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Visualizza Versione Completa : I PARTITI come strumento di partecipazione dei Cittadini alla vita politica



nuvolarossa
29-03-02, 00:27
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E' il Parlamento al centro della democrazia dell'alternanza

Il notista politico del "Corriere della Sera", Paolo Franchi, in uno scritto dal titolo "Le regole e gli errori" apparso mercoledì 27 marzo, a commento della decisione del governo di andare avanti con le riforme, ha osservato che "possiamo archiviare serenamente anche la democrazia dell'alternanza assieme a tante altre illusioni perdute" se dovesse venir meno il principio secondo il quale "chi ha vinto detiene il diritto-dovere di governare e che il Parlamento è la sede primaria del confronto". Il Parlamento.

Certo, in democrazia esistono altri spazi dove si elaborano idee e si fanno proposte che diventeranno leggi. Perché, come diceva un grande intellettuale spagnolo degli anni trenta, le proposte che non diventano leggi finiscono per essere "soltanto chiacchiere da osteria". I sindacati, i partiti, le chiese, i giornali, la radio e la televisione, le organizzazioni imprenditoriali e professionali, tutti i luoghi di lavoro concorrono a formare e ad orientare l'opinione pubblica.

Ma è il Parlamento che trasforma in leggi il verdetto popolare espresso con il segno sulla scheda che si depone nell'urna. Questa è la democrazia. E non altro.

Si possono non condividere le decisioni della maggioranza parlamentare. Ma non demonizzarle come un attentato alle regole della democrazia. Ci sono due strade per modificare quelle decisioni: il referendum abrogativo (da usare con parsimonia, pena il suo scadimento) e la verifica nelle legislative successive.

Sono le due strade codificate dalla nostra Costituzione, cui i repubblicani restano ancorati. Non ce ne sono altre.

Roma, 28 marzo 2002
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tratto dal sito web:
www.pri.it

nuvolarossa
23-05-02, 18:45
Le ragioni dei repubblicani: le modifiche alle leggi elettorali riguardanti gli enti locali

Negli anni novanta una serie di provvedimenti legislativi ha modificato in profondità le leggi elettorali riguardanti gli enti locali: elezione diretta e rafforzamento dei poteri del sindaco e del presidente della provincia; premio di maggioranza per la coalizione vincente; scioglimento automatico del consiglio in caso di dimissioni o scomparsa del sindaco (o del presidente della provincia).

Obiettivo della nuova legislazione era quello di rafforzare la stabilità amministrativa anche a costo di indebolire la rappresentatività delle assemblee. E per qualche tempo è sembrato che i nuovi meccanismi funzionassero abbastanza bene. Dopo l'iniziale "luna di miele" sono affiorate però le prime crepe. Due difetti furono evidenti subito ed erano in qualche modo tra loro collegati: la nuova legislazione, con il premio di maggioranza, indeboliva eccessivamente l'opposizione; di conseguenza - ma non solo per questo motivo - i poteri di gestione del sindaco (o del presidente della provincia) si erano rafforzati di molto, ma quelli di controllo dei rispettivi consigli si erano eccessivamente indeboliti.

L'iniziale entusiasmo per la stabilità delle amministrazioni fece passare in secondo piano questi evidenti difetti. Ma ora è la stessa stabilità ad essere rimessa in discussione. Il 26 maggio si vota anche per il rinnovo di consigli comunali sciolti anticipatamente, in qualche caso per la terza volta consecutiva: ora per la scomparsa del primo cittadino, ora per le sue dimissioni. Nello stesso tempo proliferano le liste, soprattutto civiche, provocando la polverizzazione invece che la semplificazione del confronto politico-amministrativo.

Si impongono, insomma, alcuni importanti correttivi che si propongano di accrescere i poteri di controllo da parte del consiglio, di separare il destino di quest'ultimo da quello del sindaco (o del presidente della provincia), di ridurre la frammentazione attuale.

Il PRI sta lavorando ad una proposta di legge che vada in tale direzione.

Il voto alle liste repubblicane è anche un modo per rafforzare questa prospettiva.

