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Visualizza Versione Completa : Fra storia e leggenda: la Baronessa di Carini



Tomás de Torquemada
09-09-02, 00:41
La baronessa di Carini (leggenda siciliana)
a cura di Francesco Volpe

La leggenda narra la morte di Donna Laura Lanza che a soli 14 anni andò sposa, per volere del padre, al barone di Carini. Ben presto, delusa dalla vita matrimoniale e dai continui abbandoni del marito impegnato nella cura della sua proprietà, la baronessa si innamora di un amico d'infanzia, Ludovico Vernagallo, e ne diventa l'amante. Scoperta dal marito e dal padre, Laura viene uccisa insieme a Ludovico. Si narra che su una parete del castello di Carini ci sia ancora l'impronta insanguinata della baronessa e che il suo fantasma vi si aggiri senza pace.

Nella realtà, esistono dei documenti dai quali risulta che il Vicerè di Sicilia, informa, all'epoca, la Corte di Spagna che il Conte Cesare Lanza ha ucciso la figlia Laura e Ludovico Vernagallo. Questo documento avvalora l'atto di morte della baronessa, redatto il 4 dicembre 1563 e che si conserva nell'archivio della Chiesa Madre di Carini insieme a quello di Ludovico Vernagallo. Non esiste, invece, alcuna prova che tra Laura Lanza e Ludovico Vernagallo ci fosse qualcosa di diverso dall'amicizia. Quindi Cesare Lanza di Trabia, complice il genero, uccise per leso onore della famiglia, la figlia Laura e fece uccidere da un sicario Ludovico Vernagallo. Cesare Lanza non fu mai punito per il suo delitto ed il marito di Laura si risposò poco tempo dopo.



Memoriale presentato da Cesare Lanza al Re di Spagna per discolparsi del delitto della figlia Laura

Sacra Catholica Real Maestà,
don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati.

Don Cesare Lanza conte di Mussomeli

Dal sito http://www.geocities.com/~tesorino/Il_sito_delle_streghe/index.html

Tomás de Torquemada
09-09-02, 00:46
IL “NIDO D’AQUILA” E IL FANTASMA DI LAURA

Questo antico castello, tra i meglio conservati della Sicilia, affascina non solo per la sua suggestiva bellezza ma anche per l’alone di mistero che lo circonda…oscure vicende, tesori occultati, materializzazione di una figura femminile…

Tre belle dame, vittime di conflitti di gelosia, sarebbero state murate vive nella stanza denominata “Stanza di li tri donni” …… i sotterranei custodirebbero inestimabili tesori e sarebbero stati teatro di misteriosi eventi….il fantasma di una fanciulla comparirebbe di frequente nelle stanze del castello.

Nelle sale del maniero dal 1500 vaga infatti il fantasma della giovane Laura Baronessa di Carini. Si narra che si aggiri sconsolata alla ricerca del crudele padre Cesare Lanza responsabile della sua precoce morte. L’uomo aveva dato adito alle voci infamanti sul comportamento dissoluto della ragazza, voci che si rivelarono poi del tutto infondate, e per salvare l'onore della famiglia aveva assassinato la figlia strangolandola. Cesare Lanza, divorato dal rimorso, si rifugiò nel castello di Mussomeli dopo aver ucciso la figlia. Il fantasma di Laura veste abiti cinquecenteschi, ampia gonna di seta, corpetto e scialle e appare nelle sale più grandi del castello ma soprattutto nella cappella dove si inginocchia e prega …chi dice di averla vista giura che pare una creatura vivente tant’è perfetta, agli occhi dei comuni mortali, la sua materializzazione.


Il Castello di Mussomeli (detto Castello Manfredonico o Chiaramontano) si erge maestoso su un’isolata rupe calcarea e si affaccia sull’intera vallata che lo circonda. Per la sua posizione strategica e per la sua imponenza è visibile anche da molto lontano.

Il maniero, dall’alto dello spigoloso rilievo roccioso su cui poggia, si presenta agli occhi dei visitatori come una fortezza inaccessibile ed inespugnabile, la struttura del castello pare fondersi con la roccia.

Il castello fu edificato, sui resti di una fortezza araba, nella seconda metà del XIV sec. (1370) per volere di Manfredi III di Chiaramonte. Il maniero è caratterizzato, architettonicamente, da colonne, archi decorati, fregi, solide e spesse mura merlate ornate da bifore e completate da un torrione quadrato. Le bifore permettono di godere del suggestivo ed incantevole panorama collinare circostante.

La facciata esterna del castello, portale e finestre gotiche, è ricca di pregevoli decorazioni.

Le sale del castello (Sala dei Baroni, Sale dalle volte a crociera, Sala dagli archi ogivali per citarne alcune) sono arricchite da fregi o da affreschi rappresentanti scene cavalleresche o soggetti religiosi.

Dal sito http://digilander.libero.it/mysterica/Wmappa.htm

Tomás de Torquemada
09-09-02, 00:58
IL CASO E I CASI DELLA BARONESSA DI CARINI
di Federico De Maria

Della Provenza d’Italia sono noti fuori dell’isola, per lo meno a critici e studiosi, parecchi degli autori contemporanei che ho nominato, e non pochi hanno letto e adeguatamente apprezzato il Meli — il più diffuso dei nostri poeti dei passato. Pochi, pochissimi, invece, conoscono oggi i siciliani delle epoche meno prossime, fra cui si potrebbero rivelare artisti eccezionali.

Fra questi, il primo posto tocca all’ignoto cantore della baronessa di Carini, che io assumo a titolo d’onore ricordare ai lettori siciliani e presentare quasi a nuovo a quelli delle altre regioni.

Chi non ha sentito, a teatro o alla radio, la succinta opera del maestro Giuseppe Mulè, che in un atto racchiuse la vicenda d’amore e di morte — tenero idillio e raccapricciante tragedia — della dama siciliana? Chi non ha commosso, sia pure per un’ora, questa storia di passione, meno celebre, se vogliamo, di quelle di Francesca, di Giulietta e di Parisina, ma che ha con esse la stretta parentela dell’amore pagato col sangue?

Dico meno celebre, soltanto perché in Italia e fuori d’Italia essa non è legata come quelle ai nomi di Dante, di Shakespeare, di Byron e di D’Annunzio che le hanno cantate e popolarizzate, o meglio perchè la letteratura e l’arte che a lei si ispirano sono rimaste regionali.

I non siciliani, infatti, non tutti sanno che la famosa canzone napoletana Fenesta che lucive su versi di Mariano Paolella musicati, secondo qualcuno, da Vincenzo Bellini, è ispirata al caso della baronessa di Carini e riporta un tratto dell’antico e poco noto poemetto che il giovane musicista catanese conosceva e forse aveva trascritto dalla tradizione orale che se ne conservava nel suo paese; e i non siciliani che ciò sanno lo appresero da un avvincente per quanto breve studio storico-critico pubblicato circa quarant’anni or sono da Salvatore Di Giacomo in un numero della rivista milanese Varietas. Né sanno che parecchie arie popolari che da vecchia data si cantano nella media e bassa Italia e perfino nel Veneto, son brani regionalizzati di un più antico canto siciliano diffuso secoli or sono da cantastorie girovaghi[2].

Generalmente ignorate, poi, sono — e nella stessa Sicilia — altre due opere sul medesimo soggetto, e cioè. una tragedia di Giuseppe Lanza di Trabia, del 1803, e un romanzo abborracciato nel 1838 da un D’Ondes-Regio e un Paolo Tantillo. Ma non è un male.

A ricordare il tragico avvenimento, tramandato in laconici cenni da un cronista del secolo XVI, Filippo Paruta, da un altro del secolo successivo, Vincenzo Auria, poi non esattamente esposto da F. M. Gaetani di Villabianca attorno al 1760[3], e raccolto dall’arte di musicisti e poeti posteriori, esisteva dunque, oltre la tradizione orale, un componimento che certo risaliva a epoca assai vicina al fatto, e di cui il suddetto Villabianca ci lasciò pure un sommario saggio, e che pochi nel continente, ma moltissimi in Sicilia, conoscevano, perché correva per le bocche di cantastorie e di quanti coltivavano o amavano la poesia regionale. Ma da quel che assicurano gli storici, sopratutti il borgettano Salvatore Salomone-Marino, che alla storia e al poemetto della baronessa di Carini dedicò amorosamente lunghi anni della sua carriera di folklorista non esisteva una trascrizione definitiva o almeno completa di questa eccezionale opera d’arte. Fu lo stesso Salomone-Marino a raccoglierla e pubblicarla nel 1870 (e poi in altra edizione riveduta e corretta nel 1873), narrandoci anche la versione tradizionale del caso e avvalorandola con suoi rilievi e documenti[4].

Ma contro di lui si levò, nel 1901, il sig. Pietro Barcellona Passalacqua in un volume intitolato Le tre Hiccari, buttandogli in faccia alcuni, un po’ pretesi un po’ autentici, errori storici e logici. Nel 1909 il mio diletto amico Luigi Galante, morto immaturamente nella Grande Guerra, diede nuovi dispiaceri al trascrittore e storiografo del canto sulla baronessa di Carini, pubblicando un’altra trascrizione, più completa e perfezionata, e altri rilievi critici e storici sfuggiti al Salomone-Marino.

Sennonché questi, nel 1913, polemizzando fieramente con sé stesso per dimostrare ai suoi contraddittori che nessuno la sapeva lunga quanto lui, diede alle stampe una versione ben diversa di tutto ciò che aveva raccolto e scritto 40 anni prima e che a lui si doveva se era stato in gran parte riconosciuto e accettato.

