Felix (POL)
19-08-02, 07:13
Italia: dal 1943 una storia artefatta
Uno dei grandi temi delle vicende italiane della seconda metà del XX secolo, tuttora dominante, è quello della frattura della storia nazionale creata artificialmente e strumentalmente sul presunto spartiacque dell’8 settembre e sugli influssi poderosamente alimentati e proiettati poi (e ancora oggi) a tutto campo da una organizzazione propagandistica di enorme efficienza, ramificata in ogni settore della diffusione: stampa, radio (in seguito, televisione), cinema, editoria, scuola, università, spettacolo, associazioni, ecc., il tutto sotto l’usbergo dell’ideologia e degli strumenti di potere controllati direttamente e indirettamente e comunque gestiti e manovrati a piacimen- to. Una analisi sia pure schematica, ma incentrata sui fattori determinanti di un pro- cesso le cui conseguenze permangono, condizionano e coerciscono pesantemente la società, deve muovere dalle origini, senza liquidare sbrigativamente come invece sé accaduto (e si persevera in tale linea di condotta) la causa primaria e le successive, immediate fasi che si sono poi concretizzate nel teorema del cosiddetto mito della “guerra di liberazione”. La causa primaria è la disfatta militare. Alla base del “do- gma” vi è quello che viene indicato come il “nuovo o secondo risorgimento”, sal- tando a piè pari non solo la conduzione politico militare - industriale delle opera- zioni dal 10 Giugno 1940 all’8 Settembre 1943, ma anche tutti i retroscena (per non dire altro) sfociati nella resa a discrezione firmata a Cassibile il 3 Settembre 1943, retroscena sviluppatisi, maturati e concretizzatisi mentre l’Italia combatteva una guerra mondiale senza esclusione di colpi e nella quale avrebbe dovuto (contraria- mente a quanto in realtà avvenne) impiegare tutte le sue risorse, ben più ampie di quanto abbiano falsamente affermato e fraudolentemente attestato e documentato (e ripetuto sino alla nausea) gli storiografi ufficiali del dopoguerra. Quelli, per intender- ci, che hanno monopolizzato l’informazione storica, occupando gli archivi, manipo- lando, intossicando, avvelenando in perfetta malafede i resoconti al fine di imporre, quale dogma, appunto, l’interpretazione funzionale alla tesi della cosiddetta “guerra di liberazione”.
Di fatto è stato costruito e costantemente rafforzato un castello di menzogne, sfocia- to in un gigantesco equivoco storico in cui ancora ci si trova immersi, mentre stancamente gli italiani si trascinano nell’evaporazione della loro identità e nel vuoto di un riferimento sbiadito, saturato e snaturato delle interpretazioni speciose di una origine storica priva di qualsivoglia attendibilità che non sia (e non fosse) individua- bile in un interesse e in un obiettivo esterni, avulsi da qualsivoglia profilo nazionale.
UNA DISFATTA CONTRABBANDATA PER LIBERAZIONE
Lo slogan “liberazione” attribuito alle operazioni belliche sul suolo nazionale condot- te dagli “alleati” (compresi i bombardamenti e i mitragliamenti terroristici sulle popo- lazioni civili , la strage alla scuola di Gorla, nei pressi di Milano, il mitragliamento del battello carico di civili sul lago d’Iseo, ad esempio) è stato escogitato dagli specia- listi della guerra psicologica dell’Intelligence britannica, autentici maestri della per- suasione occulta, del condizionamento progressivo, dell’asservimento indotto, sulla base di notizie false o manipolate ad arte. Subito la frangia che sin dagli anni venti e trenta agiva su direttive di Mosca nel tessere la rete di spie, informatori, infiltrati, simpatizzanti, reclutati e nel condurre azioni di guerriglia con l’eliminazione fisica degli avversari come pure operazioni belliche in grande stile nel quadro del disegno di espansione mondiale concepito e perseguito dal Cremlino, tale frangia si catapultò su quella definizione facendone un’arma, appropriandosene e accreditandosi il me- rito di tale obiettivo. Una mistificazione spacciata ancora oggi, ancorché priva di credibilità e spendibilità, come una banconota contraffatta. I mezzi d’informazione nella loro globalità hanno accuratamente nascosto agli italiani (in particolare nei libri di testo destinati alle scuole e alle università, come pure alle accademie militari) quanto ebbe ad affermare dall’altissimo livello del suo comando e quindi della sua conoscenza quale primo protagonista, il Feldmaresciallo Alexander, comandante supremo del gruppo di armate alleate che hanno invaso l’Italia nel 1943 e combat- tuto risalendo la penisola. Il Feldmaresciallo britannico così si è espresso in un rap- porto scritto nel 1944 in merito alla situazione italiana: “La natura della capito- lazione italiana e le ragioni che vi hanno condotto non erano a quell’epoca comprese dal pubblico e da allora sono state largamente falsate (nell’origi- nale: misrepresented). L’Italia , nel 1943 (…) aveva ancora grandi forze ar- mate in campo; le sole sue forze nella Penisola erano numericamente superiori a qualsiasi forza che gli Alleati avrebbero potuto portare contro di esse, e quantunque il loro morale fosse scosso e la loro qualità scadente, le truppe tedesche nel Paese erano sufficienti ad irrobustirle. La resistenza certamente era ancora possibile (nel testo inglese: resistance was certainly still possible)”. E più oltre nel documento citato, il Feldmaresciallo afferma: “L’esperienza del Go- verno Fascista repubblicano dimostrò che un Governo italiano avrebbe potu- to continuare a funzionare e ad esercitare la sua autorità sulla maggior parte d’Italia per un lungo periodo”. Un altro passo del documento che merita di essere qui ricordato è il seguente: “Nessun disordine tra i civili ha avuto poi un ruolo apprezzabile nel diminuire la capacità di resistenza dei tedeschi in Italia”. (da “Le Armate Alleate in Italia dal 5 settembre 1943 al 12 dicembre 1944”).
