nuvolarossa
16-08-02, 00:19
LA STORIA
Quando il re rispose a Battisti
«Allora, arrivederci a Trento»
di Vincenzo Calì
Che rapporti ebbero i parlamentari locali con Vittorio Emanuele III, il regnante di casa Savoia che tenne campo per quasi mezzo secolo? Cesare Battisti, il deputato di Trento, "italiano ma non regnicolo", secondo la regia dizione burocratica adottata a quel tempo per i trentini e gli adriatici, si presentò al Re il 23 maggio del 1915, alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia. Di quell'incontro così scrisse in giornata alla moglie: "...dal Re andai assieme ad Hortis e Pitacco. Ci trattenne più di un'ora. E' davvero un uomo simpatico, malgrado la rachitide che trapela da per tutto... Mi ha parlato dei confini storici del Trentino con meravigliosa competenza. Pare voglia far la guerra a fondo, alieno da mezze misure. Posa a democratico e ha rimbeccato ironicamente l'Hortis che si sdilinquiva in elogi e complimenti personali. A me ha ricordato certi fatti che ho denunciati in un discorso parlamentare, con palese ostentazione mi ha colmato di strette di mano e di sorrisi a preferenza dei due colleghi. Congedandomi gli ho detto: arrivederla a Trento. Mi ha risposto: certamente ". Negli ultimi giorni di guerra la delegazione parlamentare dei trentini e degli adriatici guidata da Enrico Conci lasciò Vienna e raggiunse Roma via Svizzera; non trovò a riceverli il Re ma il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, a cui come rappresentanti del popolo trentino fecero atto di dedizione.
Fu in tempi successivi che Conci, nella sua veste di presidente della giunta provinciale straordinaria, incontrò i reali in visita al Trentino; nel suo saluto alla monarchia che aveva solennemente dichiarato di voler rispettare le autonomie locali, non mancò di ricordare i doveri verso le nuove provincie: "...Con particolare attaccamento ed emozione alle Vostre Maestà rivolge il pensiero ed il cuore la popolazione della zona devastata dalla guerra, conscia che casa Savoia considerò sempre come il suo miglior vanto quello di largamente soccorrere i colpiti da una sventura, conscia che il governo Vostro, fedele interprete delle vostre intenzioni, molto ha già fatto per lenire le sue sofferenze, ma per l'immanità del disastro non poco ha ancora da fare...". Di lì ad un anno, a ridosso della marcia su Roma, nel silenzio della casa regnante, Conci sotto la minaccia dei fascisti sarà costretto ad interrompere l'attività della giunta provinciale, interruzione a cui seguirà nell'agosto del 1923 l'ingiunzione, comunicata dal prefetto Guadagnini, a dimettersi insieme agli altri popolari " in quanto non godono più della fiducia del governo". Sarà Degasperi nei giorni drammatici seguiti al delitto Matteotti a sperimentare di persona il distacco crescente di casa Savoia dal popolo (distacco che raggiungerà il suo culmine con la discesa, o fuga, a luci spente, da Roma verso Pescara e Brindisi, l'8 settembre 1943) allorquando tentò una resistenza al fascismo ritirandosi con altri parlamentari sull'Aventino. Ci ricordava Indro Montanelli che "...Degasperi fu con Turati uno degli animatori di questa disperata resistenza, cui solo un deciso intervento della corona avrebbe potuto dare un risultato concreto. Egli andò infatti, insieme ad Amendola e Di Cesarò, dal re....per avvicinarlo e cercare di strapparlo al fascismo, per tentare così di salvare l'Italia dal baratro verso cui si avviava. "Sentivamo (parole di Degasperi n.d.r.) già allora il precipizio verso cui si andava a finire. Ci siamo rivolti a lui ed io, l'ultimo dei tre capi dell'opposizione, comparvi in udienza dopo Di Cesarò ed Amendola. Ci siamo scambiati poi, noi tre, le informazioni e siamo arrivati alla stessa conclusione. Il tentativo di convincere il re a sciogliere la Camera, fare appello al popolo, cercare con noi una nuova strada, era fallito...".A conferma della natura del colloquio fra De Gasperi e il re ci sovvengono le parole di Iginio Giordani, intimo dello statista trentino e a tutt'oggi forse il suo miglior biografo: "...Poiché quell'anno cadeva il venticinquesimo di regno di Vittorio Emanuele III, anche rappresentanti di gruppi di opposizione della Camera salirono il Quirinale per porgere omaggi augurali. Andò prima l'on. Colonna Di Cesarò, poi Amendola e infine De Gasperi, tutt'e tre decisi di valersi dell'incontro per richiamare il sovrano al rispetto dello Statuto, fatto a brani dall'arbitrio fascista. De Gasperi espose questa richiesta a nome del suo partito e accennò anche a un fenomeno, che destò il vivo interesse del re; alla diffusione del repubblicanesimo persino nelle valli trentine in reazione alla dispotia livellatrice del regime:"A tutt'e tre Vittorio Emanuele rispose che avrebbe riferito, secondo la prassi costituzionale, ogni cosa al Presidente del Consiglio: in questo egli stava allo Statuto. Quando i tre, dopo l'udienza, si scambiarono le impressioni, convennero che non c'era niente da fare".
