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Tomás de Torquemada
26-08-02, 22:16
Dal sito www.esoteria.org

I misteri degli Etruschi
di F. I.

(tratto da "Hiram", n. 9-settembre 1987, pag. 266-Ed. Soc. Erasmo)

Gli Etruschi, chiamati Tusci o Etrusci dai Romani e Tirreni o Tyrseni dal Greci, sono ancor oggi circondati da un alone di mistero incentrato su due principali problemi. Il primo è quello della loro origine, il secondo è quello della lingua.

La questione delle origini, per Erodoio (V secolo a.C.), era più che pacifica: gli Etruschi provenivano dalla Lidia, in Asia Minore, da dove, sotto il regno di Ati, figlio di Mani, molti partirono per salvarsi da una terribile carestia e, guidati dallo stesso figlio di Ati, Tirreno, approdarono nella terra degli Umbri, cambiando il nome da Lidi in Tirreni. "Nei loro poemi" ha scritto Raymond Bloch in 'Gli Etruschi', Il Saggiatore, 1959, Virgilio, Ovidio, Orazio chiamarono spesso gli Etruschi, Lidi. Secondo Tacito, sotto l'Impero romano ... i Lidi si consideravano ancora fratelli degli Etruschi. Seneca prende, come esempio di migrazione di un intero popolo, quella degli Etruschi, e scrive: 'Tuscos Asia sibi vindicat', cioè "l'Asia rivendica a sé la paternità degli Etruschi".

Un altro greco, storico e filosofo, Dionisio di Alicarnasso, vissuto a Roma sotto Augusto (negli anni 30-8 a.C.) contraddisse l'ipotesi dei Tirreni emigrati dalla Lidia. Rilevata la diversità di lingua e di religione fra Tirreni e Lidi, Dionisio così sentenziò: "Mi sembra, quindi, che coloro che asseriscono che gli Etruschi non sono un popolo immigrato da terre straniere, bensì una razza indigena, hanno ragione; e ciò mi pare derivi dal fatto che essi sono un popolo antichissimo che non assomiglia ad alcun altro sia per quanto concerne la lingua che per i costumi".

La questione dopo duemila anni è tutt'altro che risolta e fra le diatribe degli storici contemporanei si va facendo strada una terza ipotesi mediana alle altre due: "La civiltà etrusca, come noi la conosciamo" ha scritto Annette Rathje in 'Gli Etruschí, 700 anni di storia e di cultura', Edizioni Daga Print, Roma, 1987 "si sviluppò senza dubbio sul territorio italiano, come incontro di un'antica tradizione italica con più elevate culture (Oriente e Grecia). La domanda 'da dove vengano gli Etruschi' diventa una falsa questione".

La lingua etrusca è divenuta, o meglio è ridiventata, leggibile in epoca recente (ma si era conservata fino al V secolo della nostra era) dopo gli strenui sforzi compiuti dai glottologi sulle circa 10.000 iscrizioni trovate in Toscana oltre a quelle, abbastanza lunghe della ''tegola di Capua", del "cippo di Perugia" e delle bende di lino di una mummia greco-romana trovata ad Alessandria e ora conservata nel Museo di Zagabria. Quest'ultimo reperto, in particolare, contiene circa 1.500 parole, ma poiché si tratta di formule rituali relative a un calendario sacro enumerante cerimonie religiose, solo 500 parole differiscono le une dalle altre. In sostanza, l'etrusco è grosso modo incomprensibile nel significato delle frasi, anche se è ormai noto il senso di un discreto numero di parole e nonostante che studiosi e dilettanti sfornino di continuo ipotesi e "chiavi" interpretative puntualmente rivelatesi inadatte. Archeologi e linguisti si lamentano della mancanza, per la lingua etrusca, dell'equivalente della "lapide di Rosetta" che consentì a Champollion l'interpretazione dei geroglifici egizi. Nell'attesa, quindi, che si trovi una iscrizione bilingue o trilingue sufficientemente lunga da soddisfare tutti i dubbi morfologici e sintattici dell'etrusco, non resta che accantonare il problema, forse anch'esso falso, dato che la lingua è soltanto uno dei mezzi espressivi di un popolo.

Agricoltori nonché agrimensori e poi urbanisti, metallurghi e quindi temibili guerrieri con le loro armi di bronzo e poi in ferro, artisti ma anche mercanti, navigatori, pirati e colonizzatori, gli Etruschi hanno parlato sia con i fatti storici di cui sono stati protagonisti in tutto il bacino del Mediterraneo dal IX al I secolo a.C., sia con le mirabili testimonianze della loro arte, sia con l'eredità culturale, religiosa e morale che hanno travasato quasi per intero nella civiltà di Roma, contribuendo a strutturarla fin dalle sue origini.

A guardare, però, le gesta storiche degli Etruschi, le loro testimonianze artistiche e urbanistiche e i loro "lasciti" ai Romani, c'è il rischio di incappare in altri falsi problemi e di non "vedere" tutta insieme la realtà profonda di questo popolo che presenta tante affinità con le culture dell'Asia Minore, di Babilonia, della Grecia, ma anche con quelle maltese (se non altro con quella di Tarxien della decadenza e con l'ipogeo di Hal Saflieni), fenicia e punica. Eppure mantiene una sua originalità basandosi su una religione rivelata che informa di sé, in modo totale quanto angoscioso, la vita pubblica, familiare e individuale.

Per capire gli Etruschi, come per altri popoli, occorre domandarsi quale fosse la loro cosmogonia, la loro teogonia e quindi quali fossero le applicazioni analogiche, pratiche, rituali e profane, pubbliche e private (se mai una privatezza possa esistere in un ambito fortemente impegnato della onnicomprensività di un legame fatale tra gli uomini e gli dei).

