hussita
09-08-02, 17:37
Dopo la notizia di avvio della fase tecnico scientifica alla scoperta dei millenari segreti della Grotta della Sibilla Appenninica, appare utile porre i Lettori in condizioni di poter giudicare le iniziative che ruotano intorno a un argomento divenuto recentemente oggetto di contrasti ideologici, politici e amministrativi.
Per questo debbono, da un lato, avere il quadro degli antefatti storici e culturali e, dall’altro, conoscere i caratteri, il significato e gli scopi di tale specifica ricerca geomorfologica e archeologica.
Perché non l’entusiasmo acritico ma il controllo sulla congruità delle iniziative può evitare l’esproprio culturale, da qualunque parte venga, di un patrimonio comune, che ha trovato i naturali custodi in coloro che hanno creduto in queste terre resistendo alle sirene della città.
Ma, seppure sintetico, non potrò essere breve.
Il massiccio dei Sibillini ha catalizzato, nel corso di millenni, una peculiare civiltà agricolo pastorale coinvolgente la Sabina interna e l’entroterra dei Piceni.
L’ambiente e il tessuto socio culturale ereditati dal Parco dei Sibillini sono il risultato della interrelazione plurimillenaria tra l’uomo e il territorio, anche per quei segni che la visione naturalistica in senso stretto potrebbe giudicare negativi (basti pensare al disboscamento).
L’omogeneità di questo amalgama lungo tutta l’estensione del Parco e nelle fasce adiacenti si appalesa anche alla disamina più superficiale: itinerari, manufatti, storia, tradizioni, leggende, dialetto, ci raccontano di un rapporto che viene da molto lontano, sopravvissuto alle stesse invasioni barbariche.
Una siffatta civiltà, in cui si ravvisano elementi vivi di un antico incontro con altre culture (pelasgico/preelleniche, illirica, greca, etrusca, fenicia, celtica, danubiana), si collocò in un rapporto privilegiato, anche se tutto da scoprire, con la nascita della città di Roma (i cui arcaici profili culturale e linguistico, economico e sociale, materiale e mitologico, tanto debbono alla transumanza) e quindi con le radici della moderna civiltà occidentale.
La Sibilla Appenninica, da cui è mutuato il nome dei territori e del Parco, ne rappresentò forse la casta sacerdotale depositaria. Non sfugge che l’esame delle dinamiche storiche, oltre a un interesse accademico e a un risvolto pubblicitario, permette di riscoprire le motivazioni di un prolungato equilibrio uomo/ambiente cui l’Ente Parco dovrebbe ispirarsi per ovviare ai prodromi di una crisi preoccupante se non irreversibile.
In questa ottica sono opportune tutte le iniziative che chiamino a raccolta le menti più preparate, capaci e volenterose, permettendo e stimolando la convergenza di esperienze, di ipotesi e di ricerche.
Di modo che tale collaborazione sia di per se stessa coinvolgente per i Cittadini, oltre che condurre a conclusioni, storiche, letterarie, archeologiche o di altra natura, di cui la portata e i risvolti sono difficilmente quantificabili ma sicuramente notevoli.
Non è qui possibile fare la disamina delle fonti letterarie e degli studi relativi alla Sibilla Appenninica; mi permetto tuttavia di fornire una serie di richiami da cui trarre spunti di riflessione.
Tra i miti delle Sibille quello appenninico fu l’unico veramente attivo nel medioevo e capace di sviluppare un vivace movimento ideologico e letterario.
Lo troviamo protagonista in opere della letteratura italiana ed europea, da “Il Guerrin Meschino” di Andrea da Barberino, a “Il Regno della Regina Sibilla” di Antoine de la Sale, “Il Meschino e il Guerrino” di Tullia D’Aragona, “Il Tannhauser” musicato da Wagner. Lo ritroviamo citato ne “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto, nel “Morgante Maggiore” del Pulci, nel “De Nobilitate et Rusticitate” dell’Hemmerlin, nel “Theatrum orbis terrarum” dell’Ortel. Compare inquietante nei processi per eresia del Nord Italia. Se ne interessano in vari modi Enea Silvio Piccolomini (futuro Papa Pio II), Pietro Aretino, Caracciolo, A.Reumont, Peranzoni, Magini, Lalli, Trissino, Leandro degli Alberti, Panfilo, Von Merle, Ranzano, e (udite, udite) il marchese De Sade !