Nel 1925 il Rev. Buffa-Armetta, carinese, in un suo libro di note storiche su Carini, in gran parte confutò la nuova tesi storica del Salomone-Marino e del poemetto diede la versione primitiva del 1870-73.

Giuseppe Pitrè, il più autorevole studioso di cose siciliane, che non aveva dato grande peso, a suo tempo, alla prima tesi storica del Salomone Marino, ma aveva accettato e fatto accettare il testo poetico così come quegli lo aveva da prima presentato, nel 1913 alla pubblicazione autocontraddittoria del suo emulo, preferì tacere.

Chi non tacque fu Giovanni Gentile, che giudicò piuttosto severamente l’opera demopsicologica del tormentato storico della baronessa di Carini.

Queste, insieme con qualche diligente articolo di Luigi Natoli e di altri pochi, storiografi e critici, le pubblicazioni del e sul poemetto siciliano La barunissa di Carini, succedutesi in Sicilia (tranne quella Gentile) e rimaste in gran parte in Sicilia, ove questa opera d’arte, passata da uno studioso o da un dilettante all’altro di usi, costumi, tradizioni regionali, minaccia oramai di putrefarsi nei campi della demopsicologia e demopsicografia.

L’autorità degli specialisti regionali, che del resto non rare volte conta tra venticinque persone, nulla ha aggiunto e molto ha tolto a quella che può essere considerata come la maggiore opera della poesia siciliana.

E’ tempo di restituirla all’arte e di portarla completa conoscenza di quanti anche fuori della Sicilia, e possibilmente d’Italia, s’interessano alle cose belle, del pubblico che ancora ama la poesia, dovunque e in qualunque tempo essa sia fiorita.

Io non vorrei indugiarmi troppo sul fattaccio di cronaca che generò questo capolavoro. Debbo però dire che le ultime ricerche tendono a dimostrare che esso non si svolse come dapprima si narrava e che forse per la contaminazione di due avvenimenti similari, succedutisi a distanza di anni, si ebbero differenti versioni, la più avvalorata delle quali fu per secoli la seguente:

Dal matrimonio celebrato nel 1543 fra la quattordicenne Donna Laura Lanza e il sedicenne don Vincenzo La Grua Talamanca barone di Carini nacquero otto o nove figli. La secondogenita di essi, Caterina, divenuta giovanetta, abitava con una congiunta, la nonna o la zia, al castello dei La Grua, a Carini, mentre il resto della famiglia stava a Palermo, nell’avito palazzo.

Presso Carini, in una tenuta di Montelepre, risiedeva un giovane cavaliere, Vincenzo Vernagallo, che soprintendeva all’industria della cannamela, cioè della canna da zucchero, per conto proprio e del padre in comproprietà, pare, coi La Grua dei quali erano pure parenti benchè divisi da continui dissensi d’interesse e da motivi politici, perché i Vernagallo parteggiavano per la faziosa Messina, mentre il barone di Carini era alto magistrato a Palermo. Vincenzo Vernagallo e Caterina si amarono. Egli andava spesso, nottetempo, a trovarla partendo da Montelepre a cavallo e giungendo in mezz’ora sotto le finestre della sua bella. Ma la relazione amorosa — che alcuni, nella tradizione orale, assicurano essersi limitata a una semplice liccata (amoreggiamento platonico) di giovani che vorrebbero sposarsi, ma ne sono contrastati dai rispettivi parenti — viene scoperta da un monaco del prossimo convento dei Carmelitani, il quale si reca a Palermo per informare il Barone di Carini. Costui, divampando d’ira, senza por tempo in mezzo, cavalca con una masnada di sgherri verso Carini, vi giunge sul fare dell’alba, sorprende la fglia affacciata al balcone, penetra in casa, e, sordo alle grida e alle preghiere della sua creatura, la sgozza. Prima di morire essa, appoggiandosi a una parete, vi lascia l’orma della sua mano insanguinata. Il cavaliere Vernagallo, perseguitato, fugge, trova salvezza in Ispagna ove si fa monaco e muore anni dopo. Anche la madre di Caterina, trascorsi pochi mesi, morì dal dolore. Il padre omicida passò gli ultimi anni della sua vita roso dal rimorso.

Questa è la versione che venne rispecchiata dal poemetto nella sua forma più corrente e ripetuta di bocca in bocca per quasi tutta la Sicilia lungo tre secoli. Brani di esso rimasero, come ho detto, anche in altre regioni, dopo avere assunto una forma locale e più o meno diversa.

Sennonché la fame della verità indusse a ricerche accurate alcuni studiosi tra cui — ho già detto — bisogna mettere in primissimo piano Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone-Marino. E si trovò che il 4 dicembre 1563, data assegnata generalmente al caso della Baronessa di Carini, erano morti — anzi testualmente erano stati morti — Laura Lanza moglie del barone di Carini e il Cavaliere Ludovico Vernagallo, fratello di quel Vincenzo che anni dopo morì monaco in Ispagna. E si credette di poter asserire, sulla semplice base di documenti parrocchiali, che non una figlia Caterina e nubile, ma la madre stessa, Laura, dopo una lunga tresca col parente Ludovico, fosse stata denunziata al marito e da questi colta in flagrante insieme col cavaliere e con lui uccisa nel Castello di Carini. Finalmente nel 1913 lo stesso Salomone Marino, rimangiandosi la prima versione, si adoperò a dimostrare che non il marito Barone di Carini, ma il padre di Laura, Cesare Lanza, uomo di feroci istinti, pretore della città di Palermo, aveva sorpreso la figlia e l’amante e uccisi entrambi.

Cercò dimostrare anche, con sue argomentazioni discutibili, che lo stesso Cesare Lanza e il vedovo Vincenzo La Grua, avendo interesse a nascondere la realtà dei fatti, facessero dar credito alla voce che l’uccisa fosse una figlia Caterina.., che non era mai esistita! Ma di questo parlerò appresso.

Ora ho qualcosa da dire anch’io, con fatti e documenti inediti passati per le mie mani.

Qualche anno prima della guerra mondiale e cioè fra il 1908 e il 1910, io tenni in parecchie città una conferenza intitolata L’anima siciliana, nella quale, fra l’altro, parlavo abbastanza diffusamente del poemetto sulla Baronessa di Carini, citandone i tratti principali che non mancavano mai di destare la più profonda emozione nel pubblico, fosse esso quello di Roma che quello di Bologna, quello di Tunisi che quello di Trieste. La pronunziai anche all’Istituto di studi internazionali di Parigi, ove ebbi fra i miei ascoltatori la ben nota scrittrice Jéan Dornis, ai secolo Elena Goldsmith-Beer, di origine italiana, appassionata studiosa della nostra letteratura e autrice, fra l’altro di un acuto studio sull’opera dannunziana pubblicato pochi anni or sono. La signora Dornis mostrò interessarsi molto al poemetto della baronessa di Carini e m’invitò a casa sua per ripeterne i versi in un piccolo raduno d’intenditori. Tra vari letterati, romanzieri e giornalisti dei più illustri che conoscevano l’italiano — Anatole France, Giulio Claretie, Paul Margueritte, Ferdinando Brunetière, Edoardo Rod, Abel Hérmant, Paul Adam, il pittore italiano Cappiello, il direttore della Revue des denx Mondes[5] — vi trovai un ospite interessante e inaspettato: il principe di Carini.

Bisogna dire che alcuni lustri dopo la tragedia, nel 1622, la signoria di Carini, da baronia fu elevato a principato e aggiungere che nel 1860 il primogenito discendente di quel casato, ambasciatore del re di Napoli presso l’imperatore dei francesi, per protesta contro l’annessione della Sicilia al regno d’Italia, non tornò più nella sua terra natia da Parigi ove aveva preso moglie e dove a loro volta i suoi figli rimasero, assumendo la cittadinanza francese. Quel principe di Carini che io conobbi in casa della signora Elena Goldsmith-Beer era uno dei due ultimi discendenti di quella famiglia. Egli non parlava l’italiano, ma mi assicurò di saperlo leggere abbastanza correntemente e di intenderlo un poco alla conversazione.

Dopo che ebbi recitato i tratti salienti del poemetto, il principe mi disse di possederne una trascrizione che era stata portata dalla Sicilia — asserì — insieme con poche altre carte antiche di famiglia. Pregato da me, qualche giorno dopo me ne rimise una copia dattiloscritta.

In questa copia riscontrai una quasi perfetta identità con molti punti del testo riportato dal Salomone Marino nella prima edizione del poemetto, tranne qualche aggiunta, qualche variante, qualche inversione e evidenti errori di copiatura. In fine mancava quasi per intero l’episodio del sogno e dei lamenti del padre. Il principe di Carini mi disse di ritenere che quello fosse il testo antico della famosa opera, fatta curare e copiare da un suo antenato — non seppe precisare quale, perchè suo nonno assicurava che, lui bambino, quel manoscritto esisteva già in casa La Grua. Egli riteneva di poterlo assegnare ai principii del secolo XVIII, quando le impressioni di fastidio e di malessere pel ricordo del sinistro evento si erano di molto attenuate presso la famiglia.

Io tenni conto di quel testo altre volte che mi accadde di occuparmi del poemetto ed ebbi occasione di mostrarlo a Luigi Galante che stava per pubblicare in quell’anno il suo saggio[6] e che si mostrò assai soddisfatto di trovarlo assai prossimo alla ricostruzione da lui fattane.