Secondo Raymond Bloch, gli Etruschi mostrano aspetti singolari e chiaramente differenziati rispetto al Greci e ai Romani. Il loro atteggiamento di fronte alla divinità e al destino "è più inquieto - ha scritto -se non addirittura angoscioso e il loro stesso modo di vivere sembra improntato alla ricerca di presagi che prefigurino un avvenire sul quale è pressoché impossibile esercitare una qualche influenza". Tutto nella vita del singolo, della città e del popolo etrusco sembra, per Bloch come per altri storici, "obbedire a una sorta di predeterminazione, che non può produrre se non una forma di pessimismo diffuso". In questa frase, tuttavia vanno rilevate due astrazioni, due figure retoriche e strutturali tipiche del pensiero moderno occidentale, ma incomprensibili, fors'anche inconcepibili, tre millenni or sono.

La predeterminazione, per il pensiero dei popoli coevi a quello etrusco, poteva essere intuita, intravista come ritmo e ordine mai compiutamente intelligibili di un mondo fortemente unitario in tutte le molteplici manifestazioni dal divino, all'umano, al naturale. Il concetto poi di pessimismo (o di ottimismo) diffuso, non poteva altro che essere un effetto, un segnale non certo una causa comportamentale, indicante la rispondenza e l'accordo dell'anima collettiva a quel ritmo, a quell'ordine.

"Diversamente dai Greci e dai Latini, ma analogamente a parecchie popolazioni orientali, gli Etruschi - è sempre Bloch a scriverlo - concepiscono la natura come subordinata a un fine universale: i fenomeni che si offrono vengono concepiti come prodotti dalla volontà divina per rendere l'uomo consapevole dei propri doveri e del proprio destino futuro. Tutto si riduce, dunque, alla mantica, che appare appunto la scienza universale".

Anche nelle valenze e nelle pieghe di questo concetto si può celare qualche trappola. L'indovino etrusco, difatti, sia che fosse àugure (specializzato nell'interpretazione del volo degli uccelli), aruspice (letttore delle viscere e del fegato degli animali sacrificati), esperto in brontoscopia (tuoni), cultore dei librifulgurales (sul fulmini) o semplice astrologo non si limitava all'osservazione e alla divinazione degli ostenta (prodigi), ma provvedeva all'espiazione, al ripristino dell'ordine violato, alla facilitazione del presunto volere degli dei o alla deviazione, al ritardo della sciagura prevista in arrivo. Di più, come gli sciamani, gli indovini etruschi sconfinavano nella magia in quanto è stato tramandato che sapessero provocare certi prodigi ed erano sacerdoti, nel senso etimologico del termine, in quanto depositari dei rituales.

Anche nelle valenze e nelle pieghe di questo concetto si può celare qualche trappola. L'indovino etrusco, difatti, sia che fosse àugure (specializzato nell'interpretazione del volo degli uccelli), aruspice (letttore delle viscere e del fegato degli animali sacrificati), esperto in brontoscopia (tuoni), cultore dei librifulgurales (sul fulmini) o semplice astrologo non si limitava all'osservazione e alla divinazione degli ostenta (prodigi), ma provvedeva all'espiazione, al ripristino dell'ordine violato, alla facilitazione del presunto volere degli dei o alla deviazione, al ritardo della sciagura prevista in arrivo. Di più, come gli sciamani, gli indovini etruschi sconfinavano nella magia in quanto è stato tramandato che sapessero provocare certi prodigi ed erano sacerdoti, nel senso etimologico del termine, in quanto depositari dei rituales.

Padroni, evidentemente nell'epoca più arcaica, del sapere che abbracciava la vita e la morte, le scienze e le arti, la religiosità e la guida della cosa pubblica, i sacerdoti etruschi seppero far sbocciare nella società della nascente età del ferro, fra il 900 e il 720 a.C. della rozza cultura villanoviana, una civiltà stupenda che trasformò i piccoli villaggi imperniati su famiglie autonome, in città-stato possenti e ricche che prefigurano il sogno imperiale di Roma.

Come mito delle proprie origini, o meglio delle origini della loro fioritura, gli Etruschi ci hanno tramandato la leggenda di Tagete, figlio di Genio e nipote di Giove, piccolo come un bambino, dai capelli argentei e dalla saggezza di un vegliardo, scaturito da una zolla di terra toccata dall'aratro di un contadino, che insegna all'intera Etruria tutta la disciplina che abbracciava il sapere, umano e ispirato al divino, più avanzato. Un'altra figura, muliebre stavolta, profetessa, ninfa o sibilla, denominata Vegola o Begoe, completa l'insegnamento di Tagete con l'ars fuIguratoria e con l'agrimensura, rivelatasi di basilare importanza per gli Etruschi prima e per i Romani più tardi.

Questi miti non possono attenere soltanto al dominio (fin troppo recintato di alti steccati) della storia delle religioni bensì possono per lo meno essere usati come strumenti per la comprensione della storia e della cultura di un popolo, siano esse sacre o profane. Non è infatti privo di significati pratici per il glottologo lo schema del "fegato di Piacenza" (bozzetto in bronzo di un fegato di pecora trovato in quella città nel 1877) con le sue 40 caselle contenenti ciascuna il nome di un dio, con le sue delimitazioni spaziali e con le sue 16 caselle del bordo che sono chiaramente di derivazione astronomica e astrologica. Questo stesso schema è analogo a quello di reperti affini babilonesi ed è ancor oggi presente nella pianta della città di Roma. Né dovrebbe essere priva di significati pratici la lunga litania di formule scritte sulle bende della mummia di Zagabria, solo che si cercasse di compenetrasi nella visione del mondo tipica degli Etruschi.

Questa visione comportava un misterioso consiglio di Dei superiores et involuti, a cui era sottoposta la triade di divinità principali: Tinia (Giove), Uni (Giunone) e Metirva (Minerva). I templi dedicati a questa triade dovevano essere collocati nelle città in excellentissimo loco nei tre punti cardinali principali (Est, Sud e Ovest, il Nord essendo cieco come sede inaccessibile degli dei) o in un unico punto (come nell'Acropoli greca) e in un solo tempio a tre celle (come in quello di Giove sul Campidoglio, a Roma, o come quello di Apollo, a Veio).