Non meno numerosi sono stati i filologi che verso la fine dell’800 e nella prima metà del 900 hanno cercato di comprenderne la nascita e gli sviluppi, elaborando le teorie più disparate, rimaste tutte non dimostrate per la mancanza di prove materiali.
Tanto che ha finito per prevalere la teoria della leggenda di origine medioevale (sposata anche dal Paolucci) e quindi quello scetticismo base dell’abbandono di ogni ulteriore tentativo di studio della grotta. In rapida carrellata immaginiamo la Sibilla depositaria delle conoscenze e dei riti nella società matriarcale, pacifista e “comunista” di una arcaica età dell’oro, come ce la suggerisce Joyce Lussu; la ninfa Carmenta, luna sopraggiunta a insegnare il canto e la scrittura e a proteggere i parti, fino a ispirare l’agiografia della Santa di Cascia; la Sacerdotessa della Dea Cupra precorritrice della Cybele cara al Desonay; la Profetessa annunciatrice dell’avvento del Salvatore, come ce la presenta la letteratura cristiana; la Venere lussuriosa, dalla miscela di elementi franco teutonici innestati sui miti classici; la Fata del regno incantato, della tradizione fiabesca celtico bretone; le Streghe della trasmissione orale dei Residenti; le Compagne di Briganti che, fino al secolo scorso, scendevano a valle con fare circospetto e misterioso calzando pelli di capra ...! Ma cosa significa questo polimorfismo ?
Cangianti illusioni di un mito elastico perché fiabesco, oppure sfaccettature storiche di un culto archetipico, tanto radicato e interconnesso con le caratteristiche ambientali da riuscire a sopravvivere migliaia di anni grazie a una congenita stupefacente adattabilità ?
Tra l'autunno del 1952 e la primavera del 1953, quattro Operai sotto la direzione di un sedicente Tecnico a tutt'oggi non identificato, dopo aver saggiato un pertugio aggettante su una vasta e insondabile cavità, rinvenivano e asportavano una epigrafe, collocata nei recessi della grotta, in vari giorni di duro ma razionale scalpellamento della viva roccia !
L'unico Testimone rimasto, scovato con la fortuna che talora accompagna il fervore delle ricerche, ci racconta di una scrittura che il Direttore dei lavori definì "greca".
Definizione che, al di là della sommarietà dettata dal momento e dagli interlocutori, porta a immaginare verosimilmente caratteri "piceno arcaici" ovvero "medio adriatici"!
E pensare che, intorno a quei periodi, la ambiziosa spedizione condotta dal Desonay, insieme al Falzetti e all'Annibaldi, risulta dai resoconti non aver portato alla luce quasi nulla (salvo una moneta francese del seicento forse collocata ad arte da qualche furbo Montemonachese !).
Come mai ? Quali vie ha preso il prezioso documento ? Per quali motivi l'interesse internazionale di centinaia di artisti, umanisti, studiosi, ricercatori, perdurato almeno cinque secoli, è venuto meno quando la cultura è divenuta appannaggio di tutti ?
Perché una grotta che ha resistito a più di tremila anni di storia, alla controriforma, ai terremoti, scompare quando la tecnologia è diventata in grado di sollevare i veli del mistero ?
A sentire il racconto, chi guidò gli Operai aveva le idee molto chiare.
Sapeva cosa e dove cercare. Sapeva pure che la ricerca doveva cessare con l'asportazione della epigrafe. Sapeva infine che non bisognava lasciare tracce.
Indubbiamente sull'episodio sono doverose delle indagini. Ma quand'anche non si riuscisse a identificare il Tecnico, né a recuperare l'epigrafe ovvero il suo importantissimo contenuto, la testimonianza inedita dell'Operaio è suffragata da riscontri tali da spazzare ogni dubbio sulla veridicità dell'episodio.
A questo punto, posta l'esistenza di una epigrafe in caratteri verosimilmente piceno arcaici, vengono meno le perplessità sulle radici storiche o preistoriche del mito e già si motiverebbero sufficientemente nuove ricerche archeo-speleologiche.
Le sorprese non finiscono qui. Testimonianze della tradizione orale, unite alla identificazione di suggestivi portali di roccia, ci indicano la presenza di un ulteriore sbocco della grotta sul versante del Tenna.