Roma, 23 maggio 2002
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tratto dal sito web del
Partito Repubblicano Italiano (http://www.pri.it)
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NUVOLAROSSA website (http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/index-12.html)

nuvolarossa
27-09-02, 17:18
Il problema del "partito" nell'ordinamento giuridico italiano

Il problema del "partito" nell'ordinamento giuridico italiano. Bisogna togliere il "partito" dalla sua attuale condizione di associazione non riconosciuta

di Antonio Del Pennino

Il problema della definizione del ruolo del partito politico nell'ordinamento giuridico italiano nasce da lontano ma non ha ancora trovato un'organica risposta legislativa.

Già nel dibattito alla Costituente era emersa l'esigenza di disciplinare nella Carta costituzionale la posizione giuridica dei partiti, quali strumenti per la partecipazione dei cittadini alla vita politica sia pure rinviando alla legge ordinaria il compito di precisarne le attribuzioni e di stabilire le forme di accertamento dei requisiti richiesti per l'esercizio di tali attribuzioni.

Ma il tentativo di introdurre in modo esplicito il principio del riconoscimento giuridico dei partiti e dell'assegnazione agli stessi di compiti di carattere costituzionale si scontrò con la dura opposizione del Pci.

Come ebbe a dire esplicitamente Concetto Marchesi in seno alla Prima sottocommissione, la sinistra temeva infatti che l'adozione di norme che consentissero un controllo sulla vita dei partiti potesse divenire strumento per mettere fuori legge il Pci.

A dimostrazione che tale preoccupazione era reale e non espressa solo per coprire l'esigenza di tutelare il sistema del "centralismo democratico" su cui si fondava l'assetto interno del Pci, i comunisti avrebbero negli anni successivi portato l'esempio della Repubblica Federale Tedesca, dove l'introduzione nella legge fondamentale del 1949 della norma che affidava alla Corte Costituzionale Federale la possibilità di dichiarare incostituzionali i partiti che "...mirino a intaccare o rovesciare il libero ordinamento democratico oppure a minacciare l'esistenza della Repubblica Federale Tedesca" consentì di porre fuori legge il Partito comunista.

Quali che fossero le ragioni dell'atteggiamento del Pci, esso comunque portò allora a una formulazione come quella contenuta nell'art. 49 della Costituzione che rappresenta una norma di puro principio, priva di ogni contenuto precettivo.

Finita la stagione costituente, il problema del riconoscimento della personalità giuridica dei partiti si riaffacciò nelle aule parlamentati solo nel 1958 con un disegno di legge presentato da don Sturzo al Senato. Ma nemmeno l'estrema semplicità delle procedure previste dal senatore Sturzo per consentire il riconoscimento giuridico dei partiti fu sufficiente a fugare le preoccupazioni di quanti – da destra e da sinistra – paventavano che si potesse in tal modo offrire alla maggioranza strumenti di controllo sui partiti di opposizione; e il disegno di legge del senatore Sturzo non fece alcun passo avanti.

Il problema dei partiti venne invece affrontato nella prima metà degli anni Settanta in Parlamento, sotto un profilo del tutto diverso: quello relativo all'opportunità di assicurare un finanziamento pubblico ai partiti. E l'art.49 venne invocato col consenso questa volta di tutte le parti politiche, a giustificazione della legittimità costituzionale di un simile intervento.

Ma proprio nel momento in cui l'art. 49 veniva richiamato a sostegno della correttezza politico-istituzionale del finanziamento dello Stato ai partiti, si negò da parte della grande maggioranza delle forze politiche (con l'esclusione dei soli liberali e repubblicani) che una volta entrati nell'ordine di idee di garantire il finanziamento pubblico da questo derivasse la necessità di una regolamentazione giuridica dei partiti stessi.

Si arrivò addirittura ad affermare da parte del relatore, onorevole Galloni, che non essendo alcun limite "previsto dalla Costituzione, questo significa non solo che nessun altro limite può essere posto dal legislatore ordinario in attuazione della Costituzione" ma che se altri limiti fossero posti dal legislatore ordinario, potrebbe dubitarsi che essi finirebbero per violare il principio di libertà di associazione costituzionalmente garantito.