Nel maggio 1914 m’incontrai di nuovo col principe di Carini, a Roma, ove egli soggiornava da qualche mese in qualità di corrispondente del quotidiano parigino Le Matin. Stavolta il principe parlava ormai correttamente la nostra lingua. Mi feci riconoscere da lui e gli ricordai il poemetto che mi aveva donato.

— A proposito — mi disse — sapete che ho letto un libro nuovo (adopero le sue stesse parole) molto imprudente di un letterato siciliano, Salomone-Marino, sulla baronessa di Carini. E’ stato pubblicato pochi mesi or sono. Lo avete letto anche voi?

In verità io da quattro anni vivevo fuori della Sicilia e avevo perduto ogni contatto con gli studii regionali siciliani e con quei compagni miei d’un tempo particolarmente versati in questi studii. Risposi di no; ed allora il discendente dei La Grua Talamanca m’informò della nuova, sciagura… verbale che colpiva il suo tanto bersagliato e discusso casato, e lo fece con un’animazione e uno sdegno che io, alla meglio, mi proverò a riprodurre.

— Quella pubblicazione sostiene arbitrariamente alcune circostanze offensive per la mia famiglia, tanto opportuno mandarmelo qui per mettermene a conoscenza. Io consulterò un avvocato per sentire se non sia il caso di denunziare all’autorità giudiziaria per deformazione di fatti questo signore che promette prove e prove delle enormità che asserisce, mentre poi non ne dà nessuna.

«Credo di avervi già dètto che né io, né i miei di famiglia ci siamo mai curati di approfondire il sinistro dramma di Carini, e l’unica persona con la quale mi si è offerta l’occasione di parlarne siete stato voi. Confusamente abbiamo saputo che una nostra antenata fu uccisa dal padre per contrasti amorosi; ma sapevamo anche che con lei era morta, forse pure uccisa, la madre... e altri. Io ho poi conservato i versi del poemetto che uno di noi — lo sapete già — fece raccogliere e consacrare in uno scritto, soltanto come una curiosità di famiglia, e mi prese la fantasia, dopo avervi sentito in casa Beer, di raccogliere quanto di altro si è venuto pubblicando su questo soggetto, rassegnato al fatto storico e poetico che un nostro antenato fosse stato l’assassino della propria figlia e forse anche del suo amante.

«Il vostro storico siciliano che pure ciò aveva asserito, adesso, però, viene fuori con pretese rivelazioni scandalistiche e strabilianti. Tralascio l’asserzione, sostenuta e magari dimostrata da altri prima di lui, che non la Caterina fu uccisa da Vincenzo La Grua, ma la madre di lei, Laura, dal proprio padre Cesare Lanza: ciò attenuerebbe il disdoro e la... sanguinarietà dei miei ascendenti più diretti, riversandoli piuttosto sui Lanza di Trabia, e di cui io e i miei siamo assai più da lontano toccati. Mi farebbe anzi piacere veder messi la colpa e il delitto a carico loro, anche per la povera Caterina... E’ più grave e insolita la tresca di una ragazza che quella di una moglie, e più consueto e perdonabile l’uxoricidio che il parricidio. Starei, dunque, per la revisione non solo storica, ma anche poetica del fatto. Pure dopo venti o venticinque generazioni, dà un certo fastidio, non vi pare? vedersi guardato come il discendente di un celeberrimo assassino...

«Quel che non mi va giù è un nuovissimo colpo di scena di cui si onora e vanta il Salomone Marino. Il mio avolo, dice lui, d’accordo col suocero Cesare Lanza, diedero artatamente credito alla voce che fosse stata uccisa da Vincenzo La Grua la figlia Caterina, celando la morte di Laura per nascondere l’onta dell’adulterio consumato dalla moglie e per non far sospettare che gli ultimi tre figli, maschi, di casa La Grua-Lanza fossero dei bastardi. C’è di peggio: per avvalorare questa versione, essi avrebbero falsificato in parte, in parte distrutto, documenti familiari; e in ultimo siccome una figlia Caterina non esisteva —essi si sarebbero fatta cedere dalla famiglia dell’amante di Laura, Vernagallo, un’autentica Caterina, sorella dell’ucciso, per inserirla nella famiglia La Grua.

«Quale odioso imbecille sarebbe, dunque, quel Vincenzo La Grua, che — dai documenti storici citati anche dallo stesso Salomone Marino e dal dire dei cronisti del tempo — appare invece fastoso, attivo, consolidatore e accrescitore delle ricchezze, del potere e della nobiltà della sua casa, e quindi intelligente, a lasciar propalare la voce e a dare la falsa documentazione di un delitto non da lui commesso? E’ ammissibile che il segreto mantenuto e magari imposto sul fattaccio ne abbia agevolato involontariamente la deformazione e la propalazione sotto la forma per lui più nociva; ma che egli ci si mettesse di proposito a credere è innaturale e assurdo. Che i tigli maschi potessero esser ritenuti bastardi, non dipendeva da quel che lui all’ultimo momento avrebbe architettato. Laura era stata ammazzata, dal marito o dal padre, col Vernagallo, e lo sapevano per lo meno i servi del castello che avevano assistito alla tragedia, gli sgherri che vi avevano partecipato, il becchino che aveva sepolto i due cadaveri, il prete che aveva fatto dare loro sepoltura e aveva scritto i loro atti di morte ancora oggi leggibili: un minimo di dieci o dodici persone, di cui almeno tre o quattro se lo saranno lasciato sfuggire tra parenti o amici, i quali a loro volta l’avranno propalato. Un cronista contemporaneo ne accennò nella sua cronaca, senza precisare, è vero; ma credete voi che subito non si parlasse in tutta la Sicilia della baronessa di Carini morta in circostanze così terribili? E non si sapesse perchè? E non si potessero da centinaia di persone stabilire le probabilità se i figli fossero o no adulterini? Che sciocco e inutile pasticcio quello dei La Grua-Lanza, mentre nessun documento dimostra che i tre figli minori non fossero stati in nessun momento trattati come si trattavano tutti i figli case signorili!

«Il pasticcio più grosso, poi, rimane quello della sostituzione di persona. Per darla a bere a chi il barone di Carini e il barone Cesare Lanza, dai Vernagallo, ai quali hanno assassinato un figlio, il cui cadavere ancora caldo, si può dire, grida vendetta, si fanno cedere la figlia diciassettenne Caterina, per presentarla come figlia primogenita o secondogenita dello stesso Vincenzo La Grua e della giustiziata Laura Lanza? I Vernagallo non erano tipi da adattarsi a una simile inumana soperchieria: lo dimostra il fatto che avevano sempre tenuto testa ai La Grua e che anche anni dopo ebbero ragione su di loro in affari e liti. I documenti, così cari al Salomone Marino, parlano chiaro. Ma pure se essi si fossero piegati a simile delittuoso sopruso, i familiari, i congiunti, gli amici, i conoscenti, i palermitani, i siciliani tutti erano nel 1563 così tonti da rassegnarsi ad avere ignorato per diciassette anni l’esistenza di una Caterina La Grua e cioè di una componente di una famiglia tra le più illustri e le più in evidenza del regno — e a vedere sparire una Caterina dalla casa Vernagallo, famiglia anch’essa notissima? E’ un gioco di bussolotti che nemmeno nel secolo XVI poteva illudere i gonzi. E poi, di questa Caterina Vernagallo viva che deve rappresentare la parte di una repentina Caterina La Grua mai nata e improvvisamente morta ammazzata al posto della madre, in fin dei conti che cosa ne hanno fatto? L’hanno pure uccisa? L’hanno polverizzata? E lei, sua madre, suo padre, i fratelli, le sorelle, i congiunti, i palermitani, i siciliani, il capitano di giustizia, i birri, il viceré, il re, il papa, hanno chiuso gli occhi sul sacrificio di questa nuova Ifigenia, immolata all’onorabilità così sfacciatamente disonorata di casa La Grua-Lanza? E infine la baronessa Laura, morta e sotterrata il 4 dicembre 1563 secondo l’attesta il registro della parrocchia di Carini, come può essere data per morta invece, secondo un documento falsificato dell’archivio La Grua, nel marzo 1564, anzi — inaudito! — presentata ai terrazzani di Carini —che la conoscevano intus et incute perché vissuta per anni tra loro — nella persona della seconda moglie, in occasione di una festa al castello il 28 aprile 1564? E se invece fosse falso o errato nel nome l’atto di morte della parrocchia?


http://www.ricaeventi.com/Baronessa_di_Carini.jpg
Immagine tratta dal sito http://www.ricaeventi.com/

«Tutto ciò è così puerilmente ridicolo da far pensare che il professore Salomone Marino ritenga non solo i siciliani del secolo XVI ma anche i suoi lettori una massa di idioti, oppure che, giunto a tarda età, la mente gli si sia indebolita al punto di perdere ogni facoltà autocritica. La verità è una sola: il 4 dicembre 1563 una tragedia avvenne nel castello di Carini, una dama della famiglia vi fu uccisa dal padre. Le circostanze e le cause restano e resteranno sempre ignorate, e la leggenda avrà sempre più ragione della pretesa storia».

Il principe di Carini qualche settimana dopo venne in Sicilia a visitarvi quei pochi beni che ancora gli rimanevano, da anni affidati ad amministratori; andò al castello, come mi fu confermato nel 1929 dal vecchio custode, lo percorse da cima a fondo, si fermò dinanzi alla soglia murata della stanza dell’uccisione, sull’architrave della quale si legge: et nova sint omnia, e ripartì la stessa sera. Scoppiata la guerra egli fu richiamato: da ufficiale di cavalleria prese parte a parecchie azioni sul fronte delle Ardenne e nel 1915 restò ucciso. Con lui si estinse il ramo primogenito dei La Grua Talamanca signori di Carini, e il titolo e i beni sono rimasti al fratello Francesco.