Le ipotesi affascinanti, già dell'Amadio, rielaborate dal Rocchi, circa l'esistenza di un labirinto divenuto scrigno di tesori letterari e archeologici dopo il crollo degli imbocchi provocato in periodo di controriforma, prendono corpo ... E cosa dire dei rilievi condotti nel'68 da uno Studio Tecnico Geologico di Pesaro e nell'84 dal Gruppo Speleologico di Ancona, che ammettono l'esistenza di un cunicolo orientato in basso verso Nord-Est, di una variazione termica e di una percettibile corrente d'aria, laddove in passato si individuava la grotta ?
E delle sciagurate opere di captazione del Consorzio Idrico del Piceno che permettono di asportare 900 o 1000 litri al secondo (praticamente un intero fiume) senza intaccare sostanzialmente la portata dell’Aso poiché attingono direttamente in un enorme lago sotterraneo ?
Ho accennato sopra al fenomeno della Transumanza.
L’importanza che ha rivestito nella nascita della città di Roma è indiscutibile.
Tuttavia gli studiosi hanno con perseveranza trascurato l’apporto socio culturale di questo nomadismo ciclico alla nascita delle “civitates” nelle campagne laziali, nonostante che località e toponomastica, storia e mitologia, culti e tradizioni, popoli e gentes, reperti e codici di diritto, raccontino una “saga pastorale”. Hanno sempre preferito elaborare contorte e fragili teorie per definire determinante e primigenio l’apporto greco ed etrusco; in realtà tanto marginale e posteriore da non riuscire neppure a imporre lingue e alfabeto, ben più diffusi ed evoluti (che poi l’alfabeto e la lingua medio-italica latina fosse di derivazione pre-ellenica, ma per rotte adriatiche, è un altro discorso).
Oppure si sono limitati a prendere atto della strana presenza di Indigeni nati dal nulla, già illuminati, caparbi e con spiccato senso del sociale, scambiando gli “Aborigeni” in quanto “Provenienti dai monti” con improbabili “Esistenti fin dall’origine” !!
Non ho fatto queste illazioni per entrare nel terreno paludoso della linguistica e della filologia. Spero, è vero, che l’abulia tutta marchigiana nella promozione della propria immagine venga superata (le recenti iniziative fanno ben sperare !) e si getti nuova luce sul ruolo svolto nel contesto storico dalla civiltà Sabino Picena dei Sibillini; ma lo scopo, al momento, è quello di porre all’attenzione i risultati di una analisi etimologica, cui ho personalmente dato qualche contributo.
E’ noto che Roma ebbe due Sibille: la SIBILLA ALBUNEA (o ALBUENA) e CARMENTA. Altre erano sparse nel mondo allora conosciuto.
Per contro, nessuno degli antichi Autori romani di età repubblicana parla della Sibilla Appenninica, almeno nelle trascrizioni o riferimenti pervenutici. Argomento, questo, portato dagli affossatori della sua storicità. Ebbene, entrambi i nomi (di SIBILLA ALBUNEA e CARMENTA) starebbero a significare “PROFETESSA DELLA MONTAGNA (o VETTA)”: le radici indoeuropee sottese (ALP, KAR, MEN) sono inequivocabili.
Studiando la mitologia collegata alle due Sibille romane escono dati sorprendentemente aderenti alle ipotesi di una traslazione culturale del patrimonio sibillino proprio dalle nostre montagne, ancor prima della comparsa della Sibilla Cumana. E coloro, fra le stirpi di Pastori, che nelle pianure laziali finirono col porre pianta stabile, col chiamarsi Latini e col fare la Storia, di quelle Sibille si appropriarono e dai loro responsi si fecero guidare nel millennio più glorioso e sconvolgente della civiltà umana; e chi ci assicura che la disgregazione dell’impero rovinosamente iniziata dopo la distruzione dei libri sibillini (si ricordi Stilicone e Teodosio) fu solo una eccezionale coincidenza ?!!
Sta di fatto che quei Latini, un po’ per diritto, un po’ per prepotenza e un po’ per altrui condiscendenza plagiarono il mito e ne fecero la propria anima e la propria coscienza; quell’anima e quella coscienza che furono il collante e il soffio vitale di un organismo sociale tra i più complessi e cosmopoliti della storia. E fu giusto così. La Sibilla aveva tutto previsto. Perché gli indizi sibillini dovevano essere una sfida e una molla per la conoscenza. Per sempre. Oggi compreso.
