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psisicilia
16-08-02, 22:00
Il Partito Socialista e democrazia laica. Un dibattito alle origini del PSI

Liberalsocialisti, Liberaldemocratici (1)

da "Critica Sociale" (http://www.kore.it/critica/sociale.htm)

Una divisione da ricomporre

di GIOVANNI SABATUCCI

Il rapporto tra socialismo e democrazia laica sta all'inizio della storia del Partito socialista, e in qualche modo precede la sua fondazione. E' cosa largamente nota che il Partito socialista italiano - più esattamente il Partito dei lavoratori italiani, poi Partito socialista dei lavoratori italiani e poi Partito socialista - nasce a Genova nell'agosto del 1892 nella Sala dei Carabinieri genovesi. Il partito nasce grazie a un'operazione di separazione, a una scissione con la componente anarchica, scissione che era già avvenuta peraltro a livello internazionale, all'atto della fondazione dell'Internazionale socialista nell''89 e che si consuma al congresso di Genova.

Meno noto è il fatto che il Partito socialista nasce anche da un ulteriore e più complicato processo di separazione. Il PSI si individua come tale separandosi da un lato dall'operaismo corporativo ed "esclusivista" di una componente che aveva già dato vita dieci anni prima al Partito operaio, partito di lavoratori manuali; dall'altro, simmetrica a questa, c'è la separazione, o quanto meno la più netta distinzione, dalle formazioni di democrazia laica, radicale e repubblicana con cui i socialisti avevano fino allora condiviso battaglie, lotte non solo elettorali, riviste, organi di stampa, circoli, in un rapporto che era stato non sempre tranquillo e pacifico ma purtuttavia molto intenso, stretto e per certi aspetti simbiotico. Tanto da far pensare a chi si ponga nell'ottica di quegli anni - gli anni '80 dell''800 - che l'esito che noi conosciamo e che siamo portati a considerare scontato, così scontato non fosse.

Il problema del rapporto tra socialisti e formazioni democratiche, radicali, repubblicane è un problema che non c'è solo in Italia, riguarda tutto il movimento socialista europeo. A cominciare dalla Francia, dove i primi socialisti e i democratico-repubblicani combattono insieme, almeno fino a un certo punto, le rivoluzioni del '48. Esiste una corrente che si chiama demo-socialista (demosoc), che attraversa tutta la Francia del Secondo Impero. Nella Comune parigina ritroviamo democratico-giacobini di varie scuole, libertari, federalisti, anarchici e socialisti. C'è poi in Francia un processo piuttosto travagliato di convivenza tra diverse correnti socialiste, ma c'è sempre, e rimane anche dopo che molti anni più tardi, all'inizio del '900, si forma il Partito socialista francese (la Sfio), un collegamento stretto con la democrazia laica. Ci sono figure di confine - lo stesso Jaurès - che hanno collegamenti molto stretti con il mondo delle formazioni politiche democratico-radicali.

La Gran Bretagna se vogliamo è il caso limite in questo senso. Un Partito laburista nasce soltanto nel 1906: prima di allora era del tutto normale che le organizzazioni dei lavoratori si orientassero, quando dovevano fare le loro scelte elettorali, verso i liberali che erano il loro partito di riferimento. I liberali intesi all'inglese, in quanto polo progressista del sistema che vedeva sull'altro versante i conservatori. E anche dopo la formazione del Partito laburista per parecchio tempo continuano le alleanze tra liberali e laburisti: il termine "lib-lab" nasce allora, e l'alleanza si rompe soltanto negli anni '20 quando il Partito laburista diventa il sostituto dei liberali nella rappresentanza dell'altro polo del sistema.

Il caso opposto è invece quello tedesco, perché la Germania è il paese in cui un partito socialista nasce prima che altrove. E' il primo paese in cui nasce un grande partito socialista: la Socialdemocrazia, Spd. Però attenzione: si chiama "socialdemocrazia" non a caso, perché nasce dall'incontro tra la componente più specificamente socialista, marxista (i cosiddetti eisenachiani), e la componente che invece si rifaceva all'Associazione generale dei lavoratori tedeschi fondata da Ferdinand Lassalle, personaggio interessantissimo che coniugava socialismo e democrazia e che soprattutto aveva incentrato le sue battaglie sulla lotta per il suffragio universale (ci si potrebbe anche domandare come sarebbe stata la storia del socialismo se Lassalle non fosse morto in duello a meno di quarant'anni: era un personaggio forte e probabilmente avrebbe conteso a Marx la leadership sul movimento operaio tedesco). Solo più tardi, con il congresso di Erfurt del '91, la socialdemocrazia fa una scelta chiaramente marxista. Ma questa denominazione indica che i socialisti tedeschi inglobano in qualche modo le istanze e la rappresentanza della democrazia tedesca. Possono farlo perché in Germania non c'è un partito democratico, ci sono dei liberali di sinistra (liberali progressisti come in Gran Bretagna), e questo forse facilita in qualche modo il fatto che la socialdemocrazia si faccia carico, almeno in parte, delle istanze democratiche, pur nella sua scelta classista.

