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Visualizza Versione Completa : Franco Cardini su Tolkien



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30-08-02, 19:53
Trasmettiamo uno scritto -ripreso dalla rete- di F. Cardini,
e aggiungiamo una breve nota ad uno dei libri citati nell'articolo.


DI FRANCO CARDINI
La versione filmica de Il Signore degli Anelli è molto meno infedele al testo e allo spirito della grande saga tolkieniana di quanto si sarebbe potuto temere: rallegriamocene. Ma con prudenza: ché un conto sono le intenzioni del regista e del soggettista, un altro gli esiti che un qualunque film tratto da un’opera letteraria possono produrre negli spettatori. Le orde di uomini, donne, giovani e giovanissimi e bambini che in queste settimane hanno preso d’assalto le sale di proiezione di tutto l’Occidente sono solo in modestissima misura costituite di persone che hanno sul serio letto l’opera maggiore di Tolkien; fra essi, una minoranza infima è in grado di contestualizzarla all’interno degli altri libri tolkieniani che è necessario conoscere per entrare nello spirito di essa, vale a dire quanto meno Lo Hobbit e Il Silmarillion; e sono ben pochi, tra questi ultimi, quelli in grado di padroneggiare la problematica complessa che a queste opere presiede, il rapporto fra la fede cattolica di questo grande studioso inglese, nato da una madre presto convertitasi al cattolicesimo, e il suo impegno di filologo e di medievista e la sua fantasia mitopoietica.

Siamo perseguitati da parecchi decenni da una storia di genere kitsch che ci arriva dagli Stati Uniti d’America: improbabili e di solito abbastanza ributtanti mostracci e mostriciattoli, accompagnati dagli effetti speciali alla Steven Spielberg, si sono impadroniti del cinema imponendo un genere sado-maso-horror spesso accompagnato alla ricostruzione fantastica di saghe epiche ambientate in «universi paralleli». A questa già dubbia miscela si è aggiunto un ritorno alla fantasia magica, com’è attestato dal successo dei libri e del film dedicati ad Harry Potter. Ora, che cosa potranno capire i nuovi fans di Tolkien, quelli che ai suoi libri giungono dopo averne vista la versione cinematografica, e che, digiuni di autentici miti e di archetipi ben compresi, poco o niente sanno di saghe, di letteratura cavalleresca, e magari hanno attinto le «leggende del graal» attraverso le grottesche deformazioni d’una letteratura occultistica da tempo arrivata ormai nelle edicole e le ambigue affabulazioni del new age?

Natura serena e schiva ma tormentata da segrete inquietudini, John Ronald Reuel Tolkien (nella foto) – nato in Sudafrica nel 1892, residente in Inghilterra dall’età di tre anni circa, convertito al cattolicesimo con la madre nel 1900 – aveva cominciato a organizzare il suo mondo di «fiabe perdute» fin dal 1917, quando aveva 25 anni. Filologo e specialista di letteratura inglese medievale, docente a Oxford fin dal 1925, egli aveva partecipato all’eterogeneo cenacolo degli «InglinKs», umanisti anti-modernisti, e aveva per lunghi anni accompagnato la crescita segreta del suo mondo di miti. Il Signore degli Anelli è in realtà una trilogia, pubblicata fra 1954 e 1955. Pochi anni dopo, con la nascita del movimento hippy, quello strano fluviale poema in prosa dove si parlava di maghi, di talismani e di avventure divenne una specie di Bibbia dell’esperienza esistenziale alternativa. Tolkien lo aveva detto con chiarezza: letteratura di «evasione» sì, ma nel senso di «evasione del prigioniero», cioè del prigioniero di guerra, che evade per tornare a combattere; non in quello di «fuga del disertore», che scappa per salvare la pelle e viene meno così facendo al suo dovere. Negli Anni Sessanta–Settanta (Tolkien sarebbe morto, ottantunenne, nel 1973) il successo dello scrittore inglese raggiunse l’Europa: e lo si guardò come un fenomeno «di destra» appunto perché postulava l’«evasione del prigioniero», la scoperta di modelli e di prospettive di tipo alternativo rispetto al determinismo materialista e al «pensiero unico di tipo marxista che in quegli anni costituivano l’atmosfera che quasi uniformemente si respirava a livello intellettuale. Qualcuno, superficialmente, giudicando il mondo mitico di Tolkien e i suoi dèi, parlò di «neopaganesimo», suggerendo che si potesse trattare quasi di un esperimento di fantasia neonazista. Era una calunnia infame: Tolkien, che aveva orrore di Hitler, gli rimproverava anche questo, l’aver inquinato l’immagine dell’antica mitologia germanica piegandola alla sua perversa propaganda. Ma, dinanzi al conformismo di quegli anni, quella fuga nel mondo dei maghi e degli anelli incantati era salutare.