Al di sotto della triade principale, vi sono altre triadi di divinità più o meno simili a quelle dell'Olimpo greco-romano: Aplu (Apollo), Artumes (Artemide), Turms (Mercurio), Nethuns (Nettuno), Maris (Marte), Turan (Venere) ecc., raggruppate a 12, come i segni dello Zodiaco, a 7, come i Pianeti, a 16 come le zone del cielo.

Da queste concezioni religiose oltre che dall'applicazione nel tessuto urbano delle regole sacrali dell'agrimensura nacque la prescrizione dei Libri rituales etruschi sulla disposizione a scacchiera della pianta delle città con un ben determinato orientamento stabilito dagli àuguri.

Dei templi etruschi, con le strutture portanti in legno, le mura in argilla cotta al sole, le tegole del tetto e gli ornamenti del frontone e del crinale in terracotta, non è rimasto granché data la deperibilità dei materiali impiegati.

Del santuario di Volthumna, in una imprecisata località della zona del Lago di Bolsena, dove ogni anno si riuniva l'intera Etruria, è rimasto appena il ricordo del nome. (Che anche questo santuario, come avveniva davanti al tempio di Tarxien, a Malta, venisse eretto con tronchi di alberi considerati fausti?)

E rimasta invece, cospicua, la testimonianza di ciò che era stato progettato per l'eternità immobile, a volte serena e a volte (spesso nel periodo della decadenza) cupa. Il destino ultramondano ha rappresentato una delle principali preoccupazioni degli Etruschi ed è grazie a questa angoscia, stemperata o accesa secondo le varie epoche, che si conosce quasi tutto di loro. "Glietruschi - ha scritto ancora Annette Rathie - tennero in gran conto i loro morti. Come gli Egizi, credevano che i defunti continuassero a vivere nella tomba. Perciò seppellivano i morti insieme ai loro oggetti personali e facevano molto per proteggerli", sia - è il caso di aggiungere mediante opportuni rituali sia mediante statue di "guardiani".

Nel periodo delle origini, con una consuetudine tipicamente orientale, si bruciavano le spoglie e se ne mettevano le ceneri in urne dette canopi.

A partire dall'VIII secolo a.C. i morti vengono seppelliti in fosse scavate nel tufo. Dal VII secolo vengono costruite intere camere funerarle ricoperte di terra "a tumulo". Nascono poi intere necropoli che si trovano sulle alture, nelle vicinanze delle città e lungo le strade principali, e in esse sono stati trovati, spesso saccheggiati, i più importanti tesori dell'arte etrusca: sarcofaghi, armi, monili, suppellettili, vasellame, statue, rilievi, iscrizioni e affreschi. Questi ultimi, soprattutto raffigurano nel periodo arcaico una visione del mondo, sia pure d'oltretomba, serena e agiata, ovviamente per le classi dominanti.

Dopo il 474 a.C., tuttavia, quando stavano per volgere a compimento i secula che il Fato aveva concesso agli Etruschi, e dopo che si erano manifestati adeguati prodigi e moniti divini (in pratica dopo la pesante sconfitta di Cuma che spodestò i Tirreni dal predominio sul mari) l'atmosfera delle tombe diventa cupa e via via terrificante. Alta (Ade) e Phersipnai (Persefone) si trasformano in esseri spaventosi che, insieme con un Caronte livido e ghignante, accompagnano le anime in un viaggio, in cui altre figure repellenti e minacciose non lasciano presagire nulla di buono. Come se anche le anime dei singoli non fossero che brandelli di un'anima collettiva giunta a compimento dei suo ciclo... prima che un altro ciclo fiorisse e fruttificasse in altra forma.

Silvia
29-08-02, 21:38
Usi, costumi e frivolezze... ;)

La mancanza di documenti storici e letterari scritti ci impedisce una conoscenza diretta dei costumi degli Etruschi. Tutto ciò che sappiamo proviene dai dipinti delle tombe, dalle statuette bronzee, dai coperchi dei sarcofaghi e dai busti delle urne funerarie. Tutta l’iconografia etrusca, che illustra però solo immagini di aristocratici, ci riporta a una vita piacevole e lussuosa. Del tutto diversa doveva essere quella delle classi inferiori, di cui però non abbiamo documentazione.

Gli uomini, soprattutto i giovani, stavano spesso seminudi, accontentandosi del perizoma, un panno drappeggiato e fermato intorno ai fianchi, oppure mettevano un giubbetto. Le persone anziane indossavano invece una tunica leggera, lunga fino ai piedi, pieghettata e ricamata e, quando faceva freddo, il mantello di stoffa pesante e colorata.
Le donne si sbizzarrivano di più: tuniche, gonne, corpini, giubbetti, casacche, mantelli colorati. Soprattutto le gonne colpiscono per loro grazia, con le loro pieghettature, increspature e inamidature, e con le forme svasate che fanno sospettare l’esistenza di cerchi di sostegno.
Alla metà circa del VI secolo risale l’introduzione del chitone di lino, indumento indossato sia dalle donne che dagli uomini, anche in versione corta al ginocchio (più tardi, in epoca ellenistica, si impose fra gli “eleganti” il chitone attillato con cintura).
Il mantello classico, di derivazione greca, era rettangolare, ma andava molto di moda anche il mantello semicircolare, che si portava di traverso lasciando una spalla scoperta.

I primi tessuti impiegati erano di lana molto rigidi. In seguito venne introdotto il lino e, per vesti lussuose, furono impiegati anche la porpora e l’oro. Più tardi si diffusero le stoffe quadrettate, ottenute dalla sovrapposizione di due strati: uno “a finestre” ed il sottostante a tinta unita. Le vesti conobbero anche le decorazioni applicate, prima in oro e poi anche in avorio. I bordi in colori contrastanti con il resto delle vesti erano una tipica costante dell’abbigliamento etrusco.