Opposto da questo punto di vista è il caso dell'Italia, dove invece le formazioni di democrazia laica sono numerose, forti e ben radicate nella società. Anche nella tradizione risorgimentale questo rapporto tra socialismo e democrazia è assai più stretto e, per altri versi, più complicato che altrove.

Tanto per cominciare dobbiamo ricordare che tutti i padri fondatori del socialismo italiano sono passati da lì, attraverso la militanza nelle file garibaldine, mazziniane, radicali. I più anziani, i Bignami, gli Gnocchi Viani, erano stati loro stessi garibaldini. Gli altri, i più giovani, quelli della generazione di Turati o i più giovani ancora, che non avevano fatto in tempo a fare le spedizioni garibaldine, venivano da quella rete associazionistica diffusa soprattutto nel Nord, da quell'ambiente, da quella temperie culturale che è stata definita la "scapigliatura democratica".

Ma non solo. Le prime organizzazioni largamente rappresentative, della classe operaia italiana, almeno di quel poco di classe operaia che c'era in Italia già negli anni '60, '70, '80 dell''800, non erano organizzazioni socialiste, ma erano le cosiddette società operaie di mutuo soccorso legate dal mazziniano Patto di fratellanza, erano essenzialmente repubblicane. Poi arriva in Italia, negli anni '70 la svolta del socialismo anarchico, del bakuninismo, che però, nonostante le forti rotture ideologiche che introduce, non rompe la rete di collegamenti che esisteva tra mondo socialista e "internazionalista" e mondo dell'associazionismo democratico-repubblicano e radicale. Un caso tipico è quello di Andrea Costa, prima anarchico, poi, a partire dal '79, dalla famosa "svolta", socialista: Costa viene eletto in Parlamento nell''82 con i voti dei democratici e dei repubblicani romagnoli.

Questo collegamento continua, anche quando Costa fonda il suo partito, che si chiama Partito socialista rivoluzionario di Romagna e poi Partito socialista rivoluzionario italiano, Psri (ma italiano, in realtà, non lo sarà mai, resterà una formazione locale).
Ancora, nel 1883 si forma un'organizzazione che si chiama "Fascio della Democrazia" - dove "fascio" voleva dire semplicemente "lega, "unione" - che era un po' l'erede di quella Lega della Democrazia a cui ha accennato prima Stefano Carluccio. I leader del Fascio sono tre: Cavallotti per la democrazia radicale, Bovio per i repubblicani, e Andrea Costa in rappresentanza di quelli che già si chiamavano socialisti.

Quando si cominciano a formare anche in Italia le prime organizzazioni operaie su base essenzialmente classista, qualcosa di diverso quindi dalle società di mutuo soccorso mazziniane che già esistevano, queste nuove associazioni hanno dirigenti radicali e democratici. Per esempio il Consolato operaio milanese, una delle prime di queste organizzazioni, era guidato da Romussi, che poi sarebbe diventato il direttore del "Secolo", e da Antonio Maffi che è un po' la figura cruciale dell'incontro fra socialismo e democrazia laica. Maffi era un radicale ed era deputato in Parlamento, dove era stato eletto nell''82 insieme a Costa; era un operaio, un fonditore di caratteri, ed era uno dei leader di questo associazionismo che faceva riferimento alla democrazia.

Il legame, come ho detto, non è sempre pacifico, ci sono momenti di rottura: uno era stato la nascita del bakuninismo in Italia. Un altro, proprio in reazione a questo legame così stretto tra socialismo e democrazia laica, è la formazione di quello che un po' impropriamente viene chiamato il Partito Operaio Italiano (Poi) nell''82. Dico "impropriamente" perché non era un partito, erano leghe di mestiere che si organizzavano tra loro per sostenere una concezione operaista, "esclusivista" e corporativa. Gli operai prendevano alla lettera il motto che era stato già della Prima Internazionale per cui i lavoratori devono loro stessi prendere in mano i loro destini. Erano i lavoratori che dovevano fare il partito e non potevano essere ammessi in quelle formazioni altri che i lavoratori del braccio. Anche i dirigenti erano degli operai o comunque degli artigiani, dei lavoratori veri: Giuseppe Croce era un guantaio, Alfredo Casati era un bronzista e così via (Croce e Casati sono dei nomi che ci fanno pensare alle grandi famiglie liberali: invece erano operai autodidatti). Sono gli stessi lavoratori innalzano la bandiera del classismo intransigente e cercano di staccarsi, di emanciparsi dalla democrazia radicale.

