto, ben più diffusi ed evoluti (che poi l’alfabeto e la lingua medio-italica latina fosse di derivazione pre-ellenica, ma per rotte adriatiche, è un altro discorso).
Oppure si sono limitati a prendere atto della strana presenza di Indigeni nati dal nulla, già illuminati, caparbi e con spiccato senso del sociale, scambiando gli “Aborigeni” in quanto “Provenienti dai monti” con improbabili “Esistenti fin dall’origine” !!
Non ho fatto queste illazioni per entrare nel terreno paludoso della linguistica e della filologia. Spero, è vero, che l’abulia tutta marchigiana nella promozione della propria immagine venga superata (le recenti iniziative fanno ben sperare !) e si getti nuova luce sul ruolo svolto nel contesto storico dalla civiltà Sabino Picena dei Sibillini; ma lo scopo, al momento, è quello di porre all’attenzione i risultati di una analisi etimologica, cui ho personalmente dato qualche contributo.
E’ noto che Roma ebbe due Sibille: la SIBILLA ALBUNEA (o ALBUENA) e CARMENTA. Altre erano sparse nel mondo allora conosciuto.
Per contro, nessuno degli antichi Autori romani di età repubblicana parla della Sibilla Appenninica, almeno nelle trascrizioni o riferimenti pervenutici. Argomento, questo, portato dagli affossatori della sua storicità. Ebbene, entrambi i nomi (di SIBILLA ALBUNEA e CARMENTA) starebbero a significare “PROFETESSA DELLA MONTAGNA (o VETTA)”: le radici indoeuropee sottese (ALP, KAR, MEN) sono inequivocabili.
Studiando la mitologia collegata alle due Sibille romane escono dati sorprendentemente aderenti alle ipotesi di una traslazione culturale del patrimonio sibillino proprio dalle nostre montagne, ancor prima della comparsa della Sibilla Cumana. E coloro, fra le stirpi di Pastori, che nelle pianure laziali finirono col porre pianta stabile, col chiamarsi Latini e col fare la Storia, di quelle Sibille si appropriarono e dai loro responsi si fecero guidare nel millennio più glorioso e sconvolgente della civiltà umana; e chi ci assicura che la disgregazione dell’impero rovinosamente iniziata dopo la distruzione dei libri sibillini (si ricordi Stilicone e Teodosio) fu solo una eccezionale coincidenza ?!!
Sta di fatto che quei Latini, un po’ per diritto, un po’ per prepotenza e un po’ per altrui condiscendenza plagiarono il mito e ne fecero la propria anima e la propria coscienza; quell’anima e quella coscienza che furono il collante e il soffio vitale di un organismo sociale tra i più complessi e cosmopoliti della storia. E fu giusto così. La Sibilla aveva tutto previsto. Perché gli indizi sibillini dovevano essere una sfida e una molla per la conoscenza. Per sempre. Oggi compreso.

Nel 1897 Pio Rajna e Gaston Paris tentavano la prima spedizione scientifica dei tempi moderni sul Monte della Sibilla. Seguiva un secolo di iniziative, tra le quali si segnalavano quelle del Desonay, del Consalvatico, del Lippi Boncampi; per il resto incongrue e dilettantistiche nel migliore dei casi, più spesso devastanti. Infine l’oblio.
Lo spettacolo pietoso che si presenta giungendo oggi laddove in passato si individuava la grotta induce a pensare che sia stata tutta una fantasia.
La rabbia monta allorquando si ricorda le precise descrizioni che ne fece Antoine De La Sale e le testimonianze all’unisono di chi ha avuto la fortuna di visitare quei luoghi anche solo quaranta anni fa.
La desolazione si fa totale quando si ripensa alla scellerata, inutile e pericolosa strada che lacera le pendici e alle sciagurate opere di captazione del Consorzio Idrico che stanno vuotando il ventre poderoso della Grande Madre. Tutto nella più assoluta noncuranza degli Organi preposti!
I tempi, dicevamo, sono maturi per ricominciare le ricerche. Ma guai a tentativi dilettantistici e scoordinati, il cui inevitabile fallimento è stato la causa del disinteresse degli ultimi decenni.
Tali ricerche debbono essere condotte con grande serietà e professionalità; essere graduali, serrate, multidisciplinari; essere pianificate con cura e affidate a una équipe motivata, ben coordinata, paziente.
Ci si deve avvalere dell'archeologo e del letterato, dello speleologo e del geologo, dello storico e dell'epigrafista, del glottologo e dell'antropologo.
Va promossa una raccolta di tutti i documenti e testi inerenti; passato in rassegna il materiale fotografico; riletti gli scavi del Foro Boario; estesa la ricerca presso gli Archivi Vaticani, la Biblioteca Nazionale di Parigi, la Regia Accademia Belga, gli archivi Tedeschi, le Sovrintendenze, gli Istituti di Geofisica; creato un sito Internet.
Vanno ascoltati gli anziani, raccogliendo la tradizione orale e i ricordi personali; esaminati i toponimi nella versione originale; fatto un appello a tutti coloro che sanno o conservano qualcosa di interessante.
Quanta negligenza c'è stata nel trascurare la spontaneità delle tradizioni e delle testimonianze popolari, e quanti elementi sono andati così perduti, ce lo fa sospettare l'incredibile mole di indizi che tuttora emergono se solo ci si prende la briga di domandare in giro, di intervistare sessantenni e settantenni ancora operosi o arzilli ottantenni.
Rinviare ancora significherebbe fare la fine di Re Tarquinio, il cui temporeggiare lo condusse a perdere sei dei libri della sapienza sibillina, pagando gli ultimi tre al prezzo dei nove !
Superfluo sottolineare la necessità di proteggere i luoghi della ricerca archeologica da tombaroli, vandali e dilettanti, che tanti danni hanno già procurato.
In altre parole, occorre un impegno economico rilevante e una particolare serietà di intenti, scevra da commistioni politiche, onde operare le scelte migliori.
In considerazione della rilevanza dell’argomento, che ha già dato adito a contrastanti opinioni sulla stampa, bisogna dunque ribadire che le operazioni di scavo, in zona di interesse archeologico oltre che ambientale, non possono che essere il momento finale di questo lungo percorso di ricerca.
Esse operazioni vanno pianificate con grande cura avendo ben chiari i percorsi e gli obiettivi quanto i mezzi tecnologici e i finanziamenti.
In caso contrario, come detta la moderna archeologia, è più opportuno lasciare le zone protette sotto le coltri di terreno, in attesa di periodi, finanziamenti e tecnologie adatte.
Basti pensare all’investimento, in risorse umane e tempo, richiesto dalla metodologia lenta e meticolosa della archeologia moderna (rilevamenti, planimetrie, fotografie, stratificazione, setacciamento, numerazione, registrazione, rappresentazione grafica, catalogazione, interpretazione, schedatura, datazione,...).
Se invece non si volesse attribuire agli scavi sulla Sibilla la dignità di una esplorazione archeologica, andrebbe da sé la inutilità e impraticabilità di un rimaneggiamento territoriale impostato per gioco su una montagna già terribilmente ferita !
Neppure da trascurare i riflessi negativi, sullo stesso tessuto mitologico e sugli attesi sviluppi pubblicitari, che deriverebbero da ricerche infruttuose perché inadeguate.
E se è vero, come ci piace credere, che i segreti della Sibilla erano il patrimonio di conoscenze di tutto il suo popolo, ad esso debbono tornare; bandendo l'espropriazione culturale di privati o di elites.