Le calzature più comuni erano sandali, stivaletti alti e caratteristiche scarpe con la parte anteriore a punta rivolta verso l'alto e la parte posteriore molto rialzata, dette calcei repandi.

Il copricapo più diffuso era una calotta di lana, ma ne esistevano di molte fogge: a punta, conici (tutuli), a cappuccio, a falde larghe e spesso identificavano l'appartenenza di coloro che li portavano ad una precisa classe sociale.

Dal V secolo gli uomini, che precedentemente usavano portare la barba, incominciarono a radersi il volto e a tenere i capelli corti.

Le donne amavano molto schiarirsi i capelli e ricorrevano alle più svariate acconciature (nodi, trecce, chignons, tenuti insieme da reti, spilloni e marchingegni vari…). Occupavano un posto elevato sia nella famiglia che nella società, e godevano di libertà che scandalizzavano i contemporanei. Avevano molta cura del corpo, sfoggiavano seminudità o nudità e bevevano a più non posso.

Di notevolissima fattura i gioielli (di bronzo, argento e oro), che rivelano l'alto livello raggiunto dalla metallurgia presso gli Etruschi. In particolare erano maestri nella tecnica della granulazione, che consisteva nel fondere l'oro in piccolissime forme rotonde unite l'una all'altra. Le sfere, davvero minuscole, venivano fissate sulla lamina d'oro, una accanto all'altra, per comporre un disegno o una decorazione.

http://www.silviadue.net/vari/collare_etrusco.jpg
Collare con teste di Sileno, VI-V sec.

http://www.silviadue.net/vari/gioielli_etruschi.jpg
Gioielli etruschi, V sec. a.C.


Gli Etruschi delle classi agiate facevano nel corso della giornata due pasti abbondanti. Dagli affreschi tombali siamo in grado di ricostruire con buona approssimazione quello che doveva essere un tipico banchetto. I tavoli erano coperti da tovaglie ricamate e apparecchiati con ricchi vasellami. I convitati mangiavano sdraiati su cuscini, accuditi da nugoli di servi. I cibi erano costituiti da ricche portate di carni, ortaggi, frutta.
I banchetti venivano accompagnati da musica e da danze. Gli strumenti erano a percussione, a corda e a fiato. In particolare quello più utilizzato era il flauto, in tutte le sue svariate fogge. Gli Etruschi apprezzavano molto la musica e solevano accompagnare con essa tutte le attività della giornata: il lavoro, il desinare, le cerimonie civili e religiose. Anche sul campo di battaglia i movimenti delle truppe erano coordinati facendo ricorso al suono delle trombe.

Erano molto seguiti i giochi sportivi come il pugilato, la lotta, il lancio del giavellotto e del disco, la corsa dei cavalli e dei carri. Un folto pubblico assisteva anche ai combattimenti di gladiatori che avvenivano sempre all'ultimo sangue, uomo contro uomo o uomo contro animale. Uno di questi cruenti giochi gladiatori vedeva contrapposti, in una lotta impari e mortale, un uomo con la testa infilata in un sacco, armato di una mazza, e un mastino tenuto con un lungo guinzaglio da un uomo mascherato e vestito buffonescamente, chiamato Phersu.

Notizie reperite sui siti: http://users.libero.it/agmen/index.htm e http://www.comune.corchiano.vt.it (sito ufficiale del Comune di Corchiano, Viterbo).

:)

Silvia
09-09-02, 21:17
La donna

Due parole a parte merita la condizione sociale della donna che, rispetto al mondo latino e greco, godeva di una maggiore considerazione e libertà: se per i latini la donna doveva essere lanifica et domiseda, cioè seduta in casa a filare la lana, e su cui, nelle età più antiche, il pater familias aveva il diritto di morte qualora fosse stata sorpresa a bere del vino, per gli Etruschi ella poteva partecipare persino ai banchetti conviviali, sdraiata sulla stessa kline del suo uomo, o assistere ai giochi sportivi e agli spettacoli. Il tutto era inammissibile per i Romani, che non esitarono a bollare questa eguaglianza come indice di licenziosità e scarsa moralità: addirittura dire “etrusca” era sinonimo di “prostituta”.
La condizione sociale della donna nella civiltà etrusca era unica nel panorama del mondo mediterraneo, e forse ciò derivava dalla diversa stirpe dei popoli, pre indoeuropei gli etruschi, indoeuropei i latini e i greci. La donna poteva trasmettere il proprio cognome ai figli, soprattutto nelle classi più elevate della società. Nelle epigrafi talvolta il nome (oggi diremmo il cognome) della donna appare preceduto da un prenome (il nome personale), segno del desiderio di mostrarne l’individualità all’interno del gruppo familiare, a differenza dei Romani che ricordavano solo il nome della gens, della stirpe. Tra i nomi propri di donna più frequenti troviamo Ati, Culni, Fasti, Larthia, Ramtha, Tanaquilla, Veilia, Velia, Velka, che appaiono incisi sul vasellame migliore di casa o accanto alle pitture funerarie.

