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Tomás de Torquemada
29-08-02, 21:49
La vita dopo la morte e la retribuzione

Due credenze connesse

Quando i ragazzi affrontano lo studio della storia antica, trovano un breve capitoletto che in poche parole narra la vicenda del popolo ebraico. Spesso si dicono cose fantasiose sulle sue origini. Ma sempre si pone in evidenza una sua caratteristica, unica in tutta l'antichità: la sua religione decisamente monoteista. L'Antico Testamento, la rivelazione del loro unico Dio, insegnava un'altra dottrina in pieno contrasto con le credenze degli altri popoli: la negazione della sopravvivenza d'una parte di sé dopo la morte. Di questo secondo fatto, sebbene noto ai biblisti più preparati, non si parla quasi mai. Eppure i due elementi costituiscono entrambi un fatto unico nell'antichità, una singolare coincidenza. Qualcuno vi ha scorto un rapporto di causa ed effetto: L'Antico Testamento non insegna l'immortalità perché è monoteista.


Il "respirante"

Il concetto di "anima immortale", al contrario di quel che si pensa comunemente, è assolutamente estraneo alla Bibbia. Essa parla dell'anima in tutt'altri termini. "E l'Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale, e l'uomo divenne un'anima vivente" (Gen 2:7). In commento a questo versetto, il biblista cattolico Claus Schedl scriveva: "Qui vediamo Jahvè all'opera come un vasaio, che con il fango della terra forma la sua opera d'arte e gli soffia il respiro nel naso. Fin tanto che il respiro esce dalla bocca e dal naso, l'uomo vive. È da questa unione fra organi della respirazione e vita che deriva il concetto di "anima" = nephesh, termine che originariamente indicava la "gola" … Genesi 2:7 non distingue, come si fa comunemente nel presente uso linguistico, fra "corpo" e "anima", bensì, più realisticamente, fra corpo e vita. Il respiro vitale divino, che si unisce a ciò che è materiale, rende l'uomo un "essere vivente", tanto nella parte fisica che in quella psichica. Questa vita proviene direttamente da Dio con la stessa immediatezza con cui il corpo dell'uomo, privo di vita, riceve l'inspirazione dalla bocca di Dio che è piegato su di lui. Se Dio ritira il suo respiro, (Sal 103, 104; Giob 34:4, 5) l'uomo ridiventa materia morta… Ne segue perciò che la "anima" biblica non può essere paragonata senz'altro al nostro concetto filosofico o dogmatico di "anima" (Storia del Vecchio Testamento, Ed. Paoline, pp 49, 50).

Nella visione biblica l'uomo non ha un'anima bensì è un'anima, una gola che respira, che, metonimicamente, dalla parte passa a significare il tutto, ovvero l'essere vivente, il "respirante". Anche gli animali sono definiti "nephesh". Per la medesima figura retorica, usata all'incontrario, può talvolta avere il significato di sede degli istinti naturali, delle emozioni e delle passioni (v. Deut 6: 5 e Fil 2:2); ma nel suo senso proprio il nephesh (psiche in greco) rappresenta l'unione della materia (basar in ebraico, soma in greco) con lo spirito (ruah in ebraico, pneuma in greco), l'alito vitale, che con la morte dell'individuo torna a Dio.


Una promessa condizionata

Al di là comunque delle varie figure retoriche e di ogni sfumatura, ciò che appare sempre chiaro nell'insegnamento biblico è che d'immortale c'è solo Dio, "Re eterno, immortale… il solo che possiede l'immortalità" (1Tim 1:17;6:16). L'uomo invece non possiede l'immortalità come qualità naturale; l'avrebbe ricevuta in dono solo se si fosse mantenuto ubbidiente: "Il giorno in cui tu ne mangerai, tu morrai" (Gen 2:17). "L'anima che pecca sarà quella che morrà" (Ez 18:14). E se l'anima può morire non è immortale. Dal momento, infatti, che ha avuto un inizio può anche avere una fine. La continuazione delle funzioni vitali era assicurata all'uomo dall'accesso all'albero della vita (v. Gen 2:9). Con il peccato tale accesso gli fu vietato proprio per impedirgli di continuare a vivere (3:22,24). I redenti torneranno ad avere accesso all'albero della vita (v. Apoc 2:7;22:2) in modo che possano vivere per sempre. Più che di immortalità, riferendoci alle creature, è più corretto quindi parlare di vita eterna. L'uomo decaduto, divenuto mortale, potrà ricevere la vita eterna se per fede accetta il sacrificio sostitutivo di Cristo. Può anzi contarci da subito, sebbene di fatto la riceverà nell'ultimo giorno (Gv 6:40) quando "questo mortale avrà rivestito immortalità" (1Cor 15: 54). La vita eterna è un dono (Rom 6:23), la riceveranno coloro che persevereranno nel fare il bene (2:7). Giovanni associa ma al contempo distingue i due momenti impliciti nella fruizione della promessa fatta da Gesù: "Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morirà mai" (Gv 11:25,26). Il credente è grandemente consolato perché sa che la sua avventura nell'eternità comincia subito, con il perdono, ed egli già oggi è cittadino del cielo, e non dalla credenza che una parte di sé continua a vivere pure dopo la morte (diritto che spetterebbe anche ai reprobi se l’anima fosse immortale). La morte passa sullo sfondo non perché sia un'illusione o un trapasso di dimensione ma perché è un nemico vinto. Il trionfo sarà celebrato nell'ultimo giorno con la risurrezione (Gesù ripete quattro volte questo passaggio - Gv 6:39, 40,44,54 - come a volerlo sottolineare); tuttavia quel giorno futuro è come anticipato per il credente che vive in Cristo "primizia di risurrezione" (1Cor 15:20).


I morti vivono?

A questo punto occorre chiedersi: se l'immortalità è in Gesù Cristo che risusciterà i suoi nell'ultimo giorno, che cosa accade a chi muore in attesa della risurrezione? I morti vivono? La Bibbia afferma che essi scendono tutti nel soggiorno dei morti. Il termine usato (Sceol - Hadès) non in dica né l'inferno né il paradiso ma semplicemente il sepolcro, la tomba. Giobbe associa al pensiero dello Sceol quello dell'ultimo letto, dei vermi e del riposo nella polvere (v. Giob 17:13-16). Scrive G. Marrazzo: «La morte è un “addormentarsi” (Shakab = coricarsi, giacere a letto). L’espressione “Addormentarsi accanto ai suoi padri” (2Re 14:16; 22:29; 15:7,22,38; 2Cr 26:2,23…) vuol dire semplicemente “morire”… I morti non comunicano con il mondo dei vivi (Eccl 9:6). Essi dormono, sono in uno stato di incoscienza, “non conoscono nulla” (Eccl 9: 5). La morte pone fine a tutte le attività tipiche dei viventi: lavoro, studio, preghiera, apprendimento (Eccl 9:10; Sal 146:4). Lo stato di incoscienza rende inattive tutte le emozioni: niente più amore, né odio, né invidia… (Eccl 9:6)». Si recitano spesso i Salmi sulla tomba del defunto per salutare l'anima verso il suo presunto viaggio cosciente ed immortale… niente di più inappropriato. Isidore Loeb, che si è dedicato allo studio dei Salmi, osserva: "I morti sono liberi da ogni preoccupazione, coricati nella tomba, Dio non si cura di loro (Sal 88:6), non sanno niente e non possono più comprendere le meraviglie della Provvidenza (vers. 13). Non è per loro che Dio governa il mondo (vers. 11). Così, nella morte, il ricordo di Dio è perduto, nessuno potrà lodarlo (Sal 6:6). Non sono i morti che lodano Dio né coloro che scendono nell'impero del silenzio e dell'oblio (Sal 115: 17; 88:11,12). Il povero vuole lodare Dio mentre è ancora in vita (Sal 63: 5; 104:33; 119:175). Non vuole morire, ma vivere per raccontare le grandezze di Dio (Sal 118:17). Può la polvere lodare il Signore e raccontare le sue virtù (Sal 130:10)? L'uomo è come un soffio che se ne va e non ritorna più (Sal 78:39); il suo soffio lo lascia ed egli torna alla terra da cui è stato tratto (Sal 146:4)". Il Nuovo Testamento non dice nulla di diverso, sebbene vi siano dei passi per noi oggi di non immediata comprensione di cui ci occuperemo più avanti. "Gesù si raffigura i defunti sotto lo stesso aspetto indicato nell'Antico Testamento e cioè in uno stato di assoluta incoscienza, incapaci di pensare e di volere. Essi non possono conoscere Iddio né servirlo, lodarlo o sfidarlo. Ogni rapporto fra loro e Lui è cessato e se non risuscitassero, sarebbe di loro come se non fossero mai esistiti… La dottrina di san Paolo è ancora più esplicita di quella di Gesù… Tutto lo spazio di tempo che intercorre fra la morte e la risurrezione è nullo, è come non avvenuto, di modo che se non ci fosse la risurrezione, bisognerebbe rinunciare ad ogni speranza di oltretomba e non sarebbe più il caso di parlare di vita futura" (Aloys Berthoud).


Il sonno presuppone un risveglio

L'immagine del sonno è legata all'idea della transitorietà e presuppone un risveglio. Le promesse ad Adamo e ad Abramo, non ancora soddisfatte, implicano un ritorno alla vita. È scorretto affermare che l'Antico Testamento abbia le idee poco chiare sulla morte e sulla vita futura. Che dire allora dei seguenti passi?

"Il Signore eliminerà la morte per sempre! Asciugherà le lacrime dal volto di ognuno…" (Isaia 25:8).

"Popolo mio tutti i tuoi morti vivranno di nuovo!… Quelli che dormono nelle tombe si sveglieranno e canteranno di gioia. Infatti tu, o Signore, al mattino mandi la rugiada che vivifica la terra; essa darà vita a quelli che sono morti da tempo" (Isaia 26:19).

"Io sto per aprire le vostre tombe: vi farò uscire, popolo mio, e vi condurrò nella vostra terra, Israele" (Ezechiele 37:12).