IL POEMETTO

Io non ebbi più occasione d’interessarmi in modo particolare alla storia, alla leggenda e alla poesia della baronessa fino al 1940, anno in cui ricevetti l’invito di farne argomento di una lezione al Corso lnteruniversitario dell’Ateneo di Palermo. Avevo, sì, rielaborato la mia conferenza giovanile su L’anima siciliana, ampliandone alcuni tratti, sopprimendone altri, aggiungendovi spunti nuovi, giovandomi di alcune varianti del poemetto per modificare anche il tratto in cui ne parlavo, e sotto altro titolo l’avevo fatta sentire a Parigi, alla Sorbonne nel 1929, a Napoli nel ‘30, a Milano nel ‘32, a Trieste nel ‘34.

Ma quando si trattò di dovermi occupare singolarmente di La barunissa di Carini, sentii la necessità di rituffarmi nell’argomento e studiare quanto d’altro se n’era scritto dal 1910 in poi.

Fu solo allora che presi conoscenza diretta dei nuovi studii di Salvatore Salomone Marino e trovai quel che non avevo supposto dalla conversazione col principe, e cioè che anche il testo del poemetto era di sana pianta un altro.

Confesso che, sulle prime, l’autorevole giovane esegeta del 1870 divenuto nel 1913 il vecchio divoratore di non so quanti personaggi e di se stesso, ebbe l’abilità... d’indignarmi.

Dichiaro che non intendo in nessun modo ingerirmi nella decifrazione del Caso, del fatto di cronaca svoltosi fra i signori La Grua, Lanza e Vernagallo nell’anno di grazia 1563, tra Palermo e Carini, perchè esso non ha nessun valore nell’esame estetico dell’opera di poesia di cui mi occupo, quanto non ha nessun valore la verità dell’assedio di Troia rispetto all’Iliade, la verità delle origini di Roma rispetto all’Eneide, la verità del marcio di Danimarca rispetto all’Amleto. Ma se una versione dovessi preferire come la più veritiera, non sarebbe altra che quella accennata dal principe di Carini, che ho sentito ripetere con le mie orecchie — e con me molti altri — da vecchi familiari di casa La Grua in Sicilia e dal Salomone Marino forse non udita o volutamente rigettata, infatuato come era della propria[7].

Non voglio neppure discutere lo sviscerato amor per la verità che condusse le ricerche e dettò gli ultimi scritti dell’egregio demopsicologo, anche se il risultato si riduce a una specie di romanzo d’appendice alla Ponson du Terrail o alla Zévaco; ma a mio vedere il torto del Salomone Marino è quello di aver rifatto il poemetto sulla base di varianti che nessuno, e lui stesso prima, non aveva mai udito fino al 1913, che starebbero bensì a sorreggere la sua nuova tesi, ma che deturpano gravemente nella forma l’opera d’arte

Io penso, ripeto, e prima di me i maggiori luminari della critica hanno attestato che la fedeltà della narrazione di un fatto sia necessaria sempre quando noi compiliamo cronaca o storia, che la genuinità di un particolare o di un racconto giovi alla conoscenza storica di un avvenimento; ma che questa fedeltà e genuinità non abbiano il diritto di menomare un’opera d’arte nella sua inviolabile bellezza. Torquato Tasso, — com’è noto — scosso nel cervello dalle critiche de suoi nemici che lo accusavano di avere falsato la storia e offeso la religione con la Gerusalemme Liberata, ritornò su sé stesso e volle fare opera più ortodossa con la Conquistata. La Conquistata è pesante e noiosa e non la legge nessuno; la Liberata rimane un capolavoro contro la realtà storica e contro l’intolleranza della chiesa.

Il prof. Salomone Marino, colpito da certe critiche che, dal lato storico, erano state mosse alle due prime edizioni del suo studio su La Barunissa di Carini (1870 e 1873), volle fare anche lui la sua Conquistata, ma andò troppo oltre, coinvolgendo nelle sue primitive manchevolezze di storiografo, la sua abilità di ricercatore letterario. Da folklorista toccato nel vivo, egli si adoperò a far rifulgere la sua bravura tecnica più che il suo buon gusto, trascurò l’arte per un malinteso amore della storia e volle mettere la poesia al servizio della verità con una inesorabilità fuori luogo di cui nessuno, né i critici, né gli storici, né gli amatori della poesia gli possono essere grati.

Salvatore Salomone Marino affermò nel 1870 di avere raccolto il poema della Baronessa di Carini dalla viva voce di un cantastorie carinese di nome Giuseppe Gargagliano; anche il Passalacqua e il Buffa Armetta asseriscono di averlo udito nella loro giovinezza dallo stesso vecchio troviero contadino, ed io posso conferma e che lo udirono anche mio padre e mia madre neI 1880 o ‘81, trovandosi a villeggiare nella località chiamata La Grazia di Carini, presso il dott. Giovanni Bruno, medico condotto, che anni dopo doveva tenermi a battesimo. Nella mia infanzia, fra le storie e le fiabe che mia madre mi raccontava, in prosa e in versi, c’erano anche le strofe del poemetto siciliano sulla baronessa, che lasciarono un’orma profonda nella mia fantasia.

Io non posso dire se il Gargagliano, dotato di memoria prodigiosa, come assicura anche il Buffa Armetta nel suo tutt’altro che trascurabile volume su Carini, ripetesse il poema quale lo aveva appreso dalla bocca di un aedo suo predecessore o se vi portasse delle modificazioni ispirategli dal gusto personale: ma certo quella da lui data e dal Salomone Marino raccolta nel 1870 è lezione di gran lunga più pregevole dal punto di vista puramente artistico di quella poi data come la più veridica nel 1913, perchè più corretta nello stile, nell’espressione e perfino nella metrica.

Non solo: ma essa rispecchia fedelmente i brani di trascrizioni più antiche che troviamo nel Villabianca fin dal 1780 circa, nella belliniana Funesta chi lucive... anteriore al 1835 e in quella forse anteriore a tutte di cui il principe di Carini diede a me copia.

Non c’è stato critico o lettore che non abbia esplicitamente dichiarato di preferirla a quella del 1913 di cui Salomone Marino vuol fare sì gran conto, tranne qualche demopsicologhetto che giura in verba magistri e che si fa stampelle dell’autorità del defunto professore.

In verità non dovrebbe essere difficile giudicare, a parte la realtà storica — di cui, del resto, nel caso presente, non si hanno neppure prove definitive — che, tra le due lezioni, quella offerta in un secondo tempo dal Salomone Marino come la più attendibile, è artisticamente da scartare senza remissione, da cima a fondo. Ove scialba, ove rozza, sempre goffa e stentata, ha appena qualche baleno nei pochissimi versi, nella rare immagini che il Salomone Marino le ha conservato della prima stesura. Non a un vero poeta, né alla stessa musa popolaresca così geniale in tante immortali sue espressioni essa può essere attribuita, ma a grossolani cantastorie da Caso di Beppo e Rosina. La verseggiatura zoppica come un rozzone arrembato e s’infiora di strafalcioni metrici di questa fatta:

e ci fa battiri la stissa mota
………………………………………
cu stiddi d’ora e scocchi di rosa
……………………………………….
la rosa sfogghia e resta la spina
……………………………………….
‘Na grazia cheju, patri e signuri,
………………………………………..
lu gran mari sicca e assurgi lu funnu
………………………………………….
fammi sta grazia chi ti dumannu
…………………………………………
gran guai ci sunna e lu tempu è curtu
……………………………………………
la sangu grida vinnutta e murti
…………………………………………..
e nautru Spirdu, senza riventu:

—— Pirduta si’!... Turmentu! Tarmentu! ecc. ecc.

che pretenderebbero passare per endecasillabi. Ma citiamo, per dare un’idea più completa della deficienza dell’edizione 1913, qualche strofe per intero, la prima, per esempio:

Chianci Palermu, chianci Siragusa,
chianci Carini lu amara casu
chi fa petra di l’aria dulusa,
fu dragunara arbolica, marvasa.
A cuntalla, la storia rispittusa,
lu cori abbunna e lu sangu stravasa;
ca di tirruri la menti cunfusa,
e a cu’ la senti resta l’arma ‘nvasa;
e resta un gruppu e resta ‘na rancura:
comu si persi ‘sta bella Signura!
Stidda lucenti, com’appi sta fini?
Povira barunissa di Carini.

Immediatamente il prof. Salomone Marino ci vuole immettere nell’atmosfera psicologica della sua realtà; ma siccome quella realtà gli costò parecchi decenni di sforzi per non riuscire neppure convincente, così anche la psicologia, l’espressione e i versi sono tirati coi denti. Dulusa non si capisce se stia per dolorosa o per dolosa; ma ad ogni modo in siciliano non esiste. Arbolico idem: non sappiamo che cosa significhi (forse per «diabolica?») e non l’abbiamo trovata né nei glossari né nel linguaggio parlato. Marvasa idem: non può stare per malvagia, a meno che non sia termine di qualche provincia o di qualche località che non fa testo in arte, poi, condizione essenziale della efficacia è la nitidezza della terminologia, che si ottiene con l’impiego di parole generalmente cognite. Dragunara arbolica marvasa suona all’osecchio come un’insegna da erborista, e dove dovrebbe impressionare drammaticamente desta invece l’ilarità. Tutto il resto delle strofe è un acciottolio di parole banali: paragonarla con quella corrispondente delle edizioni antiche e della presente.