Dal sito www.isa.it/tuscia/

http://www.tarquinia.net/arte_cultura/images/donne.jpg

Silvia
09-09-02, 21:17
La donna

Due parole a parte merita la condizione sociale della donna che, rispetto al mondo latino e greco, godeva di una maggiore considerazione e libertà: se per i latini la donna doveva essere lanifica et domiseda, cioè seduta in casa a filare la lana, e su cui, nelle età più antiche, il pater familias aveva il diritto di morte qualora fosse stata sorpresa a bere del vino, per gli Etruschi ella poteva partecipare persino ai banchetti conviviali, sdraiata sulla stessa kline del suo uomo, o assistere ai giochi sportivi e agli spettacoli. Il tutto era inammissibile per i Romani, che non esitarono a bollare questa eguaglianza come indice di licenziosità e scarsa moralità: addirittura dire “etrusca” era sinonimo di “prostituta”.
La condizione sociale della donna nella civiltà etrusca era unica nel panorama del mondo mediterraneo, e forse ciò derivava dalla diversa stirpe dei popoli, pre indoeuropei gli etruschi, indoeuropei i latini e i greci. La donna poteva trasmettere il proprio cognome ai figli, soprattutto nelle classi più elevate della società. Nelle epigrafi talvolta il nome (oggi diremmo il cognome) della donna appare preceduto da un prenome (il nome personale), segno del desiderio di mostrarne l’individualità all’interno del gruppo familiare, a differenza dei Romani che ricordavano solo il nome della gens, della stirpe. Tra i nomi propri di donna più frequenti troviamo Ati, Culni, Fasti, Larthia, Ramtha, Tanaquilla, Veilia, Velia, Velka, che appaiono incisi sul vasellame migliore di casa o accanto alle pitture funerarie.

Dal sito www.isa.it/tuscia/

http://www.tarquinia.net/arte_cultura/images/donne.jpg

Silvia
08-10-02, 20:56
Originally posted by Tomás de Torquemada
[...] Non è infatti privo di significati pratici per il glottologo lo schema del "fegato di Piacenza" (bozzetto in bronzo di un fegato di pecora trovato in quella città nel 1877) con le sue 40 caselle contenenti ciascuna il nome di un dio, con le sue delimitazioni spaziali e con le sue 16 caselle del bordo che sono chiaramente di derivazione astronomica e astrologica. [...]


IL FEGATO ETRUSCO DI PIACENZA

Il 26 settembre 1877 a Ciavernasco di Settima (Piacenza) un contadino, nell'arare il campo dei conti Arcelli, trovò uno strano oggetto. Dapprima lo gettò sotto un albero e, finito di lavorare, lo pulì e lo mostrò al padrone. Questi glielo lasciò. Il contadino lo consegnò allora al parroco don Luigi Fulcini che lo acquistò per una ventina di lire, per tenerlo in canonica da mostrare ad amici e conoscenti.
Il conte canonico don Giuseppe Gazzola, persona assai colta, in quei giorni ospite in un paese vicino presso i conti Caracciolo, venuto a conoscenza del ritrovamento, volle vedere l'oggetto. In seguito il conte Francesco Caracciolo lo acquistò e chiese al contadino a fare ulteriori scavi, ma non si trovò nulla di interessante. Il conte capì che si trattava di un oggetto di valore e che poteva essere importante per l'archeologia. Ne fece un disegno preciso, anche se non capiva i caratteri scritti. Dal disegno ricavò una fotografia, grazie alla quale l'oggetto venne reso noto a molti archeologi.

Il bronzo venne studiato, analizzato, disegnato, fotografato e si rivelò un oggetto prezioso. Il chimico Dioscoride Vitalì lo analizzò e lo descrisse principalmente costituito di rame, che vi si trova in forte proporzione, e da stagno, che vi esiste al contrario in tenue quantità, insieme a tracce di ferro. Nei primi anni non si parlò di "fegato". Qualcuno lo paragonò a un "seme di fagiolo", altri alla "metà di un rene umano", alquanto sviluppato, tagliato secondo quel piano che lo divide in due parti simmetriche.
"Fegato" per la prima volta venne definito da L. A. Milani nel 1900, seguito da Körte nel 1905, che ne fece uno studio fondamentale nel Die Bronzeleber Von Piacenza.

Il Fegato Etrusco, conservato al Museo Civico di Piacenza, risale al periodo tra il secondo e il primo secolo avanti Cristo (come denunciano le caratteristiche delle scritture usate nelle iscrizioni) e non all'epoca della dominazione etrusca nella Pianura Padana (V - IV - sec. a.C.), e ha le seguenti dimensioni: mm 126 x 76 x 60.

http://www.cairomontenotte.com/abramo/etrusco1.gif

Per l'esame delle viscere veniva capovolto di sotto in su, perché la parte inferiore era ritenuta la più importante. Su questa sporgono tre protuberanze: la più piccola a forma semi mammellare (il processus papillaris), la seconda piramidale (il processus pyramidalis), la terza è la cistifellea. Su questa superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a nomi di divinità tra le quali sono identificate: Tin (Giove), Uni (Giunone), Neth (Nettuno), Vetisi (Venere), Satres (Saturno), Ani (Giano), Selva (Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole), Mae (Maius) e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella religione romana. Nella parte convessa si trovano due iscrizioni, una su di un lobo (Usils = parte del sole), l'altra sull'altro (Tivs = parte della luna). Il fegato di bronzo reca attorno al margine esattamente sedici caselle contenenti ciascuna il nome di una divinità e queste sedici caselle corrispondono alle altrettante parti in cui gli Etruschi dividevano il cielo.

Sul Fegato Etrusco sono stati fatti molti studi. I più importanti furono quelli dei ricercatori tedeschi Deecke (1880), Korte (1905) e Thulin (1906), che misero in risalto l'importanza di questo cimelio archeologico, definendolo un documento fondamentale per la conoscenza della religione e della lingua etrusca. Ma a che cosa serviva questa riproduzione bronzea di un fegato di pecora con tante iscrizioni in lingua etrusca? Il Korte lo confrontò con il coperchio di un'urna cineraria ritrovata a Volterra che rappresentava un sacerdote (3° secolo a.C.) che tiene in mano un fegato come quello ritrovato a Ciavernasco di Settima. Dunque il nostro bronzo è uno strumento originale dell’arte aruspicina: l'aruspice interpretava il volere divino da segni particolari riscontrati nel fegato della vittima sacrificata, cioè poteva prevedere se un'impresa si sarebbe compiuta sotto influssi favorevoli o sfavorevoli, confrontando il fegato ancora caldo col modello bronzeo inscritto, che fungeva da guida, da vero e proprio prontuario.