Silvia
09-08-02, 20:09
La Grotta della Sibilla.

La Grotta della Sibilla era probabilmente nota sin dall'età preistorica e testimonianze letterarie risalgono allo storico latino Svetonio, vissuto ai tempi degli imperatori Flavi.
Secondo le tradizioni, era abitata da una misteriosa profetessa, la Sibilla Appenninica, condannata da Dio nelle profondità della montagna, in cui avrebbe dovuto rimanere sino al Giudizio Universale, per essersi a Lui ribellata dopo aver appreso che non sarebbe stata lei la madre del Cristo, ma un'umile Vergine ebrea... Narra la leggenda che la Sibilla attirasse a sè cavalieri erranti, i quali, dopo aver superato durissime prove, potevano accedere al suo regno e restare per un solo anno, per essere poi condannati alla dannazione eterna.
La Sibilla Appenninica rappresentava per il popolo la divinità della natura e della fertilità, ma soprattutto era una sorta di oracolo che poteva accedere al futuro degli eventi e a cui ci si rivolgeva per conoscere quello che umanamente era impossibile conoscere.
Il suo culto si celebrava in cima al monte a lei dedicato, il Monte Sibilla, in una grotta posta a pochi metri dalla sommità. Era un culto pagano, orgiastico, che la chiesa cattolica riuscì nel tempo a trasformare in un culto degenerato e di perdizione. La Sibilla divenne così l'anticristo, il diavolo, la rappresentazione della materialità più superficiale, in contrapposizione all'alta spiritualità cristiana. La chiesa arrivò al punto di minare la grotta per chiuderne per sempre l'ingresso.

Secondo altre tradizioni locali, la Sibilla era invece la Signora Fata, una Fata benefica, le cui ancelle si recavano nei paesi vicini per insegnare alle giovani fanciulle le arti della filatura e della tessitura ma, prima del sorgere del sole, avrebbero dovuto fare ritorno sulla montagna, pena l’esclusione dal regno incantato. E una volta per poco ciò non accadde: un giorno le ancelle si trattennero più a lungo del previsto nei vari paesi e, quando si accorsero che l’alba stava per fare capolino, iniziarono a correre sempre più in fretta su per il monte, talmente in fretta da distruggere e sgretolare il terreno sotto i loro piedi. Alla fine riuscirono a ritornare in tempo, ma la leggenda narra che, a memoria di quella folle corsa, rimase una lunga striscia di ghiaia, che è possibile ammirare ancora oggi e che prende il nome di Sentiero delle Fate.



Un piccolo omaggio: visita virtuale alla Grotta della Sibilla... (http://www.sibilla.org/parco/virtual.htm) :)

hussita
09-08-02, 20:20
la sibilla, quella vera, sia essa una o plurima ringrazia a nome di tutte le donne fate-streghe

Tomás de Torquemada
10-08-02, 00:17
Ringrazio la scettica e mistica amica hussita e la sempre adorabile Silvia per questi interessantissimi contributi... E, già che ci sono, aggiungo qualcosina anch'io... ;)


C'era una volta una Sibilla…anzi, due
di P. Serafino Rafaiani

Si fa un gran parlare in questi ultimi tempi delle leggende dei Sibillini e capita frequentemente di imbattersi in proposte turistiche basate sull'alone di mistero che da secoli circonda le nostre montagne, applicando le tecniche di marketing alle tradizioni della nostra terra.
Il sottoscritto che è nato a Sarnano , uno dei più vivaci centri del comprensorio dei Sibillini, certe storie le aveva sentite da sempre ma questo ritorno alla Sibilla, favorito certamente dal clima della “New age” di questi anni, mi ha spinto a fare una ricerca personale sull'argomento.
Dopo aver riletto con frutto il libro di p. Giuseppe Santarelli “Le leggende dei Sibillini” e altre pubblicazioni sul tema mi sono ricordato di una antologia poetica, in vernacolo, del mio concittadino Enrico Ricciardi.
E' uno di quei pochi libri che pur essendo frate francescano ho portato con me, come “dote” personale, in ogni convento dove ho dimorato.
Il libro che si intitola “Fior d'appennino e altro” è stato dato alle stampe nel 1985 grazie all' impegno dei professori Fabrizio Fabrizi e Teresa Marcozzi.
L' attività poetica del Ricciardi può essere collocata tra il 1930 e il 1952 e sono di questo periodo due poemetti che si ispirano alla Sibilla appenninica.
Il primo è intitolato “Il Guerrin Meschino” mentre l' altro “La Sibilla Picena”
Il primo poemetto è una sorta di parodia del noto racconto di Andrea da Barberino.
Scrive il Ricciardi:

Dunghe la Sivilla era 'na Fata
De quelle che sa tutto e che 'nduvina;
statìa su 'na mondagna qui vicina,
drendo 'na grotta vène 'ccommedata.

In questa poesia, la Sibilla, chiamata anche “Arcina” è una ammaliatrice che intende sedurre il Meschino con le sue allettanti promesse. Naturalmente dietro la sua affabilità e la sua sensualità si nasconde la sua natura “demoniaca”.
Ecco descritta la sua arte seduttiva:

Guarda qui drendo quandu se sta vène,
qui non ce manca còsa, c'è tant'oro,
tande ricchezze, oscia 'n veru tesoro;
qui drendo ce se gode, non c'è pene.
Véni con me e famme compagnia
Qua drendo suli ne la stanzia mia.