Questa aberrante impostazione, propria di una stagione politica in cui la pervasività e l'onnipresenza dei partiti facevano considerare ogni limitazione degli stessi come indebita intrusione, fu rivista criticamente negli anni successivi, attraverso il lavoro della Commissione Bozzi e con alcune iniziative legislative prese nel corso della IX e X legislatura, che testimoniarono un nuovo indirizzo rispetto alle più restrittive interpretazioni dell'art.49 che avevano caratterizzato il dibattito politico del decennio precedente.

Ma il problema dell'adozione di una normativa organica sul partito politico è tuttora irrisolto. Né sono venute a cadere le obiezioni, se ancora negli scorsi giorni, durante l'esame della proposta di regolamento del Consiglio dell'Unione Europea relativa allo statuto e al finanziamento dei partiti politici europei da parte della Giunta degli Affari della Comunità Europea e della Commissione Affari Costituzionali del Senato, sono emerse riserve proprio sulla previsione inserita nel regolamento su richiesta del Parlamento Europeo di attribuire personalità giuridica ai partiti politici europei riconosciuti.

Ritengo invece che proprio nella nuova condizione politica italiana sia necessario portare il problema della regolamentazione giuridica dei partiti e della definizione dei requisiti minimi per il loro riconoscimento al centro del dibattito sui temi istituzionali.

Un sistema elettorale maggioritario, tanto più se basato su collegi uninominali come il nostro, se vuole consentire reali forme di partecipazione alla vita politica e non affidare ogni decisione a scelte oligarchiche, ha assoluto bisogno di togliere il partito dalla sua attuale condizione di associazione non riconosciuta per prevedere forme di garanzia e di controllo nella formazione delle sue decisioni.

La stessa ipotesi di elezioni primarie per la scelta dei candidati, di recente avanzata dall'attuale presidente della Camera, non sarebbe minimamente realizzabile in presenza di coalizioni di partiti (quali sono quelle su cui si reggono gli attuali schieramenti politici), se questi partiti rimanessero privi di ogni regolamentazione.

Il riconoscimento dei partiti, la definizione di procedure interne certe e omogenee è infatti la condizione per disciplinare correttamente anche le forme di rappresentanza della coalizione.

Senza un intervento su questo terreno non è possibile garantire la piena tutela del diritto dei cittadini a concorrere alla formazione delle scelte dei partiti e quindi alla determinazione della politica nazionale: assicurare loro cioè il pieno status activae civitatis, per usare una terminologia dello Jellinek e della dottrina giuspubblicistica tedesca.
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tratto da l'ircocervo
http://www.bietti.it/imm_banner/ircocervo.jpg
n° 1 luglio 2002 (http://www.bietti.it/ircocervo/ircocervo.htm)

nuvolarossa
27-09-02, 17:34
Per una critica politica della transizione incompiuta