C'è anche un momento di scontro piuttosto drammatico nelle elezioni dell''86, quando gli operaisti presentano proprie candidature e i radicali perdono a Milano il seggio che avevano. Cavallotti si arrabbia e accusa gli operaisti di avere praticamente fatto il gioco delle forze della conservazione, di essere quasi degli agenti provocatori. La cosa è molto antipatica perché poi arriva la repressione poliziesca contro gli operaisti, che vengono arrestati, e Cavallotti deve in qualche modo pentirsi di quello che ha detto. E' una rottura abbastanza seria e drammatica, ma non irreversibile. Tanto più che la corrente operaista in buona parte verrà riassorbita nell'alveo del socialismo.

Comunque, per tutti gli anni '80, nonostante gli scontri e le fratture, l'interscambio fra componenti socialiste e democratico-repubblicane continua strettissimo, nei circoli, nelle associazioni, nelle riviste. Una di queste per esempio è "Cuore e Critica" diretta da Arcangelo Ghisleri, di cui Turati è redattore. Turati poi la rileva e la trasforma nel '91 in "Critica Sociale": che è appunto la rivista che ha organizzato questo seminario.

Frattanto si continua a parlare di un "partito grande", un partito che tenga insieme le diverse componenti della democrazia e del nascente socialismo. Ad esempio nel 1890, quando il processo di enucleazione del socialismo dalla democrazia è già abbastanza avanzato, Filippo Turati, che poi sarà il protagonista di questa operazione, è ancora membro dell'Unione Democratico-sociale di Milano; Antonio Labriola - lo stesso che al momento della formazione del partito socialista assumerà la posizione più intransigente e criticherà Turati per la sua eccessiva disposizione al compromesso - fa ancora parte del Circolo Radicale di Roma. Questa era la situazione all'inizio degli anni '90! L'ipotesi del "partito grande", che tenesse insieme socialismo e democrazia laica, era ancora viva: e un personaggio come il succitato Antonio Maffi, operaio, radicale ma cofondatore poi del Partito Socialista, ne era portavoce.

Perché questo progetto a un certo punto declina e viene poi scartato? Perché in Italia e soprattutto in Europa le cose prendono un'altra direzione: la tendenza è quella della formazione di partiti che si chiamino "socialisti" e che abbiano una base essenzialmente - anche se non esclusivamente - classista. Questa tendenza si afferma a livello internazionale già con la fondazione, nei due congressi di Parigi dell''89, dell'Internazionale Socialista. Ma decisivo è soprattutto un altro evento: la grande vittoria elettorale dei socialdemocratici tedeschi nel febbraio 1890. I socialdemocratici tedeschi, che venivano da quasi un decennio di leggi eccezionali, di repressioni che ne avevano in qualche modo frenato anche la possibilità di manifestarsi liberamente, organizzati nel loro partito - che di lì a un anno si sarebbe dato un programma marxista destinato a diventare il modello per tutti gli altri partiti socialisti - riportano una vittoria elettorale clamorosa con un quarto circa dei voti. Una vittoria che ha delle conseguenze epocali e provoca (o contribuisce a provocare) niente meno che la caduta di Bismarck. Insomma il modello della socialdemocrazia tedesca si afferma come vincente. Segue poi il congresso di Erfurt e nell'agosto del '91 c'è il congresso di Bruxelles, il vero primo congresso dell'Internazionale Socialista, da cui gli anarchici sono cacciati, anche con maniere un po' brutali.

Insomma questo modello si afferma in Europa, si propone come un modello vincente; ed è la forza di questo modello che porta Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Prampolini, Bissolati e alcuni ex operaisti a forzare i tempi per l'operazione che porterà alla formazione del Partito dei lavoratori, poi Partito socialista dei lavoratori e poi (dal congresso di Parma del '95) Partito socialista.

Le tappe sono note: la fondazione, nell'89, della Lega socialista milanese, che si distingue chiaramente sul terreno ideologico dalle organizzazioni della democrazia radicale repubblicana; la fondazione di "Critica Sociale" sul tronco della vecchia "Cuore e Critica"; la fondazione l'anno dopo (nel '92) di un settimanale che si chiama Lotta di Classe, che sarà diretto da Prampolini, per sottolineare questa opzione che è socialista su base classista, anche se non in maniera esclusiva e corporativa come inteso dai vecchi operaisti.