"E tu, Daniele, sii fedele sino alla fine. Allora ti riposerai e poi ti alzerai per ricevere alla fine del tempo la tua ricompensa" (Dan 12:13).

"Io ho agito con giustizia e vedrò il tuo volto: al mio risveglio, mi sazierò della tua presenza" (Salmo 17:15).


Né premio né castigo senza risurrezione

Il Nuovo Testamento mette ancor più in evidenza lo stretto rapporto che passa tra la risurrezione dei giusti e la vita eterna. "Non vi meravigliate: viene un'ora in cui tutti i morti, nelle tombe, udranno la sua voce e verranno fuori. Quelli che hanno fatto il bene risorgeranno per vivere; quelli che hanno fatto il male risorgeranno per essere condannati" (Gv 5:28 e 29). "Dio stesso ti darà la ricompensa alla fine, quando i giusti risorgeranno" (Lc 14:14). "Tutti questi uomini, Dio li ha approvati a causa della loro fede. Eppure essi non hanno raggiunto ciò che Dio aveva promesso. Infatti Dio aveva previsto per noi una realtà ancora migliore, e non ha voluto che essi giungessero alla meta senza di noi" (Ebr 11:39,40). Non c'è ricompensa né prima né senza risurrezione. Ancor di più! Non c'è castigo senza risurrezione. L'A.T. afferma: "Molti di quelli che dormono nelle loro tombe si risveglieranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna, per l'infamia eterna" (Dan 12:2). Ad esso fa eco il N.T.: "… quelli che hanno fatto il male risorgeranno per essere condannati" (Gv 5:29). "Ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti" (Atti 24:15); i due momenti però non coincideranno. Al ritorno di Cristo risorgeranno "quelli che sono morti credendo in lui" (1Tess 4:16). Di coloro che partecipano a questa prima risurrezione è detto che son beati. "Essi appartengono al Signore, e la seconda morte non ha nessun potere su di loro; anzi, essi saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per mille anni" (Apoc 20: 6). "Gli altri morti non tornarono in vita finché non furono passati i mille anni" (20: 5). Gli empi non risorgeranno per vivere ma per riconoscere la propria follia e per ricevere la meritata condanna, cioè la seconda morte (vers. 6).


Un tempo irrilevante

Sembrerà banale, ma la Bibbia insegna che i morti sono… morti. Quando la vita torna al Creatore non resta altro che un corpo restituito agli elementi. Certamente rimane il loro ricordo nella mente di Dio, il quale "è potente da risuscitare anche i morti" (Ebr 11:19). Dal giorno del decesso a quello della risurrezione i morti non hanno coscienza di esserci perché effettivamente non ci sono. A nessun livello. Sembra una realtà spietata e in parte lo è: la morte è un evento profondamente drammatico, è "l'ultimo nemico", "il re degli spaventi". Ma a ben pensarci, al di là dell'imprescindibile realtà, lo stato d'incoscienza è un atto di misericordia. Il Signore, pietosamente, risparmia alle sue creature decedute d'assistere a tutte le nefandezze che si compiono sotto il sole. Inoltre, non avendo cognizione del tempo che passa, esse avranno la sensazione di risuscitare nello stesso istante in cui si sono addormentate. Per questa ragione Paolo esprimeva il desiderio di "lasciare questa vita per essere con Cristo" (Fil 1:23; v. pure 2Cor 5:8). Perché ben sapeva che morendo egli si sarebbe subito proiettato nell'ultimo giorno, quando "da quel momento saremo sempre con il Signore" (1Tess 4:17). In fondo la morte è più penosa per chi resta, e deve elaborare il lutto, che per chi se ne va.


L'influsso della cultura greca

Ma allora, se questo è l'insegnamento della Bibbia, perché la maggior parte della cristianità crede nell'immortalità dell'anima? La risposta ce la dà con il massimo candore Tommaso d'Aquino: "L'anima è immortale, come dice il grande Platone". E aveva ragione. Fu infatti proprio Platone a concepire nel dettaglio, e ad esporre nel suo Fedone, l'idea di una sostanza (l'anima) semplice, indivisibile, immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio, pertanto spirituale, incorruttibile e immortale, contrapposta a un elemento transitorio e materiale (il corpo); l'una che viene tenuta prigioniera dall'altro finché la morte non viene a liberarla per ricondurla nella sua patria eterna.

«A partire dalla conquista di Alessandro Magno (332 a.C.) la Palestina cominciò a subire fortemente l'influenza greca: si iniziò a diffondere la lingua e la cultura greca. Questo processo, particolarmente accentuato nel II secolo a.C. (sotto Antioco Epifane, sovrano di Siria) portò profondi mutamenti anche in alcune credenze religiose ebraiche. Questi cambiamenti sono riflessi dagli scritti del tempo, soprattutto da quelli chiamati "apocrifi" e "pseudoepigrafici"; in essi compare chiara la credenza nell'immortalità dell'anima, nell'inferno, nel giudizio subito dopo la morte, ecc… Nel I libro di Enoch (che è una specie di "Divina Commedia" ante litteram) troviamo tra l'altro una descrizione del luogo in cui sono punite le anime degli empi: "Queste belle località (ci sono) affinché, in esse, si radunino gli spiriti, le anime dei morti… e io vidi gli spiriti dei figli degli uomini morti". L'angelo che accompagna Enoch nel suo "viaggio" risponde a una sua domanda: "Questo spirito è quello uscito da Abele" (22:3,7). Queste credenze si trovano anche in alcuni di quei libri apocrifi che sono stati accettati come ispirati dalla Chiesa Cattolica e quindi sono compresi nelle Bibbie cattoliche (ma non in quelle protestanti!). Ad esempio, nel libro della Sapienza, scritto tra il 50 e il 30 a.C., troviamo: "Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro dipartita da noi una rovina, ma essi sono nella pace" (3:1-3, versione CEI), e ancora: "Ero un fanciullo di nobile indole, avevo avuto in sorte un'anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia" (8:19,20, CEI). È chiara qui la credenza non solo nell'immortalità, ma anche nella preesistenza delle anime! Sotto l'influsso greco si diffuse quindi in varie correnti del giudaismo, l'idea dell'immortalità dell’anima, anche se in alcuni scritti troviamo ancora l'idea biblica, come in Tobia e nel II Esdra. Va notato difatti che non tutti accettavano questa teoria. Ad esempio gli Esseni di Qumran (di cui si sono scoperti moltissimi manoscritti, a partire dal 1947, databili tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C.) sostenevano l'idea biblica che possiamo chiamare "dell'immortalità condizionata" e non innata. Nefesh, a Qumran, come nell'A.T. designa l'uomo totale, l'essere vivente che ovviamente, può morire» (Ivo Fasiori).

Il platonismo, se riuscì persino a insinuarsi nel giudaismo, a maggior ragione permeò di sé il cristianesimo quando questo si diffuse tra la cultura greco-romana. In verità, la nozione dello stato incosciente dei morti resisté per diversi secoli. Ancora nel IV secolo Lattanzio dichiarava: "Tutte le anime sono detenute in un carcere comune (il sepolcro) fino a che non giunga il tempo in cui il giudizio esaminerà i meriti degli uomini". «Sarebbe sufficiente, all'occorrenza, un semplice ricorso alla filologia per sapere quel che pensavano dell'oltretomba i primi cristiani. Le loro idee hanno conservato nella nostra lingua una testimonianza irrefutabile: la parola "cimitero" vuol dire "dormitorio" e deriva dalla stessa radice dei vocaboli greci adoperati nel Nuovo Testamento per indicare quelli che dormono, i defunti» (Aloys Berthoud). Tuttavia nell'impero il platonismo era di casa, impregnava la cultura del tempo, e le sue categorie finirono per svuotare di significato le parole ebraiche ed aramaiche tradotte in greco. Avvertibile già nel II secolo, quest'influsso divenne predominante nel IV e nel V secolo. Tertulliano e Origene gettarono le basi e Agostino edificò il sistema che prevarrà nella chiesa cattolica. Tuttavia solo nel 1513, nel Concilio Laterano V, la teoria dell'immortalità naturale dell'anima fu adottata quale dogma ecclesiastico. Appena in tempo, verrebbe da dire, per passare quasi inosservata nei movimenti protestanti e di riforma.


Salvando capra e cavoli

«Appena sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero: “Su questo punto ti sentiremo un'altra volta”» (Atti 17:32). Quale fu la causa dell'insuccesso di Paolo presso gli Ateniesi? Proprio la predicazione della risurrezione che per essi era pazzia. Immortalità e risurrezione erano e rimangono concetti incompatibili. Il sincretismo cui è andato incontro il cristianesimo, un po' alla volta, riuscì a superare quest'ostacolo; non senza resistenze, così come si conviene al confronto degli opposti. Già nel II secolo l'idea di una retribuzione dopo la morte rendeva superflua l'attesa della risurrezione e costringeva Giustino Martire a tuonare: "Se avete incontrato tali che si chiamano cristiani e dicono che non vi è resurrezione dai morti, ma che le loro anime sono subito accolte in cielo, non considerateli affatto per tali". Alla fine, tuttavia, e come sempre di fronte ad una credenza generalizzata, si accettò l'utile compromesso di lasciar coesistere i due concetti antitetici: la sopravvivenza delle anime e la risurrezione. Di fatto, però, la risurrezione e il ritorno di Cristo divennero dottrine accessorie, ridondanti, superflue. Ma c'è di più: tutto il piano della salvezza veniva sminuito. «La teoria dell'immortalità naturale dell'anima rende inutile la morte di Cristo, poiché questa si prefigge appunto lo scopo di sottrarre il peccatore alla distruzione e di metterlo in grado di accedere, grazie alla fede, alla vita eterna. “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna” (Gv 3:16). “Dio ci ha dato la vita eterna, e questa vita è nel Figlio Suo. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita"» (1Gv 5:11,12; vedi anche Rom 2:7; 6:23; Gv 3:36; 2Tim 1:10 - Charles Gerber). "Con l'immortalità dell'anima il dramma del Calvario è incomprensibile e le spiegazioni forzate cui si ricorre altro non fanno che renderlo ancor più oscuro" (Aloys Berthoud). «La predicazione dell'immortalità (naturale) equivale a negare la divinità di Cristo, l'Unigenito di Dio, ed annulla la croce del Golgota nella quale Dio si è abbassato fino alla nostra morte. Essa, inoltre, sminuisce la portata dell'amore di Dio il quale non consiste nello sviluppare in noi, mediante un ammirevole esempio di dedizione, una “scintilla divina”, ma piuttosto nel darci la stessa sua vita» (Roland de Pury).