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tratto da ALTO ADIGE 13 luglio 2002
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http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/index-12.html
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Quando il re rispose a Battisti
«Allora, arrivederci a Trento»
di Vincenzo Calì
Che rapporti ebbero i parlamentari locali con Vittorio Emanuele III, il regnante di casa Savoia che tenne campo per quasi mezzo secolo? Cesare Battisti, il deputato di Trento, "italiano ma non regnicolo", secondo la regia dizione burocratica adottata a quel tempo per i trentini e gli adriatici, si presentò al Re il 23 maggio del 1915, alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia. Di quell'incontro così scrisse in giornata alla moglie: "...dal Re andai assieme ad Hortis e Pitacco. Ci trattenne più di un'ora. E' davvero un uomo simpatico, malgrado la rachitide che trapela da per tutto... Mi ha parlato dei confini storici del Trentino con meravigliosa competenza. Pare voglia far la guerra a fondo, alieno da mezze misure. Posa a democratico e ha rimbeccato ironicamente l'Hortis che si sdilinquiva in elogi e complimenti personali. A me ha ricordato certi fatti che ho denunciati in un discorso parlamentare, con palese ostentazione mi ha colmato di strette di mano e di sorrisi a preferenza dei due colleghi. Congedandomi gli ho detto: arrivederla a Trento. Mi ha risposto: certamente ". Negli ultimi giorni di guerra la delegazione parlamentare dei trentini e degli adriatici guidata da Enrico Conci lasciò Vienna e raggiunse Roma via Svizzera; non trovò a riceverli il Re ma il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, a cui come rappresentanti del popolo trentino fecero atto di dedizione.
Fu in tempi successivi che Conci, nella sua veste di presidente della giunta provinciale straordinaria, incontrò i reali in visita al Trentino; nel suo saluto alla monarchia che aveva solennemente dichiarato di voler rispettare le autonomie locali, non mancò di ricordare i doveri verso le nuove provincie: "...Con particolare attaccamento ed emozione alle Vostre Maestà rivolge il pensiero ed il cuore la popolazione della zona devastata dalla guerra, conscia che casa Savoia considerò sempre come il suo miglior vanto quello di largamente soccorrere i colpiti da una sventura, conscia che il governo Vostro, fedele interprete delle vostre intenzioni, molto ha già fatto per lenire le sue sofferenze, ma per l'immanità del disastro non poco ha ancora da fare...". Di lì ad un anno, a ridosso della marcia su Roma, nel silenzio della casa regnante, Conci sotto la minaccia dei fascisti sarà costretto ad interrompere l'attività della giunta provinciale, interruzione a cui seguirà nell'agosto del 1923 l'ingiunzione, comunicata dal prefetto Guadagnini, a dimettersi insieme agli altri popolari " in quanto non godono più della fiducia del governo". Sarà Degasperi nei giorni drammatici seguiti al delitto Matteotti a sperimentare di persona il distacco crescente di casa Savoia dal popolo (distacco che raggiungerà il suo culmine con la discesa, o fuga, a luci spente, da Roma verso Pescara e Brindisi, l'8 settembre 1943) allorquando tentò una resistenza al fascismo ritirandosi con altri parlamentari sull'Aventino. Ci ricordava Indro Montanelli che "...Degasperi fu con Turati uno degli animatori di questa disperata resistenza, cui solo un deciso intervento della corona avrebbe potuto dare un risultato concreto. Egli andò infatti, insieme ad Amendola e Di Cesarò, dal re....per avvicinarlo e cercare di strapparlo al fascismo, per tentare così di salvare l'Italia dal baratro verso cui si avviava. "Sentivamo (parole di Degasperi n.d.r.) già allora il precipizio verso cui si andava a finire. Ci siamo rivolti a lui ed io, l'ultimo dei tre capi dell'opposizione, comparvi in udienza dopo Di Cesarò ed Amendola. Ci siamo scambiati poi, noi tre, le informazioni e siamo arrivati alla stessa conclusione. Il tentativo di convincere il re a sciogliere la Camera, fare appello al popolo, cercare con noi una nuova strada, era fallito...".A conferma della natura del colloquio fra De Gasperi e il re ci sovvengono le parole di Iginio Giordani, intimo dello statista trentino e a tutt'oggi forse il suo miglior biografo: "...Poiché quell'anno cadeva il venticinquesimo di regno di Vittorio Emanuele III, anche rappresentanti di gruppi di opposizione della Camera salirono il Quirinale per porgere omaggi augurali. Andò prima l'on. Colonna Di Cesarò, poi Amendola e infine De Gasperi, tutt'e tre decisi di valersi dell'incontro per richiamare il sovrano al rispetto dello Statuto, fatto a brani dall'arbitrio fascista. De Gasperi espose questa richiesta a nome del suo partito e accennò anche a un fenomeno, che destò il vivo interesse del re; alla diffusione del repubblicanesimo persino nelle valli trentine in reazione alla dispotia livellatrice del regime:"A tutt'e tre Vittorio Emanuele rispose che avrebbe riferito, secondo la prassi costituzionale, ogni cosa al Presidente del Consiglio: in questo egli stava allo Statuto. Quando i tre, dopo l'udienza, si scambiarono le impressioni, convennero che non c'era niente da fare".
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tratto da ALTO ADIGE 13 luglio 2002
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