Così ci si avvicina, per varie tappe. C'è il congresso del maggio '90 del Partito Operaio che comincia ad avvicinarsi alle tematiche socialiste. C'è la formazione di altri partiti: quello repubblicano nasce in questo periodo, mentre i radicali danno vita, nel '90, al Patto di Roma, che in realtà è un manifesto programmatico, aperto sì al contributo dei socialisti del movimento operaio, ma che in realtà traccia le linee di un partito democratico; gli stessi anarchici, con il congresso di Capolago del '91, danno vita a una propria formazione. Ancora: nelle società operaie di matrice repubblicana mazziniana emerge una corrente collettivista, che finirà col confluire nel Psi. Insomma tutto cospira, nonostante le numerose resistenze, a quello che sarà l'esito del congresso di Genova e prima ancora di quella sorta di congresso preparatorio che era stato il Congresso operaio di Milano del '91: dove il povero Maffi aveva cercato di tenere ancora insieme le varie componenti, e aveva preparato uno statuto che poi sarebbe stato radicalmente emendato da Turati: sarà lui il vero vincitore, il deus ex machina della scelta socialista del congresso di Genova, dove Maffi risulterà sconfitto. Per inciso: Maffi è un personaggio poco conosciuto e anche misconosciuto, nel senso che la storiografia sulle origini del movimento operaio parla di lui come di un personaggio modesto, un eclettico, un politicante di seconda linea, un po' un pasticcione. Invece era una figura-chiave, che aveva un collegamento stretto da un lato col mondo della democrazia radicale e dall'altro con quello dell'associazionismo operaio. Comunque viene sconfitto ed entrerà poi ugualmente nel Partito Socialista, non avendo però alcun ruolo di rilievo, e finirà per occuparsi per il resto della sua vita di cooperazione più che di politica. Vince invece la linea di Turati, Prampolini, Kuliscioff. La linea della formazione di un Partito Socialista che fondi la sua azione su due pilastri: da un lato la "lotta dei mestieri" e dall'altro la lotta per la conquista dei pubblici poteri. E' un partito non esclusivista ma con una connotazione socialista netta e con la scelta di un referente sociale privilegiato che è appunto la classe operaia.

Questa è la vicenda riassunta proprio nei suoi termini essenziali. A conclusione della quale bisogna porsi due domande. La prima è se questo esito fosse fatale, posto che nella politica non c'è mai nulla di necessitato. O se avesse invece un'alternativa reale e plausibile. La risposta è che probabilmente era inevitabile, nei limiti in cui un evento politico può essere giudicato inevitabile. Le linee di tendenza a livello italiano ed europeo erano quelle, il modello della socialdemocrazia tedesca era forte e vincente, era il modello non solo di una scelta ideologica o di classe ma di una forma-partito, era l'archetipo di quello che sarebbe stato il moderno partito di massa, basato sull'adesione individuale, sulla struttura territoriale, le sezioni ecc.. Anche per questo era un modello vincente.

Non solo: l'ancoraggio alla classe e alle organizzazioni che si cominciavano a fondare - c'erano le camere del lavoro e le prime federazioni di mestiere, le società di "resistenza" (ossia finalizzate agli scioperi) e le leghe contadine - era assolutamente imprescindibile per un partito che volesse dirsi socialista o che comunque volesse organizzarsi su quella base. Ed era non solo una necessità di tipo politico, ma una sorta di ancoraggio, l'antidoto alle tentazioni di tipo giacobino. E' l'idea di appoggiare la propria azione politica su qualcosa di reale, che sta nella società. E' l'idea di un radicamento sociale come la migliore garanzia contro le fughe in avanti che invece spesso la democrazia giacobina si consente. E' la sostanza di quello che poi si chiamerà (ma già è) il socialismo riformista.

Quindi alla domanda "era evitabile questo esito socialista?" io risponderei, "Tutto sommato, no".

C'è però una seconda domanda: "Con questa scelta si perde qualche cosa?", alla quale risponderei "Sicuramente sì". Forse non si poteva fare altrimenti ma qualche cosa si perde. Quello che si perde o quanto meno si attenua, in parte impallidisce, è il carattere forte, interno, necessitato, sostanziale e non solo tattico-strumentale del legame fra socialismo e democrazia.

Intendiamoci: con Genova '92 (o con Erfurt '91 o con Parigi '89), il socialismo italiano non si separa dalla democrazia. Nel programma di Genova del partito c'è la formula per cui uno dei compiti del Partito socialista è quello di lottare per la conquista democratica dei pubblici poteri. Formula che, tra l'altro, rimarrà negli anni e sarà abolita solo dallo sciagurato congresso di Bologna del 1919, congresso - altro che Livorno! - della vergogna nella storia del socialismo italiano, in cui si dice che, in sostanza, i pubblici poteri non vanno conquistati ma abbattuti (insomma, "lo stato borghese si abbatte ma non si cambia"). Ma fino al '19 rimane l'idea che il socialismo deve lottare per la conquista dei pubblici poteri: un riconoscimento implicito dell'istituto della democrazia rappresentativa, il che significa non solo partecipare alle elezioni, ma anche fare politica delle alleanze per vincerle. Quindi c'è una specie di varco attraverso cui la pratica del socialismo democratico e riformista può entrare.