Nel 1897 Pio Rajna e Gaston Paris tentavano la prima spedizione scientifica dei tempi moderni sul Monte della Sibilla. Seguiva un secolo di iniziative, tra le quali si segnalavano quelle del Desonay, del Consalvatico, del Lippi Boncampi; per il resto incongrue e dilettantistiche nel migliore dei casi, più spesso devastanti. Infine l’oblio.
Lo spettacolo pietoso che si presenta giungendo oggi laddove in passato si individuava la grotta induce a pensare che sia stata tutta una fantasia.
La rabbia monta allorquando si ricorda le precise descrizioni che ne fece Antoine De La Sale e le testimonianze all’unisono di chi ha avuto la fortuna di visitare quei luoghi anche solo quaranta anni fa.
La desolazione si fa totale quando si ripensa alla scellerata, inutile e pericolosa strada che lacera le pendici e alle sciagurate opere di captazione del Consorzio Idrico che stanno vuotando il ventre poderoso della Grande Madre. Tutto nella più assoluta noncuranza degli Organi preposti!
I tempi, dicevamo, sono maturi per ricominciare le ricerche. Ma guai a tentativi dilettantistici e scoordinati, il cui inevitabile fallimento è stato la causa del disinteresse degli ultimi decenni.
Tali ricerche debbono essere condotte con grande serietà e professionalità; essere graduali, serrate, multidisciplinari; essere pianificate con cura e affidate a una équipe motivata, ben coordinata, paziente.
Ci si deve avvalere dell'archeologo e del letterato, dello speleologo e del geologo, dello storico e dell'epigrafista, del glottologo e dell'antropologo.
Va promossa una raccolta di tutti i documenti e testi inerenti; passato in rassegna il materiale fotografico; riletti gli scavi del Foro Boario; estesa la ricerca presso gli Archivi Vaticani, la Biblioteca Nazionale di Parigi, la Regia Accademia Belga, gli archivi Tedeschi, le Sovrintendenze, gli Istituti di Geofisica; creato un sito Internet.
Vanno ascoltati gli anziani, raccogliendo la tradizione orale e i ricordi personali; esaminati i toponimi nella versione originale; fatto un appello a tutti coloro che sanno o conservano qualcosa di interessante.
Quanta negligenza c'è stata nel trascurare la spontaneità delle tradizioni e delle testimonianze popolari, e quanti elementi sono andati così perduti, ce lo fa sospettare l'incredibile mole di indizi che tuttora emergono se solo ci si prende la briga di domandare in giro, di intervistare sessantenni e settantenni ancora operosi o arzilli ottantenni.
Rinviare ancora significherebbe fare la fine di Re Tarquinio, il cui temporeggiare lo condusse a perdere sei dei libri della sapienza sibillina, pagando gli ultimi tre al prezzo dei nove !
Superfluo sottolineare la necessità di proteggere i luoghi della ricerca archeologica da tombaroli, vandali e dilettanti, che tanti danni hanno già procurato.
In altre parole, occorre un impegno economico rilevante e una particolare serietà di intenti, scevra da commistioni politiche, onde operare le scelte migliori.
In considerazione della rilevanza dell’argomento, che ha già dato adito a contrastanti opinioni sulla stampa, bisogna dunque ribadire che le operazioni di scavo, in zona di interesse archeologico oltre che ambientale, non possono che essere il momento finale di questo lungo percorso di ricerca.
Esse operazioni vanno pianificate con grande cura avendo ben chiari i percorsi e gli obiettivi quanto i mezzi tecnologici e i finanziamenti.
In caso contrario, come detta la moderna archeologia, è più opportuno lasciare le zone protette sotto le coltri di terreno, in attesa di periodi, finanziamenti e tecnologie adatte.
Basti pensare all’investimento, in risorse umane e tempo, richiesto dalla metodologia lenta e meticolosa della archeologia moderna (rilevamenti, planimetrie, fotografie, stratificazione, setacciamento, numerazione, registrazione, rappresentazione grafica, catalogazione, interpretazione, schedatura, datazione,...).
Se invece non si volesse attribuire agli scavi sulla Sibilla la dignità di una esplorazione archeologica, andrebbe da sé la inutilità e impraticabilità di un rimaneggiamento territoriale impostato per gioco su una montagna già terribilmente ferita !
Neppure da trascurare i riflessi negativi, sullo stesso tessuto mitologico e sugli attesi sviluppi pubblicitari, che deriverebbero da ricerche infruttuose perché inadeguate.