Un documento, quello citato, che come molti altri dovrebbe essere diffuso con il più ampio risalto e fatto oggetto di intensi approfondimenti e analisi al fine di fare chia- rezza, spazzando via le incrostazioni e le menzogne accreditate dai manipolatori, ri- portando alle sue effettive dimensioni, origini, finalità e tattiche operative, il fenome- no della “resistenza”, soprattutto il suo ruolo e la sua efficacia nel campo prettamen- te militare, partendo appunto alle parole inequivocabili del Maresciallo Alexander, che sono un punto fermo, un giudizio storico ineludibile.
I tedeschi, in Italia, furono sconfitti dalla V armata americana e dall’VIII britannica che facevano perno su uno strapotere aeronavale, su una superiorità di 3 a 1 in fatto di effettivi, artiglierie, corazzati, munizioni, equipaggiamenti. Ciò nonostante dallo sbarco a Salerno (9 Settembre 1943) al 25 Aprile 1945 (resa tedesca) impiegarono ben 21 mesi per piegare la resistenza germanica e quella delle truppe italiane che ancora si battevano contro gli inglesi e contro gli americani a fianco delle forze tede- sche. (Tutto ciò non scalfisce il risultato e le sue conseguenze).
MISTIFICAZIONE E FALSI
SULLE MATERIE PRIME STRATEGICHE
Tra le mistificazioni e le distorsioni su cui è stata costruita, nel dopoguerra, la tesi dell’impreparazione militare italiana (la “guerra ingiusta” come venne definita dal mi- nistro della difesa della repubblica Spadolini nella sua “orazione” di fronte alle salme (recuperate) dei marinai caduti a bordo del sommergibile “Scirè” colato a picco do- po un combattimento nel Mediterraneo orientale) vi è quella della carenza, dell’in- sufficienza, se non della assoluta povertà di materie prime strategiche, in particolare di nichelio, cromo, vanadio, tungsteno, molibdeno, rame, tutte indispensabili, ad esempio, nella fabbricazione di corazze per carri armati e proietti per artiglierie cam- pali e controcarri, come pure per cannoni a tiro rapido e mitragliatrici. Ebbene, si tratta di un clamoroso falso, uno dei tanti, dei troppi falsi che costellano la storio- grafia ufficiale e ufficiosa sulla partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale (come pure quella della “resistenza”, come si documenterà più avanti). Dopo l’8 Settembre 1943 (cioè a dire nei giorni immediatamente successivi alla resa dell’Italia firmata a Cassibile, località nei pressi di Siracusa) i tedeschi rinvennero nei magazzini e nei depositi delle industrie italiane scorte di materie prime strategiche definite, in documenti ufficiali germanici, superiori alle più rosee previsioni. Le scorte di molib- deno, ad esempio, erano materialmente più elevate rispetto a tutte le scorte europee messe insieme. Da parte sua il Felmaresciallo Kesselring, comandante delle truppe tedesche che si opponevano agli alleati sul fronte italiano, ha scritto:” Dopo il crollo dell’Italia si scopersero enormi magazzini colmi di materiale bellico inutilizzato”, (chi voglia documentarsi, consulti i seguenti lavori: “Una Patria venduta”, “La fabbrica della sconfitta”. “Generali nella polvere”, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, Via Sebastiano Veniero, 74/76, tel.06/39722159, fax 06/39722166; “I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943 1945”, edito da Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1997, traduzione dall’originale lavoro in lingua tedesca di Gerhard Schreiber. Consultare particolarmente dalla pa- gina 283 alla pagina 306).
E’ noto che le costruzioni navali sono quelle che richiedono maggiori quantità di ma- terie prime, tra cui quelle strategiche. Ebbene una valutazione sull’effettivo potenziale industriale discende da quanto segnalò alle autorità di Berlino il Comando Marina tedesca in Italia.: si trovavano in costruzione o non in condizione di salpare, 1 por- taerei, 1 monitore, 2 incrociatori pesanti, 2 incrociatori leggeri, 3 cacciatorpediniere, 9 torpediniere, 3 corvette, 13 sommergibili, 18 cacciasommergibili, 9 cercamine, 2 posamine, 2 dragamine, 2 motozattere, 1 nave pattuglia, 2 piccole unità’ ausiliarie, 1 nave posacavi, 6 motosiluranti di vario tipo. Unità che si sommavano a quelle già disponibili e catturate in vari porti. Naturalmente il grosso della Squadra Navale si era già consegnato agli inglesi senza sparare un colpo. “La magnifica preda” come la definì trionfalmente il primo ministro britannico Winston Churchill, preoccupatissimo per le sorti dello sbarco a Salerno, pianificato per il mattino del 9 settembre. Se la flotta italiana invece di arrendersi ignominiosamente avesse aperto il fuoco, lo sbarco sarebbe fallito oppure l’alto comando alleato avrebbe dovuto sospendere l’intera operazione e riesaminare la situazione strategica e tattica nel Mediterraneo.
Chi avrà la curiosità di documentarsi potrà avere una immagine completa e detta- gliata di quanto in realtà era disponibile e non venne utilizzato dagli stati maggiori delle forze armate italiane sin dal giugno 1940 e di quanto le industrie avrebbero potuto (e dovuto) realizzare.
