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Ichthys
16-08-02, 00:35
di Gaspare Gorresio
estratto dagli:
Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino pubblicati dagli Accademici Segretari delle due Classi. Volume secondo, 1866-67, Torino, Stamperia Reale, 1867, pp. 582-589

Gli studi storici presi nel più ampio loro significato e nelle più larghe loro attinenze tengono ora il campo nelle scienze morali. Le recenti e grandi rivelazioni dell’Oriente, le nuove ed ardite ipotesi delle scienze naturali, la coscienza che a certi momenti di lor vita i popoli vogliono avere di loro stessi e delle passate loro condizioni, contribuirono a suscitare, ed ora alimentano l’ardore delle ricerche storiche. Né la sola storia propriamente detta crebbe, si distese, ed allargò la cerchia delle sue indagini, ma gli studi filologici in generale, che tanta parte ora occupano nel dominio della scienza, presero avviamento ed indirizzo essenzialmente storico. La filologia comparata, raccolte e raunate le membra sparse d’una grande famiglia di lingue affini, e ragguagliati l’un col l’altro i costitutivi loro elementi, il modo di lor composizione, e le leggi del loro organismo e delle loro trasformazioni, pervenne a dimostrare con mirabile acume d’analisi la comunanza della loro origine, ed a stabilire l’antica unità delle nazioni Indo-Europee, della quale rimanevano bensì manifesti indizi, ma nessun argomento storico atto a chiarirli e a coordinarli. Né ciò solo: ma investigando quali e quanti vocaboli attenenti alla vita domestica e sociale, e indicanti un certo grado di civil coltura, avessero fra lor comuni due o più favelle d’una [583] medesima famiglia, e come altri di quei vocaboli si trovassero poi non più comuni, ma peculiari e proprii e con forma particolare negli altri idiomi affini, la filologia comparata riuscì a stabilire con sufficiente probabilità 1’ordine e la successione delle diverse migrazioni dei popoli Indo-Europei: ché è ragionevole il supporre che siano rimasti più lungo tempo uniti in comunanza di vita quei popoli e quegli idiomi che hanno fra lor comune maggior numero di vocaboli appartenenti al vivere domestico c civile, e siansi per contrario divise assai più innanzi dal comune ceppo, ignare ancora di quei vocaboli e delle cose da lor significate, quelle famiglie e quelle stirpi che dovettero poi più tardi e ciascuna da sé spartitamente crear quelle voci nella lor favella.

Alla filologia comparata s’aggiunse un nuovo e potente sussidio per salire alle origini storiche dei popoli Indo-Europei, quello, voglio dire, della mitologia comparata. Nelle tradizioni delle varie stirpi Indo-Europee si ritrovano dispersi, c dove più dove meno alterati, miti, leggende, simboli che accennano ad una fonte comune, ad un semplice concetto primitivo da cui derivarono. La mitologia comparata, messasi a rintracciare con sagacità maravigliosa gli sparsi vestigi di quei miti, le schiette ed antiche loro forme e le varie loro trasformazioni, pervenne a trovarne ed a chiarirne l’origine, l’idea prima generatrice, la fonte loro comune.

Questa comunanza d’idiomi e di idee, questa unità d’origine dei popoli Indo-Europei rintracciata e messa in luce nel secolo nostro sarà certamente una delle più nobili glorie della scienza moderna. Prego gli augusti Personaggi e gli illustri Signori che onorarono di loro presenza questa adunanza, la quale rimarrà memoranda [584] negli annali dell’Accademia, che non sia loro grave che io per brevi istanti e con rapidi tratti venga delineando la recondita altezza delle origini nostre.

Ai confini occidentali dell’India, in quella regione che dai cinque fiumi che la irrigano fu chiamata dai Greci Pentopotamia, dagli Aryi Sapta-Sindhu, ed oggi è il Penjab, stanziò anticamente, venti e più secoli innanzi l’era, una vasta aggregazione di famiglie e di tribù, che andate lungamente errando per le alture dell’Asia centrale, ed avuta poi più ferma e durevole sede nella Battriana e nella Sogdiana, regioni montane e liete per cui trascorre divallando 1’Oxus, erano quindi discese nelle fertili e belle pianure sottoposte, rallegrate da splendido cielo, da mirabile fecondità e da limpide acque. Quelle famiglie, quelle tribù che si erano a mano a mano accozzate insieme, e che formeranno più tardi il popolo Indo-Aryo, attendevano in quei primordi dell’errante loro vita all’agricoltura e alla pastorizia. La loro lingua, che svolgendo via via il fecondo e robusto suo germe, diventerà più tardi un capolavoro dell’ingegno umano, e le cui propaggini vigorose si ramificheranno nei principali idiomi europei, era allora un complesso di monosillabi radicali, dotati di una possanza maravigliosa, determinabili in modo infinito, e fecondi di tutte le immagini della parola e del pensiero.