E se è vero, come ci piace credere, che i segreti della Sibilla erano il patrimonio di conoscenze di tutto il suo popolo, ad esso debbono tornare; bandendo l'espropriazione culturale di privati o di elites.
Per questo debbono, da un lato, avere il quadro degli antefatti storici e culturali e, dall’altro, conoscere i caratteri, il significato e gli scopi di tale specifica ricerca geomorfologica e archeologica.
Perché non l’entusiasmo acritico ma il controllo sulla congruità delle iniziative può evitare l’esproprio culturale, da qualunque parte venga, di un patrimonio comune, che ha trovato i naturali custodi in coloro che hanno creduto in queste terre resistendo alle sirene della città.
Ma, seppure sintetico, non potrò essere breve.
Il massiccio dei Sibillini ha catalizzato, nel corso di millenni, una peculiare civiltà agricolo pastorale coinvolgente la Sabina interna e l’entroterra dei Piceni.
L’ambiente e il tessuto socio culturale ereditati dal Parco dei Sibillini sono il risultato della interrelazione plurimillenaria tra l’uomo e il territorio, anche per quei segni che la visione naturalistica in senso stretto potrebbe giudicare negativi (basti pensare al disboscamento).
L’omogeneità di questo amalgama lungo tutta l’estensione del Parco e nelle fasce adiacenti si appalesa anche alla disamina più superficiale: itinerari, manufatti, storia, tradizioni, leggende, dialetto, ci raccontano di un rapporto che viene da molto lontano, sopravvissuto alle stesse invasioni barbariche.
Una siffatta civiltà, in cui si ravvisano elementi vivi di un antico incontro con altre culture (pelasgico/preelleniche, illirica, greca, etrusca, fenicia, celtica, danubiana), si collocò in un rapporto privilegiato, anche se tutto da scoprire, con la nascita della città di Roma (i cui arcaici profili culturale e linguistico, economico e sociale, materiale e mitologico, tanto debbono alla transumanza) e quindi con le radici della moderna civiltà occidentale.
La Sibilla Appenninica, da cui è mutuato il nome dei territori e del Parco, ne rappresentò forse la casta sacerdotale depositaria. Non sfugge che l’esame delle dinamiche storiche, oltre a un interesse accademico e a un risvolto pubblicitario, permette di riscoprire le motivazioni di un prolungato equilibrio uomo/ambiente cui l’Ente Parco dovrebbe ispirarsi per ovviare ai prodromi di una crisi preoccupante se non irreversibile.
In questa ottica sono opportune tutte le iniziative che chiamino a raccolta le menti più preparate, capaci e volenterose, permettendo e stimolando la convergenza di esperienze, di ipotesi e di ricerche.
Di modo che tale collaborazione sia di per se stessa coinvolgente per i Cittadini, oltre che condurre a conclusioni, storiche, letterarie, archeologiche o di altra natura, di cui la portata e i risvolti sono difficilmente quantificabili ma sicuramente notevoli.
Non è qui possibile fare la disamina delle fonti letterarie e degli studi relativi alla Sibilla Appenninica; mi permetto tuttavia di fornire una serie di richiami da cui trarre spunti di riflessione.
Tra i miti delle Sibille quello appenninico fu l’unico veramente attivo nel medioevo e capace di sviluppare un vivace movimento ideologico e letterario.
Lo troviamo protagonista in opere della letteratura italiana ed europea, da “Il Guerrin Meschino” di Andrea da Barberino, a “Il Regno della Regina Sibilla” di Antoine de la Sale, “Il Meschino e il Guerrino” di Tullia D’Aragona, “Il Tannhauser” musicato da Wagner. Lo ritroviamo citato ne “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto, nel “Morgante Maggiore” del Pulci, nel “De Nobilitate et Rusticitate” dell’Hemmerlin, nel “Theatrum orbis terrarum” dell’Ortel. Compare inquietante nei processi per eresia del Nord Italia. Se ne interessano in vari modi Enea Silvio Piccolomini (futuro Papa Pio II), Pietro Aretino, Caracciolo, A.Reumont, Peranzoni, Magini, Lalli, Trissino, Leandro degli Alberti, Panfilo, Von Merle, Ranzano, e (udite, udite) il marchese De Sade !
Non meno numerosi sono stati i filologi che verso la fine dell’800 e nella prima metà del 900 hanno cercato di comprenderne la nascita e gli sviluppi, elaborando le teorie più disparate, rimaste tutte non dimostrate per la mancanza di prove materiali.