A 'bbracciallu dicisa se vuttò,
perch'era virba quella fata Arcina,
je se 'ccosciava come 'na gallina,
ma issu n' zé 'ccostò a lu vacchettò
do' c'è lo vischjo pe fa la caccetta
come fa a li pettarusci la cioetta.

Qui , il Ricciardi, nel delineare il personaggio della Sibilla non si discosta affatto dal racconto di Andrea da Barberino. In pratica viene tradotta in dialetto la storia ben conosciuta al popolo, del Guerrin Meschino

Il poeta, che in quest'opera sembrerebbe aver detto tutto a proposito della leggenda sibillina, compone invece, subito dopo, l'altro poemetto.
Ne “La Sibilla Picena” il personaggio acquista connotati molto diversi, perfino antitetici.
Ricciardi, infatti, esordisce dicendo:

La Sivilla Picena edè 'na Fata,
tutt' ar cuntradio dell'ardra Fata Arcina,
la Sivilla ch'è propiu la rigina
è bella, è bona eppò tantu 'ducata.

All' erotismo seducente e maliardo della Sibilla Alcina fa riscontro un personaggio con accenti perfino materni

Questa Sivilla edèra tandu vona,
'na donna comme quella edè tand'oro,
facia der bene a tutti, era 'tesoro
ar cuntradio d' Arcina 'lla birbona.
La Sivilla facia le scampagnate
Per 'mparà a le donne le 'mmasciate.

Perciò 'nzegnava a tesse' a lu telà,
a cusci, a 'cucchjà a fa li merletti,
a sapé fa lo sugo e li maghetti,
a fa le maje o pure a riccamà.
Inzomma, a tutte quande 'lle fandelle
Je 'mparò n' zé sa quande 'mmasciatelle.

Al lettore non sfuggirà la similitudine tra il ruolo attribuito alla Sibilla picena e quanto veniva fatto nelle comunità religiose femminili che rappresentavano una sorta di scuola di economia domestica per le giovani delle nostre terre.

Niente di particolarmente austero , c'è spazio anche per il canto e la musica.
La Sibilla rimane un personaggio di qualità fuori del comune ma ciò non la rende altera, anzi ella si mostra ben disposta verso tutti.

Se divirtìa a 'mparà a sonà e cantà,
'nzengava a lège , a scrie' a fa li cundi
pacienza ci-avìa co' li più tundi
su la testa per fajelo rentrà:
a spassà se mittìa li frichinitti
pe faje fa li vòni e stasse zitti.


La Sibilla picena qui presentata, non appare né eretica né erotica…

La Sivilla era vona e casta,
cusci resurda da scritture antiche;
le donne de 'gni rangu je fu amiche
e quistu è 'fattu che non se cuntrasta…


I dialetti, come è noto, sono lo specchio dei costumi, delle usanze , del carattere , della vita delle popolazioni.
Sono l' espressione più sincera , per quanto più umile, del pensiero.
La poesia in vernacolo è quella parte della letteratura chè è più vicina alla tradizione orale popolare e che maggiormente la manifesta.
Per questo i versi del Ricciardi possono farci risalire indietro nel tempo, per comprendere ciò che le nostre popolazioni conoscevano e raccontavano sulla Sibilla.
Si delineano allora due tradizioni sibilline : 1) la sibilla “Alcina”, maliarda, erotica, demoniaca e 2) la sibilla “Buona”, saggia, colta , nobile ma anche gentile e materna.

La prima tradizione, che potremmo chiamare della “Sibilla nera” è più legata al mondo letterario. Vi si riscontrano abbastanza chiaramente influssi d'oltralpe e viene nel tempo avvalorata da personaggi e correnti esoterico magiche che nei corso dei secoli giungono sui Sibillini.
La seconda tradizione o, se si vuole, della “Sibilla bianca” appare più legata alla nostra cultura popolare e risente attraverso di essa l'influsso del sentire cristiano, non certamente colto , piuttosto semplice e naturale.

Quelle che seguono non vogliono essere delle conclusioni quanto piuttosto delle considerazioni che potrebbero essere ulteriormente sviluppate.

La prima considerazione è questa : entrambe le icone sibilline si completano in una visione del femminile compresa tra la donna “amante” e dispensatrice dell'eros e la donna “casta mater” con connotazioni quasi sacrali . Nella formulazione di queste figure femminili incide profondamente una cultura patriarcale, un pensiero al maschile.
C'è poco spazio per una interpretazione matriarcale del mito sibillino

La seconda cosa che mi sembra di poter dire è che nessuna delle due tradizioni può assurgere ad interpretazione autentica del mito della Sibilla.
In altre parole: la Sibilla “vera” , quella più autentica , quella che fiumi di ricerche dovrebbero evidenziare, la sibilla “originaria” , ebbene: questa Sibilla non esiste.

Al di là della sua esistenza fisica e storica , ciò che appare chiaro è che la Sibilla è per sua natura soggetta a molteplici interpretazioni. Non si può capire la Sibilla al di fuori delle categorie dell'ambiguo , del pluriforme , del molteplice.
Ma è proprio questa polivalenza che ha fatto la fortuna della Sibilla appenninica.
Il mito della Sibilla ha svolto e può ancora svolgere un ruolo importante nel problema che in fondo era alla base del viaggio del Meschino: la ricerca di sé, della propria identità. Si tratta forse di un mito “funzionale” e certamente utile per un confronto-crescita della persona.

Incontrare la Sibilla è dunque salutare per grandi e piccini? Il confronto con il mito sibillino può avere un risvolto psicoterapeutico?
Il mito ha sempre aiutato i popoli e i singoli nella conoscenza di sé , questo e vero.
E' anche vero, e la stessa leggenda ci istruisce che l' incontro con la Sibilla può essere pericoloso, perfino mortale.
Quando ci si attende da lei le risposte che ognuno deve trovare dentro di sé, quando la si crede capace di dare pace, salvezza, benessere materiale, quando si dimentica che in fondo non ha vita propria ma è ciascuno dei suoi interlocutori che la fa vivere,
quando non si ricorda che la vita è fuori della grotta e al di là di ogni più sublime costruzione del pensiero.