Persino l’Ufficio Storico dell’Esercito ha dovuto ammettere (“Le operazioni in Africa Settentrionale” Vol. III El Alamein, pag.10): “E maggiore è l’amarezza nel pensare a quello che non è stato fatto, almeno nell’anno di non belligeran- za. Per tardi che fosse, la successiva campagna di Graziani avrebbe potuto sortire un andamento forse risolutivo”.
Ciò significa che persino l’Ufficio Storico dell’Esercito nel 1989, anno di pubblica- zione del volume sopra citato, è stato costretto ad ammettere che sarebbe stato possibile conquistare l’Egitto. Il riferimento riguarda in particolare la produzione di carri armati. In proposito e per smentire quanti insistono nell’affermare il falso, si ri- porta qui la parte essenziale di un rapporto del generale Carlo Favagrossa, commis- sario generale per le fabbricazioni di guerra, diretto al capo di stato maggiore gene- rale Ugo Cavallero. Il documento è stato stilato tra la fine del 1941 e gli inizi del 1942. In merito alla fabbricazione di carri, il generale scriveva: “Non si esagera affatto quando si afferma che si potrebbero raggiungere facilmente mille carri armati al mese, dal momento che una sola fabbrica di automobili ha saputo raggiungere la produzione di duecento macchine al giorno”. E più oltre: “L’I- talia è in grado di soddisfare pienamente le sue esigenze belliche, Occorre sol- tanto metodo e coordinazione nelle singole intraprese industriali”.
Gli storici avrebbero dovuto fornire delle risposte esaurienti sulla questione sotto- lineata dal massimo responsabile delle fabbricazioni di guerra, ad esempio inda- gando sul perché il generale Favagrossa non provvide a farsi parte diligente nel ri- muovere gli ostacoli, a denunciare più energicamente le manchevolezze, per non dire altro. Le sue affermazioni sono di una gravità enorme e smentiscono ogni pretestuo- sa interpretazione sull’impossibilità di sostenete adeguatamente lo sforzo bellico. Le dichiarazioni del generale Favagrossa configurano reati di alto tradimento e stupisce che gli storici non ne abbiano percepito la portata.
EQUIVOCI VELENOSI
Solo un riesame complessivo di quanto accadde tra il 10 Giugno 1940 e l’8 settem- bre 1943, sia per quanto attiene alla conduzione delle operazioni militari, alla dispo- nibilità effettiva delle risorse, al loro mancato impiego, sia per quanto si riferisce all’intelligenza col nemico, solo questo potrà costituire la premessa, il primo essen- ziale passo verso una autentica chiarificazione e un effettivo superamento degli equ- ivoci velenosi entro cui si dibatte in una agonia struggente l’identità nazionale. Af- fermazioni frammentarie, rettifiche episodiche, documentazioni pur rilevanti, ma non inserite in un quadro sistematico, coordinato, riguardante il complesso degli avve- nimenti, e non corredato da una diffusione di adeguato respiro e livello, si rivelano prive di incidenza e di forza, come pure della indispensabile efficacia nell’imporre un riesame oggettivo di quel periodo così drammaticamente condizionante e selvag- giamente travisato. Un riesame duramente osteggiato e nella realtà dei fatti vietato da quanti hanno costruito la loro legittimazione politica sul falso, sulla mistificazione, sull’occultamento e sulla manipolazione delle prove, dei documenti e, in un primo momento, sulla sistematica eliminazione fisica dei testimoni, persino di alcuni di quelli che, pur attestati su versanti ideologici diversi, erano schierati dalla loro parte.
QUELLO CHE SI CONTINUA A NASCONDERE
La storiografia cui si è fatto cenno, anche quella (minima parte) meno faziosa, ha sistematicamente sottovalutato se non addirittura ignorato, quindi celato premedi- tatamente il punto di vista del nemico relativamente al potenziale militare italiano. Neppure si è inteso, da parte di tali autori, coglierne il significato profondo, valutan- do oggettivamente il “perché” degli obiettivi di determinate operazioni offensive nei primi sei mesi di ostilità. La Royal Navy concentrò i suoi attacchi contro i sommer- gibili e contro la squadra da battaglia italiani. Dal 10 al 30 Giugno 1940 gli inglesi affondarono dieci sommergibili; nei primi sei mesi di guerra ne colarono a picco ven- ti (su un totale di oltre cento battelli che formavano la nostra flotta sottomarina). Nel dopoguerra gli americani usarono la beffarda cortesia di far sapere che gli affonda- menti furono resi possibili “sfruttando alcune informazioni che il Servizio Segre- to della Marina britannica si era procurate a Roma alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia”.
Inoltre, la notte sul 12 Novembre 1940 alcuni vecchi biplani aerosiluranti “Sword- fish” levatisi in volo dal ponte della portaerei “Illustrious” misero fuori combattimen- to, nel Mar Grande di Taranto, tre delle sei corazzate che formavano la forza d’urto della Regia Marina, una forza nettamente superiore a quella britannica nel Mediter- raneo. Con cinque siluri a bersaglio, su undici lanciati dalle due ondate di attacco, gli inglesi annientarono il 50 per cento delle nostre navi da battaglia. E i britannici im- piegarono velivoli che a malapena raggiungevano la velocità massima di 125 nodi, 231 Km/h. Ma usarono il siluro lanciato da aeroplano, un’arma di cui l’Italia aveva la primogenitura e un sistema di lancio avanzatissimo che altri tentarono inutilmente di realizzare e, in più occasioni, di carpire. Ciò nonostante l’Italia si presentò alla guerra senza aerosiluranti, senza una adeguata scorta di siluri. E questo anche se la Luftwaffe aveva ordinato all’industria italiana trecento di quei siluri con apparato di lancio.