E tuttavia c’è chi dice che il Fegato Etrusco sarebbe, in realtà, un’antichissima mappa dell’Italia. Questa la chiave di lettura che si otterrebbe appendendo il Fegato Etrusco per mezzo del foro che si trova vicino alla piramide. La “mappa” e' orientata con il nord verso l'alto:

http://www.cairomontenotte.com/abramo/etrusco2.jpg



Una curiosità: la foto del Fegato Etrusco ha reclamizzato gli infusi della camomilla Bonomelli, la Citroepatina della Mastretti ed è finita persino, quando era meno diffusa la biro, sulle carte assorbenti. :)

Materiale reperito in parte nel sito: http://www.gossolengo.org

agaragar
09-10-02, 18:28
Originally posted by Tomás de Torquemada
Dal sito www.esoteria.org
La lingua etrusca è divenuta, o meglio è ridiventata, leggibile in epoca recente (ma si era conservata fino al V secolo della nostra era)
strano che i romani non ci abbiano lasciato uno straccio di traduzione e/o vocabolario,

come mai :confused:

Silvia
19-05-03, 20:42
Originally posted by agaragar
strano che i romani non ci abbiano lasciato uno straccio di traduzione e/o vocabolario...


Strano davvero, considerato che molti rampolli della buona società romana andavano a studiare l’etrusco a Caere…


Riccardo Cecchelin, nel suo articolo/racconto "IL GLADIO ROMANO UMILIO' E UCCISE LA NOSTRA CULTURA" (dal sito www.storiain.net ), ipotizza di essere prescelto per far conoscere al mondo la vera storia degli etruschi e immagina di incontrare, in un’antica tomba, un vecchio magro, pallido, dalla lunga barba bianca: il lucumone Lars Avile Tites, che lo prega di ascoltarlo…

"Il tempo e l'uomo hanno cambiato molto il paesaggio che ci ha nutrito e che ci ha amato. Querce, ulivi, viti selvatiche hanno dilaniato con le loro radici fameliche il terreno, lavato e disciolto dalla pioggia, polverizzato dal sole. Così l'Etruria, la terra dei Rasna, questo era il nostro antico nome, è sparita. Insieme al suo pensiero, ai suoi boschi rigogliosi, ai prati lussureggianti, ai torrenti cristallini. Dov'erano un tempo le nostre città, i nostri sacrari, le nostre strade, non sono rimasti che pochi sassi ricoperti di erbacce. Roma, la nostra creatura, usò con noi il pugno di ferro, il sistema infame della terra bruciata, della tabula rasa, materiale e ideale. Vae victis (guai ai vinti) urlavano i soldati bruciando le nostre case. Così furono spazzate via, l'una dopo l'altra, Veio, Fidene, Falerii, Volsini, Tarquinia, Vetulonia, Caere... e le mura, i palazzi, le lapidi etrusche... Solo le tombe, nascoste sotto terra, sfuggirono a quest'opera sistematica di distruzione, a cui si affiancarono anche storici, poeti e scrittori latini. Parlarono di noi solo per esaltare le vittorie di Roma, su tutto il resto calò un muto sudario, grandioso e prepotente. E anche la nostra lingua sparì, sepolta con noi, quando la congiura del silenzio, voluta da Roma, lanciò la sua offensiva contro i libri etruschi. Così scomparvero i venti volumi scritti su di noi dall'imperatore Claudio, gli Annali Tirreni conservati nel Tabularium Capitolum; le cronache di Teofrasto e Velleio Flacco che parlavano di Etruschi, i Tusci libelli. Gli stessi testi religiosi etruschi finirono nel nulla; i libri fatales, aruspicini, fulgurales, acherontici, citati da Cicerone, Giovenale, Virgilio... I romani spazzarono via tutta una letteratura e tutta una lingua. Mai nel mondo accadde qualcosa di uguale, Roma rinnegò a cancellò così le sue origini. Uomini, donne, vecchi, bambini furono costretti con le armi a smettere di parlare etrusco e ad adottare la lingua dei vincitori, il latino. Silenzio e disprezzo coprirono l'Etruria. La nostra lingua, nota a molti popoli vicini del Mediterraneo, scritta sui vasi, scolpita nella pietra e fusa nel bronzo, divenne all'improvviso inutile. Fu abbandonata, interdetta, scomunicata. La pax romana fu per noi una pace di tomba".

Storia o fantastoria? Chissà… ;)

agaragar
20-05-03, 01:27
La lingua etrusca
I reperti della civiltà etrusca pongono senza dubbio questo popolo in una condizione particolare all'interno dell'Italia dell'VIII-IX secolo per l'eccezionalità della bellezza dei manufatti e per lo sviluppo economico che essi mostrano. Vi è un altro tratto che li rende diversi, anzi unici tra le popolazioni che all' epoca occupavano il suolo della penisola: la lingua.

Come è noto gli etruschi furono i primi, insieme ai Greci di Cuma, ad usare sul suolo italiano l'alfabeto come lo concepiamo oggi, cioè un sistema di trascrizione in cui ad ogni lettera corrisponde un suono funzionale della lingua. Gli studiosi presumono che gli Etruschi abbiano preso il loro, che poi passarono ai Romani, da quello usato dai Greci a Cuma. Il nostro è l'erede di quello latino e quindi un diretto discendente di quello etrusco. Abbiamo perciò una messe abbastanza ampia di iscrizioni, in maggioranza funerarie, perchè gli studiosi di linguistica siano in grado di fare delle analisi tipologiche e comparative sulla loro lingua che permettono di stabilire alcuni fatti certi su di essa.

La linguistica comparativa permette infatti di ricostruire le parentele delle lingue tra di loro studiandone le caratteristiche di sistema, cioè non solo il vocabolario, che può trasformarsi in larga misura, ma soprattutto la struttura fonetica, morfologica e sintattica. Quello che abbiamo decifrato dell'etrusco permette di asserire senza ombra di dubbio che l'etrusco, di tutte le lingue parlate nella penisola italica, è l'unica a non appartenere al gruppo delle lingue indoeuropee. Essa si stacca perciò completamente da tutte le altre.