Tanto che ha finito per prevalere la teoria della leggenda di origine medioevale (sposata anche dal Paolucci) e quindi quello scetticismo base dell’abbandono di ogni ulteriore tentativo di studio della grotta. In rapida carrellata immaginiamo la Sibilla depositaria delle conoscenze e dei riti nella società matriarcale, pacifista e “comunista” di una arcaica età dell’oro, come ce la suggerisce Joyce Lussu; la ninfa Carmenta, luna sopraggiunta a insegnare il canto e la scrittura e a proteggere i parti, fino a ispirare l’agiografia della Santa di Cascia; la Sacerdotessa della Dea Cupra precorritrice della Cybele cara al Desonay; la Profetessa annunciatrice dell’avvento del Salvatore, come ce la presenta la letteratura cristiana; la Venere lussuriosa, dalla miscela di elementi franco teutonici innestati sui miti classici; la Fata del regno incantato, della tradizione fiabesca celtico bretone; le Streghe della trasmissione orale dei Residenti; le Compagne di Briganti che, fino al secolo scorso, scendevano a valle con fare circospetto e misterioso calzando pelli di capra ...! Ma cosa significa questo polimorfismo ?
Cangianti illusioni di un mito elastico perché fiabesco, oppure sfaccettature storiche di un culto archetipico, tanto radicato e interconnesso con le caratteristiche ambientali da riuscire a sopravvivere migliaia di anni grazie a una congenita stupefacente adattabilità ?
Tra l'autunno del 1952 e la primavera del 1953, quattro Operai sotto la direzione di un sedicente Tecnico a tutt'oggi non identificato, dopo aver saggiato un pertugio aggettante su una vasta e insondabile cavità, rinvenivano e asportavano una epigrafe, collocata nei recessi della grotta, in vari giorni di duro ma razionale scalpellamento della viva roccia !
L'unico Testimone rimasto, scovato con la fortuna che talora accompagna il fervore delle ricerche, ci racconta di una scrittura che il Direttore dei lavori definì "greca".
Definizione che, al di là della sommarietà dettata dal momento e dagli interlocutori, porta a immaginare verosimilmente caratteri "piceno arcaici" ovvero "medio adriatici"!
E pensare che, intorno a quei periodi, la ambiziosa spedizione condotta dal Desonay, insieme al Falzetti e all'Annibaldi, risulta dai resoconti non aver portato alla luce quasi nulla (salvo una moneta francese del seicento forse collocata ad arte da qualche furbo Montemonachese !).
Come mai ? Quali vie ha preso il prezioso documento ? Per quali motivi l'interesse internazionale di centinaia di artisti, umanisti, studiosi, ricercatori, perdurato almeno cinque secoli, è venuto meno quando la cultura è divenuta appannaggio di tutti ?
Perché una grotta che ha resistito a più di tremila anni di storia, alla controriforma, ai terremoti, scompare quando la tecnologia è diventata in grado di sollevare i veli del mistero ?
A sentire il racconto, chi guidò gli Operai aveva le idee molto chiare.
Sapeva cosa e dove cercare. Sapeva pure che la ricerca doveva cessare con l'asportazione della epigrafe. Sapeva infine che non bisognava lasciare tracce.
Indubbiamente sull'episodio sono doverose delle indagini. Ma quand'anche non si riuscisse a identificare il Tecnico, né a recuperare l'epigrafe ovvero il suo importantissimo contenuto, la testimonianza inedita dell'Operaio è suffragata da riscontri tali da spazzare ogni dubbio sulla veridicità dell'episodio.
A questo punto, posta l'esistenza di una epigrafe in caratteri verosimilmente piceno arcaici, vengono meno le perplessità sulle radici storiche o preistoriche del mito e già si motiverebbero sufficientemente nuove ricerche archeo-speleologiche.
Le sorprese non finiscono qui. Testimonianze della tradizione orale, unite alla identificazione di suggestivi portali di roccia, ci indicano la presenza di un ulteriore sbocco della grotta sul versante del Tenna.
Le ipotesi affascinanti, già dell'Amadio, rielaborate dal Rocchi, circa l'esistenza di un labirinto divenuto scrigno di tesori letterari e archeologici dopo il crollo degli imbocchi provocato in periodo di controriforma, prendono corpo ... E cosa dire dei rilievi condotti nel'68 da uno Studio Tecnico Geologico di Pesaro e nell'84 dal Gruppo Speleologico di Ancona, che ammettono l'esistenza di un cunicolo orientato in basso verso Nord-Est, di una variazione termica e di una percettibile corrente d'aria, laddove in passato si individuava la grotta ?