Dal sito http://www.sibilla.org/

hussita
10-08-02, 00:41
Un poeta di queste terre, vissuto della prima metà del ‘900, Enrico Ricciardi, fedele alla tradizione, rappresenta la Sibilla come una maga malefica e seduttiva che invita gli amanti nel suo antro:

«Guarda qui drendo quandu se sta vène, / qui non ce manca còsa, c'è tant'oro, / tande ricchezze, oscia 'n veru tesoro; / qui drendo ce se gode, non c'è pene. / Véni con me e famme compagnia / Qua drendo suli ne la stanzia mia.»

In un altro poema descrive invece la fata buona:

«Questa Sivilla edèra tandu vona, / 'na donna comme quella edè tand'oro, / facia der bene a tutti, era 'tesoro / ar cuntradio d' Arcina 'lla birbona. / La Sivilla facia le scampagnate / Per 'mparà a le donne le 'mmasciate.

«Perciò 'nzegnava a tesse' a lu telà, / a cusci, a 'cucchjà a fa li merletti, / a sapé fa lo sugo e li maghetti, / a fa le maje o pure a riccamà. / Inzomma, a tutte quande 'lle fandelle / Je 'mparò n' zé sa quande 'mmasciatelle.»

Le due versioni dell’indole femminile sono apparentemente inconciliabili e antitetiche. Sui miti l’intelligenza non può che seguire la via dei simboli per cogliere gli elementi che li accomunano: è la Luna che regola i cicli mestruali di Sibilla/Alcina, dell’ancestrale Dea Madre.

Il pittore Osvaldo Licini, che in questi cieli ha visto l’invisibile, umanizza la Luna e la chiama, con un “sibillino” gioco linguistico e figurativo, Amalassunta.

La regina Amalasunta per sfuggire agli intrighi della corte di Ravenna si trasferì a Fermo nel 526; vi dimorò e regnò fino al suo assassinio in un castello sul lago di Bolsena nel 535. Sulle contrade della Sibilla governarono poi imperatori, duchi, podestà, conti, papi e re.

Il pittore-poeta la fa regnare ancora sui nostri cieli in memoria di un mito senza tempo.

http://www.carducci-galilei.ap.it/sibillini/images/Sibill3.jpg http://www.clubart.it/binary/clubart/opere/4356.80878016603-1018282689_18833.jpg http://www.clubart.it/binary/clubart/opere/6698.99628016603-1018282530_18807.jpg

hussita
10-08-02, 00:45
rafiani la vede "perbene"
in realtà la vera essenza è
errante erotica eretica

segnalo la seguente pubblicazione:

"Errante Erotica Eretica" - L'icona Sibillina fra Cecco d'ascoli e Osvaldo Licini

Contenuto: Fra due personaggi dello spessore di Cecco d'Ascoli e Osvaldo Licini "erranti erotici eretici" l'erratica Sibilla, nella successione iconografica delle poliedriche sfaccettature del suo archetipo, ne disvela l'ancestrale enigma. Da esperta tessitrice, componendo e scomponendo l'infinita tela della Storia, riannoda in sempre nuovi arabeschi gl'intricati fili di un'oscura trama ...e il mistero continua.

Silvia
22-08-02, 13:37
Leggenda e realtà sulla grotta della Sibilla.

di V. U. B. e F. B.


Impossibile stabilire quale Sibilla abbia originato il nome di Sibillini a quei monti appenninici che dividono l’Umbria dalle Marche, dal momento che di Sibille se ne contano almeno una ventina nella mitologia greca e romana. Tra le altre, sono annoverate la Persica, la Libica, la Delfica, la Cimmeria, la Entrea, la Samia, la Frigia, la Ellespontica, la Tessalica, la Galdea e, per finire, la Italica o Sibilla Cumana come altri storici dell'antichità la chiamarono. La versione più accreditata è che i Monti Sibillini abbiano preso il nome dalla Sibilla Cumana e che, proprio sulla spelonca del Monte della Regina, essa avesse fissato la sua dimora. Precisamente a questa Sibilla si rivolgevano i romani dell'epoca monarchica e del primo periodo repubblicano, per avere responsi e vaticinii, peraltro risultanti quasi sempre tristi e gravi, preannuncianti sconfitte in guerra, calamità e carestie. Ecco pertanto che fin dalla origine la Sibilla si presentava in forma tutt'altro che raccomandabile, e questa fama demoniaca l'accompagnò per diversi secoli.
Sta di fatto che con l'avvento della Cristianità la Sibilla finì per essere quasi del tutto ignorata, fin quando un ardito scrittore, Andrea da Barberino, nato nel 1370 appunto a Barberino di Valdelsa, non scrisse il celebre romanzo "Guerrin Meschino", riproponendo in termini infernali la leggenda della Sibilla e della famosa grotta posta sulla cima del Monte della Regina. Naturalmente la storia era inventata, tuttavia l'autore citava con sufficiente precisione i fiumi, i laghi e le città, inducendo a credere che avesse perlomeno visitato quei luoghi quando l'antro della caverna era accessibile e ne avesse tratto la necessaria ispirazione per il romanzo stesso.
Guerrin, il personaggio chiave del romanzo di Andrea da Barberino, era nato a Durazzo durante il regno di Carlo Magno. I suoi genitori, Millon e Fenisia, erano signori della città dalmata, ma durante una rivolta di albanesi ne furono scacciati, mentre il piccolo Guerrin venne catturato, fatto schiavo e trascinato a Costantinopoli. Per la sua solitudine e povertà venne soprannominato Meschino, ma ecco che anche per lui vennero giorni migliori quando un ricco mercante lo prese a benvolere facendolo studiare e addestrare all'uso delle armi. Fattosi adulto, Guerrin Meschino s'innamorò della principessa Elissena figlia dell'imperatore d'Oriente ma, poiché le sue origini sconosciute gli impedivano di sposarla, decise di porsi alla ricerca dei genitori. Dopo lungo girovagare per le vie del mondo raggiunse Tunisi dove un indovino gli disse che per avere notizie dei genitori avrebbe dovuto rivolgersi all'incantatrice Alcina (la Sibilla) dimorante sulle montagne di Norcia.
Non è il caso di ricordare tutte quante le vicende che portarono Guerrin Meschino nel "regno della Sibilla". Conviene invece rilevare che, una volta varcato l'antro della caverna, Guerrin Meschino venne a trovarsi innanzi ad una grande porta di metallo sulla quale bussò ripetutamente, finché non venne aperta da tre damigelle meravigliose che poi lo condussero al cospetto della Sibilla nel suo fantastico palazzo sotterraneo. La stupenda regina promise a Guerrin di rivelargli il luogo ove trovare i genitori, a patto però che egli si fosse legato anima e corpo al demonio, ed egli si limitò a chiedere un po' di tempo per pensarci sopra.
Durante la permanenza nel regno sotterraneo, durata oltre un anno, Guerrin potè osservare come tutte le magnifiche creature da lui incontrate durante il lungo soggiorno si trasformavano, il sabato sera, in serpi, in vermi e insetti orridi, per riapparire il lunedì più belli di prima. Così, dopo lunga meditazione, Guerrin stimò opportuno darsela a gambe per raggiungere Norcia e da qui Roma ove ottenne il perdono del Papa. Dopo altre avventure, essendo entrato nella grazia di Dio, ritrovò i genitori , divenne signore di Durazzo, vinse i turchi scacciandoli dalla Grecia e, per finire, sposò una bella principessa persiana con la quale passò il resto della vita.
Il libro di Andrea da Barberino ebbe un successo strepitoso, fu tradotto in varie lingue, ma soprattutto risvegliò l'interesse per la Sibilla e il suo regno misterioso all'interno del Monte della Regina.