Con le elezioni politiche del 1994 ha temporalmente inizio la seconda fase della vita della Repubblica italiana; quella che succede alla cosiddetta “prima Repubblica”.
La periodizzazione è collegata a Tangentopoli, un fenomeno di malversazione generalizzato che aveva fatto emergere una crisi ad ampio spettro della politica democratica italiana ed il cui epilogo più rilevante è consistito nella dissoluzione del sistema politico ? la Repubblica dei partiti ? che aveva governato l’Italia fin dalla Liberazione.
Nel 1994 si apriva una nuova stagione politica; lo scenario risultava modificato per la presenza di nuovi soggetti e perché, complessivamente considerati, i partiti avevano subito una decoazione funzionale. Il sistema politico italiano era stato incalzato e delegittimato da due fattori diversi, ma egualmente prorompenti: da una parte, l’azione della magistratura che, al di là dei meriti, degli errori e dei modi di assolvere al proprio compito, aveva evidenziato l’urgenza di una riconquista morale da parte della politica e del pubblico operare; dall’altra, dalla presenza della Lega Nord, che rappresentava allora l’istanza primaria di cambiamento della forma statuale nazionale, la cui natura accentrata e burocratizzata veniva giustamente denunciata come dato strutturale del fenomeno malversativo. La risposta alla crisi era, per il movimento di Umberto Bossi, il federalismo ed occorre riconoscere che la questione allora posta dalla Lega Nord, se pur in forme spesso populistiche ed anche verbalmente violente, aveva il merito di centrare il focus della questione nazionale considerata nel suo intreccio di aspetti storici, morali e politici.
La risposta del sistema fu all’insegna della cautela politicistica ? la spia maggiore di tale atteggiamento prendeva corpo nello specificare sempre il federalismo come solidale ? in quanto mancò del tutto il coraggio di fare i conti fino in fondo con ciò che, realmente, rappresentava Tangentopoli e si ritenne che fosse sufficiente cambiare i meccanismi della legge elettorale per rispondere in maniera istituzionalmente forte alla degenerazione in atto. Tuttavia, invece di scegliere la strada maestra e rifondare la statualità costruendo un diverso rapporto tra i cittadini, l’espressione della politica democratica e lo Stato ? cosa che non avrebbe implicato cambiamento alcuno dei principi ispirativi della Repubblica contemplati nella prima parte della Costituzione – si ritenne, giocando sul crinale della salvaguardia di una cultura e del ceto politico che l’aveva espressa e continuava ad esprimerla, che la crisi potesse essere risolta limitandosi a riformare quegli aspetti che, in una logica di cambiamento vera e coerente, avrebbero dovuto essere l’ultimo atto di un processo complessivo. Si modificò, quindi, solo la legge elettorale passando da un proporzionale sostanzialmente puro ad un uninominale ad un turno, ma spurio in quanto riguardante solo il 75% della rappresentanza parlamentare mentre il restante 25% continuava ad essere assegnato con il sistema proporzionale.
La nuova legge elettorale altro non era che l’approdo di un lucido ragionamento politico che riteneva si potesse continuare a conservare quello che era stato, per quasi mezzo secolo, il pilastro della democrazia parlamentare del Paese; vale a dire che si potesse salvaguardare quel centro che in Italia, più che un luogo della politica, ha sempre espresso una vera e propria sua categoria La conseguenza che ne sarebbe scaturita era che il partito democristiano, ora “popolare”, avrebbe continuato, di fatto, a giocare il ruolo già assolto nei decenni precedenti.
La legge elettorale che porta il nome di Sergio Mattarella palesava un equivoco furbesco ed una pesante contraddizione. L’equivoco consisteva in quanto già sopra descritto; la contraddizione nel combinarsi di un sistema misto ? uninominale ad un turno e proporzionale ? che faceva risaltare la volontà, comune peraltro a tutte le forze politiche, di un’accettazione con riserva del sistema uninominale, delle sue logiche e della cultura che vi è connessa. La legge Mattarella, cioè, ci dice come non vi sia stata discontinuità tra la prima e la seconda fase della vita della Repubblica, in quanto il sistema maggioritario adottato si impernia su una mentalità radicalmente proporzionalistica che, al contrario, sarebbe stata definitivamente superata se fosse stato scelto un sistema a doppio turno come quello francese che ha il pregio di salvaguardare, al primo turno, la scelta per il partito preferito ed, al secondo turno, di esprimere un voto che determina direttamente una maggioranza di governo.