E delle sciagurate opere di captazione del Consorzio Idrico del Piceno che permettono di asportare 900 o 1000 litri al secondo (praticamente un intero fiume) senza intaccare sostanzialmente la portata dell’Aso poiché attingono direttamente in un enorme lago sotterraneo ?
Ho accennato sopra al fenomeno della Transumanza.
L’importanza che ha rivestito nella nascita della città di Roma è indiscutibile.
Tuttavia gli studiosi hanno con perseveranza trascurato l’apporto socio culturale di questo nomadismo ciclico alla nascita delle “civitates” nelle campagne laziali, nonostante che località e toponomastica, storia e mitologia, culti e tradizioni, popoli e gentes, reperti e codici di diritto, raccontino una “saga pastorale”. Hanno sempre preferito elaborare contorte e fragili teorie per definire determinante e primigenio l’apporto greco ed etrusco; in realtà tanto marginale e posteriore da non riuscire neppure a imporre lingue e alfabeto, ben più diffusi ed evoluti (che poi l’alfabeto e la lingua medio-italica latina fosse di derivazione pre-ellenica, ma per rotte adriatiche, è un altro discorso).
Oppure si sono limitati a prendere atto della strana presenza di Indigeni nati dal nulla, già illuminati, caparbi e con spiccato senso del sociale, scambiando gli “Aborigeni” in quanto “Provenienti dai monti” con improbabili “Esistenti fin dall’origine” !!
Non ho fatto queste illazioni per entrare nel terreno paludoso della linguistica e della filologia. Spero, è vero, che l’abulia tutta marchigiana nella promozione della propria immagine venga superata (le recenti iniziative fanno ben sperare !) e si getti nuova luce sul ruolo svolto nel contesto storico dalla civiltà Sabino Picena dei Sibillini; ma lo scopo, al momento, è quello di porre all’attenzione i risultati di una analisi etimologica, cui ho personalmente dato qualche contributo.
E’ noto che Roma ebbe due Sibille: la SIBILLA ALBUNEA (o ALBUENA) e CARMENTA. Altre erano sparse nel mondo allora conosciuto.
Per contro, nessuno degli antichi Autori romani di età repubblicana parla della Sibilla Appenninica, almeno nelle trascrizioni o riferimenti pervenutici. Argomento, questo, portato dagli affossatori della sua storicità. Ebbene, entrambi i nomi (di SIBILLA ALBUNEA e CARMENTA) starebbero a significare “PROFETESSA DELLA MONTAGNA (o VETTA)”: le radici indoeuropee sottese (ALP, KAR, MEN) sono inequivocabili.
Studiando la mitologia collegata alle due Sibille romane escono dati sorprendentemente aderenti alle ipotesi di una traslazione culturale del patrimonio sibillino proprio dalle nostre montagne, ancor prima della comparsa della Sibilla Cumana. E coloro, fra le stirpi di Pastori, che nelle pianure laziali finirono col porre pianta stabile, col chiamarsi Latini e col fare la Storia, di quelle Sibille si appropriarono e dai loro responsi si fecero guidare nel millennio più glorioso e sconvolgente della civiltà umana; e chi ci assicura che la disgregazione dell’impero rovinosamente iniziata dopo la distruzione dei libri sibillini (si ricordi Stilicone e Teodosio) fu solo una eccezionale coincidenza ?!!
Sta di fatto che quei Latini, un po’ per diritto, un po’ per prepotenza e un po’ per altrui condiscendenza plagiarono il mito e ne fecero la propria anima e la propria coscienza; quell’anima e quella coscienza che furono il collante e il soffio vitale di un organismo sociale tra i più complessi e cosmopoliti della storia. E fu giusto così. La Sibilla aveva tutto previsto. Perché gli indizi sibillini dovevano essere una sfida e una molla per la conoscenza. Per sempre. Oggi compreso.
Nel 1897 Pio Rajna e Gaston Paris tentavano la prima spedizione scientifica dei tempi moderni sul Monte della Sibilla. Seguiva un secolo di iniziative, tra le quali si segnalavano quelle del Desonay, del Consalvatico, del Lippi Boncampi; per il resto incongrue e dilettantistiche nel migliore dei casi, più spesso devastanti. Infine l’oblio.