Fraintendere e delegittimare

Alle contraddizioni interne di questa sintesi degli inconciliabili, si aggiungono le contraddizioni esterne. La dottrina dell'anima immortale, come abbiamo visto, è proprio estranea all'insegnamento biblico: come fare per legittimarla? A tal fine si percorsero due strade. La prima, quando le conoscenze bibliche erano più limitate, fu quella di individuare espressioni isolate della Scrittura e, tirandole per i capelli, far dire loro quel che si voleva. Un esempio? Se la Bibbia non parla di anime disincarnate parla di uno spirito che, al momento della morte, torna a Dio. Si è proposto quindi di vedere in esso l'elemento incorporeo che torna a casa per godere di una felicità senza fine. A parte il fatto che la Scrittura non parla di una felicità che sarebbe il retaggio dello spirito prima della risurrezione, s’incorre comunque in insanabili incongruenze: trasformando lo spirito vitale che torna a Dio in spirito cosciente si afferma inevitabilmente che esso era già cosciente anche prima di entrare nel corpo (teoria, questa, della preesistenza degli spiriti, di platoniana memoria, già incontrata nel libro apocrifo della Sapienza), o giungere all'assurdo che tutti gli spiriti, buoni e cattivi, dato che lo spirito ritorna al Signore, si trovano in cielo presso di lui. Diversi altri passi sono stati estrapolati dal loro contesto e piegati a testimoniare significati che non hanno. Più avanti ne esamineremo alcuni tra i più importanti. Questa strada, però, man mano che le scienze bibliche progrediscono e si diffondono, si rivela sempre meno praticabile. Per salvare allora le tradizioni spurie di cui la cristianità è incrostata non resta che l'altra strada: quella di delegittimare l'autorità della Bibbia. Così ecco farsi avanti un esercito di teologi pronti a portar acqua al mulino dei filosofi e degli scienziati increduli. Nel nostro caso, si afferma che gli ebrei avevano le idee poco chiare sulla vita dopo la morte e che l'A.T. in qualche modo rispecchia quest'ignoranza. Noi abbiamo visto invece che le idee essenziali erano già ben chiare. Se inoltre la Bibbia si limitasse a rispecchiare le conoscenze del popolo, anziché alimentarle, se ne mortificherebbe la componente di rivelazione e la si declasserebbe a semplice racconto epico-mitologico. E questo è proprio ciò che si fa quando si afferma che solo grazie al pensiero greco il mondo giudaico poté affrancarsi dalla propria rozzezza intellettuale che gl'impediva una chiara conoscenza delle categorie spirituali. Ecco così saltare il principio che la Bibbia si spiega con la Bibbia. Adesso invece per capire la rivelazione è necessario leggersi il Fedone di Platone; oppure, più semplicemente, affidarsi alla propria logica, tornando alla prima strada: quella che porta al fraintendimento dei testi. Ad esempio, il teologo cattolico J. Collantes afferma: "Certamente, prima del libro della Sapienza non si parla della sopravvivenza dell'anima, ma dell'uomo"; poi aggiunge: "Però, venendo a morire il corpo, l'uomo può sopravvivere soltanto con l'anima". Su cosa è costruita questa deduzione logica? Su Genesi 15: 15 e paralleli: "Quanto a te (Abramo), te ne andrai in pace presso i tuoi padri e sarai sepolto dopo una prospera vecchiaia". Per ricongiungersi a qualcuno, di Abramo doveva sopravvivere almeno l'anima! Ma nella Bibbia si trova anche un'altra serie di passi come quello di 2 RE 14:16: "Ioas si addormentò con i suoi padri, e fu sepolto a Samaria con i re d'Israele…" Si capisce così che andarsene coi padri o col popolo è un eufemismo per indicare la morte. Infatti l'Interconfessionale traduce: "…morirai in pace e riceverai degna sepoltura". Così, pur partendo dalla giusta premessa che nella Bibbia non si parla della sopravvivenza dell'anima, il nostro teologo è arrivato ugualmente a dimostrare il contrario sulla base, però, di ragionamenti costruiti non sul confronto dei testi bensì sulla pura speculazione. E in tal modo si può dimostrare qualsiasi cosa e il suo esatto contrario. Ma dove porta una fede costruita su queste premesse?


Una protezione infranta

La dottrina dell'immortalità naturale dell'anima è già un male in sé e lo è ancor di più per tutti i mali a cui ha aperto la strada. I proverbi dicono che un male tira l'altro e che l'ultimo male è il peggiore di tutti. Paolo vide l'onda di desolazione pagana che stava abbattendosi sulla chiesa e che solo per poco ancora sarebbe stata trattenuta.


I culti non adorativi

Pensiamo ai cosiddetti culti non adorativi. Si iniziò con il ricordare la memoria degli apostoli e dei martiri, poi dei confessori, delle vergini e della "Vergine" per eccellenza. Già nel III secolo si cominciò a invocarli per ottenere la loro intercessione; ma fu con la conversione forzata delle masse che se ne fece un vero culto sostitutivo delle divinità pagane e, di fatto, anche della Divinità cristiana. Come poté insinuarsi e su cosa poggiava tanta aberrazione? "Sulla convinzione che i membri defunti della chiesa esistano ancora e che vivano con Cristo", risponde candidamente il catechista R. Aigrain. Se si fosse mostrato rispetto per l'insegnamento biblico secondo il quale "i morti non sanno proprio niente" (Eccl 9: 5, TILC), "il loro amore come il loro odio e la loro invidia sono da lungo tempo periti, ed essi non hanno più né avranno mai alcuna parte in tutto quello che si fa sotto il sole" (vers. 6), allora sarebbero mancate proprio le premesse che hanno portato a tanto scempio. Perché in Israele un culto dei morti non è mai esistito? Semplicemente perché l'insegnamento biblico lo rendeva inconcepibile.


Lo spiritismo

E ancora, pensiamo a quella forma moderna di negromanzia che è lo spiritismo. Iniziò quando una "entità", contattando le sorelle Fox, si spacciò per lo "spirito" di una persona assassinata nella loro casa e di cui, in seguito, si rinvennero le ossa. Missione di questi "spiriti" appare in tutta evidenza quella di propagandare l'immortalità dell'anima. Secondo i loro messaggi la morte non esisterebbe, sarebbe solo un passaggio dimensionale attraverso cui lo "spirito disincarnato" raggiungerebbe la beatitudine. Tali entità sono molto ambigue nei confronti della Bibbia: anche quando a parole ne esaltano il valore, di fatto ne disprezzano il contenuto. Rinnegano la dottrina della caduta originale, del pentimento e della redenzione tramite il sangue di Cristo. Negando la realtà della morte, tradiscono la propria identità; sappiamo infatti chi affermò sin dall'inizio: "No, non morirete affatto". Ma spesso queste entità si oppongono esplicitamente alla Bibbia, affermando ad esempio: "Finché rispondete ai nostri argomenti con un testo biblico, non possiamo istruirvi". D'altra parte la Bibbia s'oppone alle pratiche spiritiche, condannandole con la massima severità. La ragione è evidente: se i morti sono incoscienti, le entità soprannaturali e bugiarde che si presentano sotto le loro sembianze non possono che essere quegli "spiriti di demoni" che operano per la rovina del mondo. Afferma Paolo: "Io non voglio che siate in comunione con gli spiriti maligni… La luce può essere unita alle tenebre?" (1Cor 10:20; 2Cor 6:14). Eppure la cristianità "dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demoni" (1Tim 4:1), ha mischiato luce e tenebre ed ora brancola nel buio. Il fatto che l'immortalità dell'anima sia sostenuta con tanto impegno dai demoni, non dovrebbe quanto meno insospettire? Questi viaggi di gente "morta" per qualche ora fra le anime dei defunti e dei non ancora nati; o, ancora, queste entità che si rivelano ai familiari di persone scomparse di recente. Spacciandosi per i loro congiunti, esse dichiarano di vivere felici e leggeri anche quando, appena morti, devono passare per la sofferenza e superare delle prove (il Purgatorio!). Tempo fa a Torino duecento persone che subiscono tali esperienze si sono incontrate in congresso con sacerdoti, teologi, docenti universitari, medici, psicologi e scrittori. Che aiuto ha dato la chiesa a questa gente ingannata dai demoni? Don Silvio Faga, direttore della Scuola teologica di Ivrea, non ha saputo che definire tali fenomeni: "Un mistero della fede"; quando avrebbe dovuto subito stigmatizzarli come "mistero dell'empietà". D'altronde la chiesa non erige santuari alle madonne che piangono? Sono anch'essi fenomeni medianici. La signora Candela, dopo la morte della figlia Beatrice, non riusciva a darsi pace finché non ha chiesto aiuto alla Madonna di Medjugorie; da allora la "figlia" ha iniziato a parlarle mediante la cosiddetta "scrittura automatica". Il culto ai santi e lo spiritismo hanno una matrice comune e si basano su quel primo inganno pronunciato dal serpente antico: "Non è vero che morirete".