Sul piano dei comportamenti politici la legge Mattarella finiva, ma l’intenzione era ben consapevole, per esaltare ciò che un sistema uninominale avrebbe dovuto seppellire, ossia il centro, la cui nozione, dal momento che non si individuava ancora un predominante partito di centro, assumeva un profilo addirittura ossessivo. Tale cifra tuttavia, ha influito in maniera diversa nei due schieramenti contrastanti. Infatti, mentre il polo berlusconiano attraverso una serie di intelligenti scelte politiche ? l’adesione al partito popolare europeo ed il recupero del radicalismo antipolitico in buona parte indotto dall’azione talora debordante di certa magistratura ? si insediava al centro facendo convivere le sue diverse cifre, vale a dire i suoi profili radicali, liberali e moderati senza con ciò disperdere la propria specificità aziendalistica; l’altro polo, che si reggeva essenzialmente sulla struttura del PDS/DS, doveva inventarsi un proprio centro con il conseguente indebolimento dell’asse portante, cioè della sinistra che, invece di assolvere ad un ruolo guida, non evitava di lambire la minorità politica ed anche la subalternità culturale.
Quanto sopra descritto è, naturalmente, solo una traccia per una possibile interpretazione degli svolgimenti politici italiani dal 1994 fino ad oggi. In tale periodo molti sono stati gli andamenti complessi della politica nazionale; i cambi di orientamento e di prospettiva le varie derive talora effimere che il dibattito e l’evolversi degli eventi hanno indotto. Ora, per comprendere non quanto, ed è tanto, è successo in questi anni, ma quali siano le motivazioni profonde di una situazione complessa, appare necessario operare una considerazione che punti a ricondurre la politica italiana nei confini di un ragionamento strategico ampio e a forte profilo critico. Si tratta di un’esigenza necessaria per ragionare sul presente al di là della lettura politologica e della evenemenziale effettualità politica. Crediamo, insomma, che sia utile fare opera di critica politica per collegare insieme questioni di cultura politica, intenzione politica, riforma della statualità e comportamenti della politica democratica.
I punti di partenza per sviluppare una riflessione in tal senso possono essere i più vari. Noi lo facciamo ponendoci una domanda: la seconda fase della vita della Repubblica ha risposto positivamente alle aspettative che l’avevano motivata oppure no? Vale a dire: è uscito il Paese da quei problemi che lo avevano collassato e che, incubati per un lunghissimo periodo, si sono poi manifestati tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 ?
In generale possiamo dire che, nel dopo Tangentopoli, ci si aspettava una forte responsabilizzazione della politica democratica sia nelle sue dimensioni etiche e culturali sia nelle sue necessarie proiezioni pubbliche, programmatiche e progettuali.
Se si volesse dettagliare le attese per il dopo Tangentopoli potremmo individuare cinque punti indicativi dei nuovi lidi ritenuti necessari per la rigenerazione della democrazia italiana. Essi sono: un sistema politico semplificato, cioè una riduzione delle forze politiche; uno Stato riformato in senso federale; un sistema pubblico moralmente integro; una società civile realmente autonoma, responsabile e consapevole; un sistema giudiziario pienamente garantito nelle sue prerogative costituzionali e non costretto a lanciare paradossali appelli a resistere. Insomma, ci saremmo aspettati che il superamento di Tangentopoli sarebbe stata pure 1’occasione storica per far fare all’Italia quel salto nella modernità civile che rappresenta il grande scarto della storia nazionale. Senza dettagliare i cinque punti sopra elencati ci sembra che nessuno di questi si sia risolto così come erat in votis. Il passaggio dalla prima alla seconda fase della vita della Repubblica non ha comportato, cioè, cambiamenti politici strutturali effeffivamente incidenti nei percorsi storici e culturali del sistema Italia