Si potrebbe aggiungere che, subito dopo essersi separato dalla democrazia laica il Partito socialista italiano, anche per forza di cose, deve riprendere questo contatto, deve riallearsi con la democrazia. Nel '94, in piena repressione crispina, abbiamo la Lega per la Difesa della Libertà che di nuovo riunisce socialisti, radicali e repubblicani. Non solo: le alleanze a livello elettorale continuano per tutta la fine del secolo. C'è la lotta per la difesa delle garanzie statutarie, la crisi di fine secolo che vede i socialisti ancora alleati alle formazioni di democrazia laica; c'è l'apertura di Giolitti ai socialisti e dei socialisti a Giolitti; c'è, alla fine del primo decennio del '900, la pratica dei "blocchi popolari", delle alleanze amministrative e anche politiche con le forze di democrazia laica. In generale si può dire che tutti i momenti migliori della storia del socialismo italiano sono stati segnati dall'alleanza tra Psi e formazioni della democrazia laica; e si può dire per converso che i momenti bui del socialismo italiano nascono dalla scissione tra socialismo e democrazia.

Tutto vero, ma è anche vero che, a partire da questo snodo cruciale dei primi anni '90 di cui ho parlato, il rapporto tra socialismo e democrazia, che rimane spesso vivo e operante, si definisce come un rapporto tra due entità distinte. I socialisti si alleano con i democratici, più che "essere" democratici in prima persona: la democrazia politica è uno sfondo, una cornice, è la condizione nella quale il movimento operaio può trovare il modo di svilupparsi e poi, inevitabilmente - com'era nella mentalità dell'epoca - di vincere. La democrazia è il quadro, se vogliamo forzare un po' il discorso, è un mezzo più che un fine.
Nel momento in cui il movimento operaio europeo respinge quella che era la proposta migliore per reinserire il socialismo nella democrazia e la democrazia nel socialismo (è la proposta di Bernstein, la proposta di abbandonare il finalismo della concezione socialista, di esaurire la dottrina e la pratica del socialismo nel movimento per i miglioramenti economici e nella democrazia politica): nel momento dunque in cui il movimento operaio respinge questa proposta e mantiene così un impianto finalistico e per certi versi catastrofistico, mantiene però ancora aperto il varco attraverso cui entrano e possono continuare a vivere dentro la casa dei socialisti europei tutte le correnti, tutte le tentazioni massimaliste, rivoluzionarie, utopistiche, millenaristiche. Ed è qui, secondo me, la radice di tante aporie teoriche e di tanti errori pratici del socialismo riformista. E anche la causa di tante catastrofi della democrazia nel secolo ventesimo.

psisicilia
16-08-02, 22:07
La critica di Carlo Rosselli al socialismo marxista

Liberalsocialisti, Liberaldemocratici (1)

da "Critica Sociale" (http://www.kore.it/critica/sociale.htm)

Una divisione da ricomporre

di ZEFFIRO CIUFFOLETTI

Mi riallaccio alle ultime parole perché il commentare il passato nasce da esigenze che sono evidentemente urgenti nel presente. Tutti noi siamo consapevoli del gran parlare che si fa nei due ultimi decenni del socialismo liberale, questa sorta di ircocervo che pretendeva di unire il liberalismo e il socialismo e che così fu definito da Croce.

Recentemente sul Corriere della Sera, in una pagina culturale dedicata alla madre dell'autore di "Socialismo Liberale", Carlo Rosselli, si dava la colpa del ritardato successo politico e culturale di Socialismo Liberale alla casa editrice Einaudi e al figlio John, perché marxista inglese. Io sono un po' parte di questa vicenda e vi posso onestamente dire che se responsabilità vi sono state, in primo luogo sono state dei seguaci o di coloro che si richiamavano alla esperienza di Socialismo Liberale, cioè degli uomini del Partito d'Azione. I primi responsabili sono loro, non si vede perché questo libriccino di politica, di cultura politica, forse il più moderno dei libri di cultura politica nell'Italia del '900, non fu dapprima rivalutato e utilizzato dai seguaci o da coloro che si richiamavano a "Giustizia e Libertà" e quindi all'esperienza di Rosselli, cioè dagli "azionisti".

Poi è ovvio ha influito l'egemonia culturale della sinistra italiana nell'editoria, in Einaudi in particolare, di un certo tipo di sinistra, che non saprei se definire comunista, perché era uno strano binomio fra ex-azionisti e socialisti, non dimentichiamo che c'era anche questo, e naturalmente dei comunisti.