L'inferno

E la dottrina delle pene eterne, non trae anch'essa origine dalla convinzione che l'anima sia immortale? Lo storico francese Georges Minois ha raccolto in un libro i risultati della sua ricerca sulla credenza dei popoli antichi negli inferi. Leggiamo dalla sintesi che ne ha fatto Giorgio Calcagno il punto che c'interessa. «Curiosamente la cultura meno sensibile al tema infernale è quella ebraica. L'inferno inteso come punizione nell'aldilà è assente nell'Antico Testamento fino al terzo secolo a.C., rileva lo storico francese. Compare, con cautela, nei libri più tardi della Bibbia (Apocrifi) soprattutto per l'influenza della cultura ellenistica… Anche il Nuovo Testamento è assai sobrio nel parlare d'inferno, oltre l'espressione "pianto e stridor di denti", ricorrente più volte nel Vangelo. Il concetto di inferno matura con i padri della Chiesa, nell'età delle persecuzioni. Serve a fortificare i martiri, mette una sana paura negli incerti, annuncia la vittoria finale dei resistenti. “Sarò io a ridere - scrive Tertulliano - quando vedrò tutti quei filosofi che arrostiscono insieme con i loro discepoli, ai quali insegnarono che Dio non si occupa del mondo”. E la paura sarà il grande argomento su cui faranno leva i responsabili del gregge, per secoli. Lo storico riconosce che la Chiesa ufficiale si è mossa “con prudenza e indugio”, su questo terreno. Il dogma che definisce l'eternità delle pene sarà proclamato soltanto nel 1215, dal Concilio Laterano. Ma l'inferno è già diventato un tema necessario, nella pastorale quotidiana, deve essere rappresentato nella sua concretezza, per colpire e allarmare la fantasia dei fedeli». Ascoltiamo la descrizione che ne fa Alfonso de’ Liguori: "In questo mondo, il fuoco tormenta i corpi dall'esterno; esso non vi penetra. All'inferno, il fuoco penetra nel corpo dei dannati per tormentarli sia all'interno che all'esterno. Che ne sarà del dannato divenuto una specie di fornace ardente? Il cuore gli brucerà nel petto, le interiora nel ventre, il cervello nella testa, il sangue nelle vene, persino il midollo nelle ossa…" Questa è ancora la posizione ufficiale della chiesa cattolica. Nel Nuovo Catechismo si legge: "La chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno e il fuoco eterno". Scrive Charles Gerber: «Nel corso dei secoli, i predicatori desiderosi di produrre un certo effetto sul “cuore” dei loro ascoltatori, hanno trovato nelle fiamme dell'inferno un tema di eloquenza “inestinguibile”. In genere sono riusciti a spaventarli ma non a convertirli poiché la salvezza è un prodotto dell'amore e non della paura… Il fatto che un dogma così spaventoso abbia suscitato più increduli di qualsiasi altro, non ci meraviglia! Infatti, chi vuol dimostrare troppo finisce per non dimostrare proprio niente. Una mente accorta si rifiuterà sempre di credere che Dio trovi piacere nel vedere soffrire eternamente e in condizioni così atroci degli empi, chiunque essi siano». È vero che oggi si tende a minimizzare il compiacimento di Dio e, da parte di qualcuno, anche la fisicità dei tormenti; ma la sostanza cambia solo in apparenza perché è proprio il concetto di tormento eterno che è estraneo sia allo spirito che alla lettera della Bibbia. Allo spirito, perché la Bibbia ci rivela un Dio buono e giusto. Egli ama sino in fondo le sue creature e s'immedesima nel loro dolore fino a condividerlo pienamente. A prescindere dagli strumenti, "come immaginare un Gesù che contempla con amore perfetto miliardi di esseri torturati in eterno?", questo si chiede Rolando Rizzo. Gesù nel suo insegnamento ha superato la legge del taglione, che era pur sempre ispirata a un senso di equità, per poi contraddirsi con un giudizio che non risponde neppure lontanamente a un criterio d'equità? Come può infatti considerarsi equa una punizione infinita da infliggersi per una colpa finita? Ma il concetto di tormento eterno è estraneo anche alla lettera della Bibbia. Come osserva Farrar, "non esiste, nella Scrittura, un solo testo che, onestamente interpretato, insegni quello che in genere si intende per pene eterne". La maggioranza dei testi che riguardano la retribuzione dei reprobi sono assolutamente espliciti e inequivocabili. Anzitutto vi sono i passi che definiscono la natura dell'uomo, che abbiamo già esaminato. Da essi si evince chiaramente che l'immortalità (prerequisito indispensabile alle pene eterne) non appartiene alla natura umana ed è attribuita solo a chi crede nel Figliuolo, mentre il salario del peccato non è l'inferno bensì la morte prima e seconda. Vi sono poi i passi che entrano nel merito della stessa retribuzione. Da essi apprendiamo che il malvagio "sarà spazzato via come polvere… svanirà come un sogno, nessuno lo troverà più, si dissolverà come una visione notturna" (Giob 20:7,8). I nemici di Dio "saranno ridotti a nulla e periranno… saranno come nulla, come cosa che non è più" (Isaia 41:11,12). "Quelli che abbandonano il Signore saranno distrutti" (1:28; vedi 26:11,14). "Simile a una fornace ardente, sta per arrivare il giorno in cui tutti i superbi e i malvagi saranno bruciati come paglia. Quel giorno essi saranno consumati e di loro non resterà niente… Il giorno in cui manifesterò la mia potenza voi schiaccerete i malvagi: saranno come cenere sotto i vostri piedi. Lo affermo io, il Signore dell'universo" (Mal 4:1,3). "Periranno i malvagi, i nemici del Signore, andranno in fumo come erba bruciata" (Sal 37:20). Le nazioni "saranno come se non fossero mai state" (Abd 16). Si tratta di eventi futuri, la cui realizzazione non è legata al momento della morte, ma al momento del giudizio avvenire. "Come l'erba cattiva è raccolta e bruciata nel fuoco, così si farà alla fine di questo mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, ed essi porteranno via dal suo regno tutti quelli che sono di ostacolo agli altri e quelli che fanno il male. Li getteranno nel grande forno di fuoco. Là piangeranno come disperati" (Mt 13:40-42). "Ma i vigliacchi, i miscredenti, i depravati, gli assassini, gli svergognati, i ciarlatani, gli idolatri e tutti i bugiardi andranno a finire nel lago ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte" (Apoc 21:8). Non si parla qui di pene eterne ma di una distruzione totale e definitiva che dei malvagi non lascerà più neppure il ricordo. Ma allora da dove viene la dottrina dell'eterna "rosticceria", per usare un'espressione del teologo cattolico Yves Congar? Certamente dal mito greco del Tartaro appoggiato da passi biblici avulsi dal loro contesto. Anzitutto dal contesto generale, rispetto agli altri passi espliciti che affermano la completa distruzione dei malvagi, e inoltre dei singoli contesti specifici. Il contesto generale associa la retribuzione dei reprobi al fuoco; a un fuoco, però, che distrugge, che divora (Ebr 10:27. "Divorare", in senso figurato, nella Bibbia significa "consumare", "distruggere", "annientare": vedi Lev 10:2; Num 16:35), che riduce in cenere. Pertanto, quando si parla di "fuoco eterno" è chiaro che non ci si riferisce alla durata del castigo, bensì alla durata delle conseguenze di tale castigo. Non al processo ma al risultato. "Salvezza eterna" (Ebr 5:9) non significa che Gesù continuerà a salvare per l'eternità; "giudizio eterno" (Ebr 6:2) non significa un giudizio che non ha mai termine; "peccato eterno"(Mc 3:29) non vuol dire che si continuerà a peccare per l'eternità. Allo stesso modo "punizione eterna" (Mt 25:46) non vuol dire tortura eterna e "distruzione eterna" (2Tess 1:9) non si riferisce a un processo distruttivo che non avrà mai termine. Il fuoco che distrusse Sodoma e Gomorra fu "eterno" (Giuda 7) non perché arda tuttora ma perché non si spense finché non le ebbe ridotte in cenere (vedi 2Pt 2:6). Discorso analogo vale per l'espressione "fuoco inestinguibile" (Mt 3:12; Mc 9:4). In Geremia 17:27, Dio minaccia di dare alle fiamme Gerusalemme, di accendere un fuoco alle porte della città che ne avrebbe divorato i palazzi, un fuoco che "non si estinguerà". Non si estinguerà, ovviamente, finché non "consumerà ogni cosa" (vedi 7:20). La minaccia si realizzò per mano dei caldei (vedi 2Cr 36:19; Neem 2:3) dopodiché le fiamme si estinsero. Il greco "eterno" (to aionion), "nei secoli dei secoli" (ton aionon), riprende l'ebraico al yolam. Il Nuovo Testamento ripropone le immagini dell'Antico usate, analogamente, in senso iperbolico. Anche noi, riferendoci ad una condanna penale o ad un incarico "a vita" usiamo definir li "perpetui" o con altri termini equivalenti. Per dar forza al significato, il greco e l'ebraico potevano spingersi ancora più in là nell'uso dell'iperbole. Omero poteva definire "inestinguibile" il fuoco che per poco non distrusse la flotta dei greci. Chi legge, senza tener conto di queste premesse, Apocalisse 14:10,11 e 20:10 crede che vi si parli dei tormenti eterni. Ma tenendo conto delle espressioni idiomatiche e dei passi paralleli, le apparenti contraddizioni del messaggio biblico si chiariscono senza lasciare alcun dubbio. Fuoco e zolfo caddero su Sodoma e Gomorra, e una colonna di fumo salì dalla terra "come il fumo di una fornace"(vedi Gen 19:24,28). Fuoco e zolfo sono gli strumenti di cui Dio si serve per distruggere gli empi (vedi Sal 11:6 e Ez 38:22) e la terra dovrà apparire come una distesa incandescente e fumante, quando il Signore eseguirà la sua sentenza. Ma Apocalisse aggiunge che gli uomini e gli angeli malvagi "saranno tormentati giorno e notte, nei secoli dei secoli" e che "il fumo del loro tormento sale nei secoli dei secoli". Ma se "quel giorno essi saranno consumati e di loro non resterà niente" (Mal 4:1), come potrebbero essere tormentati in eterno? La spiegazione generale l'abbiamo già data, ma la Bibbia ci aiuta a chiarire ulteriormente anche questi passi specifici. Le espressioni citate di Apocalisse riflettono, infatti, quelle di Isaia quando questi predisse la distruzione delle città edomite: "I torrenti di Edom saranno mutati in pece e la sua polvere in zolfo; la sua terra diventerà pece ardente. Non si spegnerà né notte né giorno, il fumo ne salirà per sempre" (34:9,10). Poi aggiunge: "Il pellicano e il porcospino ne prenderanno possesso" (vers. 11). Naturalmente queste bestie non potrebbero vivere tra le fiamme. Inoltre al vers. 10 vien detto che "di età in età rimarrà deserta, nessuno vi passerà mai più" mentre al cap. 35 si descrive la restaurazione di questi luoghi e il loro ripopolamento da parte dei giusti. È evidente che siamo in presenza di un linguaggio iperbolico. In Geremia 17:4, Dio minaccia Israele con le parole: "Avete acceso il fuoco della mia ira ed esso arderà per sempre"; poi nel passo parallelo di Ger 23:20 scopriamo che "per sempre" equivale a "finché non abbia eseguito, compiuto i disegni del suo cuore". E' chiaro, allora, che tali espressioni vengono usate allo scopo di enfatizzare la radicalità, l'inesorabilità e la durata non dello strumento del giudizio (il fuoco) bensì dei risultati che esso produce. Nulla potrà placare quelle fiamme finché non avranno svolto appieno e definitivamente la loro azione distruttiva.