La mancata realizzazione di un cambiamento palingenetico non è stata, però, denunciata da nessuno e non viene avanzata nessuna motivazione strutturale della crisi in atto. E se ciò si può comprendere da parte della maggioranza che governa, la cosa è meno comprensibile per quanto concerne l’opposizione che di una siffatta analisi dovrebbe farne un ingrediente importante per la sfida al governo. Al contrario, il fatto che dal 1994 ad oggi si siano alternati governi di segno politico diverso viene addotto, in entrambi gli schieramenti, come la dimostrazione del funzionamento del nuovo sistema per cui la transizione ? termine di cui negli anni passati si è addirittura abusato e che oggi non usa più nessuno ? si è positivamente compiuta. Ci troviamo, cioè, di fronte ad un’altra delle manifestazioni della crisi della nostra democrazia dovute all’abitudine del ceto politico nazionale di evitare di fare i conti con la storia e, quindi, con se stesso fino in fondo. Siamo di fronte ad un vuoto di cultura politica che viene occultato in una girandola mirabolante di dichiarazioni piene di termini che vorrebbero prefigurare grandi mete politiche ? riformismo, innovazione, liberalismo ? e che, invece, non si capisce cosa significhino nella politica del reale e che finiscono per nascondere e palesare, al contempo, un’insufficienza che si ripercuote negativamente sui modi di essere della nostra democrazia.
In tale vuoto di cultura, politiche motivate ed anche ideologicamente giustificate ? considerando che non può esistere nessuna politica che non si fondi su una ideologia, che significa su un ragionamento che rappresenti ed interpreti la realtà ? il risultato è che la politica italiana sta scivolando con passo sicuro verso una forma di populismo dai connotati italici ? quelli storicamente negativi, s’intende ? di cui il partito maggioritario ed il suo leader sono i primi e maggiori responsabili.
Il populismo, com’è noto, è una delle derive possibili dei sistemi democratici. Si tratta di una nebulosa dai connotati geopolitici diversi e che s’incentra, nella propria specificità, nel rapporto che si instaura tra le masse e le élites dirigenti. Sempre procedendo per giudizi obbligatoriamente semplificatori il populismo, appunto quale fenomeno della degenerazione democratica, si fonda sul messaggio che lo presuppone: la promessa di redenzione e di liberazione del popolo e, quindi, con una intrinseca valenza rivoluzionaria. È chiaro che la cifra del fenomeno cambia da situazione a situazione e si fonda su dati valoriali eterogenei, ma la dinamica è sempre la stessa. Se lo si analizza nella sua evoluzione, in ciò che lo motiva quale espressione di un movimento che ha le sue fondamenta necessarie nella realtà sociale più bassa, si riscontra sempre una forte domanda di autorità, di ripristino dell’ordine, di richiesta di recuperare in modo autorevole un quadro generale. Considerato nella sua sostanza politica il populismo si avvale di ingredienti che è difficile definire di destra o di sinistra; in esso messaggi contraddittori tra loro divengono quasi connubio dell’esperienza contemporanea ? ad esempio, liberalismo economico e nazionalismo etnico, liberoscambismo e protezionismo, xenofobia e difesa dello Stato assistenziale ? e si coniugano spinte arcaiche e spinte progressiste determinando una contaminazione la cui cifra politica, alla fine, è sempre di segno regressivo.
I processi che vi sono connessi, e che oggi sono resi particolarmente attivi grazie ai meccanismi della comunicazione di massa, spingono verso una rinuncia alla cittadinanza attiva per risolversi in forme ? da un punto di valutazione dell’ etica repubblicana ? di massificata e passiva adesione viscerale, di pulsioni delegittimanti l’antagonista, di comportamenti implosi in una solipsistica legittimità quale plafond per negare ad altri la legittimità politico-civile attraverso un’immotivata e reiterata demonizzazione. Insomma, quella populistica è una deriva che recide, piano piano ma inesorabilmente, la piattaforma morale dei sistemi democratici.
Il secolo passato ci offre molti modelli di populismo: maccartismo, poujadismo, peronismo e vari paradigmi latino-americani compreso, pure, tanto terzomondismo. Esso, tuttavia, è un fattore che riguarda pure la destra conservatrice thatcheriana e reaganiana, ma anche gli estremismi di Le Pen in Francia, di Jorg Haider in Austria, di Boris Eltsin e Vladimir Jirinovski in Russia, di Aleksander Kwasniewski e Lech Walesa in Polonia, di Slobodan Milosevic e Vojislav Seselj in Serbia. Accanto a questo comparto se ne può, inoltre, indicare un altro, frutto di altre configurazioni storiche quali la Lega Nord in Italia; il partito olandese fondato dallo scomparso Pim Fortuny, Leefcaar Nederland, e quello fiammingo, Vlaams Blok. È chiaro che ognuna di queste esperienze vive di una sua peculiarità, ma nel complesso mettono un’etichetta comune su un insieme di fenomeni eterogenei.