Prendiamone un’altra, a caso:

Bon sagristano chi stai a la Cura,
chi sipillisti a ‘sta disgraziata,
e tu accordamilla un quartu d’ura
quanto la vju a ‘sta signura amata
chi si scontava di durmiri sula
e or’è cu tanti morti, scunsulata!

Quel «bon sagristano chi stai a la Cura» dovrebbe servire da documento al professore; ma è buffo.

Nessuno dice, parlando a una persona che sta nel dato luogo dove si va a trovarla, per esempio: «buon portiere che stai in portineria» o: «egregio medico che state nell’ambulatorio» o: «gentile professore, che state alla scuola», perchè ognuno di costoro lo sa, dove sta, e il sacrestano sapeva che stava alla Curia, dove Vernagallo era andato a trovarlo. Noi non lo sapevamo, ecco tutto, e il prof. Salomone Marino teneva a farcelo sapere per confermare una delle sue fatiche storiche.

La povera morta, in bocca all’amante, è «disgraziata», «signura amata» e «scunsulata» in appena cinque versi. Nella strofe bellissima che Salomone Marino ripudiò per sostituirla con questo mostricciattolo, l’amante invece non è nominata, non è indicata con aggettivi così flosci e disadatti, ma col semplice pronome, e l’efficacia ne risulta somma.

E questa, e tutto il resto del poemetto fatto di consimile ruminio, sarebbe, secondo il Salomone Marino nella sua lunghissima prefazione del 1913, «sublime, inarrivabile poesia che, tra le congeneri, come sole fra gli astri minori, spande su tutte luce e calore e armonia e vita... »!!...

Per fortuna, a parziale sua scusa, si può citare un’altra frase, immediatamente precedente, che ci spiega lo stato d’animo del Salomone Marino: «...ora che la consegno al pubblico con le ultime cure, mi accorgo che sono al declino del mio giorno, che all’entusiasmo è subentrato il disgusto, alla fede lo scetticismo».

Preziosa, per quanto ingenua confessione: il suo scetticismo giustifica quello del lettore, il suo disgusto attenua il nostro.

E adesso sia reso il dovuto onore a Salvatore Salomone Marino del 1870-73!

A lui, alla sua fede, al suo entusiasmo di giovane si deve la prima trascrizione completa e pubblicata del poemetto, generalmente riconosciuto come la gemma più preziosa della poesia siciliana. Fu lui che lo raccolse e lo divulgò, senza eccessive preoccupazioni storiche e documentarie; fu lui per primo ad agire da poeta, più che da demopsicologo.

Sull’autore del poemetto nessuno finora ha potuto dimostrare qualcosa di preciso. Io dico soltanto che è assurdo fermarsi all’ipotesi che questa poesia sia nata dal popolo, che abbia un’origine corale: è troppo evidente dalla sostenutezza di certe similitudini, dalla raffinatezza di alcune immagini, dalla squisitezza di molti versi, che ci troviamo di fronte a un’opera nata letteraria.

E’ assai probabile che il popolo sin dall’origine se ne sia impadronito e che di secolo in secolo, passando di bocca in bocca, brani del canto primitivo siano stati sostituiti con brani di altre poesie, più antiche o meno, che altri brani vi siano stati aggiunti; nessun tratto però sa del barocco del seicento, né dell’arcadia del settecento, né del retorico romanticismo di molta poesia dell’ottocento.

L’autore fu certo un contemporaneo del fatto e probabilmente un beneficato della baronessa di Carini, Laura o Caterina che fosse, al quale non fu possibile pubblicare o divulgare sotto il proprio nome l’ispirato sirventese d’amore e d’orrore. Il Salomone Marino in un primo tempo affacciò l’ipotesi che un poeta di second’ordine della seconda metà del 500, Matteo Ganci, potesse essere la persona grata alla memoria della baronessa, perchè si era trovato che, professando egli l’ufficio di notaio, aveva servito la famiglia La Grua Talamanca. Luigi Galante con semplici induzioni persistette su questa traccia, che io trovai plausibile; ma dopo essermi provato a fare le più minute ricerche, confesso di non averne ricavato un solido costrutto.

Dato e non concesso che si potesse dar credito al sospetto che fossero stati i La Grua e i Lanza a far correre la voce falsa della morte di Caterina invece che di Laura, si potrebbe sostenere che essi stessi avessero sollecitato e magari comprato un ottimo poeta per costruire in quel senso un canto a carattere popolaresco...

G. A. Cesareo, negli ultimi anni del suo insegnamento all’Università di Palermo, espresse ad alcuni allievi l’opinione, che si riservò di avvalorare con prove di fatto, che la paternità del poemetto fosse da attribuire ad Antonio Veneziano, il poeta che — riferito a quel tempo — su tutti gli altri «come aquila vola». E il Cesareo citava immagini e versi del Veneziano che forse trovano qualche rispondenza nel poemetto. Ma a me pare che l’arte di cotale poeta, levigata, rigidamente armonica ed elegante, non di rado perfetta nello stile quanto quella dei migliori lirici italiani del secolo, non dia adito alle arditezze formali, all’appassionata irruenza e alla forza drammatica che s’incontrano nelle anonime strofe. Qui siamo di fronte, mi pare, a un poeta non popolare, come ho detto, né incolto, che forse conosceva anche i classici, come allora era comune fra quanti sapevan di lettere, ma più libero dai ceppi retorici dell’epoca che preludeva al barocco, e d’un non comune vigore immaginativo ed emotivo, e di una spontaneità quali s’incontrano soltanto negli artisti più originali. Io trovò che l’ignoto poeta della baronessa di Carini ha accenti mai sentiti prima di lui e che soltanto — in misura senza dubbio assai meno vasta, ma non meno intensa — ricordano la Bibbia, i classici e Dante, e anticipano di parecchi anni la particolare potenza espressiva del più grande rappresentatore delle passioni umane: Guglielmo Shakespeare.

Quando io mi assunsi il compito, che sulle prime mi parve lieve, di riordinare il testo del poemetto, volli vagliare tutte le versioni. Naturalmente l’ultimo testo del Salomone Marino del 1913 (ripubblicato dagli eredi, con poca fortuna, nel 1926) l’avevo messo da parte fin dalla prima lettura. Pure, volli cacciarmi nel labirinto storico e documentario.

Per mesi e mesi compulsai testi, frugai biblioteche ed archivi, respirai polvere. Vissi tra i personaggi; ma sentii che quelli storici erano irrimediabilmente morti, divenuti cenere, e abbandonai disgustato e deluso il loro cimitero. Quelli della leggenda, invece, rimasero vivi, si fecero di giorno in giorno più vivi a collaborare alla mia fatica, mi trasmisero le gioie e il dolore della loro vita, il raccapriccio della loro catastrofe, viva anch’essa — mi parve — e immortale nel canto che udivo giungermi anche dalle loro invisibili tombe.

E non esitai più a raccogliere le sparse rapsodie, ricostituirle su tracce che altri prima di me aveva segnato, a scegliere nel mucchio arruffato i fiori ancora fragranti.

Mi giovai in parte della versione, chiamiamola così, Gargagliano, e specialmente di quella curata dal Galante, così vicina in molli punti alla stesura antica apprestatami dal principe di Carini; ho preferito qua là alcune varianti trovate in quest’ultima e altre raccolte direttamente.

Confesso di essermi preoccupato meno di scegliere e adattare tratti da qualcuno garentiti come i più antichi, anzi, secondo il Salomone Marino, il Pìtrè e il Natoli, come gli originari di un poemetto anteriore al fatto di Carini e trattanti un argomento similare; ma posso asserire che ben poco può essermi sfuggito di quanto si è scritto, detto o cantato sull’argomento, che ho raccolto più varianti di chicchessia, sì mettendo insieme quelle trascritte dai miei predecessori, che trovandone direttamente altre ignote ai più e giovandomi del lavoro di mio padre. Spiegherò che mio padre nella sua giovinezza fu attore drammatico e come tale fu il primo a far sentire dal palcoscenico a pubblici siciliani eletti la poesia — piena e varia di effetti qua idilliaci, là tragici e là elegiaci — del Caso, in un testo che aveva composto servendosi di quello del Salomone Marino del 1870, con varianti, tagli e aggiunte suggeritegli dalla tradizione orale, da lui studiata non da demopsicologo — quale non pretendeva essere — ma da uomo di buon gusto e da cultore dell’arte.

Nemmeno io sono un demopsicologo del tipo di quelli che si compiacciono di distruggere documenti vivi, quanto non sono un sezionatore di cadaveri; e trovo detestabile chi tiene in gran conto l’anatomia e l’autopsia dell’anima del popolo. L’anima del popolo è una cosa viva, e la sua bellezza sta nella vita, nel sentimento — che è immortale[8].

Mia principale mira è stata, nel non lieve lavoro di ripresentare il poemetto su la baronessa di Carini, la espressione più perfetta o più vicina alla perfezione e alla compiutezza estetica, col trovare anche l’ordine esatto della successione dei vari episodi e delle strofe (lavoro in cui prima di me si era provato con impegno e sovente con felici risultati il Galante), pure con qualche lacuna che non ho potuto colmare con elementi autentici e che quindi ho rispettato: così ho inteso portare il poemetto a una forma definitiva. Spero esserci riuscito.



Ho voluto accompagnare il testo siciliano con una mia traduzione quasi letterale in italiano, non per tentare di uguagliare l’originale, ma per rendere più agevole e più rapida al lettore non siciliano la comprensione del bellissimo canto e permettergli dopo alcune letture di intenderlo e gustarlo direttamente.