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Un altro testo che viene citato per dimostrare l'immortalità dell'anima e la dottrina delle pene eterne è la parabola del ricco epulone e Lazzaro, in Luca 16:19-31. Gesù utilizzava spesso immagini tratte dalla natura o dalla vita quotidiana, fatti di cronaca o anche racconti di fantasia per fissare degli insegnamenti nella mente degli ascoltatori. Le parabole erano un espediente narrativo per cui un simbolo, un tipo o un esempio venivano usati per rappresentare concretamente un'altra realtà. Un'altra realtà! L'insegnamento non riguardava il racconto in sé. Cosa dovremmo concludere dalla parabola del fattore infedele, che i cristiani devono agire disonestamente? Narrando la storia del ricco e Lazzaro, Gesù trae spunto da una favola egiziana, portata in Palestina da ebrei alessandrini, avente per morale il capovolgimento della sorte nell'aldilà. Era un racconto ben conosciuto a quel tempo e Gesù lo utilizzò per insegnare un'altra verità. Infatti lì dove la narrazione "normalmente dovrebbe finire e dove gli uditori si aspettano la conclusione abituale e scontata, Gesù li sorprende prolungando inaspettatamente la storia e attirando perciò sulla seconda parte tutto l'interesse e l'attenzione" (Aldo Comba). È una costruzione con il "peso in poppa" ove, cioè, la cosa che importa viene presentata alla fine. «Come tutte le altre parabole a doppio vertice - scrive il biblista Joachim Jeremias - anche la nostra ha il "peso a poppa". Vale a dire: Gesù non vuol prendere posizioni sul problema “ricco e povero”, non vuol nemmeno impartire insegnamenti sulla vita oltre la morte, bensì racconta la parabola per ammonire la gente che assomiglia al ricco e ai suoi fratelli di fronte alla minacciosa fatalità». Jeremias continua affermando che il povero Lazzaro è solo una figura collaterale, un termine di contrasto, e che la parabola dovrebbe chiamarsi “dei sei fratelli”, in quanto l'insegnamento riguarda l'al di qua. Sia questa parabola che la precedente (quella del fattore infedele) insegnano che il destino di ognuno è fissato in questa vita dall'uso che si fa della libertà e delle opportunità che ci vengono offerte. Come osserva il teologo cattolico Bruno Maggioni, "la parabola va letta in questa chiave, il resto è racconto. Gesù non vuole insegnarci nulla sulla fisionomia dell'inferno, sulla possibilità o meno di rapporti fra inferno e paradiso. A questo proposito si limita a sfruttare le credenze del suo ambiente". "Non si può adoperare perciò questa parte della parabola - gli fa eco il valdese Alberto Ricciardi - come una fonte per ricavare l'insegnamento proprio del Signore circa l'al di là". Volendo forzarla in tal senso, peraltro, verrebbero fuori insanabili incongruenze. Ce le elenca Ivo Fasiori:

a) Risulta dal testo che l'Ades (il soggiorno dei morti, la tomba), è diviso in due parti: una è il "seno di Abramo" (cioè il "paradiso"), l'altra il "soggiorno degli empi" (l’“inferno”), (vv 22 e 23); inoltre, il paradiso e l'inferno sarebbero vicini, ma separati da "una gran voragine" (v 26). Naturalmente chi crede nell'immortalità dell'anima considera questa descrizione come simbolica!

b) Secondo i sostenitori dell'immortalità dell'anima, alla morte è l'anima, spirituale, disincarnata che va in paradiso o all'inferno! Qui invece si parla di "occhi", "dito", "lingua" (vv 23,24), quindi di esseri dotati di corpo. Ma il corpo sarà risuscitato solo alla fine dei tempi (1Cor 15 : 52), come ne conviene anche chi crede all'immortalità dell'anima! Inoltre, c'è da notare che la menzione della "gran voragine" (v 26) per non permettere il passaggio dei dannati in paradiso e viceversa, sarebbe assurda nell'ipotesi di anime disincarnate (che potrebbero passare dovunque!).

c) Secondo Ebr 11:8-19,39,40 Abramo non ha ancora avuto il suo "premio", quindi né lui né la sua anima possono essere evidentemente in paradiso e ciò contraddirebbe i vv 22,23.

d) Secondo il v 24 il ricco è tormentato nelle fiamme, che sono una caratteristica della Geenna (Mt 5:22;18:9) che, però, secondo il N.T., si situa solo alla fine dei tempi (Mt 25:41); inoltre il ricco non va nella Geenna, ma nell'Ades che indica nella Bibbia solo la tomba e quindi non un luogo in cui c'è il fuoco!

e) Secondo Gesù stesso, il premio o il castigo verranno assegnati ad ognuno alla fine dell'età presente e non alla morte (Mt 13:30,39-43,49,50; 25:31-44, ecc.).

Una corretta interpretazione dei testi non può prescindere dallo stile letterario, altrimenti si rischia di prendere delle cantonate. Il linguaggio profetico si serve di simboli e di iperboli, e le parabole vanno interpretate per quello che sono: racconti allegorici con una morale.

I partigiani delle pene eterne sostengono che una distruzione totale non costituisce una punizione abbastanza severa e neppure equa in rapporto ai diversi gradi di colpevolezza. Abbiamo già detto che, proprio perché oltre ad essere misericordioso è pure giusto, Dio non potrebbe retribuire le proprie creature comminando pene infinite per colpe finite. Inoltre l'annientamento è pur sempre una sorte terribile quando lo paragoniamo alla beatitudine promessa dall'Evangelo. Quanto ai diversi gradi di colpevolezza, nulla autorizza a pensare che la retribuzione sarà indolore ("Là ci sarà pianto e stridor di denti" Mt 8:12) o indifferenziata. Come spiegò Gesù, infatti, la parabola dei due servi? "Quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l'ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà" (Lc 12:47,48). Una distruzione differenziata che vada dall'annichilimento rapido alla consumazione lenta e dolorosa consente la giusta retribuzione per tutti i gradi di colpevolezza. Tale soluzione è compatibile con il carattere di Dio ed è in armonia con l'insegnamento biblico. "Niente appare più incompatibile con la vera tradizione biblica che un'eternità di sofferenza e di punizione" (Gran Rabbino Michel Weill). "No, non esiste un inferno. Questa parola non si trova neppure nella Bibbia. O se c'è, è una traduzione inesatta di una parola che dev'essere resa con soggiorno dei morti. No, non ci sono pene eterne. I malvagi sono distrutti completamente. Anche Satana sparisce (Ebr 2:14), viene annientato. La morte stessa non è più (Is 25:8; Apoc 20:14; 1Cor 15:26): essa viene soppressa per sempre. È l'ultimo nemico, il più terribile, che capitola. E nella ritrovata armonia universale, Dio è tutto in tutti" (1Cor 15:28 - Charles Gerber).


Più intelligenti della parola

Ed ora, avviandoci alla conclusione, torniamo al tema principale che è l'immortalità dell'anima. Viene spontaneo chiedersi come abbia potuto una dottrina così chiaramente antibiblica essere sostenuta dalle denominazioni popolari di più antica tradizione. Non che il mistero per un simile percorso sia del tutto cancellato! È inevitabile pensare alla regia accorta di quel "mistero dell'empietà" di paolina memoria. Ciò però è stato possibile perché degli uomini si sono sentiti più intelligenti della Parola di Dio. La semplice verità della Bibbia è stata ritenuta ingenua di fronte alle possibilità speculative della filosofia. Ma la mente dell'uomo è limitata e quando si rifiuta di lasciarsi guidare dall'ispirazione divina cade in potere dell'ispirazione satanica, perdendosi pertanto in "vani ragionamenti". Così "benché si dichiarino sapienti, son diventati stolti" (Rom 1:22). Meraviglia osservare come le persone colte si lascino sviare ancor più degli incolti. La psicologa Alice Miller, studiando l'adesione delle masse ai regimi dittatoriali, ha constatato che gli intellettuali sono spesso più ricettivi alla propaganda delle masse incolte. "Sia Hitler che Stalin avevano un numero straordinariamente grande di seguaci fra gli intellettuali e venivano da loro idolatrati". Ella osserva che «la capacità di non respingere la realtà che si percepisce non dipende assolutamente dall'intelligenza della persona, ma dalla possibilità di avere accesso al vero Sé. Al contrario, l'intelligenza può aiutare a compiere innumerevoli giri viziosi quando sia necessario adattarsi. Gli educatori lo hanno sempre saputo e hanno sempre sfruttato per i propri scopi tale meccanismo; come dice il proverbio: “Chi è più furbo cede, lo stupido resiste”. In uno scritto pedagogico di Grünewald del 1899 leggiamo per esempio: “Non mi è mai capitato di trovare ostinazione in un bambino che avesse un buono sviluppo intellettuale o che fosse eccezionalmente dotato”. Più tardi, da adulto, un simile bambino potrà manifestare un acume straordinario nel criticare le ideologie dei suoi avversari perché in questi casi le sue capacità intellettuali potranno funzionare senza inibizioni. Solo all'interno del gruppo cui appartiene - per esempio all'interno di un'ideologia o di una scuola teorica [o di una chiesa!] - che riproduce la primitiva situazione familiare, costui darà prova di un'ingenua soggezione e di un atteggiamento acritico che farà totalmente dimenticare la brillantezza di spirito dimostrata in altre occasioni". Il Signore ha dotato la nostra intelligenza di meccanismi che consentono di preservare la libertà al di sopra persino della verità; degli stessi meccanismi si serve, paradossalmente, il demonio per renderci schiavi a sé quando noi per malafede o per condizionamenti educativi non diamo alla verità il posto che le spetta. Dio, che ha creato la nostra mente, ci ha messo in guardia contro questo pericolo che nella sua Parola è chiamato "potenza d'errore" (2Tess 2:9-12), e ci esorta a dare il primo posto alla sua rivelazione: "Voi invece dovete ascoltare quel che il Signore vi insegna! Se non ascoltate la sua parola non c'è speranza per voi" (Is 8:20 - TILC).