La Royal Navy non era usa a impiegare le sue risorse e le sue energie su bersagli secondari. L’obiettivo da conquistare con ogni mezzo era il riequilibrio della situa- zione strategica nel Mediterraneo (nettamente e pericolosamente a sfavore dei bri- tannici) e il predominio psicologico sugli alti comandi italiani, segnatamente su quelli della marina, (palesemente, sin dall’inizio delle ostilità, dominati da un incompren- sibile e ingiustificabile stato d’inferiorità nei confronti della marina britannica e, al tempo stesso, e neppure troppo segretamente, suoi ferventi ammiratori). Lo ammise l’ammiraglio Cunningham, comandante in capo della Mediterranean Fleet: “Non vi è dubbio che la messa fuori combattimento di metà della Squadra italiana sta avendo e avrà una notevole influenza sull’andamento della guerra (…) è già evidente che il fortunato attacco ha grandemente aumentato la nostra libertà di movimento nel Mediterraneo ed ha così rafforzato il nostro controllo sulla sua zona centrale”.
SE CI SI RIFIUTA DI COMBATTERE
SI PERDONO LE GUERRE, OGNI TIPO DI GUERRA
Se gli ammiragli italiani dell’alto comando (Supermarina) non furono all’altezza del compito, se non misero in campo l’energia, la determinazione, la tenacia, il coraggio, la lealtà, le capacità militari e quelle morali che informavano, invece, gli “omologhi” britannici, questo non inficia minimamente l’effettiva disponibilità di mezzi e soprat- tutto non può far dimenticare che gli equipaggi delle navi italiane, è una citazione sto- rica, “chiedevano più combattività”. Anzi! E’ un aggravante. Sarebbe opportuno, per non dire indispensabile denunciare le gravissime e tuttora celate responsabilità di tali ammiragli. Si spazzerebbero via le nebbie dell’ambiguità che ancora avvolgono la Marina Militare. E non è discettando con sussiego sugli aspetti tecnici, sulle ri- strettezze nelle disponibilità di carburante e altre faccende di palese banalità indegne di così alti responsabili di una forza armata impegnata in una guerra che si scovano e costruiscono alibi alla loro diserzione di fatto e si configurano (da parte di certi autori) le giustificazioni per quanto non è stato fatto, ammettendo implicitamente che si sarebbe potuto fare.
Lo scenario si potrebbe allargare ai vertici e agli alti comandi del Regio Esercito e della Regia Aeronautica, come pure all’industria impegnata nelle costruzioni militari. Se mai una tale ricerca venisse attuata rivelando i torbidi retroscena di quanti sabo- tarono lo sforzo bellico, causando lutti, disastri, macchiandosi di orrendi delitti rima- sti impuniti e addirittura trasformati in meriti, lucrandone i profitti non solo finanziari, essa avrebbe anche un altro merito: rendere giustizia a quanti sulla linea del fuoco compirono il loro dovere. E furono tanti.
DOPO L’8 SETTEMBRE
FRODI E ARTIFIZI
C’è un aspetto grottesco nella tragedia dell’8 settembre e nel suo seguito. Forse una sorta di giustizia paradossale e al tempo stesso spietata, che la rende ancor più ag- ghiacciante. Coloro che tramarono per favorire la sconfitta delle proprie forze ar- mate e causare la rovina della propria Nazione vennero a loro volta, nella quasi to- talità, esclusi dai benefici del loro tradimento. Forse ebbero una manciata di spic- cioli. Certamente il disprezzo degli alleati. Ciò non toglie che rimasero e siano tuttora impuniti. L’aspetto atroce è che secondo la “dottrina” dominante ciò costituisce un vanto.
L’articolo 16 del trattato di pace imposto all’Italia (nel Febbraio 1947) recita: “L’I- talia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, spe- cialmente gli appartenenti alle forze armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data dell’entrata in vigore del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un’azione a favore di detta causa” (traduzione dal testo originale in inglese). Gli storici non hanno ritenuto di os- servare, neppure in una nota a piè di pagina, che dietro le armate anglo - americane che avevano invaso l’Italia (mentre i più alti comandanti delle forze armate italiane e il re disertavano, fuggendo per pietire protezione dal nemico) vi erano consistenti gruppuscoli di agenti al servizio dei sovietici, intesi ad acquisire con il beneplacito di Londra e di Washington il ruolo di forza politica prevalente e in realtà predominan- te, titolare di potere rappresentativo, alternativo o addirittura sostitutivo del vuoto legale, se non istituzionale, sostanzialmente causato dalla fuga del re. La frattura sto- rica era così attuata. In presenza di ciò si veniva ad escludere ogni possibile analisi ufficiale sulle cause della sconfitta militare, sulle responsabilità e, in particolare, si cancellava artatamente il passato giudicato responsabile di tutto e come tale privo di ogni legittimità e soprattutto escluso da ogni possibile legittimazione (tanto meno di “cittadinanza”). In sostanza, mentre la dinastia si era suicidata con la fuga e il ripudio del suo ruolo nel dichiarare la guerra (Vittorio Emanuele III disse che un Savoia non poteva restare neutrale; Badoglio si dichiarò certo della vittoria delle nostre armi), veniva scaricata sul Fascismo la responsabilità storica della disfatta, mettendo in se- condo piano, se non addirittura assolvendo, coloro che avevano tradito, complot- tato, congiurato per la rovina dell’Italia sin dal 1940 (se non addirittura dagli anni precedenti). Vi è da chiedersi, paradossalmente, su quali palafitte avrebbero potuto costruire il “mito della resistenza” se al Nord non fosse stata istituita la Repubblica Sociale, ma si fosse avuta solo una occupazione militare tedesca (come accadde altrove).