Nel nostro Paese il partito di maggioranza sublima politicamente un sentire che, nella sua eterogeneità, è tipicamente populista. Forza Italia, infatti, può essere interpretata ed accettata sia da un punto di vista ideologico, sia come un movimento che ha un’attitudine civile; sia come forza guida di un regime democraticamente espresso che come una forma di legittimazione; un polo identitario che esercita una forza di seduzione pari alla potenza dell’illusione. E si tratta di una forza oggi radicata nel Paese non solo a livello centrale, ma anche a quello periferico; non solo nelle stanze del potere centrale, ma anche in quelle del non meno importante potere locale in virtù di un voto di raccolta cui non corrisponde, peraltro, una dimensione associativa.
L’ antidoto al populismo è la politica vissuta in termini civili e la politica è sempre stata l’arma forte della sinistra, di una forza che è tradizionalmente minoritaria a livello sociale e culturale, ma che è capace di vincere privilegiando proprio la dimensione alta della politica, i suoi valori, la sua capacità di mobilitazione, l’impegno verso un cambiamento garantito da credibilità e coerenza.
Oggi la sinistra italiana, ossia i DS, sembrano fare pendant con l’anomalia rappresentata dalla destra al governo; da una destra ben diversa da quelle di Chirac e di Aznar, tanto per paragonare esperienze governative a noi particolarmente vicine. L’aver cambiato nome non ha purtroppo significato per i DS l’entrata a pieno titolo nell’ambito del socialismo europeo; talora il moderatismo assunto ha dimostrato quanto l’impronta del vecchio PCI pesasse sulla nuova formazione solo se, pur fatte le debite differenze, si considerava la sua politica e quella dei socialisti francesi, tedeschi o scandinavi. Il partito, chiuso nella logica derivante dalla vecchia origine, si è mostrato praticamente granitico al contributo esterno. Lo dimostra il fatto che, a ben tredici anni dalla svolta ? la decisione di Occhetto ha permesso alla sinistra italiana di resistere alla crisi del sistema, ma poi lo stesso Occhetto ha continuato ad interpretare il molo del dirigente ex?comunista e non quello del socialista europeo e le successive cose legate a D’Alema e Veltroni non hanno cambiato la realtà e la cultura del partito ? il gruppo dirigente diessino è ancora costituito al 90% da ex-comunisti.
Per capire l’anomalia della sinistra italiana basti pensare inoltre che, dopo cinque anni di governo nazionale ed aver pure espresso un presidente del consiglio, i DS hanno perso ben tre milioni di voti, ma tale drammatico risultato non ha scalfito ? come dimostra il congresso tenutosi a Pesaro ? un verticismo geneticamente strutturato e l’emorragia di radicamento sociale non sembra aver intaccato la compattezza del gruppo dirigente a differenza di quanto è avvenuto in Francia dopo la sconfitta del premier Jospin.
Il buon risultato ottenuto nell’ultima tornata amministrativa segna sicuramente un’inversione di tendenza rispetto al voto olitico, ma esso è dovuto essenzialmente ai movimenti ed alle iniziative della CGIL.
Populismo ed insufficienza della sinistra democratica o, per meglio dire, del vuoto rappresentato dalla mancanza
di una vera forza di sinistra socialista, costituiscono due fattori centrali che segnano la crisi della democrazia italiana. Ciò osservato occorre poi aggiungere che, nella dinamica pratica, i due schieramenti hanno caratteristiche strutturali diverse. Il centro-destra si fonda su un partito coalizione predominante e capace di guidare realmente il proprio polo di appartenenza. In tale polo gli interessi berlusconiani, aziendali o personali che siano, risultano predominanti ed i rapporti politici interni, non facili né esenti da frizioni anche forti, sono tutelati da un concorso convergente di interessi compositi, ma sostanzialmente appagati e che finiscono per inibire ogni lacerante tendenza centrifuga.
Diversa è la struttura del centro-sinistra che è un insieme assai diviso e frammentato, con una reale difficoltà nell’innescare un’ efficace opposizione di governo. Esso, inoltre, sconta pure il fatto di annoverare tra le sue file tanti leaders senza che nessuno, al momento, sia nelle condizioni di esercitare una reale leadership. Con le ultime elezioni politiche, poi, non c’è più nemmeno un partito coalizione. Infatti, durante l’esperienza di governo 1996-2001, questo compito era stato assolto dal DS se pure secondo moduli di cultura e di prassi consociativa, secondo una concezione che gli deriva dalla radice comunista e che vede nelle alleanze un fine ed un valore in se stesso più che uno strumento per attuare un programma caratterizzante. Di tale dimensione neofrontista si sono avvalsi, intelligentemente, tuffi i suoi alleati soprattutto per garantire e consolidare la presenza in Parlamento e nelle altre assemblee elettive. Alla fine tutta la coalizione si è indebolita in quanto i DS, in grave crisi di identità, hanno perso pesantemente a sinistra, non hanno compensato sul centro ed il centro della coalizione, benché confluito in un solo partito ? la Margherita ? non si è dimostrato in grado di erodere il centro dell’altro schieramento. A ciò si deve aggiungere, ancora, che il centro-sinistra si concepisce come un luogo essenzialmente parlamentare. Recentemente l’azione dei girotondini e soprattutto quella della CGIL hanno, per alcuni aspetti, risvegliato sia i DS che la coalizione, ma la mancanza di respiro strategico-programmatico tende a mantenere, sia i DS che la coalizione, sostanzialmente recintati nei luoghi della rappresentanza.