È sconcertante notare quanto poco si basi sul rispetto della Parola di Dio il sostegno alla dottrina dell'immortalità naturale dell'anima. Viene da chiedersi: ma costoro non si rendono conto che una difesa impostata con tali premesse equivale a una delegittimazione? Quando un passo della Bibbia, pur parlando chiaro, viene definito "misterioso" o "ingenuo" solo perché contraddice la nostra costruzione intellettuale, non ci si fa più intelligenti di Dio? Il teologo cattolico Battista Mondin scrive, ad esempio, che è sbagliato consacrare ad antropologia rivelata un'antropologia che, invece, non è altro che l'espressione culturale di un dato popolo, quello ebraico. Oggi sappiamo con certezza che Dio ha voluto far assumere alla storia della salvezza l'espressione della cultura ebraica, ma che con questo Egli non ha inteso privilegiare in modo assoluto e definitivo tale cultura rispetto a tutte le altre, e tanto meno ha inteso autenticarla come l'unica vera comprensione dell'uomo e delle cose. Perciò Dio non ha scelto il linguaggio della risurrezione per avallare una determinata concezione dell'uomo, ma perché quello era il linguaggio che per la mentalità empirica e poco speculativa del popolo ebraico si prestava meglio a parlare della vita futura e della sopravvivenza dell'uomo nell'aldilà. Quindi Dio ha lasciato completamente in sospeso la questione della validità o meno in sede razionale della concezione antropologica greca o giudaica. Per la risposta su questa questione Egli ci rimanda alla ricerca filosofica. E su questo terreno, occorre ammetterlo, la speculazione filosofica greca possiede titoli di scientificità di gran lunga superiori a quelli del pensiero ebraico.

Dopo aver proclamato "per volontà di Dio" la superiorità della speculazione filosofica sulla Rivelazione biblica, il Mondin espone un'altra ragione per cui egli ritiene indispensabile l'immortalità dell'anima: La negazione del l'immortalità dell'anima conduce a una concezione assurda della vita eterna. Infatti, se si nega all'uomo il possesso d'un germe d'immortalità, allora si crea un vuoto assoluto tra la vita presente e quella futura, venendo meno il soggetto a cui Dio possa fare dono della risurrezione e della vita eterna. Per cui non esiste più nessun motivo ragionevole per affermare che la vita eterna non ha qualche rapporto con la vita presente. Così diviene del tutto arbitrario e assurdo considerare quelli che risorgeranno gli stessi individui che hanno vissuto in questo mondo.

Quando facciamo del nostro pensiero (cioè di noi) la misura di tutte le cose, allora detronizziamo Dio e gli neghiamo potenza. Lo scettico Voltaire tacciò d'incoerenza quei cristiani che pongono limiti alla Provvidenza. Ad essi chiedeva: "Se credete che Dio ha creato, perché trovate difficoltà a credere che potrebbe ricreare?". Una moltitudine di cristiani nega oggi al Creatore il potere di richiamarci dal nulla. «Può forse l'argilla chiedere a chi lavora: “Che cosa fai?” O dire al vasaio: “Il tuo lavoro è incompleto:”? … “Volete impormi che cosa devo o non devo fare?”» (Is 45:9,11). L'Eterno è colui che molti anni prima di chiamare all'esistenza Ciro ne parlava come se già fosse o, persino, fosse stato. "Così parla il Signore al suo unto, a Ciro,… io ti ho chiamato per nome, ti ho designato, sebbene non mi conoscevi" (vv 1,4). Egli è l'Eterno Onnipotente, colui che "chiama le cose che non sono come se fossero" (Rom 4:17 - ND). Non ha bisogno di anime disincarnate o di ampolle che custodiscano l'individualità dei trapassati. Quel giorno benedetto, Egli non si rivolgerà alle "anime" ma alla polvere, alle ossa secche, farà entrare in loro il suo alito vitale ed esse rivivranno (v. Ez 37: 5). Questo dice la Bibbia; e chi la sottovaluta per esaltare il proprio pensiero o il pensiero del gruppo a cui fa riferimento si pone su un terreno minato. "Guai a coloro che chiamano male il bene e bene il male, cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, rendono dolce l'amaro e amaro il dolce. Guai a quelli che si illudono di essere saggi e intelligenti… Un giorno l'orgoglio umano cesserà e l'arroganza umana sarà distrutta. Allora si vedrà che solo il Signore è grande" (Is 5:20,21;2:11).


Voci fuori dal coro

Quando delle chiese pongono ufficialmente le Sacre Scritture allo stesso livello delle loro tradizioni, che sono spesso frutto di contaminazioni pagane e di speculazioni umane, non sorprende il fatto che si siano tanto allontanate dalle chiare verità evangeliche. Ciò che invece sorprende profondamente è l'accettazione supina da parte del mondo evangelico di dottrine che la teologia cattolica e liberale fonda apertamente su basi extrabibliche. Coloro che si rifanno a quel Gesù che diceva: "Sta scritto", "Come leggi?"; che professano le Sacre Scritture come unica regola di fede; ebbene, costoro accettano l’immortalità dell'anima e le pene eterne che per ammissione degli stessi teologi cattolici non sono dottrine scritturali. Ma i cattolici ammettono pure di non ispirarsi alle sole Scritture! Dove sta allora la coerenza degli evangelici? Ringraziando il cielo, grandi personalità del mondo cattolico e protestante, per amore della Parola, hanno avuto il coraggio di "cantare fuori dal coro" a costo di esporsi alle critiche degli immancabili schernitori. Ecco alcuni esempi:

C. Tresmontant, noto scrittore e teologo francescano:
L'immortalità dell'anima, nella prospettiva giudaico-cristiana, non va da sé. L'immortalità non è un diritto, una proprietà della natura per l' anima. Essa è e forse sarà un dono.

R. De Vaux, archeologo e orientalista cattolico:
La distinzione dell'anima e del corpo è estranea alla mentalità ebraica e di conseguenza, la morte non è considerata come una separazione di questi due elementi. Un vivente è una "anima" (nephesh) vivente, un morto è una "anima" (nephesh) morta. Il culto dei morti in Israele non è mai esistito. La preghiera e il sacrificio espiatorio per i morti - cose ugualmente incompatibili col culto dei morti - appaiono solo alla fine dell'Antico Testamento in 2 Maccabei 12:38-46.

Claus Schedl, eminente biblista cattolico:
La psicologia biblica è troppo fortemente vincolata agli organi (sede dell’"anima": le viscere, le interiora, i reni, le ossa, il cuore), perché si possa dividere l'uomo in due parti: spirito e corpo, e dire che soltanto lo spirito è creato a immagine di Dio. L'uomo non può essere sezionato. È come un tutto, come una natura corporale-spirituale, che porta l'impronta di Dio.

Yves Congar, famosissimo teologo e storico cattolico:
Per la Scrittura l'uomo è il suo corpo, la persona non è completa che con il suo corpo. Così la Bibbia dice "corpo" nel senso in cui diciamo: persona viva e attiva; vedi il caso tipico di Romani 12:1 dove la Bibbia di Gerusalemme traduce con ragione "persona" là dove Paolo ha scritto "soma, corpo".

M. Imschoot, teologo cattolico:
Non si deve parlare né di dicotomia né di tricotomia nell'antropologia biblica, l'uomo è considerato sinteticamente come un organismo fisico-psichico.

J. Pedersen
Anima e corpo sono così intimamente uniti (nell'antropologia biblica) che non è possibile distinguerli; essi sono più che uniti; il corpo è l’anima nella sua forma esteriore.

A. Malet
Il soma (corpo), la psyche (anima) e il pneuma (spirito) sono ognuno la persona totale in uno dei suoi aspetti.

A. Carrel
L'anima non è indipendente dal corpo: la qualità della mente dipende dagli organi, in particolare dal cervello e dalle ghiandole endocrine. Lo stato della coscienza non è mai indipendente da quello dei tessuti, del sangue…

R. Koch, biblista cattolico:
Per l'uomo biblico l'“anima” non ha niente a che fare con la dicotomia platonica: corpo-anima. L'anima non dimora qual massa indipendente, nel "corpo" come in un carcere, da cui sarebbe liberata dalla morte. L'anima è l'uomo nella sua totalità. L'uomo non ha un'anima, egli è un'anima. Non ha un corpo, è un corpo.

Hans Küng, teologo cattolico del dissenso:
Chi sostiene l'eternità della pena, in generale è convinto che questa pena toccherà agli altri, non a lui. Se pensasse di essere destinato anche lui all'inferno si chiederebbe sbigottito: ma è possibile? Ma un Dio che è misericordia infinita, amore infinito, come può condannarmi a una pena senza fine? … Ma l'uomo è un'unità, non è formato da due materiali completamente diversi; il dualismo anima-corpo è ampiamente superato… Quando l'uomo muore, muore come totalità, con il corpo e con l'anima, come unità psico-fisica. Ma non muore nel nulla; muore in Dio: cioè entra in quella dimensione eterna in cui fra la morte e il giudizio universale il tempo è irrilevante.