Lo spettacolo pietoso che si presenta giungendo oggi laddove in passato si individuava la grotta induce a pensare che sia stata tutta una fantasia.
La rabbia monta allorquando si ricorda le precise descrizioni che ne fece Antoine De La Sale e le testimonianze all’unisono di chi ha avuto la fortuna di visitare quei luoghi anche solo quaranta anni fa.
La desolazione si fa totale quando si ripensa alla scellerata, inutile e pericolosa strada che lacera le pendici e alle sciagurate opere di captazione del Consorzio Idrico che stanno vuotando il ventre poderoso della Grande Madre. Tutto nella più assoluta noncuranza degli Organi preposti!
I tempi, dicevamo, sono maturi per ricominciare le ricerche. Ma guai a tentativi dilettantistici e scoordinati, il cui inevitabile fallimento è stato la causa del disinteresse degli ultimi decenni.
Tali ricerche debbono essere condotte con grande serietà e professionalità; essere graduali, serrate, multidisciplinari; essere pianificate con cura e affidate a una équipe motivata, ben coordinata, paziente.
Ci si deve avvalere dell'archeologo e del letterato, dello speleologo e del geologo, dello storico e dell'epigrafista, del glottologo e dell'antropologo.
Va promossa una raccolta di tutti i documenti e testi inerenti; passato in rassegna il materiale fotografico; riletti gli scavi del Foro Boario; estesa la ricerca presso gli Archivi Vaticani, la Biblioteca Nazionale di Parigi, la Regia Accademia Belga, gli archivi Tedeschi, le Sovrintendenze, gli Istituti di Geofisica; creato un sito Internet.
Vanno ascoltati gli anziani, raccogliendo la tradizione orale e i ricordi personali; esaminati i toponimi nella versione originale; fatto un appello a tutti coloro che sanno o conservano qualcosa di interessante.
Quanta negligenza c'è stata nel trascurare la spontaneità delle tradizioni e delle testimonianze popolari, e quanti elementi sono andati così perduti, ce lo fa sospettare l'incredibile mole di indizi che tuttora emergono se solo ci si prende la briga di domandare in giro, di intervistare sessantenni e settantenni ancora operosi o arzilli ottantenni.
Rinviare ancora significherebbe fare la fine di Re Tarquinio, il cui temporeggiare lo condusse a perdere sei dei libri della sapienza sibillina, pagando gli ultimi tre al prezzo dei nove !
Superfluo sottolineare la necessità di proteggere i luoghi della ricerca archeologica da tombaroli, vandali e dilettanti, che tanti danni hanno già procurato.
In altre parole, occorre un impegno economico rilevante e una particolare serietà di intenti, scevra da commistioni politiche, onde operare le scelte migliori.
In considerazione della rilevanza dell’argomento, che ha già dato adito a contrastanti opinioni sulla stampa, bisogna dunque ribadire che le operazioni di scavo, in zona di interesse archeologico oltre che ambientale, non possono che essere il momento finale di questo lungo percorso di ricerca.
Esse operazioni vanno pianificate con grande cura avendo ben chiari i percorsi e gli obiettivi quanto i mezzi tecnologici e i finanziamenti.
In caso contrario, come detta la moderna archeologia, è più opportuno lasciare le zone protette sotto le coltri di terreno, in attesa di periodi, finanziamenti e tecnologie adatte.
Basti pensare all’investimento, in risorse umane e tempo, richiesto dalla metodologia lenta e meticolosa della archeologia moderna (rilevamenti, planimetrie, fotografie, stratificazione, setacciamento, numerazione, registrazione, rappresentazione grafica, catalogazione, interpretazione, schedatura, datazione,...).
Se invece non si volesse attribuire agli scavi sulla Sibilla la dignità di una esplorazione archeologica, andrebbe da sé la inutilità e impraticabilità di un rimaneggiamento territoriale impostato per gioco su una montagna già terribilmente ferita !
Neppure da trascurare i riflessi negativi, sullo stesso tessuto mitologico e sugli attesi sviluppi pubblicitari, che deriverebbero da ricerche infruttuose perché inadeguate.
E se è vero, come ci piace credere, che i segreti della Sibilla erano il patrimonio di conoscenze di tutto il suo popolo, ad esso debbono tornare; bandendo l'espropriazione culturale di privati o di elites.