Ho dovuto qua e là sacrificare la rima e in due o tre punti perfino l’assonanza, ciò che diminuisce maggiormente il fascino della melodia nativa; ma questa musicalità mi sono ingegnato a conservare quanto più possibile nel verso, col mantenergli spesso gli accenti e la cadenza dell’originale. Purtroppo la musica della lingua italiana è diversa da quella della siciliana; e qualunque traduzione da qualunque lingua non può mai rendere l’originaria bellezza, fatta sopratutto di suono e di tipicità espressiva.

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
dell’aer puro...



sono versi che non possono essere quelli che sono se non in italiano, come i versi:

‘Ncarnaledda colava la chiaria
supra la schina d’Ustica a lu mari, ecc.

non possono esistere che in siciliano.

Ottobre 1942

F. d. M.


[1] Michele Amari, Storia dei Mussulmani in Sicilia, 3°. Al momento di licenziare alle stampe il presente volume, il mio amico Calogero Di Mino, uno dei più sodi maestri di cultura siciliana, mi comunica un suo saggio in cui ha sostenuto i miei stessi punti di vista.

[2] Vedi: Sui canti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè, Palermo, 1868 e, genericamente indicando la Sicilia come fonte della massima parte dei canti regionali, in Poesia popolare italiana di Alessandro D’Ancona, pag. 323-324.

[3] Vedi i suoi Opuscoli palermitani, vol. XXXII – 16, manoscritto della Biblioteca Comunale di Palermo.

[4] Letterati e critici italiani del tempo sinteressarono alla pubblicazione, tra cui ricordiamo Alessandro D’Ancona, Angelo De Gubernatis e Giacomo Zanella che chiamò quella poesia e piena di bellezze d’ordine superiore 5.

[5] Benchè io, giovinotto, trepidassi alquanto dinanzi a tante personalità, tanto più pel dubbio che potessero capire il siciliano, pure riuscii a impressionarle... forse col colorito della mia recitazione. Brunetière, però, dovette intender abbastanza bene, per le osservazioni minuziose e finissime che mi fece. Quanto a Rod, ne cavò lo spunto per un articolo sul Figaro.

[6] Luigi Galante: Un poemetto siciliano del Cinquecento, con note e frammenti inediti. Catania, Casa ed. Battiato, 1999.

[7] Che la tragedia dei 4 dicembre 1563 fesse più grave dell’uccisione di una moglie adultera e del suo ganzo, dovrebbe essere dimostrato dalla ripercussione vasta e duratura che ebbe. Storici, poeti e popolo la tramandarono. pur senza chiarirla nei particolari. Che di Caterina non si trovi registrata la morte, non è una prova negativa: essa fu sepolta di notte e clandestinamente, forse da mani pietose. La madre morì, forse pure uccisa, insieme con lei forse, o poco dono di lei. Un Vernagallo fu ucciso e sepolto la stessa notte; un altro Vernagallo lasciò la Sicilia per farsi monaco. Tutto ciò è sicuro. Che di Caterina non si trovi nemmeno l’atto di battesimo, non conta: di tanti altri della stessa famiglia e di mille altre non se ne trovano nemmeno, ma essa figura su un albero genealogico posteriore di molto alla sua morte, che non ha motivo di essere apocrifo, mentre tale può essere quello in cui non figura.

[8] Ben a ragione, mi pare, Giovanni Gentile in Il tramonto della cultura siciliana rilevò che la critica e la negazione di un documento vivo, anche se contrario alla realtà storica, per sostituirlo con un documento morto e meno popolare che vuole a ogni costo riconoscere come il più rispondente alla realtà storica, è un mettersi «contro alla vita del popolo.. alla poesia più appassionata che sia mai scaturita dall’anim popolare».

Dal sito http://web.tiscali.it/fdemaria-wolit/index.html

Tomás de Torquemada
13-03-03, 02:03
Il Castello di Carini

Il Castello di Carini, edificio che racchiude in se quanto meglio può restare dell'arte arabo-normanna, del '400 e del '500 catalano e rinascimentale e del '700, e' oggi in avanzata fase di restauro; posto su di una rupe a 170 metri circa sul livello del mare, e' sorto per volere di Rodolfo Bonello il normanno, fra il 1075 ed il 1090, ma la struttura definitiva si e' avuta alla fine del secolo XVI.

Ad una prima elaborazione araba ne seguì una seconda svevo-normanna che preparò l'assetto definitivo nel perfetto stile rinascimentale. Il primo vero restauro si ebbe al tempo di Vincenzo II La Grua.

Lo documentano: -
la data 1562 incisa nello stemma marmoreo dei La Grua che segna il compimento di un intervento edilizio nel castello (Gioacchino Lanza Tommasi "Castelli e Monasteri Siciliani" pag.7);
-la scritta "RECEDANT VETERA" riportata sulla trabeazione della porta che immetteva nella stanza della baronessa Laura; -e la scritta "ET NOVA SINT OMNIA" sul portale di ingresso alla foresteria.

Ci sono diverse tesi sul significato della frase "ET NOVA SINT OMNIA"; secondo la tesi di Gioacchino Lanza Tommasi, la frase assumerebbe un significato di rinnovamento culturale in campo sociale ed architettonico, incisa prima che avvenisse "l'eccidio della baronessa"; secondo la tesi di Don Vincenzo Badalamenti, tale scritta e' posteriore all'eccidio della baronessa e che il barone Vincenzo La Grua avrebbe preteso "la cancellazione di ogni presenza che potesse rimanere legata al ricordo della moglie infedele."

Ultimo restauro si ebbe verso la fine del '700, quando era Principe di Carini Vincenzo IV La Grua ed Arciprete Don Carlo Ballerini, suo amico e collaboratore.

Si accede al Castello per due grandi porte risalenti al XII secolo: la prima posta di fronte la Chiesa di S. Vincenzo, con arco a sesto acuto; da questa si accede alla seconda, che rappresenta la vera porta del Castello, tramite una rampa semicircolare pavimentata con ciottoli. In questa ultima si possono ammirare lo stemma che porta le armi dei La Grua e dei Talamanca, che sono rispettivamente la gru ed il leone rampante sulle onde disposte a scalinata.

All'interno, attraverso un atrio quattrocentesco, si evidenzia la parete principale con la scalinata a sinistra, anche essa del '400, con i bellissimi portali della Foresteria e del Salone delle Feste, con le due grandi finestre e con il doppio arco classico a destra che immette nella Cappella.

A sinistra si notano varie porticine che immettono nelle stanze riservate alla servitù, alle scuderie ed una fontanella con puttino di marmo a muro. A destra due scalette, attraverso un corridoio stretto, portano una nel bastione e l'altra nelle torri esterne.

Particolare menzione merita il piano terra in cui si trovano la Cappella e la Biblioteca. La prima, almeno nel suo restauro più recente, risale al 1690. Il portale e' cinquecentesco ma privo di fregi; sulla porta c'e' un coretto da cui i Signori del Castello partecipavano alle Sacre Liturgie. L'altare e' in legno ed e' sormontato da una piccola statua in marmo dell'Immacolata con fregi d'oro realizzata dal Mancino nel 1509.

A sinistra si trova la Biblioteca; doveva essere una grande stanza adorna di una ricca pinacoteca e contenente migliaia di libri rilegati in carta pecora, di cui oggi ne rimangono poco meno di un migliaio.

Dalla bella scalinata si arriva al primo piano, a cui si può accedere, tramite due porte: la prima introduce nell'appartamento per ospiti (nel vestibolo si può notare la volta tutta elaborata in archi incavati formanti un disegno bellissimo, esemplare unico dell'arte ispano-catalano del '400) e la seconda immette nel Salone delle Feste, maestoso nella sua linea rinascimentale.

Le pareti una volta dovevano essere ornate di pitture e quadri, mentre la volta e' tutta un ricamo, divisa da tre architravi, in tre parti dove in quella centrale e' ripetuta l'espressione "IN MEDIO CONSISTIT VIRTUS" e nelle due laterali sono disposti gli stemmi delle due famiglie. Questa volta ricorda la Cappella Palatina in Palermo e la Cattedrale di Monreale.

Dalla porta laterale sinistra si entra nella stanza tanto cara alla Baronessa di Carini poiché‚ luogo degli incontri con l'amato. Proseguendo sulla destra si accede alla stanza riservata alla Baronessa e da quest'ultima al bastione che domina tutta la pianura di Carini. Attraverso una scaletta si arriva alle torri merlate, di cui una sola conserva il vecchio stile, poiché l'altra, quella campanaria, e' stata rifatta nel 1930 a causa di un fulmine che l'aveva distrutta.


http://www.sicilyontour.com/images/castello_carini_3.jpg
Immagine tratta dal sito http://www.sicilyontour.com/

Il sotterraneo, che non si può ricostruire nei dettagli, e' distribuito in vari settori, prigioni, cucine, dispense, lavatoi, ecc.

Il 4 dicembre 1999, il dott. Salvino Leone, uno degli attuali eredi La Grua, ha graziosamente donato al Castello, l'Horus egizio, la Madonna del Mancino che era posta nella Chiesa del Castello, il Puttino della fontana del cortile ed alcuni libri facenti parte della Biblioteca. In attesa di restauro, sono attualmente esposti nella Chiesa Madre, ultima cappella della navata di sinistra.


Laura Lanza, baronessa di Carini

Da quando, sul finire del secolo XVI, il poemetto "LA BARUNESSA DI CARINI", di ignoto autore, vide la luce, scrittori, critici, poeti, musicisti e registi si sono ispirati "all'amaro caso" per ricordare la fine di una delicata creatura che, nella sua giovane vita circondata da tanto amore fu poi stroncata così tragicamente.