Oscar Cullmann, eminente biblista e teologo riformato:
Ponete a un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o no, la domanda seguente: cosa insegna il Nuovo Testamento sulla sorte individuale dell'uomo dopo la morte? Tranne rare eccezioni riceverete sempre la stessa risposta: l'immortalità dell'anima; e tuttavia, questa opinione, per quanto possa essere diffusa, è uno dei più gravi malintesi concernenti il cristianesimo… La concezione cristiana della morte e della risurrezione… è incompatibile con la credenza greca dell'immortalità dell'anima.

Emile Brunner, uno tra i massimi teologi protestanti del XX secolo:
Non si può più dubitare che la dottrina d'una immortale sostanza dell'anima non ha un'origine biblica ma platonica.

Roland De Pury, notissimo pastore riformato e scrittore:
La dottrina pagana dell'immortalità dell'anima è la negazione su tutta la linea delle verità fondamentali della chiesa cristiana. Non soltanto della risurrezione ma soprattutto della creazione. Poiché un'anima immortale non è creata… non esiste nell'uomo biblico una parte immortale e una parte no. Nessun dualismo pagano. L'uomo è mortale tutto intero.

Karl Barth, il massimo teologo protestante della nostra epoca:
La questione alla quale devo rispondere è questa: l'uomo deve considerarsi come un essere immortale? Sapete voi che la parola immortalità non figura mai nell'Antico Testamento e compare solo due volte nel Nuovo? Già di per sé è un fatto che colpisce. Ed il senso che prende questa parola nel Nuovo Testamento lo è ancora di più. È detto chiaramente, (1 Timoteo 6:16) che Dio, non l'uomo, possiede l'immortalità, e in più che lui, il sovrano unico, è l'unico a possederla; è evidentemente implicito che l'uomo non la possiede né come identità individuale, ne in una parte del suo essere, né originariamente, né per acquisizione di sorta… L'immortalità potrà arrivare all'uomo come un dono nuovo e immeritato: un libero dono di Colui che solo per essenza è immortale. Di questo parla il secondo passo menzionato: 1 Corinzi 15:33; si tratta qui della resurrezione dei morti come di un nuovo, libero atto di Dio in favore di tutti gli uomini, in forza del quale il loro "corpo mortale" - essi stessi in quanto totalmente mortali - "rivestirà" immortalità come un abito che prima e in sé non era affatto suo.


Altri testi controversi

Allora Gesù gli disse: "In verità ti dico: oggi tu sarai con me in paradiso" (Luca 23:43).

Per questo testo basterebbe ricordare che i manoscritti originali del Nuovo Testamento non avevano punteggiatura e il testo (tradotto letteralmente) si leggeva: "E disse a lui in verità a te dico oggi con me sarai nel paradiso". Quando più in là venne messa la punteggiatura, la costruzione della frase non poté prescindere dall'affermatasi credenza nell'immortalità dell' anima. Ecco perché il segno di punteggiatura venne posto dopo "dico" anziché dopo "oggi". In tal modo la frase perde il suo significato di promessa a tempo indeterminato e acquisisce un senso in contrasto non solo con l'insegnamento biblico ma con le stesse parole di Gesù il quale, la domenica della risurrezione, dichiara a Maria di non essere ancora stato in paradiso (v. Gv 20:17). E non era pertanto neppure salito in cielo, insieme al ladrone pentito, nel giorno della loro morte. Tenendo ben presente questa premessa, è tuttavia ancora possibile accettare la lettura tradizionale di questo brano. Gesù in quel momento non stava impartendo una lezione di dottrina ma stava confortando un uomo che veniva ucciso brutalmente e che si confrontava con il mistero della morte. Pertanto Gesù, ponendosi nella prospettiva del ladrone, gli stava indicando il susseguirsi degli eventi così come lui li avrebbe vissuti. Non avendo percezione del tempo che sarebbe trascorso durante il sonno della morte, dal suo punto di vista sarebbe stato catapultato nella nuova vita quel giorno stesso, un istante dopo la perdita di coscienza. E questo era ciò di cui lui aveva bisogno sapere in quel momento.

Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un'abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di esser trovati già vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita (2Cor 5:1-4 CEI).

Qui l'apostolo Paolo utilizza un tipo di linguaggio che ci fa capire che egli stava combattendo un gruppo di gnostici che credeva evidentemente nella possibilità dell'anima sincera (o "nuda", senza il corpo, v 3). Paolo polemizza con loro dicendo che anche se il corpo terreno è disfatto, noi sappiamo che Dio ce ne ha preparato uno migliore e desideriamo "rivestirci del nostro corpo celeste" (v 2 CEI), non certo "essere spogliati" (v 4), ma comunque "anche se saremo spogliati (cioè colpiti dalla morte; il greco ha Ekdusàmenoi) non saremo trovati nudi" (v 3, traduzione letterale dal greco) come invece sostenevano gli gnostici. Se poi al versetto 3 si accetta la lezione Endusàmenoi nel greco (come fa la Riveduta) allora si dovrebbe tradurre: "Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste, e dal momento che saremo rivestiti con esso non saremo trovati nudi". Il punto centrale dell'argomentazione di Paolo è proprio quello di negare l'argomento degli gnostici che credevano nella sopravvivenza di un'anima disincarnata!

Ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore (2Cor 5:8).

Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di esse re con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall'altra, il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi (Fil 1:23,24).

Considerando la morte come un sonno, in cui non c'è consapevolezza del tempo che scorre, per il cristiano morire equivale a risorgere. Dal punto di vista di chi muore i due atti sono consecutivi; per questo Paolo dopo la morte s'immagina già con Cristo. Ne abbiamo già parlato nella sez. dal titolo “Un tempo irrilevante”. Quanto alle espressioni "partire dal corpo" e "rimanere nel corpo", significano semplicemente "lasciare questa vita" ("morire") e "continuare a vivere", come correttamente traduce la versione interconfessionale.

Quando l'Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l'altare le anime (psychàs) di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che gli avevano resa. Essi gridarono a gran voce: "Fino a quando aspetterai, o Signore santo e veritiero, per fare giustizia e vendicare il nostro sangue su quelli che abitano sopra la terra?" E a ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po' di tempo, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro (Apoc 6:9-11).

Il termine greco Psyché, come il corrispettivo ebraico Nephesh, può indicare nel N.T. la vita (Gv 10:11,15,17; Fil 2:30; 1Tess 2:8 come Is 47:14) e gli esseri viventi, compresi gli animali (Apoc 8:9;16:3); le persone (Atti 2:41;7:14;27:37;1Pt 3:20). Può anche tradursi con un semplice pronome. Apocalisse non fa eccezione e "psyché" viene, secondo i casi, resa nell'Interconfessionale con "vita" (12:11), "animali" (16:3), o anche con un pronome dimostrativo, come nel nostro caso: "…vidi sotto l'altare coloro che erano stati trucidati per la loro fedeltà alla parola di Dio e per la loro testimonianza". Qui significa semplicemente: "i martiri".

Ma che ci fanno questi martiri sotto l'altare? Il primo passo da farsi per capire il testo è quello d'individuare lo stile letterario; in tal modo non è difficile rendersi conto che ci troviamo in un contesto simbolico: ove cioè il messaggio viene trasmesso mediante simboli. Si parla di cavalli colorati, di sigilli, ecc. Pertanto anche l'immagine dell'altare va letta in chiave simbolica. Da una raccolta di sentenze del II sec. a.C. si legge: "Chiunque è sepolto in terra d'Israele, è come se fosse sepolto sotto l'altare; e chiunque è sepolto sotto l'altare, è come se egli fosse sepolto sotto il trono di gloria". L'Apocalisse riprende quest'immagine applicandola alla Chiesa che soffre la persecuzione del mondo. Ai piedi dell'altare degli olocausti veniva raccolto il sangue del sacrificio (v. Lev 4:7). In generale nelle culture antiche s'intravedeva un legame tra il sangue e la vita; l'A.T. giunge persino a identificarli: "Il sangue è la vita" (Deut 12:23). Il termine "psyché", significando anche vita, rende più stretto il nesso tra la vita strappata ai martiri e il loro sangue che chiede giustizia (v 10). Rende inoltre ancora più forte il paragone, già suggerito dall' ubicazione sotto l'altare, tra la morte dei martiri e i sacrifici dell'Antico Patto. Il verbo sfazo (sgozzare, v 9), che nella versione dei LXX era il termine tecnico per indicare i sacrifici rituali (v. Lev 4:4), è un elemento ulteriore che conferma il paragone. La morte sanguinante di questi testimoni di Gesù Cristo, viene accettata come un sacrificio gradito a Dio. Il tempo della liberazione non è ancora giunto, ad altri ancora toccherà di soffrire, Ma la Chiesa non è stata dimenticata: "Chiunque ti tocca, popolo mio, tocca quel che ho di più prezioso" (Zac 2:12 TILC). Il monito ai persecutori viene ribadito: "…dalla terra il sangue di tuo fratello mi chiede giustizia" (Gen 4:10). Al grido: "Fino a quando?", viene risposto con il dono della veste bianca che non è il premio dei loro meriti, ma il segno dell'amore di Dio. È un simbolo di giustificazione ma anche la promessa, dopo aver subìto il disprezzo degli uomini, di una piena riabilitazione e dell'eterna glorificazione.

Anche qui le anime disincarnate non c'entrano nulla. Siamo in presenza di quella figura retorica, detta prosopopea, che consiste nel dar voce a cose che non parlano, anche a persone defunte, come se fossero presenti, vive, animate. Il dialogo tra Dio e i morti è solo un espediente stilistico per lanciare un messaggio di rassicurazione ai vivi: al "numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli".