Qualche anno dopo l'apparizione del "Guerrin Meschino", nel 1420, uno scudiero provenzale mezzo cavaliere e mezzo avventuriero, di nome Antoine de La Sale, volle tentare un'ascensione nella mitica grotta della Sibilla passando per il versante marchigiano dell'Appennino, vale a dire per la strada che conduce a Montemonaco, paese questo non lungi dall'ingresso al regno misterioso. Costui fece una dettagliata relazione del suo viaggio, richiestagli dalla duchessa Agnese di Borbone incuriosita dalla raffigurazione del Lago di Pilato e del Monte della Sibilla disegnati in un arazzo in suo possesso. Di tale relazione esistono pure due copie manoscritte: una presso la Biblioteca Reale di Bruxelles, l'altra al Museo Condé di Chantilley. Soltanto un secolo più tardi, precisamente nel 1521, l'opera del de La Sale venne stampata a Parigi, e da allora numerose altre edizioni fecero seguito più che altro in chiave critica, compresa una in lingua italiana curata dal valente studioso norcino Domenico Falzetti, uscita nel 1963.
Il de La Sale non esplorò la caverna, limitandosi a descrivere l'ingresso come "una cameretta quadrata", da dove partiva un cunicolo che si inabissava sulle viscere della montagna. Raccolse invece la testimonianza del prete di Montemonaco, don Antonio Fumato, il quale gli assicurò di conoscere in buona parte l'interno della grotta per avervi accompagnato due viandanti tedeschi. Dal racconto del prete fatto al de La Sale, si apprende che il cunicolo dopo un buon tratto si allargava e discendeva per oltre tre miglia, fino a raggiungere un'ampia fenditura sulla montagna dalla quale penetrava un vento fortissimo. Dopo di che si continuava a discendere sino a un ponte eretto sopra un profondo abisso, oltrepassato il quale vi era una lunga strada pianeggiante, mentre la caverna si allargava sempre più. Al termine della strada vi erano, ai lati, due dragoni "così ben fatti da sembrare viventi", con gli occhi così risplendenti da illuminare gran parte della strada stessa. Si proseguiva poi per un viottolo assai più stretto che conduceva ad una piccola piazza, in un lato della quale si trovavano due porte di metallo che sbattevano ininterrottamente, aprendosi e chiudendosi, come per schiacciare chi avesse osato avvicinarsi.
Il prete di Montemonaco, proseguendo il racconto al de La Sale, teneva a precisare che il suo impegno con i due tedeschi era quello di accompagnarli fino alle due porte di metallo e non oltre. I due tedeschi invece vollero proseguire oltre e, da questo punto, dal racconto del vecchio prete non si capisce se i due stranieri si fossero in qualche modo salvati o se, viceversa, fossero stati inghiottiti per sempre dal reame misterioso.
A questo credibile racconto di don Antonio ne fece seguito un altro degli abitanti di Montemonaco fatto al de La Sale qualche giorno più tardi. Costoro sostenevano che i due tedeschi avventuratisi oltre le porte di metallo, attraversate sale e giardini, avevano incontrato le genti della Sibilla, avevano conosciuto dame bellissime e osservato ricchezze straordinarie. Condotti al cospetto della Sibilla, furono da essa informati dei costumi del luogo e invitati a scegliere per spose due incantevoli ragazze messe a loro disposizione.
Il fatto è che il de La Sale trovò, nella camera d'ingresso, alcuni nomi incisi sulla parete rocciosa, uno dei quali, da lui decifrato in Har Hans wari Bamborg, era certamente germanico.

Nel periodo compreso tra la prima metà del 1400 e tutto il 1500, il Monte della Regina fu pellegrinaggio pressoché ininterrotto di negromanti e cercatori di tesori, botanici e naturalisti, archeologi e letterati, avventurieri, ciarlatani e semplici curiosi, arrecando anche non poche preoccupazioni alle autorità ecclesiastiche e civili di Norcia. Ciascuno di quel viandanti raccontava a suo modo le proprie esperienze avventurose fatte all'interno della diabolica spelonca. Per esempio, il medico trentino Giovanni delle Piatte raccontò, sotto tortura, ai suoi inquisitori, che nel 1487 essendosi recato sul Monte della Regina, aveva notato la Sibilla uscire dalla grotta a cavallo di un manico di scopa ( :D ). Un decennio più tardi, nella primavera del 1497, Arnaldo de Harff, originario di Colonia, non seppe resistere alla tentazione di far visita ai luoghi misteriosi, facendone poi un racconto che vale la pena di accennare. In sostanza egli disse d'aver visitato la grotta, insieme ad un castellano dei posto che gli fece da guida, all'interno della quale poté scorgere altre grotte "accessibili, altre ingombre di terra e di sassi". Ma la sua curiosità non lo spinse oltre, non si capisce bene se per timore delle autorità di Norcia che facevano divieto a chiunque di entrarvi, o non piuttosto perché si sentiva appagato di quanto aveva potuto osservare.
Da quest'ultimo racconto ci si accorge che quanto più ci si avvicina al nostro tempo, tanto più la leggenda della grotta della Sibilla assume aspetti meno fantasiosi, anche se nel 1497 la grotta era praticabile e presentava ancora il suo terribile fascino misterioso.
Di tutta questa vicenda è ormai tempo di esprimere una valutazione conclusiva.