Nel primo periodo della loro vita i popoli sono principalmente dominati dall’aspetto del mondo esterno, dall’azione possente, irresistibile dei fenomeni naturali; quindi quel sentimento intimo, spontaneo, universale di un Essere sovrano, quel sentimento che spinge gli uomini all’adorazione, al culto del divino, all’espressione del pensiero religioso, dovea di necessità in quel primo periodo di lor vita manifestarsi in modo conforme al loro [585] sentire, volgersi ai grandi oggetti sensibili, idoleggiarli, farli divini, esplicarsi insomma nel culto della natura. Tale appunto fu il culto primitivo di quelle genti stanziate nelle regioni dell’Indo. Elle invocarono con preci, sacrifizi ed inni l’aurora, il sole, la luna, il fuoco, i venti, i fiumi; salutavano con gioia il nascente crepuscolo del mattino e lo schiarirsi del giorno, celebravano la vittoria del Dio della luce sulla nemica tenebra della notte, e scioglievano inni di grazia alle divinità protettrici, mediante il cui soccorso elle uscivano vittoriose dall’incessante lotta colle forze della natura e colle stirpi loro avverse. Nessun culto naturale, io credo, si manifestò mai con inni cosi nobili; tutto in essi ritrae dalla grandezza della natura, dagli aspetti sublimi che si offerivano a quelle vergini imaginative, dalla bellezza d’uno splendido cielo, dalla vastità dell’orizzonte profondo dei monti. La lingua di quegli inni, benché piena di forme arcaiche, di strutture più che ardite, d’un certo disordine che rivela il conato del pensiero nel trasformare in parola sensibile il verbo ideale, manifesta pur nondimeno una gagliardia ed una freschezza maravigliosa.

I cantori antichi degli inni vedici s’appellavano Risci, ossia veggenti, vati; i loro nomi alludevano al loro ufficio: Madhuc’andas è il poeta dal metro soave, Jetri è il cantor vittorioso, Medhatiti è l’ospite del sacrificio, Kanva è colui che scioglie l’inno di lode. Essi erano ad un tempo poeti e sacerdoti. Mentre arde il fuoco del sacrifizio spruzzato di pingue latte, fuoco suscitato conforme ai riti col pramnathana dell’arani, ossia col fregare insieme due aridi legni (origine del gran mito di Prometeo rapitor del fuoco), il Risci capo della tribù intuona il canto solenne in faccia ai gioghi dell’Himalaya ed alle correnti dell’Indo.

[586] Le condizioni e i primordi d’una delle più antiche società che ha preceduto le nostre, e si collega per cento vincoli con esse, sarebbero nascosti in un’oscurità impenetrabile, se non ne fosse rimasto qual autorevole monumento l’innografia dei Vedi; in essi si ritrova la prima storia delle stirpi nostre.

Dopo un lungo peregrinare nelle regioni dell’Indo, preludio austero alla loro civiltà futura, le stirpi Arye si andarono a mano a mano allargando ad oriente, distendendosi nei bei piani dell’ampia valle che bagna il Gange. Colà essi fermarono stabil sede, e spartiti in più centri di civil coltura, ebbero potenza e gloria, una ricca e nobile letteratura, che s’appellò sanscrita, e percorsero tutto lo stadio d’una civiltà luminosa.

Ma da quel gran ceppo primitivo delle nostre schiatte, disteso fra l’Hindukus e la Bukaria, nella Sogdiana, nella Battriana, e da cui, come poc’anzi diceva, si spiccò il ramo delle stirpi Arye, più altri rami di popoli si staccarono a mano a mano, e portando con loro g1i elementi del comune idioma più o meno elaborati, tradizioni, idee, credenze, simboli e miti, si diffusero ad oriente ad occidente, ad austro e a borea possenti iniziatori delle civiltà nostre. Perocché le stirpi Indo-Europee furono nei tempi antichi, come nei moderni, le stirpi espansive per eccellenza; dall’Himalaya all’Atlantico esse si sparsero per tutto con larga piena, occuparono sedi distanti e diverse, ravvicinarono coi loro commerzi e vincolarono gli uni agli altri i popoli disgregati della famiglia umana, e trovarono infine recentemente i due più possenti mezzi di propagazione e di espandimento, l’elettricità ed il vapore.