Il poemetto parla di una donna uccisa dal padre per salvare l'onore della famiglia ma, per libera interpretazione, molti pensarono ad una donna uccisa dal marito. Studi più recenti hanno dato piena luce al fatto.

E' importante una pubblicazione del prof. A. Pagliaro che accenna a tre documenti di protocollo dai quali risulta che il Vicere' di Sicilia, all'epoca informa la Corte di Spagna che il Barone Cesare Lanza aveva ucciso la figlia Laura ed il Vernagallo e che l'avvocato Grimaldi ne aveva occultato il fatto.

Questo documento costituisce un elemento sicuro che avvalora l'atto di morte della Baronessa, redatto il 4 dicembre 1563 e che si conserva nell'archivio della Chiesa Madre di Carini. Quindi, contro ogni interpretazione si rileva che Cesare Lanza di Trabia, connivente e complice con il genero, uccise per leso onore della famiglia, la figlia Laura, moglie di Vincenzo II La Grua ed anche se non di propria mano, lo stesso Ludovico Vernagallo (quest'ultimo fu ucciso da uno sgerro di Vincenzo La Grua, tale Francesco Musso). Troviamo infatti nel registro della Parrocchia, gli atti di morte della Baronessa e del suo amante, ucciso lo stesso giorno e scritti nella stessa pagina.

Il Barone Vincenzo II La Grua, il 4 maggio del 1565 convola a nuove nozze con Ninfa Ruiz e rinnova alcune parti del Castello che potevano ricordare la Baronessa di Carini. Intanto il Barone Cesare Lanza, forte delle sue influenze presso la corte di Spagna, riesce a far archiviare il caso, mentre il popolo terrorizzato e' obbligato al silenzio.

Il perché di questo orrendo delitto e' inconcepibile, Laura era una donna di grandi virtù e di grande fascino, ed il popolo l'aveva come un angelo. Fin dalla sua prima infanzia ebbe modo di frequentare sia i La Grua che i Vernagallo, con i cui figli frequentò scuole di musica, danza e canto. Sorse tra loro una grande amicizia alimentata da incontri, battute di caccia, ricevimenti ed altro. Ad un certo punto subentrò l'interesse delle famiglie.

Laura era una ragazza che poteva dar lustro sia ai La Grua - Talamanca che ai Vernagallo, ma i La Grua bruciano i tempi la chiedono in sposa per il figlio Vincenzo. All'età' di quattordici anni, il 21 dicembre 1543 viene celebrato il matrimonio.

Non era possibile farsi precedere dai Vernagallo, anche se era nota a tutti la grande tenerezza di Laura per Ludovico. Tuttavia il fatto, almeno in apparenza, non turbò l'amicizia fra le famiglie. Infatti, nonostante tutto, Ludovico era considerato come uno di famiglia.

A poco a poco però, gelosie e vecchi rancori emersero fra i La Grua, Lanza e Vernagallo, ed ecco le insinuazioni, le calunnie ed infine il tragico evento.

Nessun documento esiste nell'archivio di famiglia o nella tradizione del popolo che possa offuscare la nobiltà della figura della Baronessa di Carini. La sua era stata un'amicizia che nulla aveva avuto di lussurioso o di cattivo, e quanto si dice degli otto figli di Laura che avrebbero avuto per padre Ludovico Vernagallo, e' pura fantasia.

Purtroppo la fantasia di coloro che in seguito si sono ispirati all'evento, presentarono i fatti sotto molteplici aspetti. Il vero studioso e' stato Salvatore Marino il quale, nella prima edizione del 1871, raccolse la recita del contadino cantastorie carinese, Giuseppe Gargagliano. Ma nel 1872 lo stesso Marino presentava una seconda edizione ritoccando fatti poeticamente importanti, della prima. Nel 1913, infine, presentava il poemetto in una edizione che lui stesso chiama storica.

Memoriale presentato da Cesare Lanza al Re di Spagna per discolparsi del delitto della figlia Laura

Sacra Catholica Real Maestà,
don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini suo genero molto alterato perché avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno li detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoy ammazzati

Don Cesare Lanza conte di Mussomeli

Dal sito http://web.tiscali.it/no-redirect-tiscali/engiamb/monumenti/monumenti.htm

Tomás de Torquemada
07-08-08, 23:13
L' amaro caso della baronessa triste
di Giuseppe Bonaviri - Da "Corriere della Sera" del 9 agosto 2004

Laura era giovanissima, dolce e bella come un angelo. Quando morì, la notizia della sua tragica fine si diffuse in tutta la Sicilia. Ancora oggi è vivo il suo ricordo Costretta a sposarsi, da sempre amava un altro uomo. Il padre la sorprese con lui e la uccise Il sangue sprizzando sul muro dipinse e ridipinse l' immagine di una donna Si dice che la nobile fanciulla senza pace vaghi ancora nel maniero turrito

Il castello di Carini, paese vicino Palermo, sorgeva nel punto più alto del colle dove l' alba si intramava subito del color di rosa dell' aurora. Quando i sanguinosi e spaventosi fatti di cui parleremo avvennero, correva l' anno 1563, anzi, precisiamo, addì 4 dicembre quando un vento tempestoso apportava un soffiar continuo fra borri e forre. La giovanissima Laura, figlia del barone Cesare Lanza di Trabìa (uomo tarchiato, dagli occhi cupi mai solcati dalla luce del sorriso) era andata sposa, su volere del padre, o pater familias, a 14 anni, al barone di Carini, Vincenzo La Grua (come si vede, si trattava di cognomi di estrazione spagnola). Questo nobile, di circa cinquant' anni, dalle sopracciglia cespugliose, dalle labbra tutte risucchiate in dentro come uomo dai mille pensieri pragmatici, era decisamente brutto. Anche lui, come il suocero, portava al fianco sinistro una sciabola mal-tintinnante, simbolo di un potere guadagnato rubando o servendo, in quegli anni, i padroni spagnoli. Laura Lanza - dal corpo armonioso da cui traluceva l' anticipata giovinezza come cespo di gigli - per i rapporti intercorrenti fra le classi nobiliari di Carini, fin dai sei anni era amica, in gioiosi giochi, del coetaneo Ludovico Vernagallo. Da adolescenti, continuavano a incontrarsi e si incantavano della natura circostante, come, per esempio, del sole che, simile a palla rovente, in estate, al tramonto, si inabissava nel mare illuminando la vicina isola delle Femmine. O ascoltavano, sul far della notte che come nero mantello cadeva sui merli del castello, gli assioli tristemente cantare nel bosco vicino o lo stridio amoroso dei grilli in mezzo alle stoppie. Fra di loro sorsero consonanti pensieri amorosi di purezza adolescenziale. Nulla risulta del tradimento di Laura dalla documentazione che tuttora si conserva negli archivi della Chiesa madre, tutta volta a tramontana dove nasce fischiando il vento. È facile capire quanto avvenne quel 4 dicembre 1563 se si riportano pochi stralci della lettera scritta a Madrid, al re di Spagna, dal barone Lanza. Ecco. «Sacra Catholica Maestà di Spagna, il presente Cesare Lanza di Trabìa, andato a trovare la figlia nel castello di Carini e avendo trovato notevolmente turbato il genero, su invito dello stesso entrò nella Camera nuziale. E là vedemmo la baronessa di Carini, mia figlia, e il suo amante Ludovico Vernagallo fortemente serrati... E nel mismo istante, tratta la spada, ammazzai amboduo». In verità, pare che il Vernagallo sia stato assassinato in un secondo momento da un servo (ubbidiente) del La Grua. Sua Maestà Catholica, come si direbbe oggi, si fece passare sottogamba l' assassino e nessun addebito giudiziario fu fatto al Lanza che si godette la restante vita, mentre il genero La Grua tranquillamente si risposò. Ordunque, avvenne che il padre assassino sguainata la spada, colpì la giovanissima sposa (i cui fatti riferiti dal padre-padrone sono del tutto insicuri, ossia Laura forse non tradì mai il marito) sulle ginocchia spezzandogliele, sull' addome dolcissimo insanguinandolo, sulle spalle, sulla testa. Tanto che il sangue sprizzando con violenza, in un' aureola sanguinante, dipinse e ridipinse l' immagine della giovane su un muro. Pare che fino a oggi, il visitatore perspicace, che segue con l' occhio lo svariare del colore del muro, può intravedere per sottilissime trafilettature che sembrano d' oro i lineamenti di quell' angelica creatura.