Da allora, troppa acqua è passata sotto i ponti. Il materialismo dialettico è scomparso, per lasciare il posto a un materialismo volgare fatto di consumismo e di corsa al profitto e al successo. Ma l’angoscia che nel mondo occidentale si è diffusa come contraccolpo di questo inaridirsi di prospettive ha generato, fra le altre cose, un «ritorno selvaggio del sacro» che a sua volta si è tradotto in infinite mistificazioni pseudoreligiose e neoreligiose cavalcate da sette e conventicole neo–orientali, neoceltiche o sedicenti tali. Dinanzi a questa confusione dove allignano perfino pennellate di ridicolo satanismo, dinanzi a questo balbettar di falsi e nuovi miti che scopre al tempo stesso l’incapacità di attingere correttamente al Sacro e di servirsi in modo ordinato della fantasia, ma anche il bisogno dell’uno e dell’altra, Tolkien va riletto non già lasciando spazio a un libero gioco fantastico che quasi nessuno sembra avere più gli strumenti per sostenere, bensì procedendo a una sua rigorosa rifilologizzazione.

Tale scelta ci conduce a sottolineare quel che, sotto l’aspetto della saga pagana c’è in Tolkien di profondamente cristiano, anzi cristiano-cattolico. Che cosa? Assolutamente tutto. E cominciamo pure dallo stile del Silmarillion, che parla di antichi dèi immaginari ma suggerisce una tematica profondamente e radicalmente monoteista e creazionista, ispirata direttamente allo stile biblico (nel 1960 Tolkien collaborò alla traduzione della «Bibbia di Gerusalemme» dal francese all’inglese). Per proseguire poi in un’analisi sul carattere cristico della figura di Aragorn come Sovrano del Secondo Ritorno, al pari di Artù – ma anche e soprattutto del Cristo – rex venturus; e su analogo carattere di quella di Frodo Baggins, il «portatore dell’Anello» che si carica del malvagio potere dell’oggetto terribile come il Cristo si è caricato della croce di tutti i peccati del mondo. Si è parlato de Il Signore degli Anelli come di un «romanzo manicheo», dove Bene e Male si distinguono chiaramente: Giorno contro Notte, Luce contro Tenebra. Niente di più falso. Nel romanzo, trionfa proprio il grigio: il colore dello stregone Gandalf. Bene e Male si mischiano di continuo, come nella vita degli esseri umani. La vera grande vittoria del bene è quella che Frodo riporta dentro e contro se stesso, rinunziando al potere dell’anello.

Ma questi dati fondamentali sono del tutto trascurati e sconosciuti almeno a livello massmediale: dove trionfa la lettura di Tolkien, specie dopo il successo del film, in termini di semplice heroic fantasy e di ambigua spiritualità di tipo new age. Nel mare di sciocchezze scritte e pubblicate di recente al riguardo, poche cose si salvano. Segnalo Le radici non gelano. Il conflitto fra tradizione e modernità in Tolkien, di Stefano Giuliano (Ed. Ripostes) e Tolkien, Il mito e la grazia, di Paolo Gulisano (Ed. Ancora). Significativamente, sono solo alcuni piccoli coraggiosi editori a prestar voce alle voci più giudiziose, naturalmente minoritarie. Il resto è consumismo volgare, maghi da baraccone e draghi di plastica aggravati dai trucchi informatici.

L’Occidente opulento e sicuro di aver ragione rischia di confondere Aragorn con Bush e Sauron con Bin Laden: e non si rende conto di quanto sia pericolosa l’avanzata del Saruman globalizzatore, di quanto sia urgente liberarsi dell’Anello del nuovo materialismo.


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Stefano Giuliano,
Le radici non gelano.
Il conflitto fra tradizione e modernità in Tolkien
Ripostes, L. 25.000

La riproposta del mito, in Tolkien, si pone come risposta forte al tramonto da sacro, alla perdita del 'centro', alla crisi dei valori, ossia a quel complesso insieme di manifestazioni che hanno segnato, e tuttora segnano, la società occidentale contemporanea.
Per Tolkien, il mito, opportunamente ripensato e rielaborato, può offrire un rimedio alle inquietudini del presente. Non solo, me esso può essere anche uno strumento per leggere e misurare la realtà. Le storie degli Elfi e degli Hobbit diventano così il mezzo per far rivivere sentimenti e idealità tradizionali, nonché la chiave di rappresentazione di vicende e fenomeni di ampia portata: dal rapporto tra i singoli individui e il potere, alle grandi trasformazioni determinate dal progresso scientifico e tecnologico, alla relazione uomo/natura, e così via.
Le scintillante fantasia di Tolkien e la sua straordinaria capacità evocativa disegnano una possibile via d'uscita dal disorientamento caratteristico della seconda metà del Novecento.

Il libro è distribuito dalla Libreria Ar - largo Dogana Regia - Salerno - tel./fax: 089 221 226

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