Il figlio John - ve lo dico perché lo conosco - era sì un uomo di sinistra e rigido come sono rigidi e coerenti gli inglesi, ma per molto tempo ha cercato di darsi da fare per pubblicare "Socialismo Liberale". Alla fine, dopo un bel numero di anni, alla metà degli anni '70, proprio Einaudi pubblicherà quel libriccino che ha segnato poi la ripresa. Ma i primi responsabili del ritardo sono proprio gli azionisti! Ve lo dico perché a Firenze nella metà degli anni '70 si organizzò un convegno su Giustizia e Libertà e a farlo fu una parte degli azionisti, per esempio azionisti fiorentini come Carlo Francovich, che era mio professore e maestro; ma fu fatto in un momento particolare in cui si intendeva contendere il campo alla degenerazione del marxismo in chiave terroristica o alla crisi stessa del marxismo, quindi in un momento molto particolare.

Da allora in poi i richiami al socialismo liberale sono stati molti, l'unico che abbia avuto un qualche esito positivo fu quello dell'inizio degli anni '80, il famoso Lib-Lab che ebbe come esito la teoria riformista moderna del coniugare meriti e bisogni; elaborata al congresso di Rimini ed esposta da Claudio Martelli. Tutti gli altri ripescaggi, tentati dagli ex PCI dopo la metà degli anni '80, nell''86 dallo stesso D'Alema, allora direttore dell'Unità, poi da Veltroni e per ultimo da Fassino, si sono rivelati sterili, perché concepiti come innesti esornativi su tronchi induriti e tarlati. Fassino tenta il terzo innesto, ma mi sembra che il peso identitario della vecchia base del PCI, il ruolo conservatore degli intellettuali di cui dispone, il troppo lisciar di pelo di Giuliano Amato e infine il ricatto giustizialista da Caponnetto a Cofferati, rappresentano un eccesso di piombo nelle ali di Fassino per poter volare.

Allora il socialismo liberale che cos'è? Occorre un'interpretazione corretta, la storia non si fa manipolandola ma cercando una corretta interpretazione. E questo lo deve fare anche la politica. I più grandi manipolatori della storia sono stati tanti ma i comunisti in Italia sono stati i più grandi manipolatori della storia nazionale. Quindi bisogna fare le cose correttamente, anche quando si fanno in sede politica bisogna fare uno sforzo di correttezza.

Il socialismo liberale non è che una delle componenti di Giustizia e Libertà. L'altra componente è quella gobettiana consiliare torinese, che avrà un esito molto diverso: Giustizia e Libertà senza Rosselli, senza la sua esperienza, senza la sua capacità organizzativa, senza il suo realismo, senza la sua passione liberale e quasi anarchica di esercitare un'egemonia sul movimento antifascista era nulla. Giustizia e Libertà senza Rosselli sarebbe stata una cosa diversa. Così il Partito d'Azione fu non solo in larga parte elitario, quando non ce n'era più bisogno perché si stavano facendo dei partiti di massa, ma anche settario e giacobino, un partito di ipercritici, spesso anti italiani, che in parte lasciò dei lieviti democratici positivi alla cultura politica dell'Italia repubblicana, ai quali anche noi ci siamo abbeverati, ma in parte subì l'egemonia culturale del PCI, cedendo alla strana mescolanza di gramscismo e idealismo e di eticismo della cultura comunista italiana e cedendo proprio nell'egemonia sull'antifascismo, che non solo servì a delegittimare gli avversari dei comunisti e non della democrazia né della libertà, come erano dei comunisti (l'antifascismo servì a questo, utilizzato in chiave egemonica dal Partito Comunista), ma servì anche a manipolare profondamente la storia italiana e ad impedire la ricomposizione nazionale dopo la guerra civile, continuando ad utilizzare la cultura, la storia e l'ideologia come un prolungamento della guerra civile.

Bisogna collocare il socialismo liberale nel suo contesto, cioè l'estremo sviluppo in Italia e in Europa della revisione del marxismo iniziata da Bernstein e il superamento della crisi del marxismo da lui indicato. Questo è il filone, di cui parlava poco fa il collega e amico Giovanni Sabbatucci. Sarebbe troppo lungo spiegare perché Bernstein considerava fallito il marxismo. Lo considerava fallito perché invece di formarsi una grande palla proletaria dal punto di vista sociale e una piccola testa borghese si stava formando un corpo completamente diverso, eterogeneo, di classi sociali nuove, emergenti, diverse e il processo di proletarizzazione crescente e di impoverimento in realtà non si stava verificando ma si stava verificando dell'altro. Quindi non era possibile quella rivoluzione ineluttabile che staccava la vecchia testa dal corpo per far nascere una nuova testa sul corpo.