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Carini oggi, vista dal castello - Immagine tratta dal sito http://it.wikipedia.org/

Quello fu uno dei periodi più foschi della nostra storia. Basti tener presente l' istituzione, nel 1477, della Sacra inquisizione con cui si voleva salvaguardare la Chiesa dalle «parve eresie». I compiti di questa «sacra» Istituzione erano comunemente affidati ai domenicani, di cui fece parte anche l' Alighieri. Il popolo minuto li chiamava «cani del Signore». E così poveri, vecchi o uomini di alta cultura come Giordano Bruno furono arsi vivi e l' odore nauseante di quelle carni si spandeva fra la gente che assisteva al rogo. In Sicilia, il primo inquisitore fu Antonio La Pagna (nome chiaramente spagnolo) che, per primo, fece ardere viva una presunta ebrea, la Tamarit. Si legga, almeno, il bellissimo racconto di Leonardo Sciascia La morte dell' inquisitore, oggi in edizione Adelphi, storia di fra Diego La Matina, un monaco accusato di eresia e intramagliato e irretito dall' Inquisizione. Comunque, tornando a Laura Lanza la notizia dell' assassinio si diffuse subito per tutta l' isola. Tanto che un ignoto poeta (triste fine che purtroppo spetta ai poeti provenienti dalla grande cultura orale) scrisse un ben noto poemetto che cominciava: «Piange Palermo piange Siracusa/a Carini c' è lutto in ogni casa». Posseggo l' edizione critica di questo poemetto, curata dal messinese Vann' Antò, uno dei primi amici di Quasimodo. Conobbi ambedue a Roma, nel 1958, in occasione di un convegno sui «Poeti Sovietici». Tanto umano Vann' Antò (che aveva fatto il provveditore a Messina), dolce, gentile, tanto, quel giorno, Quasimodo, investito dalla sua ufficialità - pur essendo nell' animo un brav' uomo - era sussiegoso anche nel look: baffetti tipici da buon siciliano, abito blu, camicia bianca, rispondeva a monosillabi. Qualche giorno dopo, nella stessa pagina dell' «Unità», a cui collaboravo, apparvero una poesia «Alla Luna» del Quasimodo e un mio racconto. Della povera baronessa di Carini, per molto tempo, si disse che, durante le notti buie, allora senza luce elettrica, il suo spirito appariva sotto forma di fantasma, in perenne inquietudine, nelle stanze del castello di Carini. Dolce, bianchissima fanciulla senza pace. Alcuni, fra i più sensibili, anche oggi dicono di vedere quel luminescente fantasma vagare per quel turrito, seppure in decadimento, maniero. Ma Dio, allorché, nel girare delle galassie, finisce in mezzo al buio di nere polveri, scansandosene, si pone, nel lato sud-est della Via Lattea, in un' amaca fatta di cordelle tenute ai margini di due stelle, con in dentro un' intelaiatura di stoffa di olona e vi si rannicchia. E vedendo lo spirito, in eterna pena, della Madonna di Carini e i milioni di bambini che nel mondo sono vittime di soprusi o usati per estrarre i loro organi per clonazione, piange. Con le mani sugli occhi. LA VICENDA L' impronta di una mano e il mistero del fantasma C' è chi giura di averla vista, vestita in abiti cinquecenteschi, pallida e bellissima, girare per le stanze del castello di Carini e inginocchiarsi a pregare nella cappella di famiglia. Ma Laura Lanza (a sinistra in un' antica illustrazione), prima di essere promossa al rango di fantasma, fu una donna in carne e ossa, protagonista di una tragica vicenda di amore e morte. Sul muro di una delle torri del castello in cui visse e morì si vede ancora il profilo di una mano: leggenda vuole che fu scolpita lì per ricordare la tragica fine della giovane baronessa. In realtà, probabilmente, la misteriosa scultura non è altro che la mano di Fatima, portafortuna delle maestranze arabe che lavorarono alla costruzione del castello di Carini, l' antica Hycara. Per secoli, la storia della sfortunata Laura appassionò poeti e cantastorie, fino ad approdare in tv nel 1975 con L' amaro caso della baronessa di Carini, film a puntate trasmesso dalla Rai. Lo sceneggiato, diretto da Daniele D' Anza - protagonisti Janet Agren, Ugo Pagliai, Paolo Stoppa, Vittorio Mezzogiorno e una giovanissima Enrica Bonaccorti - riprendeva la vicenda degli amanti di Carini trasferendola, però, nell' Ottocento.

http://archiviostorico.corriere.it/2004/agosto/09/amaro_caso_della_baronessa_triste_co_9_040809055.s html

Dal sito http://archiviostorico.corriere.it/

Tomás de Torquemada
28-08-14, 23:34
Baronessa di Carini: trovato il corpo (forse), irrisolto il mistero

Quattro anni fa il Comune di Carini ha incaricato un pool di esperti di indagare sul caso della Baronessa e di trovare il vero colpevole, che secondo molti non è il padre, che si sarebbe solo autoaccusato del'assassinio perché la legge del "delitto d'onore" permetteva al padre che avesse trovato la figlia adultera in "flagranza" di ucciderla

CARINI (PALERMO) – “Baronessa di Carini: il mistero dell’omicidio svelato dopo 500 anni“: il titolo dell’articolo di Laura Anello su La Stampa fa pensare che sia stato veramente risolto un giallo che dura da 451 anni, da quando Laurea Lanza, Baronessa di Carini, venne trovata in una notte di dicembre a letto con l’amante Ludovico Vernagallo e fu uccisa dal padre, Cesare Lanza.

Quattro anni fa il Comune di Carini ha incaricato un pool di esperti di indagare sul caso della Baronessa e di trovare il vero colpevole, che secondo molti non è il padre, che si sarebbe solo autoaccusato del’assassinio perché la legge del “delitto d’onore” permetteva al padre che avesse trovato la figlia adultera in “flagranza” di ucciderla.

Secondo altri, fra cui l’Enciclopedia Treccani, non c’è nessun giallo: l’assassino fu il padre, che non era per niente un “uomo straordinario, giureconsulto”, così come lo descrive Carmelo Duplo, uno degli studiosi del pool, a Laura Anello.

Per il momento il pool si dice vicino al ritrovamento della salma della baronessa, che sarebbe sepolta nella chiesa di San Mamiliano a Palermo: questa è l’unica scoperta, per ora.

“A vederla così, la giovane nobildonna con la testa reclinata sul cuscino, viene da pensare che davvero sia questa la tessera mancante del puzzle, il segreto nascosto per quasi 500 anni. Che la fanciulla scolpita nel marmo del sarcofago della chiesa di San Mamiliano – nel centro storico di Palermo – sia proprio lei, Laura Lanza, la baronessa di Carini uccisa nel 1563 in quello che è passato alla storia come il più clamoroso dei delitti d’onore. E che quindi questa sia la sua tomba, cercata per secoli e mai finora trovata, neanche dalla squadra di cercatori di fantasmi “Ghpa” che da tempo registra voci e apparizioni.

A queste conclusioni è arrivato un gruppo di studiosi (criminologi, grafologi, psicologi), che ha indagato per 4 anni tra archivi e chiese da Carini a Madrid. «L’ho sempre immaginato – dice il parroco, padre Giuseppe Bucaro -. Questa è la cripta della sua famiglia, qui sono seppelliti il nonno Blasco Lanza, la seconda moglie del padre Castellana Centelles, e probabilmente anche il padre Cesare Lanza che la uccise o, meglio, che si autoaccusò del delitto».

La storia è nota, rilanciata poi da due fortunati sceneggiati televisivi: quello del 1975 con Ugo Pagliai e Janet Agren e il remake del 2007 con Luca Argentero e Vittoria Puccini. Teatro del delitto è Carini, paese a 30 chilometri da Palermo dove il 4 dicembre 1563 – secondo la ricostruzione ufficiale – la baronessa Laurea Lanza, sposata con Vincenzo La Grua, venne trovata a letto con l’amante Ludovico Vernagallo e assassinata dal padre nella stanza del castello.

Un delitto d’onore confessato dall’assassino in una lettera al re di Spagna conservata nella chiesa Madre. «Ma non torna niente di questa ricostruzione – dice Carmelo Dublo, grafologo e perito del tribunale che guida la ricerca – perché per raggiungere Carini da Palermo ci volevano a cavallo almeno 6 ore e quindi Cesare Lanza non avrebbe potuto sorprendere nessuno. Inoltre, Vernagallo era un amico di famiglia con cui Laura giocava già da bambina, e la sua presenza al castello era consueta. L’impressione è che Lanza, uomo straordinario, giureconsulto, si sia sacrificato per coprire il vero autore del delitto». Per la legge del tempo al padre dell’adultera era consentito uccidere la figlia e l’amante, se colti sul fatto. Al marito, invece, solo il diritto di uccidere il rivale, ma non la moglie.

Primo obiettivo, trovare la tomba di lei. Le ricerche sono partite nel 2010, per mano degli investigatori dell’Icaa (International crime analysis association), nella chiesa madre di Carini, dove la tradizione vuole che esista la cripta della famiglia La Grua, poi chiusa e mai più individuata. «Le ricerche – dice Dublo – sono arrivate a risultati poco chiari, certo è che secondo la tradizione il sarcofago della baronessa fu collocato a lungo nella cappella accanto all’altare e poi portato nella cripta. Ma noi ci siamo convinti che sia una falsa pista». Una convinzione maturata alla luce delle “lettere di discolpa” inviate da Cesare Lanza al re di Spagna, ora custodite all’Archivio di Stato della Casa reale di Madrid. E ancora attraverso le carte custodite a Carini, «alcune certamente contraffatte». Poi l’indagine si è spostata nelle tante cappelle delle due famiglie, alla ricerca delle tombe. Tutto porta al sarcofago anonimo della fanciulla dormiente nella cripta della chiesa di San Mamiliano (cripta tornata alla luce alla fine degli Anni 90) posto proprio sotto a quello del nonno Blasco Lanza, «segno di una profonda familiarità tra i due defunti».

Per avere la certezza, bisogna ora passare ai prelievi nella tomba, più volte profanata e depredata tra l’Ottocento e il Novecento. «Sono sepolta in una tomba dove ci sono tanti cani, dov’è il malefico», avrebbe detto lo spirito della nobildonna ai ghostbuster. Che fossero i ladri quei cani malefici?”.

Baronessa di Carini: trovato il corpo (forse), irrisolto il mistero | Blitz quotidiano (http://www.blitzquotidiano.it/rassegna-stampa/baronessa-di-carini-trovato-il-corpo-forse-irrisolto-il-mistero-1955556/)