Il resto delle popolazioni parlavano delle lingue o dialetti cosiddetti italici tutti imparentati tra di loro e facenti parte della famiglia indoeuropea. Le lingue indoeuropee, benchè ormai in apparenza talmente diverse da sembrare del tutto separate come origine, si estendono, come il nome stesso indica, su tutta l'Europa e su parte dell'Asia. Il territorio che occupano va dall'Atlantico fino ai confini dell'Europa con l'Asia al Nord e fino all'India nel Sud asiatico. In Europa vi sono solo pochi esempi di lingue di ceppo diverso oltre l'etrusco: il basco parlato sulla costa atlantica della Spagna, l'ungherese e il filandese portati da migrazioni relativamente recenti dall'Asia e le lingue del Caucaso. L'arrivo dei popoli che parlavano le lingue indoeuropee era stato tradizionalmente fissato dagli studiosi tra il III e il II millennio. a. C. dopo la scoperta e lo studio sistematico della parentela di queste lingue tra di loro alla fine del '700 e si era pensato che la loro sede originaria fosse l'Asia centrale. Benchè queste ipotesi non siano state definitivamente rifiutate, vi sono studi più recenti che proporrebbero ora date più recenti e la Mesopotamia come una possibile regione d'origine della migrazione.

In Italia le diverse ondate di migrazione indoeuropea si sovrapposero alle popolazioni originarie dando luogo ad un quadro formato appunto dalle parlate cosiddette italiche, tutte abbastanza simili tra di loro, di cui il latino, quella parlata dalla popolazione residente dove venne fondata Roma era destinata a diventare la fingua che poi le dominò tutte e si sostituì ad esse. Delle parlate originarie preindoeuropee non è praticamente rimasta traccia o menzione. Gli studiosi hanno ricostruito con difficoltà alcuni toponimi, nomi di luogo, come relitti di nomi dati dai popoli che abitavano la penisola prima della migrazione. Gli Etruschi sono dunque gli unici in Italia a non parlare una lingua indoeuropea non imparentata con nessuna altra lingua locale. Esiste tuttavia un documento, una stele iscritta proveniente dall'isola greca di Lemno, che presenta una varietà linguistica molto simile all'etrusco.

Va detto che quando esiste una somiglianza tra due lingue che è scientificamente provata, essa non può essere una somiglianza casuale ma deve dipendere da una parentela più o meno stretta, quindi da un'origine comune. Per molti studiosi questa parentela sussiste tra l'etrusco e il dialetto dell'isola di Lemno che si presenterebbe come una forma arcaica del primo. In mancanza di altre prove si presentano due ipotesi possibili: che gli Etruschi si siano spinti ad Est e abbiano fondato una base in area greca oppure che provengano da quell'area, come in effetti è noto che sostengono alcune fonti.

La linguistica ci offre solo alcuni fatti certi in questo caso: il primo è che non vi possono essere dubbi di sorta sul fatto che l'etrusco è una lingua non imparentata con nessun'altra parlata in Italia. Il secondo è che la somiglianza tra la lingua dell'iscrizione di Lemno e l'etrusco, che pare scientificamente provata, non può essere casuale, ma punta ad una parentela. Infine, e questo è il risultato degli studi condotti negli ultimi trent'anni in una nuova disciplina, la sociolinguistica, il totale prevalere di una lingua su altre punta sempre su un predominio economico e culturale della comunità dei parlanti di quella lingua. Quindi o gli Etruschi arrivarono da fuori e si imposero sulle popolazioni locali oppure sono la popolazione originaria preindoeuropea e le ondate migratorie di questi ultimi non riuscirono ad imporsi. Ma è da scartare decisamente un'ipotesi che è stata a volte ventilata: quella di una immigrazione di un contingente di genti dall'oriente che avrebbe dato la lingua e non la civiltà, prodotta invece da una popolazione locale che non parlava etrusco ma che rimase dominante.

Nora Galli de' Pratesi

Ottobre 2001

nhmem
20-05-03, 23:12
Originally posted by Silvia
IL FEGATO ETRUSCO DI PIACENZA

Su questa superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a nomi di divinità tra le quali sono identificate: Tin (Giove), Uni (Giunone), Neth (Nettuno), Vetisi (Venere), Satres (Saturno), Ani (Giano), Selva (Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole), Mae (Maius) e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella religione romana.

Qundo si smetterà di parlare di "Ani" invece di "Culsan"?

Ripeto quanto ho segnalato in altro thread di Paganesimo e Politeismo:
Il Dio etrusco corrispondente a Giano è CULSANS.

"...è stato espunto dai nomi del pantheon etrusco quello di Ani, ritenuto a lungo nome etrusco di Giano, per una lettura errata sul Fegato di Piacenza..." (Mauro Cristofani, Dizionario illustrato della Civiltà Etrusca, Giunti, Prato 2000, p. 83)

http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=48601

Silvia
21-05-03, 01:38
Grazie per la precisazione. 'Notte... :)

nhmem
21-05-03, 23:41
http://www.fantalov.narod.ru/Etruskan.htm

nhmem
28-05-03, 18:48
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?s=&threadid=48601


:) :D ;)

Silvia
11-01-04, 18:02
LE VIE CAVE

Le Vie Cave sono profondi percorsi semisotterranei, nascosti nella vegetazione e scavati nel tufo con il solo aiuto di scalpelli e piccoli martelli. Al di là della loro potenziale valenza di percorsi rituali e misterici, questi suggestivi passaggi, che incidono la terra come profonde cicatrici, rappresentano un unicum nell’ambito dell’architettura religiosa degli antichi.