Non c'è dubbio che il ciclo leggendario dei Monti di Norcia viene visto nell'ottica di quell'ideale cavalleresco che illuminava ancora con la sua flebile luce un Medioevo ormai declinante, assieme al suo carico di orrori e di miseria, ma che intanto proiettava nuovi e impensati riflessi su di un umanesimo proteso a riscoprire valori e tesori della civiltà greca e romana. Ma a questa realtà era necessario uno spazio, e vari furono gli scenari che fecero da cornici all'azione. Ma perché uno di questi scenari fu localizzato sul monti di Norcia? A quale preesistenze rimandava la leggenda della Sibilla? Sono domande queste a cui bisognerà cercare di dare una risposta ripercorrendo, assieme al viaggiatori quattrocenteschi, lo stesso cammino verso i luoghi incantati.
Dal romanzo di Andrea da Barberino sappiamo che Guerrin trovò di fronte a sé, prima di avventurarsi nel reame sotterraneo, uno slargo regolare, "a modo di piazza quadrata", ingombro da una "gran quantità di pietre rovinate". L'espressione sembrerebbe alludere ai ruderi di qualche costruzione, forse un tempio, o comunque un edificio sacro, considerando che lo spazio antistante poteva servire per le cerimonie dei fedeli.
Dal resoconto di Antonio de La Sale si può ricostruire, con sufficiente esattezza, il vestibolo della grotta che si apriva nella parete di roccia a non molta distanza dallo slargo descritto da Andrea da Barberino. Il de La Sale, infatti rievocando la sua visita all'antro della Sibilla, parla di una cameretta quadrata, con una rapidissima scala di accesso e dei sedili intagliati all'intorno. Ma non è questo l'aspetto tipico di un ipogeo etrusco? Le necropoli del perugino e del cortonese, le tombe a camera di Chiusi e di Amelia, presentavano vani rettangolari e quadrati, angusti corridoi d'accesso, celle sepolcrali scavate direttamente nel tufo. Ed è sempre nelle tombe etrusche che si ritrova raffigurata quella demonologia che mescola la bellezza con l'animalità. Quelle figurazioni infernali che rappresentano la paura, quel simbolismo che illumina di sinistri bagliori le viscere della terra, ricca di serpenti e di cavalli alati, di donne con pinne di pesce, di uomini con teste di toro, di sfingi, di grifi, di Meduse e di Gorgoni (la lingua penzolante, i rettili al posto dei capelli) sono molto simili alla Sibilla e alle sue damigelle nell'approssimarsi del sabato sera.
Ricercatori appassionati e curiosi a caccia di emozioni varcarono, o hanno cercato di varcare, il limite del regno proibito, lasciando ai posteri delle testimonianze che posero dei grossi interrogativi ai quali ancora resta impossibile dare una risposta significativa.
Si è continuato ancora, poi improvvisamente qualcosa si ruppe. In un'epoca di miseria materiale e di terrori spirituali, la porta che avrebbe dovuto introdurre l'uomo a conquistare una felicità tutta carnale e tutta terrena fu ostruita per sempre. E che ciò sia avvenuto quando i monti Sibillini furono squassati da uno spaventevole terremoto, o invece per opera del papa avignonese Benedetto XII, o infine, come altri dicono, per opera dei vicini monaci di S. Eutizio, ha tutto sommato ben poca importanza. Ciò che importa è come, chiuso l'ingresso, nessuno riuscì a penetrare nel misterioso reame della Sibilla, il quale sopravvive ancora sia pure a livello di rappresentazione letteraria o fantastica.

Dal sito: www.esoteria.org (tratto da Hirma n° 6, giugno 1987 - Soc. Erasmo, Roma)


http://www.regione.marche.it/infea/infea99/cea/cea34/cea34_a.jpg

hussita
22-08-02, 13:54
[Campania, Campi Flegrei] I Cimmeri
Un popolo misterioso.


Il primo, e forse per questo il più autentico, accenno ai Cimmeri lo troviamo nel libro XI dell'Odissea omerica, dove ai versi 15-23 leggiamo:

"...Spento il giorno, e d'ombra
Ricoperte le vie, dell'Oceano
Toccò la nave i gelidi confini,
Là 've la gente de' Cimmeri alberga,
Cui nebbia e buio sempiterno involve.
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda
Lo sfavillante d'or Sole non guarda
Quegl'infelici popoli, che trista
Circonda ognor perniziosa notte..."