(da: http://infostorianews.it/html/inchiesta.html)
Uno dei grandi temi delle vicende italiane della seconda metà del XX secolo, tuttora dominante, è quello della frattura della storia nazionale creata artificialmente e strumentalmente sul presunto spartiacque dell’8 settembre e sugli influssi poderosamente alimentati e proiettati poi (e ancora oggi) a tutto campo da una organizzazione propagandistica di enorme efficienza, ramificata in ogni settore della diffusione: stampa, radio (in seguito, televisione), cinema, editoria, scuola, università, spettacolo, associazioni, ecc., il tutto sotto l’usbergo dell’ideologia e degli strumenti di potere controllati direttamente e indirettamente e comunque gestiti e manovrati a piacimen- to. Una analisi sia pure schematica, ma incentrata sui fattori determinanti di un pro- cesso le cui conseguenze permangono, condizionano e coerciscono pesantemente la società, deve muovere dalle origini, senza liquidare sbrigativamente come invece sé accaduto (e si persevera in tale linea di condotta) la causa primaria e le successive, immediate fasi che si sono poi concretizzate nel teorema del cosiddetto mito della “guerra di liberazione”. La causa primaria è la disfatta militare. Alla base del “do- gma” vi è quello che viene indicato come il “nuovo o secondo risorgimento”, sal- tando a piè pari non solo la conduzione politico militare - industriale delle opera- zioni dal 10 Giugno 1940 all’8 Settembre 1943, ma anche tutti i retroscena (per non dire altro) sfociati nella resa a discrezione firmata a Cassibile il 3 Settembre 1943, retroscena sviluppatisi, maturati e concretizzatisi mentre l’Italia combatteva una guerra mondiale senza esclusione di colpi e nella quale avrebbe dovuto (contraria- mente a quanto in realtà avvenne) impiegare tutte le sue risorse, ben più ampie di quanto abbiano falsamente affermato e fraudolentemente attestato e documentato (e ripetuto sino alla nausea) gli storiografi ufficiali del dopoguerra. Quelli, per intender- ci, che hanno monopolizzato l’informazione storica, occupando gli archivi, manipo- lando, intossicando, avvelenando in perfetta malafede i resoconti al fine di imporre, quale dogma, appunto, l’interpretazione funzionale alla tesi della cosiddetta “guerra di liberazione”.
Di fatto è stato costruito e costantemente rafforzato un castello di menzogne, sfocia- to in un gigantesco equivoco storico in cui ancora ci si trova immersi, mentre stancamente gli italiani si trascinano nell’evaporazione della loro identità e nel vuoto di un riferimento sbiadito, saturato e snaturato delle interpretazioni speciose di una origine storica priva di qualsivoglia attendibilità che non sia (e non fosse) individua- bile in un interesse e in un obiettivo esterni, avulsi da qualsivoglia profilo nazionale.
UNA DISFATTA CONTRABBANDATA PER LIBERAZIONE
Lo slogan “liberazione” attribuito alle operazioni belliche sul suolo nazionale condot- te dagli “alleati” (compresi i bombardamenti e i mitragliamenti terroristici sulle popo- lazioni civili , la strage alla scuola di Gorla, nei pressi di Milano, il mitragliamento del battello carico di civili sul lago d’Iseo, ad esempio) è stato escogitato dagli specia- listi della guerra psicologica dell’Intelligence britannica, autentici maestri della per- suasione occulta, del condizionamento progressivo, dell’asservimento indotto, sulla base di notizie false o manipolate ad arte. Subito la frangia che sin dagli anni venti e trenta agiva su direttive di Mosca nel tessere la rete di spie, informatori, infiltrati, simpatizzanti, reclutati e nel condurre azioni di guerriglia con l’eliminazione fisica degli avversari come pure operazioni belliche in grande stile nel quadro del disegno di espansione mondiale concepito e perseguito dal Cremlino, tale frangia si catapultò su quella definizione facendone un’arma, appropriandosene e accreditandosi il me- rito di tale obiettivo. Una mistificazione spacciata ancora oggi, ancorché priva di credibilità e spendibilità, come una banconota contraffatta. I mezzi d’informazione nella loro globalità hanno accuratamente nascosto agli italiani (in particolare nei libri di testo destinati alle scuole e alle università, come pure alle accademie militari) quanto ebbe ad affermare dall’altissimo livello del suo comando e quindi della sua conoscenza quale primo protagonista, il Feldmaresciallo Alexander, comandante supremo del gruppo di armate alleate che hanno invaso l’Italia nel 1943 e combat- tuto risalendo la penisola. Il Feldmaresciallo britannico così si è espresso in un rap- porto scritto nel 1944 in merito alla situazione italiana: “La natura della capito- lazione italiana e le ragioni che vi hanno condotto non erano a quell’epoca comprese dal pubblico e da allora sono state largamente falsate (nell’origi- nale: misrepresented). L’Italia , nel 1943 (…) aveva ancora grandi forze ar- mate in campo; le sole sue forze nella Penisola erano numericamente superiori a qualsiasi forza che gli Alleati avrebbero potuto portare contro di esse, e quantunque il loro morale fosse scosso e la loro qualità scadente, le truppe tedesche nel Paese erano sufficienti ad irrobustirle. La resistenza certamente era ancora possibile (nel testo inglese: resistance was certainly still possible)”. E più oltre nel documento citato, il Feldmaresciallo afferma: “L’esperienza del Go- verno Fascista repubblicano dimostrò che un Governo italiano avrebbe potu- to continuare a funzionare e ad esercitare la sua autorità sulla maggior parte d’Italia per un lungo periodo”. Un altro passo del documento che merita di essere qui ricordato è il seguente: “Nessun disordine tra i civili ha avuto poi un ruolo apprezzabile nel diminuire la capacità di resistenza dei tedeschi in Italia”. (da “Le Armate Alleate in Italia dal 5 settembre 1943 al 12 dicembre 1944”).