Che significava Bernstein? Significava collegare indissolubilmente il movimento operaio alla democrazia, risolvere il problema delle alleanze nella pratica della politica democratica e del riformismo, l'uscita di scena del paradigma rivoluzionario. Il paradigma rivoluzionario ogni volta si ripresenta uguale a se stesso, o nella versione giacobina o nella versione tardo hegeliana: significa che nell'ambito del movimento operaio operano delle forze di provocazione, di violenza, alle quali le classi dominanti reagiscono da cui poi la reazione di massa e la rivoluzione. Questo è lo stesso schema delle Brigate Rosse, lo stesso schema di tutti i movimenti sintetizzato in chiave leninista, ma in occidente è questo.

Significava quindi eliminare questo paradigma e invece inserire il movimento operaio dentro il corpo della nazione, non come corpo estraneo alla nazione, risolvendo il problema della guerra in termini realistici, difesa della casa comune, delle istituzioni democratiche dall'aggressione e dalla sopraffazione esterna ed interna.

Quanti drammi il socialismo dovrà affrontare con la prima guerra mondiale e quante ambiguità? Invece qui la formula era semplice e chiara, ma questi drammi e queste ambiguità il socialismo e la sinistra se li portano dietro fino ai nostri giorni per non averli mai chiariti con sufficiente lucidità.

Infine per Bernstein non bisognava uccidere la gallina dalle uova d'oro, cioè non bisognava uccidere il capitalismo, perché senza di esso non ci sarebbe stato né progresso né ricchezza da distribuire, ma bisognava regolarlo a vantaggio della redistribuzione e della realizzazione di sempre maggiori gradi di civiltà democratica. Per andare più avanti in queste posizioni di Bernstein (che non furono accettate dalla socialdemocrazia, né in Germania né in Italia né in Francia: l'autore de "Le vie nuove del socialismo" nel 1907 verrà espulso dal partito socialista, per volere di Mussolini e per debolezza dell'ormai invecchiato Turati) occorreva riscoprire il liberalismo e il federalismo. Per andare più avanti oltre queste posizioni, che non furono assimilate in pieno e che lasciarono tutte quelle ambiguità da cui sorsero molte altre cose, bisognava riscoprire il valore positivo dell'individuo e il valore dell'autogoverno.

Questo avvenne in concomitanza con la prima guerra mondiale, che fu una tragedia delle classi dirigenti ma fu anche una tragedia della sinistra, dei partiti popolari e delle forze politiche. Per questo serviva aggiungere all'esperienza della cultura politica europea, anche quella inglese di Stuart Mill, di House, autori che rientrarono nel circuito della cultura politica italiana ed europea proprio in connessione alla prima guerra mondiale. E quando dico "europea" intendo Europa continentale, la cui storia è tutta diversa dall'Europa insulare e dalla Gran Bretagna. Alla coniugazione di liberalismo e democrazia, bisognava aggiungere l'equità sociale e il federalismo, perché ciò significava la pace dopo il dramma della guerra e perché il liberalismo significava anche la contestazione dello statalismo marciante che si coniugava col nazionalismo e che avrebbe prodotto poi quella miscela esplosiva di statalismo-nazionalismo-conflitti interimperialistici.

La guerra e la crisi del dopoguerra fecero lievitare il pensiero politico del giovane Rosselli. Parte da lì, si nutre di Salvemini, di Einaudi, di Gobetti, di Alessandro Levi, un socialista riformista che andrebbe molto, molto rivalutato, autore di libri su Mazzini, su Cattaneo, autore di una biografia nel '24 di Turati; e poi Guglielmo Ferrero, Pareto, Stuart Mill e Hobouse. Questi sono riferimenti culturali fondamentali del giovane Rosselli nella sua critica al socialismo, che non investe solo il massimalismo come a volte si crede, ma investe il socialismo della Seconda Internazionale. La critica di Rosselli è contro il socialismo della Seconda Internazionale, ma anche contro le modalità del socialismo, di come si era mosso, troppo legato al marxismo, troppo rigido nelle sue strutture partitiche organizzative, troppo statalista, troppo meccanicista e finalista, legato a una visione fideistica della inevitabilità del socialismo e delle magnifiche sorti e progressive.

Da qui nascono le basi della riflessione di Rosselli e il recupero del liberalismo come metodo. Da economista, pur criticando il liberismo dogmatico (e io credo che questa sia una costante) Rosselli criticherà Einaudi e tutta la scuola più dogmatica del liberismo, ma è attento a valutare il peso dell'organizzazione capitalistica nell'economia moderna, molto meglio e molto più di Gramsci, perché capisce che l'economia moderna si sintetizza con lo sviluppo tecnologico e che le dimensioni del capitalismo moderno non potrebbero essere tali senza questo rapporto con la tecnica e con lo sviluppo tecnologico. Comprende l'utilità degli stimoli della concorrenza e della conflittualità nelle relazioni industriali tra imprenditori e sindacati: certo se gli imprenditori sono forti occorrono anche strutture sindacali forti, se gli imprenditori si uniscono anche gli operai si devono unire. Ma questo è realismo! Quando un amico che pure apprezzo, un collega come Bedeschi critica queste cose sbaglia, perché ogni cosa va inquadrata nel suo tempo e nella situazione oggettiva in cui nasce il pensiero politico. Altrimenti arriviamo a quella visione metafisica del pensiero politico che porta Bobbio a diversificare dal punto di vista morale il giudizio sul comunismo e sul fascismo, per poi ricredersi qualche anno dopo. Non è che si deve pensare in astratto al pensiero politico. Il pensiero politico nasce per misurarsi in terra, non in cielo, e quindi va giudicato nel contesto in cui opera.