Ma a cosa potevano servire queste opere colossali? Perché ogni Via Cava passa per una necropoli? Perché dalle alte pareti si affacciano continuamente aperture di tombe antiche? E come mai alcuni credono che, ancora oggi, questi luoghi abbiano un "potere" particolare, tanto da celebrare al loro interno riti di iniziazione spirituale?

La spiegazione sarebbe da cercare nell’origine dei riti e dei miti etruschi. La dea creatrice per gli Etruschi è Uni, la Madre Terra. Il suo potere sacrale ispira profondamente tutta l’arte etrusca, terrena e ultraterrena. Secondo la leggenda, è il primo re-sacerdote Tarkun a ricevere gli insegnamenti sacri direttamente da un essere soprannaturale: Tages, fanciullo con voce da anziano, che sorge dal solco di un aratro nella Terra. Tages, prima di inabissarsi nel sottosuolo, detta a Tarkun e ai dodici sacerdoti etruschi, i Lucumoni, i Libri Acherontici: testi sacri sul viaggio delle anime oltre il fiume dell’Aldilà, verso il regno sotterraneo di Ade e Persefone. E' il libro dei morti etrusco, la via d’accesso agli inferi.
Per gli Etruschi esisteva dunque nel sottosuolo una divinità dispensatrice di forza e conoscenza. Tutto il loro culto della Terra è la penetrazione fisica e rituale del mondo sotterraneo, alla ricerca di sapere e di potere sacro.

Le Vie Cave sarebbero quindi cammini sacri, passaggi rituali che conducevano dalle città dei vivi a quelle dei morti. La loro profondità sarebbe servita a renderli più vicini al sottosuolo, a contatto con quella che gli Etruschi consideravano la fonte diretta del potere sacro.

La mappa delle vie sacre finora rinvenute mostra come la loro distribuzione sembri obbedire a un grande disegno geometrico. E’ come se tutte le Vie Cave convergessero verso un preciso centro geografico: il lago di Bolsena. Velzna era l’antico nome dell’attuale Bolsena, il più grande lago vulcanico d’Europa. Intorno al lago sorgeva il Fanum Voltumnae, il più importante bosco sacro dell’Etruria, dedicato alla dea dell’acqua. Il lago fu scelto dai sacerdoti come omphalos, cioè ombelico sacro di tutta la civiltà etrusca. Qui, una volta l’anno, i dodici Lucumoni si riunivano per celebrare l’unità spirituale del popolo etrusco.
Al centro del lago sorgono due isole: la Martana e la Bisentina. Quest’ultima era considerata dagli Etruschi un’isola sacra, il vero cuore geografico e spirituale di tutta la "nazione" etrusca.

Una curiosità a margine: Bolsena ha una somiglianza impressionante con l’andino Titikaka, lago sacro e centro spirituale della civiltà Inca. Anche sul Titikaka affiorano due isole, e anche lì, gli Inca ne scelsero una come loro ombelico sacro. Sotto le sue acque i sacerdoti ritenevano infatti che abitasse lo spirito di Washarinka. Per entrambe le civiltà, dunque, l’isola sul lago rappresentava la porta di comunicazione con l’oscuro e sacro mondo del sottosuolo.

Liberamente tratto dal sito http://www.voyager.rai.it

http://www.silviadue.net/vari/vcava.jpg

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Silvia
18-02-05, 21:40
IL REGNO DEI MORTI, TRA DEMONI E PAURE

Non sempre i demoni hanno turbato il sonno eterno degli Etruschi. Per le fasi più antiche della civiltà, le testimonianze archeologiche attestano la persistenza di concezioni diffuse in tutto il Mediterraneo, secondo le quali l’anima del defunto continuava a vivere, là dove il corpo era stato deposto. Si avvertiva infatti la necessità di prolungare questa sopravvivenza, costruendo i sepolcri sul modello delle abitazioni, circondando il corpo con oggetti di uso quotidiano, riproducendo le fattezze del defunto, quasi a volere ricostruire l’integrità fisica distrutta dalla morte. Ma, a partire dal V secolo a.C., sotto l’influsso ellenico, questa concezione cominciò ad attenuarsi, per lasciare successivamente posto all’idea della trasmigrazione dell'anima nel regno dei morti, in un aldilà triste e tetro. Quando, verso il III secolo, il tramonto della loro civiltà apparve inarrestabile, un senso di angoscia si impadronì degli Etruschi e le tombe si riempirono di terribili figure demoniache: creature dalla carne bluastra, serpenti, demoni traghettatori, mostri che ghermivano le loro prede.


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Tomba dei demoni azzurri, Tarquinia

Il regno dei morti era terrificante: là si dimorava senza speranza tra demoni mostruosi. Quando una persona moriva, la sua anima iniziava il faticoso cammino verso il nuovo mondo, sorvegliato all'ingresso dalla terribile figura di Tuchulcha, mostro con orecchie d'asino, muso di avvoltoio e serpenti per capelli.


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Tuchulcha - Tomba dell’Orco, Tarquinia

Giunto alla porta, il defunto veniva ricevuto da due gruppi di demoni: il primo guidato da Charun che, armato di pesante martello, aveva il compito di condurlo nell'aldilà, l'altro condotto da Vanth, dea dalle grandi ali che, con una torcia, illuminava il cammino nell'oltretomba.


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Vanth e Charun - Tomba degli Anina, Tarquinia

Il defunto procedeva verso la dimora infernale di solito a piedi , altre volte a cavallo, ma il suo viaggio era sempre terrificante, circondato com’era da minacciosi dei infernali. Un destino inevitabile, a cui nessuno poteva sottrarsi. Non mancava tuttavia la possibilità di migliorare la condizione delle anime attraverso speciali riti di salvazione (contenuti nei "Libri acheruntici"). Riti particolari, con sacrifici cruenti a divinità infere compiuti presso le tombe, che avrebbero potuto trasformare le anime dei defunti in divinità di rango inferiore, le "anime divine". Prescrizioni relative a tali cerimonie sono contenute nel testo inciso sulla "tegola di Capua".