Un documento, quello citato, che come molti altri dovrebbe essere diffuso con il più ampio risalto e fatto oggetto di intensi approfondimenti e analisi al fine di fare chia- rezza, spazzando via le incrostazioni e le menzogne accreditate dai manipolatori, ri- portando alle sue effettive dimensioni, origini, finalità e tattiche operative, il fenome- no della “resistenza”, soprattutto il suo ruolo e la sua efficacia nel campo prettamen- te militare, partendo appunto alle parole inequivocabili del Maresciallo Alexander, che sono un punto fermo, un giudizio storico ineludibile.
I tedeschi, in Italia, furono sconfitti dalla V armata americana e dall’VIII britannica che facevano perno su uno strapotere aeronavale, su una superiorità di 3 a 1 in fatto di effettivi, artiglierie, corazzati, munizioni, equipaggiamenti. Ciò nonostante dallo sbarco a Salerno (9 Settembre 1943) al 25 Aprile 1945 (resa tedesca) impiegarono ben 21 mesi per piegare la resistenza germanica e quella delle truppe italiane che ancora si battevano contro gli inglesi e contro gli americani a fianco delle forze tede- sche. (Tutto ciò non scalfisce il risultato e le sue conseguenze).
MISTIFICAZIONE E FALSI
SULLE MATERIE PRIME STRATEGICHE
Tra le mistificazioni e le distorsioni su cui è stata costruita, nel dopoguerra, la tesi dell’impreparazione militare italiana (la “guerra ingiusta” come venne definita dal mi- nistro della difesa della repubblica Spadolini nella sua “orazione” di fronte alle salme (recuperate) dei marinai caduti a bordo del sommergibile “Scirè” colato a picco do- po un combattimento nel Mediterraneo orientale) vi è quella della carenza, dell’in- sufficienza, se non della assoluta povertà di materie prime strategiche, in particolare di nichelio, cromo, vanadio, tungsteno, molibdeno, rame, tutte indispensabili, ad esempio, nella fabbricazione di corazze per carri armati e proietti per artiglierie cam- pali e controcarri, come pure per cannoni a tiro rapido e mitragliatrici. Ebbene, si tratta di un clamoroso falso, uno dei tanti, dei troppi falsi che costellano la storio- grafia ufficiale e ufficiosa sulla partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale (come pure quella della “resistenza”, come si documenterà più avanti). Dopo l’8 Settembre 1943 (cioè a dire nei giorni immediatamente successivi alla resa dell’Italia firmata a Cassibile, località nei pressi di Siracusa) i tedeschi rinvennero nei magazzini e nei depositi delle industrie italiane scorte di materie prime strategiche definite, in documenti ufficiali germanici, superiori alle più rosee previsioni. Le scorte di molib- deno, ad esempio, erano materialmente più elevate rispetto a tutte le scorte europee messe insieme. Da parte sua il Felmaresciallo Kesselring, comandante delle truppe tedesche che si opponevano agli alleati sul fronte italiano, ha scritto:” Dopo il crollo dell’Italia si scopersero enormi magazzini colmi di materiale bellico inutilizzato”, (chi voglia documentarsi, consulti i seguenti lavori: “Una Patria venduta”, “La fabbrica della sconfitta”. “Generali nella polvere”, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, Via Sebastiano Veniero, 74/76, tel.06/39722159, fax 06/39722166; “I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943 1945”, edito da Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1997, traduzione dall’originale lavoro in lingua tedesca di Gerhard Schreiber. Consultare particolarmente dalla pa- gina 283 alla pagina 306).
E’ noto che le costruzioni navali sono quelle che richiedono maggiori quantità di ma- terie prime, tra cui quelle strategiche. Ebbene una valutazione sull’effettivo potenziale industriale discende da quanto segnalò alle autorità di Berlino il Comando Marina tedesca in Italia.: si trovavano in costruzione o non in condizione di salpare, 1 por- taerei, 1 monitore, 2 incrociatori pesanti, 2 incrociatori leggeri, 3 cacciatorpediniere, 9 torpediniere, 3 corvette, 13 sommergibili, 18 cacciasommergibili, 9 cercamine, 2 posamine, 2 dragamine, 2 motozattere, 1 nave pattuglia, 2 piccole unità’ ausiliarie, 1 nave posacavi, 6 motosiluranti di vario tipo. Unità che si sommavano a quelle già disponibili e catturate in vari porti. Naturalmente il grosso della Squadra Navale si era già consegnato agli inglesi senza sparare un colpo. “La magnifica preda” come la definì trionfalmente il primo ministro britannico Winston Churchill, preoccupatissimo per le sorti dello sbarco a Salerno, pianificato per il mattino del 9 settembre. Se la flotta italiana invece di arrendersi ignominiosamente avesse aperto il fuoco, lo sbarco sarebbe fallito oppure l’alto comando alleato avrebbe dovuto sospendere l’intera operazione e riesaminare la situazione strategica e tattica nel Mediterraneo.
Chi avrà la curiosità di documentarsi potrà avere una immagine completa e detta- gliata di quanto in realtà era disponibile e non venne utilizzato dagli stati maggiori delle forze armate italiane sin dal giugno 1940 e di quanto le industrie avrebbero potuto (e dovuto) realizzare.