Ulisse, nel suo lungo peregrinare, entra nel paese dei Cimmeri dopo aver lasciato Circe (la localizzazione della cui isola sembra essere individuata appunto con il Circeo nel Lazio) e prima di giungere nell'Isola delle Sirene (Capri) e di passare tra Scilla e Cariddi (lo Stretto di Messina). Da un punto di vista logico, quindi, l'identificazione geografica con il golfo di Napoli ed in particolare con qualche luogo specifico dei Campi Flegrei sembrerebbe giusta.
L'unica cosa sicura che si sa dei Cimmeri è che essi abitavano vicino al paese dei morti, vale a dire agli Inferi. Ed è qui però che nascono le diverse interpretazioni. L'Ade greca, infatti, non è stata mai geograficamente univocamente determinata. Una confusione questa che ci deriva dagli stessi scrittori greci, dal momento che alcuni ritenevano che l'Ade avesse uno sviluppo verticale, ossia si trovava nelle più remote profondità della Terra (concezione questa che è rimasta nell'idea cristiana dell'Inferno), altri sostenevano invece che l'Ade avesse un estensione orizzontale e si trovasse al di sopra della superficie terrestre negli sterminati spazi dell'Occidente.
Ora, i Greci per Occidente intendevano tutti i territori ignoti che si estendevano aldilà delle Colonne d'Ercole, dove si riteneva che si trovassero anche il Giardino delle Esperidi e la dimora di una delle più antiche divinità infere, la Notte. E questa sembra essere anche l'interpretazione omerica, visto che nei versi sopracitati egli parla di Oceano e molti hanno voluto identificare i Cimmeri con una non ben precisata popolazione dell'estremo Nord.
A confondere ancora di più le acque ci si misero poi anche alcuni storici greci, in primo luogo Erodoto, che così chiamavano un popolo dell'Asia Minore poi distrutto dagli Sciti. Di essi si hanno notizie anche nella Bibbia e nei testi assiri, dove vengono chiamati rispettivamente Gomer e Gimirai. Con tutta probabilità, però, si tratta di una popolazione diversa che nulla ha a che fare con quella citata da Omero e che ci interessa in questa sede.
In epoca romana il regno dell'Oltretomba iniziò, invece, ad essere identificato con il Lago Averno. E' qui infatti che Enea si reca dopo aver interrogato la Sibilla Cumana ed incontra le anime di alcuni defunti. Da allora l'identificazione del Paese dei Cimmeri con i Campi Flegrei prese sempre più corpo e divenne quasi un dato di fatto. C'è da dire però che tale identificazione non appare per la prima volta in epoca romana se è vero, come è vero, che la Sibilla di Cuma, nota ed apprezzata già in epoca greca, in alcuni antichi testi greci è chiamata anche Sibilla Cimmeria
Dunque il dubbio rimane. E i Campi Flegrei possono a buon diritto proporsi come dimora di questo misterioso popolo. Tanto più che molti studiosi hanno supportato tale ipotesi e hanno avanzato alcune affascinanti teorie riguardo alla natura di questi leggendari abitanti.
C'è in particolare un passo di Strabone che sembra aprire scenari davvero interessanti e che così recita:
"[I Cimmeri] vivevano in case sotto il suolo, chiamate argille. Essi, attraverso gallerie si visitano l'un l'altro e permettono agli stranieri di visitare l'oracolo che è situato sotto terra e vivono di ciò che ottengono dalle cave e da quelli che consultano l'oracolo e dal re dei luoghi che ha dato loro una rendita fissa. E quelli che vivono attorno all'oracolo hanno un antico rito secondo il quale nessuno deve vedere il sole, ma deve andar fuori dalle caverne soltanto durante la notte".
La presenza di due elementi particolari, come l'oracolo e le cave, sembrano avvalorare l'ipotesi flegrea. L'oracolo, infatti, non può non farci venire in mente la Sibilla Cumana ed è bene ricordare che la zona flegrea è ricca di cave e gallerie sotterranee scavate nel tufo, tanto che il nome stesso di Pozzuoli deriva dal termine latino "putei", che significa appunto scavi.
Dalla descrizione di Strabone, dunque, i Cimmeri sembrerebbero essere una sorta di sacerdoti dediti al culto oracolare che potevano muoversi soltanto di notte. Erano dunque queste le ombre che si aggiravano furtive sulle sponde dell'Averno e che gli antichi ritenevano essere le anime dei defunti?
Purtroppo per adesso la domanda deve rimanere senza risposta visto che non sono state ancora trovate testimonianze archeologiche che possano scioglierla definitivamente.
Altre ipotesi sono state comunque avanzate. C'è chi, ad esempio, ritiene che fossero alcuni dei coloni greci che avevano fondato Cuma o addirittura una popolazione discendente dagli Opici (nome con cui i greci campani indicavano gli Osci), dediti alla venerazione di qualche divinità notturna.
O ancora essi potevano essere i minatori che lavoravano di giorno nelle cave flegree e, soltanto di notte, uscivano all'aria aperta.
Chiunque essi fossero, sta di fatto che in un certo momento storico essi scomparvero, altrettanto misteriosamente come erano apparsi. A tal proposito Strabone ci dice che "furono distrutti da un re poiché il responso dell'oracolo non era in suo favore".
In attesa di testimonianze archeologiche che possano, una volta per tutte, sciogliere l'enigma, la leggenda dei Cimmeri continua ad avvolgere di mistero la già leggendaria Terra dei Campi Flegrei...

hussita
22-08-02, 13:58
insomma, le sovrapposizioni tra sibilla cumana, cimmeria ed appenninica sono piuttosto indicatori di un nomadismo della ( a questo puntounica?) sibilla?
e che dire dell'assonanza cibele/sibilla

l'ancestrale culto della dea madre, nelle due versioni di madre amorevole e laida stregonessa

mi ricorda qualcosa

:rolleyes:

http://web.genie.it/utenti/m/montisibillini/Sib2.jpg

LaMontagna della Regina Sibilla
Antoine de la Sale
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Maestosa, nel cuore dell'Appennino centrale, sorge la catena dei Monti Sibillini.Le vette imponenti, seconde per altezza nell'Italia peninsulare soltanto al Gran Sasso e alla Maiella, si ergono verso il cielo con bastioni di roccia simili agli scogli dolomitici, superbe e minacciose.Gli scenari spettacolari, l'abbondanza delle acque, la varietà delle forme rendono queste montagne meta di una nutrita schiera di turisti e di appassionati, nelle radiose giornate estive.Ma anche da una semplice passeggiata si può intuire che il fascino di questi luoghi è molto più profondo di quanto non dicano i suoi panorami. Fonti, cime vallate non perdono occasione per far riferimento a vicende misteriose e lontane, oscure e magiche. L'intrigante toponomastica ha spinto molti studiosi, quali il Falzetti e il belga Desonay, ad attente icostruzioni storiche e a meticolose ricerche fin nel passato medioevale e prima ancora pagano di queste zone. Il nome della catena deriva dal celebre Monte Sibilla che nasconde presso la vetta, e sopra una curiosa corona di rocce, l'altrettanto famosa grotta oggetto e causa di moltissime leggende.Qui si trovava, secondo la tradizione popolare, il paradiso della Sibilla appenninica, mitica figura arricchitasi nel tempo di sempre nuovi attributi, desunti dai diversi culti che man mano si sono succeduti.Maga e profetessa, lussuriosa e peccatrice, la leggenda la vuole sospesa tra divinazione ed erotismo, responsi ed orge.Incantatrice, oracolo, molti sono i nomi e le qualità che riunisce e fonde grazie a quel sincretismo proprio dell'età medioevale e della mentalità popolare. identificata da alcuni con la Sibilla cumana, da altri con quella cimneria, fatta risalire da alcuni al culto di Cibele da altri a quello di Venere, da altri ancora ai culti animistici e poi all'etrusca dea Nortia, la questione si presenta complessa, le fonti molteplici e discordi. Ritrovamenti, iscrizioni, studi eziologici sembrano sostenere più di una teoria e convalidare le ipotesi di diversi studiosi.Ma ciò che è fuori di dubbio è che da sempre le montagne sono considerate la residenza delle divinità e valgano da esempio il Monte Ida e l'Olimpo in Grecia, ed anche qui gli antichi abitanti localizzarono i propri Numi sulle vette, ove poi nel tempo vennero assumendo diverse caratteristiche a seconda dei tempi e delle dominazioni.E di certo la nostra Sibilla assomma in se‚ molti, troppi attributi per non destarci il dubbio della contaminazione: indovina come Nortia, dea degli Etruschi, inventori dell'aruspicina ammaliante e sensuale come la Venere terrestre, il cui culto è attestato in questi luoghi, segreta come l'asiatica Cibele dei riti orgiastici.La parentela con la grande madre anatolica è avvalorata poi da altri elementi, come ad esempio la possibile derivazione filologica del nome dell'una da quello dell'altra (Cibele/Sibilla), come sostiene Febo Allevi, o il fatto che la dea orientale sia anche divinità dei monti e delle acque come la nostra Sibilla lo è delle fonti e del lago nascosto nella valle del Monte Vettore.Inoltre l'appellativo a Cibele di dea "turrita" o "turrigera", cioè coronata, ci ricorda la corona di rocce intorno alla cima del nostro monte; infine le due figure dividono la primitiva sede nel Monte Ida, secondo la testimonianza dello storico greco Pausania, e il dono della profezia.Il ricordo più antico di responso sibillino risale al III° D.C., quando, a detta dello storico Trebellio Pollione, l'imperatore Claudio II° il Gotico si recò sull'Appennino a chiedere della propria sorte.Di qui in avanti si moltiplicano le notizie sulla grotta della Sibilla, ma a questo punto siamo già in età cristiana e si cerca di assorbirne e spiegarne l'esistenza tramite le Sacre Scritture e il nuovo impianto religioso. La vicinanza poi del luogo al cammino seguito dai pellegrini di tutta Europa per arrivare a Roma, ha fatto sì che la leggenda fosse conosciuta da molti viandanti e da questi riportata nelle rispettive terre: il mito si espande così oltre i confini italiani.E la leggenda germanica del cavaliere Tannhauser che entra nel Venusberg, cioè‚ nel monte di Venere, è strettamente legata alla nostra. 18 maggio 1420, data fondamentale: Antoine de la Sale, al servizio dei reali di Francia, si reca alla montagna della Sibilla per cercare di fare luce fra le tante voci.Ottenuto il permesso di raggiungere la grotta, interdetta da Urbano VI°, pena la scomunica, intraprende la difficile ascesa lungo il versante di Montemonaco, accompagnato dal dottor Giovanni da Sora.La strada si rivela pericolosa e impressionante, specie nei pressi della corona, dove, dei due passaggi possibili, il migliore "basta a mettere paura".Poi, finalmente, l'entrata a forma di scudo, piccola e disagevole.Al di là di essa una cameretta quadrata a destra del pertugio in cui sono intagliati dei sedili tutt'intorno, e un ulteriore passaggio sulla destra stretto e pendente verso il basso.Antoine non prosegue oltre, ma riporta il racconto di un monaco del posto, don Antonio Fumato, che diceva di essersi addentrato nella grotta per accompagnarvi due cavalieri tedeschi. Insieme avevano superato la terribile corrente d'aria che già aveva dissuaso altri esploratori dal proprio intento, poi un ponte sospeso su un abisso al cui fondo scorreva un gran fiume, quindi una strada larga e comoda alla fine della quale c'erano due dragoni ai lati, fino a raggiungere una piazzetta quadrata chiusa da due porte di metallo che sbattevano in continuazione, oltre le quali si apriva il paradiso della regina Sibilla.La leggenda vuole che i due cavalieri si siano intrattenuti nella grotta per 330 giorni, ultimo termine per poter uscire, secondo la legge della regina, mancando e peccando gravemente contro Dio.Infine, resisi conto di essersi intrattenuti davvero nel regno di Satana, dove le donne il venerdì sera si trasformavano in serpenti, per poi ritrasformarsi il sabato notte, si recarono a implorare il perdono del Papa, che lo negò.La conclusione vede i due cavalieri disperati rientrare nella grotta per avere, se non la salvezza dell'anima, almeno la gioia del corpo.L'elaborazione germanica di tale mito vuole invece che fosse Dio stesso ad accordare il perdono ai cavalieri dannando il Papa, arricchendo così la vicenda di elementi derivati dalle dispute religiose cinquecentesche e piegandola in modo particolare a favore della lotta luterana contro il primato della chiesa di Roma.Antoine afferma di non credere a ciò che ha udito, ma trova nell'antro delle iscrizioni in tedesco che sembrano confermare la venuta dei due uomini, e date successive che si riferiscono a nuove visite, come quella del Signore di Pacs o Paques del 1378, di 40 anni circa posteriore.Molte descrizioni fatte da Antoine sono convalidate dalle corrispondenze offerte dal poema quattrocentesco "Guerino detto il Meschino", di Andrea da Barberino, in cui ugualmente il protagonista giunge alla grotta, seppure per un diverso cammino, incontra la maga Sibilla, ma non pecca, rendendoci così una versione moralizzata della storia.Ora il fascino di questa nostra montagna, mai venuto meno, e il suo passato nell’attesa di risposte e di verifiche, continuano ad intrigare le nostre menti e non possono non scatenare il demone della curiosità, tanto più che i sopralluoghi effettuati nella prima metà del secolo hanno portato alla luce oggetti significativi quali tornesi di Enrico II°, moneta francese del XVI° secolo.Ma dal 1946 l'ingresso alla grotta è completamente ostruito dalla frana causata dalle mine usate nello scavo dal professor Consalvatico; noi ci domandiamo soltanto per quanto ancora dovrà restare così.

Silvia
23-08-02, 10:09
1946 : la grotta della Sibilla appenninica illustrata e descritta dal Prof. Lippi Boncampi.


http://www.sibilla.org/parco/grottasezione1.JPG

"L’ingresso A comunica, attraverso breve corridoio inclinato con lo stanzone alto m.3,80 e largo da m.2 ad un massimo di m.6 che costituisce la parte centrale della grotta, avente una lunghezza totale di m.10. Al fondo dello stanzone si nota nella roccia un breve pertugio B, dal quale si torna all’esterno mediante un cunicolo scoperto.

Nel terreno della grotta si trovano in D, poi in E e quindi in F alcune ramificazioni della cavità, che sarebbero ritenute quali probabili pro-lungamenti del percorso attualmente otturato.

All’atto del mio sopralluogo, uno scavo intrapreso dal Colsalvatico, e successivamente interrotto, aveva messo in evidenza alcuni gradini che, secondo detto Autore, corrisponderebbero singolarmente a quelli della scala descritta nella narrazione favolosa del viaggiatore."


http://www.sibilla.org/parco/grottaplan1.JPG

Dal sito: www.sibilla.org