Dalla Battriana, punto principale d’irradiamento, e che oggi ancora ha nome in Oriente di madre di popoli, si [587] diramarono come da un gran centro più linee di migrazioni. Una linea tirata da quel centro e dirizzata al sud-ovest rappresenta il ramo iranico, che occupò ab antico la Persia e la Media, e v’iniziò quella civiltà e quel culto cui animò del suo spirito il Mazdaismo e che ebbero per più secoli celebrità e splendore. Una seconda linea, condotta nella direzione del lontano occidente indicherà la migrazione celtica, la prima e la più antica quella che più si allargò verso la regione occidentale occupando parte della Spagna, le Gallie, la Brettagna fino al limite dell’Atlantico. Fra questa e la prima si diffusero le stirpi che divennero famose col nome di Greco-latine e da cui uscirono due mirabili civiltà e popoli di gran nome, gli antichi Pelasgi, i Dori, i Ioni, i Tirreni, gli Itali. Al disopra della linea celtica, salendo verso settentrione corre la linea germano-scandinava; più alto ancora la lituano-slava, per le quali si avviarono al nord dell’Europa i popoli compresi più tardi sotto quelle denominazioni. La via che ei percorsero con ordine di successione che la scienza ha saputo discernere e stabilire, è segnata oggi ancora da reminiscenze, da nomi, da indizi che ei lasciarono nelle lunghe loro migrazioni e nelle frequenti loro soste, e che rimasero prove irrefragabili del passaggio antico di quella grande fiumana di popoli.

Tutte quelle genti spiccatesi da un ceppo comune dell’Asia centrale, ed allargatesi successivamente e con varia fortuna ad occupare le diverse contrade d’Europa, combattendo le razze indigene ed avverse che trovarono già stanziate in ogni parte, quelle genti sono i nostri antenati. Esse si rannodano ad una razza comune favorita oltre ogni altra dalla natura, che con forza dilatante, immensa occupò le più belle contrade della terra, che [588] con lena indefessa iniziò i più alti e fecondi trovati di cui si onora la specie umana, e dalla quale uscirono le menti più splendide, VALMIKI ed OMERO, PLATONE e LEIBNITZ, NEWTON e LAGRANGE.

Fra le molte tradizioni mantenutesi fra i popoli d’Europa, le quali, oltre all’affinità degli idiomi, accennano ad una comunanza d’origine colle genti Arye, meritano special menzione nella Grecia la teogonia d’Esiodo, i cui miti, le cui storie divine rivelano un’intima affinità colle idee Vediche, nelle contrade settentrionali le leggende, le Saghe delle Edde scandinave e della grande epopea dei Nibelungen, pieni amendue di miti, di idee e di simboli orientali; fra gli usi e i riti che confermano quell’affinità primitiva citerò il solenne sacrificio del cavallo, l’asvamedha delle stirpi Arye, celebrato pure anticamente e con riti conformi dalle stirpi germane; citerò l’uso comune agli antichi popoli Scandinavi e Germani d’ardere le donne rimaste vedove sul rogo stesso che consumava il corpo dell’estinto consorte, uso lungamente praticato dai popoli Aryi. Un recente viaggiatore inglese narra d’aver trovato oggidì ancora ai piedi dell’Himalaya, nei villaggi abitati dai Siki, tutta l’organizzazione antica della comune teutonica; egli nota nella costituzione sociale degli odierni Siki la maggior parte degli ordini propri degli antichi Sassoni, somiglianza di leggi, d’usi e d’idee, il tipo primitivo della Germania di TACITO.

Ma quale fu la causa che costrinse quelle stirpi antiche ad abbandonare le loro sedi primitive e ad incominciare quel movimento di migrazioni che ho descritto poc’anzi? Lasciando da parte le ragioni provvidenziali, arcane e le teorie della filosofia della storia, credo potersi affermare che la causa principale, immediata di quel gran [589] movimento di popoli furono le razze Mongoliche stanziate nelle parti settentrionali dell’ampia catena dell’Himalaya, dividitrice antica delle schiatte umane, e che o per angustia di spazio o per avidità di stanza migliore, riversatesi sulle stirpi Indo-Europee che occupavano la parte meridionale di quelle alture, produssero quei grandi sconvolgimenti di tribù, di famiglie e di genti, da cui dovevano uscire i popoli d’Europa. La razza Mongolica fu allora, sì come in tempi più a noi vicini, la prima e fatal motrice dei profondi scommovimenti che conquassarono e dislocarono sulla terra le stirpi umane. Uno straboccamento di quei terribili nomadi precipitò i popoli germanici sull’impero romano nei primi secoli dell’èra; un nuovo dilagamento di quei popoli conquassò il mondo nel secolo undecimo; e non sarà questo forse l’ultimo dei diluvi di quelle genti barbare e diverse. La guerra fra quelle razze e gli Aryi fu permanente, ostinata, feroce; l’attestano le leggende eroiche del vecchio Iran, le memorie vediche e le iscrizioni cuneiformi.

Le recondite affinità dei popoli Indo-Europei, i loro vincoli di comune origine furono bensì già presentiti in addietro; ma la gloria d’averli messi in piena luce scientifica, e d’aver ricostrutto la storica unità delle schiatte Indo-Europee, appartiene alla scienza moderna.