Persino l’Ufficio Storico dell’Esercito ha dovuto ammettere (“Le operazioni in Africa Settentrionale” Vol. III El Alamein, pag.10): “E maggiore è l’amarezza nel pensare a quello che non è stato fatto, almeno nell’anno di non belligeran- za. Per tardi che fosse, la successiva campagna di Graziani avrebbe potuto sortire un andamento forse risolutivo”.
Ciò significa che persino l’Ufficio Storico dell’Esercito nel 1989, anno di pubblica- zione del volume sopra citato, è stato costretto ad ammettere che sarebbe stato possibile conquistare l’Egitto. Il riferimento riguarda in particolare la produzione di carri armati. In proposito e per smentire quanti insistono nell’affermare il falso, si ri- porta qui la parte essenziale di un rapporto del generale Carlo Favagrossa, commis- sario generale per le fabbricazioni di guerra, diretto al capo di stato maggiore gene- rale Ugo Cavallero. Il documento è stato stilato tra la fine del 1941 e gli inizi del 1942. In merito alla fabbricazione di carri, il generale scriveva: “Non si esagera affatto quando si afferma che si potrebbero raggiungere facilmente mille carri armati al mese, dal momento che una sola fabbrica di automobili ha saputo raggiungere la produzione di duecento macchine al giorno”. E più oltre: “L’I- talia è in grado di soddisfare pienamente le sue esigenze belliche, Occorre sol- tanto metodo e coordinazione nelle singole intraprese industriali”.
Gli storici avrebbero dovuto fornire delle risposte esaurienti sulla questione sotto- lineata dal massimo responsabile delle fabbricazioni di guerra, ad esempio inda- gando sul perché il generale Favagrossa non provvide a farsi parte diligente nel ri- muovere gli ostacoli, a denunciare più energicamente le manchevolezze, per non dire altro. Le sue affermazioni sono di una gravità enorme e smentiscono ogni pretestuo- sa interpretazione sull’impossibilità di sostenete adeguatamente lo sforzo bellico. Le dichiarazioni del generale Favagrossa configurano reati di alto tradimento e stupisce che gli storici non ne abbiano percepito la portata.
EQUIVOCI VELENOSI
Solo un riesame complessivo di quanto accadde tra il 10 Giugno 1940 e l’8 settem- bre 1943, sia per quanto attiene alla conduzione delle operazioni militari, alla dispo- nibilità effettiva delle risorse, al loro mancato impiego, sia per quanto si riferisce all’intelligenza col nemico, solo questo potrà costituire la premessa, il primo essen- ziale passo verso una autentica chiarificazione e un effettivo superamento degli equ- ivoci velenosi entro cui si dibatte in una agonia struggente l’identità nazionale. Af- fermazioni frammentarie, rettifiche episodiche, documentazioni pur rilevanti, ma non inserite in un quadro sistematico, coordinato, riguardante il complesso degli avve- nimenti, e non corredato da una diffusione di adeguato respiro e livello, si rivelano prive di incidenza e di forza, come pure della indispensabile efficacia nell’imporre un riesame oggettivo di quel periodo così drammaticamente condizionante e selvag- giamente travisato. Un riesame duramente osteggiato e nella realtà dei fatti vietato da quanti hanno costruito la loro legittimazione politica sul falso, sulla mistificazione, sull’occultamento e sulla manipolazione delle prove, dei documenti e, in un primo momento, sulla sistematica eliminazione fisica dei testimoni, persino di alcuni di quelli che, pur attestati su versanti ideologici diversi, erano schierati dalla loro parte.
QUELLO CHE SI CONTINUA A NASCONDERE
La storiografia cui si è fatto cenno, anche quella (minima parte) meno faziosa, ha sistematicamente sottovalutato se non addirittura ignorato, quindi celato premedi- tatamente il punto di vista del nemico relativamente al potenziale militare italiano. Neppure si è inteso, da parte di tali autori, coglierne il significato profondo, valutan- do oggettivamente il “perché” degli obiettivi di determinate operazioni offensive nei primi sei mesi di ostilità. La Royal Navy concentrò i suoi attacchi contro i sommer- gibili e contro la squadra da battaglia italiani. Dal 10 al 30 Giugno 1940 gli inglesi affondarono dieci sommergibili; nei primi sei mesi di guerra ne colarono a picco ven- ti (su un totale di oltre cento battelli che formavano la nostra flotta sottomarina). Nel dopoguerra gli americani usarono la beffarda cortesia di far sapere che gli affonda- menti furono resi possibili “sfruttando alcune informazioni che il Servizio Segre- to della Marina britannica si era procurate a Roma alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia”.
Inoltre, la notte sul 12 Novembre 1940 alcuni vecchi biplani aerosiluranti “Sword- fish” levatisi in volo dal ponte della portaerei “Illustrious” misero fuori combattimen- to, nel Mar Grande di Taranto, tre delle sei corazzate che formavano la forza d’urto della Regia Marina, una forza nettamente superiore a quella britannica nel Mediter- raneo. Con cinque siluri a bersaglio, su undici lanciati dalle due ondate di attacco, gli inglesi annientarono il 50 per cento delle nostre navi da battaglia. E i britannici im- piegarono velivoli che a malapena raggiungevano la velocità massima di 125 nodi, 231 Km/h. Ma usarono il siluro lanciato da aeroplano, un’arma di cui l’Italia aveva la primogenitura e un sistema di lancio avanzatissimo che altri tentarono inutilmente di realizzare e, in più occasioni, di carpire. Ciò nonostante l’Italia si presentò alla guerra senza aerosiluranti, senza una adeguata scorta di siluri. E questo anche se la Luftwaffe aveva ordinato all’industria italiana trecento di quei siluri con apparato di lancio.