Infine non bisogna dimenticare che Rosselli sarà uno dei critici più acuti in Europa dell'economia pianificata sovietica, degli effetti totalitari della dittatura del Partito Comunista. Siccome queste cose le ho già scritte e hanno fatto finta di non capirle vi invito ad andarle a cercare perché ancora sono in circolazione. Hanno fatto finta di non capirle perché hanno riproposto Rosselli come "unità proletaria" che è una vera aberrazione!

Da qui il superamento del marxismo, che impedisce il confronto con la cultura moderna e ossifica il socialismo. Da qui la critica al giacobinismo, che in Rosselli è fortissima: considera il giacobinismo una forma di capitalismo alle origini dello statalismo moderno. Da qui la critica allo statalismo che è l'aspetto più nuovo e originale della riflessione di Rosselli negli anni '30.

Da qui, infine, la riflessione sulla crisi italiana, sulla sconfitta del socialismo, sulla storia del Risorgimento come base dell'identità nazionale, che non andava lasciata al fascismo, come voleva fare Togliatti dicendo che il Risorgimento era una questione di fanfare, di bandiere, di inni che sollecitano il cuore della piccola borghesia tout court, con quello sprezzante e liquidatorio giudizio che fa parte della dimensione ideologica del social-fascismo entro la quale Togliatti allora si muoveva.

Il socialismo liberale e la sua eccezionale originalità si collocano dentro questo contesto, nel superamento del socialismo italiano con il definitivo riconoscimento del binomio socialismo-democrazia, socialismo-riformismo, socialismo-libertà; nel rifiuto del giacobinismo e del comunismo e infine nella piena accettazione dell'autogoverno come libertà, conflittualità, responsabilità.

Autonomia e libertà per Rosselli sono il rifiuto del dogmatismo politico, come pure di quello religioso. Un pensiero laico, quello di Rosselli. La sua religiosità è tutta intrinseca alla politica e alla moralità politica, non un moralismo staccato da tutto il resto. Autocoscienza dei singoli individui e dei gruppi sociali nel loro ruolo di protagonisti e artefici del proprio destino, accettazione virile della necessità del confronto e della lotta, l'uno e l'altro intesi nel loro significato positivo di motore del progresso civile e politico, oltre che economico, dei popoli, delle nazioni, degli aggregati sociali.

Questa è la lezione estrema del liberalismo, questo è quello che noi dovremmo oggi ereditare, non altre formule e soluzioni che sono legate al loro tempo, ma questi principi! Principi che hanno anche un valore morale ed etico! Cosa vuol dire essere pochi? Le élites sono sempre poche, basta non accettare i compromessi che a ogni pié sospinto vengono proposti e basta essere sufficientemente realistici da far crescere le élites e farle diventare un pochino di più senza dividerle. Questo è un richiamo che per noi e per voi è necessario.

Si trattava di contrapporre al fascismo un diverso modello di società e di Stato, siccome l'ultima parte del pensiero politico di Rosselli è proprio di critica allo statalismo, nella sua duplice versione: quella totalitaria di destra e quella totalitaria di sinistra. Ecco perché il pensiero di Rosselli non si può recuperare che in chiave di liberalismo! Ecco perché il pensiero di Rosselli oggi non può che vivificare un nuovo modo di essere del socialismo! Non si può prendere soltanto il liberalismo come modello e poi lasciarlo lì come se non servisse a niente, serve a fare quello che la tradizione liberale - quella più robusta e forte angloamericana - ha sempre insegnato: cioè la critica del potere, dello statalismo, la critica dei poteri economici, politici, statuali.

Qui il campo è aperto e per chi è animato da questi sentimenti c'è un grande spazio, ma la dose di liberalismo deve essere forte e intensa, così come deve esserlo quello della giustizia!

Significa avere un'autonomia di visione delle cose, del mondo. Significa, davanti ai grandi conflitti, non guardare indietro ma non avere il coraggio di guardare in avanti. Grazie.

Jan Hus
16-08-02, 22:26
Interessantissimo, come al solito, l'articolo di Sabbatucci.

Direi anche che contiene una lezione importante pr il presente.