Pronti a rivedere gli schemi

Mentre scrivo questo studio biblico, un signore, intervistato da un’emittente evangelica, sta affermando che la dottrina dell'anima mortale è un insegnamento miserabile, non scritturale, di provenienza satanica. Mi è inevitabile correre alle parole di Giovanni 9:20: "Molti di loro dicevano [di Cristo]:'Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo ascoltate?". In un'altra occasione Gesù rispose: "Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate" (8:49). Purtroppo è questo il rischio che si corre quando ci si lascia trasportare dalla corrente e non si ha il coraggio di rivedere instancabilmente i propri schemi: quello di dare a Cristo dell’indemoniato. La Riforma ha un senso nella misura in cui ha il coraggio di liberarsi dalle incrostazioni. Queste però, legandosi spesso intimamente alla sana dottrina, non sono sempre facili da individuare. La foresta delle denominazioni protestanti ed evangeliche se da un lato induce un senso di vertigine dall'altro ha consentito un più libero processo di riflessione che ha portato, sì, eccessi e intemperanze ma anche tesori di conoscenza a disposizione di tutti coloro che non si lasciano etichettare e mantengono indipendenza di giudizio.

"Il passato ha su di noi un effetto paralizzante", affermava un predicatore. Per questo l'apostolo Pietro c'invita a cingerci i lombi della nostra mente, cioè a vincere l'inerzia che ci lega al passato. Non certo per lasciarci sballottare e portare "qua e là da ogni vento di dottrina". Però falsi dottori hanno già nei secoli introdotto "occultamente eresie di perdizione", come d'altra parte continueranno a fare finché il Signore non tornerà. Come orientarsi allora per distinguere i venti di dottrina, le eresie di perdizione, dalla sana dottrina? Ed ecco la risposta nelle parole di Gesù: "Voi errate, perché non conoscete le Scritture".

Ho ancora presenti le parole di quella meditazione dal titolo: Assetati o assuefatti. "Il pericolo, fratelli, del formalismo è proprio questo: che a un certo punto noi ci stanchiamo di questa continua revisione dei nostri schemi, che noi ci stanchiamo di mettere in discussione noi stessi, che noi ci stanchiamo di questa insicurezza, di questa incertezza, di questo dover tendere continuamente in avanti. Perché il Signore, pur essendo la Roccia, cammina ed è la via, e non è una cosa ferma. È un punto di riferimento ma è continuamente davanti a noi e ci indica la strada che dobbiamo seguire. La fine di molti movimenti religiosi si è manifestata proprio quando è venuta meno la sete, questo protendersi in avanti, questa ricerca della freschezza, della presenza di Dio…".

“Voi errate perché non conoscete le Scritture”. Lo stato incosciente dei morti è una dottrina scritturale, come riconoscono eminenti teologi di ogni denominazione. La sua sottovalutazione ha dischiuso la strada a gravissimi errori e lascia indifesi nei confronti di irresistibili seduzioni sataniche.

Lutero, il padre della riforma, commentando le parole di Salomone in Ecclesiaste, secondo le quali "i morti non sanno nulla", scrisse: «Un altro passo dove viene dimostrato che i morti non hanno… consapevolezza. Là (nella tomba) non c'è né dovere, né scienza, né conoscenza, né sapienza. Salomone stima che i morti dormono e che non sentono nulla. Poiché i defunti giacciono nella tomba e non hanno nessuna nozione dei giorni e degli anni, quando si risveglieranno sembrerà loro di avere dormito solo un minuto». Oggi la maggior parte delle chiese crede nell’immortalità dell’anima, persino quelle che da Lutero si fregiano di discendere e da cui prendono il nome. Ci si chiede come sia possibile.


In prospettiva del grande inganno

Qualcuno ha detto che la dottrina sullo stato dei morti sarà un importante discrimine, a cui le chiese saranno sottoposte, per decidere da che parte stare nell'imminenza del ritorno di Cristo. Satana sta preparando il suo capolavoro di seduzione, e "la forza di falsi miracoli e di falsi prodigi" e l'uso di "ogni genere d'inganno maligno" (2Tess 2:9-10) saranno tali "da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti" (Mt 24:24). Solo la fedeltà agli insegnamenti della Parola di Dio consentirà ai salvati di smascherare gl'inganni del maligno.

Dal sito http://digilander.libero.it/parsifal/

Tomás de Torquemada
26-02-03, 01:51
ADE

La prima rappresentazione dell´Ade greco ci viene dall'Odissea, scritta da Omero, che rappresenta il regno dei morti buio e vuoto e le anime che si aggirano tristi fra i grigi campi e i pallidi asfodelidi rimpiangendo la vita e la luce del sole

Il nome ADE è di origine greca: AIDHS è composto dalla radice id - (id-), che significa VEDERE, preceduta dall' a - privativo; significa quindi "posto dove non si può vedere", LUOGO DEL BUIO. Il termine ha anche significato metaforico, con cui si intende l'Ade semplicemente come il luogo in cui si ritrovano tutte le anime dopo la morte. Sin dalla notte dei tempi gli uomini hanno immaginato l'oltretomba come un luogo sotterraneo e buio, dove non arriva la luce solare. È così anche per l'Ade greco e latino, per certi versi tra loro molto simili, ma con percorsi differenti.

La prima rappresentazione dell'Ade greco ci viene dall'Odissea, in cui Omero descrive il regno dei morti buio e vuoto, popolato da anime che si aggirano tristi fra i grigi campi e i pallidi asfodeli, rimpiangendo la vita e la luce del sole. Tutto è in perfetta contrapposizione al mondo dei vivi: ombre, notte, morte, profondità e oscurità rappresentano il destino comune a tutte le anime. L'oltretomba è appunto uno spazio tenebroso all'interno della terra, posto all'estremo occidente dell'Oceano, con un'entrata e un vestibolo. Generalmente nei testi mitologici è presente la cosiddetta KATABASIS (discesa) di alcuni eroi negli Inferi come viaggio iniziatico per conoscere il futuro della propria vita o quello del popolo di appartenenza, come nel caso di Ulisse in Omero e di Enea in Virgilio. In realtà Ulisse sembra che si sia limitato a un'evocazione delle ombre dei defunti senza percorrere interamente gli Inferi, fermandosi all'ingresso, come è scritto nel libro XI dell'Odissea.

Le notizie sull'Ade e sulle divinità infernali lasciate dagli autori successivi a Omero sono ben più precise della descrizione che se ne fa nell'Odissea, ma risalgono a un'epoca ben più tarda (V secolo a.C., età classica). L'Ade fu infatti determinato meglio e popolato da esseri di varia specie, e si riteneva di poterlo raggiungere dalla terra attraverso profondi baratri: le caverne presso il Tenaro, come riportato da Apuleio nelle Metamorfosi (L'asino d'oro) nella fiaba di Amore e Psiche quelle di Ermione e di Colono presso Atene, e quelle presso Cuma in Italia. L'Ade era inoltre circondato da grandi e spaventosi fiumi, come lo Stix, di cui invece non vi è traccia in Omero.


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Immagine tratta dal sito http://www.longagony.com/

L'Ade latino ci viene descritto da Virgilio nel VI libro dell'Eneide, Luciano nella Storia Vera, Platone nel dialogo Fedone. Enea discende fino ai Campi Elisi, accompagnato dal padre, per vedere le anime dei suoi discendenti. L'Ade descritto da Virgilio è molto articolato, e viene sfruttato da Virgilio per esprimere i destini differenti delle varie anime, fatto che non trova riscontro in molti testi dell'antichità ed è del tutto assente in Omero. Nella cultura latina infatti è chiaro che le anime siano sottoposte a un giudizio ultraterreno in base al comportamento degli uomini nel corso della loro vita, che corrisponde a una pena o a un premio nell'aldilà.

La cultura greca al contrario ignorava il concetto della punizione ultraterrena, poich´ chi aveva peccato contro gli dei riceveva la sua punizione in vita, che poteva anche abbattersi sui suoi discendenti; questo concetto fu introdotto solo nel V secolo. Virgilio, nella sua descrizione dell'Ade fu fortemente influenzato sia dai testi orfici che da Platone, soprattutto per quanto riguarda la teoria della metempsicosi (= reincarnazione), secondo la quale le anime sostano nell'Ade per scontare le proprie pene, alla fine delle quali possono reincarnarsi in un altro corpo.

L'Ade di Virgilio inoltre ha stretti legami anche con la società romana per appoggiare la politica di Augusto, mostrando che tutti coloro che avevano peccato contro lo Stato e la famiglia, due dei principali obiettivi del princeps, erano stati rinchiusi nel Tartaro, la parte più profonda e temibile dell'Ade. Anche la stessa teoria della reincarnazione ha uno scopo ben preciso: permette infatti di dimostrare la discendenza divina di Augusto, che viene visto da Enea quando osserva la sfilata dei futuri illustri Romani, suoi discendenti. Tuttavia Enea, una volta negli Inferi, mostra un atteggiamento piuttosto distaccato, tanto che pare non provi alcun interesse per il suo viaggio, che diventa così un po' ambiguo.

Questo è dovuto al fatto che Virgilio fa scendere Enea nell'Ade perch´ l'itinerario eroico prevede questa tappa; in realtà egli non lo vede come un eroe del mito, ma come un semplice mortale (anche se figlio di una dea), che però deve compiere delle determinate imprese per essere degno e poter svolgere pienamente il suo compito di fondare una nuova e importante città: Roma. Le prove che egli affronta diventano così quelle imposte a ogni essere umano dal destino, dando all'opera di Virgilio un significato diverso da quello delle opere scritte in precedenza.

Ma Enea e Ulisse non sono gli unici privilegiati a poter scendere nell'Ade e soprattutto a farne ritorno. Come loro altri personaggi della mitologia hanno avuto questa possibilità: si ricorda infatti la discesa di Teseo e Piritoo, la triste storia di Orfeo ed Euridice, l'eroe greco Protesilao, la peggiore delle fatiche di Ercole, la vicenda di Alcesti e Admeto, i due gemelli Castore e Polluce.

Dal sito http://www.docenti.org/

Tomás de Torquemada
24-06-08, 14:58
Victor Zammit, Un avvocato presenta il caso dell'Aldilà - Prove oggettive inconfutabili (http://www.scribd.com/doc/259197/Un-Avvocato-Presenta-il-Caso-dellAldila-Victor-Zammit)

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Hyeronimus Bosch, Ascesa nell'Empireo - Immagine tratta dal sito http://upload.wikimedia.org/