La Royal Navy non era usa a impiegare le sue risorse e le sue energie su bersagli secondari. L’obiettivo da conquistare con ogni mezzo era il riequilibrio della situa- zione strategica nel Mediterraneo (nettamente e pericolosamente a sfavore dei bri- tannici) e il predominio psicologico sugli alti comandi italiani, segnatamente su quelli della marina, (palesemente, sin dall’inizio delle ostilità, dominati da un incompren- sibile e ingiustificabile stato d’inferiorità nei confronti della marina britannica e, al tempo stesso, e neppure troppo segretamente, suoi ferventi ammiratori). Lo ammise l’ammiraglio Cunningham, comandante in capo della Mediterranean Fleet: “Non vi è dubbio che la messa fuori combattimento di metà della Squadra italiana sta avendo e avrà una notevole influenza sull’andamento della guerra (…) è già evidente che il fortunato attacco ha grandemente aumentato la nostra libertà di movimento nel Mediterraneo ed ha così rafforzato il nostro controllo sulla sua zona centrale”.
SE CI SI RIFIUTA DI COMBATTERE
SI PERDONO LE GUERRE, OGNI TIPO DI GUERRA
Se gli ammiragli italiani dell’alto comando (Supermarina) non furono all’altezza del compito, se non misero in campo l’energia, la determinazione, la tenacia, il coraggio, la lealtà, le capacità militari e quelle morali che informavano, invece, gli “omologhi” britannici, questo non inficia minimamente l’effettiva disponibilità di mezzi e soprat- tutto non può far dimenticare che gli equipaggi delle navi italiane, è una citazione sto- rica, “chiedevano più combattività”. Anzi! E’ un aggravante. Sarebbe opportuno, per non dire indispensabile denunciare le gravissime e tuttora celate responsabilità di tali ammiragli. Si spazzerebbero via le nebbie dell’ambiguità che ancora avvolgono la Marina Militare. E non è discettando con sussiego sugli aspetti tecnici, sulle ri- strettezze nelle disponibilità di carburante e altre faccende di palese banalità indegne di così alti responsabili di una forza armata impegnata in una guerra che si scovano e costruiscono alibi alla loro diserzione di fatto e si configurano (da parte di certi autori) le giustificazioni per quanto non è stato fatto, ammettendo implicitamente che si sarebbe potuto fare.
Lo scenario si potrebbe allargare ai vertici e agli alti comandi del Regio Esercito e della Regia Aeronautica, come pure all’industria impegnata nelle costruzioni militari. Se mai una tale ricerca venisse attuata rivelando i torbidi retroscena di quanti sabo- tarono lo sforzo bellico, causando lutti, disastri, macchiandosi di orrendi delitti rima- sti impuniti e addirittura trasformati in meriti, lucrandone i profitti non solo finanziari, essa avrebbe anche un altro merito: rendere giustizia a quanti sulla linea del fuoco compirono il loro dovere. E furono tanti.
DOPO L’8 SETTEMBRE
FRODI E ARTIFIZI
C’è un aspetto grottesco nella tragedia dell’8 settembre e nel suo seguito. Forse una sorta di giustizia paradossale e al tempo stesso spietata, che la rende ancor più ag- ghiacciante. Coloro che tramarono per favorire la sconfitta delle proprie forze ar- mate e causare la rovina della propria Nazione vennero a loro volta, nella quasi to- talità, esclusi dai benefici del loro tradimento. Forse ebbero una manciata di spic- cioli. Certamente il disprezzo degli alleati. Ciò non toglie che rimasero e siano tuttora impuniti. L’aspetto atroce è che secondo la “dottrina” dominante ciò costituisce un vanto.
L’articolo 16 del trattato di pace imposto all’Italia (nel Febbraio 1947) recita: “L’I- talia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, spe- cialmente gli appartenenti alle forze armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data dell’entrata in vigore del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un’azione a favore di detta causa” (traduzione dal testo originale in inglese). Gli storici non hanno ritenuto di os- servare, neppure in una nota a piè di pagina, che dietro le armate anglo - americane che avevano invaso l’Italia (mentre i più alti comandanti delle forze armate italiane e il re disertavano, fuggendo per pietire protezione dal nemico) vi erano consistenti gruppuscoli di agenti al servizio dei sovietici, intesi ad acquisire con il beneplacito di Londra e di Washington il ruolo di forza politica prevalente e in realtà predominan- te, titolare di potere rappresentativo, alternativo o addirittura sostitutivo del vuoto legale, se non istituzionale, sostanzialmente causato dalla fuga del re. La frattura sto- rica era così attuata. In presenza di ciò si veniva ad escludere ogni possibile analisi ufficiale sulle cause della sconfitta militare, sulle responsabilità e, in particolare, si cancellava artatamente il passato giudicato responsabile di tutto e come tale privo di ogni legittimità e soprattutto escluso da ogni possibile legittimazione (tanto meno di “cittadinanza”). In sostanza, mentre la dinastia si era suicidata con la fuga e il ripudio del suo ruolo nel dichiarare la guerra (Vittorio Emanuele III disse che un Savoia non poteva restare neutrale; Badoglio si dichiarò certo della vittoria delle nostre armi), veniva scaricata sul Fascismo la responsabilità storica della disfatta, mettendo in se- condo piano, se non addirittura assolvendo, coloro che avevano tradito, complot- tato, congiurato per la rovina dell’Italia sin dal 1940 (se non addirittura dagli anni precedenti). Vi è da chiedersi, paradossalmente, su quali palafitte avrebbero potuto costruire il “mito della resistenza” se al Nord non fosse stata istituita la Repubblica Sociale, ma si fosse avuta solo una occupazione militare tedesca (come accadde altrove).
(da: http://infostorianews.it/html/inchiesta.html)