Il centro-sinistra, insomma, sembra immerso in una crisi di tipo circolare: più i DS sono forti, più cresce il timore che il consociativismo ? peraltro molto apprezzato dagli alleati ? divenga egemonia; più i DS sono deboli, più tutta la coalizione risulta debole. Ne consegue un’ effervescenza destrutturante dovuta, essenzialmente, dalla debolezza del profilo partitico complessivo delle componenti che si raccolgono sotto l’Ulivo.
È singolare, inoltre, che la perdita del governo non abbia comportato nessuna seria analisi critica dell’accaduto; la difesa dell’autoreferenzialità del ceto dirigente del centro-sinistra è risultata essere il dato preminente del post-sconfitta.
Nell’insieme di un contesto complesso e frammentato prevedere quale possa essere l’evoluzione del quadro politico è impresa assai ardua. L’intrinseca debolezza dei soggetti istituzionali della politica italiana priva la nostra democrazia di quei riferimenti che sono fondamentali per ogni sistema democratico; dei partiti quali soggetti titolari della promozione, raccolta e sviluppo della domanda politica e sociale sulla base di culture e di valori che non si riducano a meri messaggi comunicativi, ma si qualifichino quali concreti fattori di garanzia e di identificazione della struttura dello Stato liberaldemocratico.
Va anche detto che nella sfida tra i due poli è insita, pure, un’altra sfida: quella tra i due maggiori partiti dei due schieramenti. Però, mentre il partito aziendalista sembra facilmente parametrabile sui tempi propri di una stagione politica, che peraltro nessuno sa quanto sia destinata a durare, e sia strutturata e coerente con la propria origine ed i suoi più prossimi ed urgenti interessi; i DS, se non risolvono la questione socialista che compete loro, e non perdono il ricordato tratto preminente di residualità comunista, sembrano destinati ad un futuro di lacerazioni. Ciò non significherebbe, certo, la fine della sinistra, ma la proiezione della sua crisi su tempi necessariamente lunghi produrrebbe un vantaggio forte per gli avversari. Il mettere a riparo la propria crisi con il ricorso continuo ad un’indistinta opzione riformista non produce un’evoluzione positiva né del partito né della sinistra italiana nel suo complesso.
In conclusione, va richiamato il fatto che le ragioni delle difficoltà che siamo venuti esponendo consistono sia nei vizi di origine che ne sono alla base, sia nel ritenere che la lotta per il governo, consustanziale ad ogni democrazia, assolva tutto l’arco della giustificazione politica. Essa, cioè, non è vissuta come questione che concerne il ruolo che ognuno ritiene di assolvere nella vita del Paese sulla base delle proprie motivazioni storiche, ideali e valoriali. È fondamentale, quindi, recuperare la capacità di comprendere l’evolvere civile e sociale della società che si vuole rappresentare e portare a soluzione politica sulla base di idee e di scelte che si ritengano come migliori per la vita e lo sviluppo ordinato della comunità.

Paolo Bagnoli

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tratto da il Pensiero Mazziniano (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

nuvolarossa
05-11-02, 15:20
SENZA NUOVE REGOLE PARLAMENTI IN CRISI

di GAETANO QUAGLIARIELLO

Nelle democrazie moderne, a partire dagli anni Sessanta, il declino dei partiti politici, la frammentazione ideologica delle coalizioni, la volatilità elettorale legata all'emergenza di fenomeni carismatici sono stati delle regole e non delle eccezioni. Il fatto di non averne voluto prendere atto in tempo è stato pagato dal nostro Paese, nel corso degli anni Novanta, al prezzo di una crisi politica lacerante senza precedenti nella storia repubblicana.
Alcuni hanno voluto vedere in quella crisi il proporsi di una "questione settentrionale" che avrebbe portato la parte più moderna del Paese a chiedere di non soggiacere più alla presunta arretratezza del Meridione. Per questo hanno enfatizzato l'importanza del fenomeno Lega.
Altri vi hanno scorto, invece, una crisi di moralità da combattere con strumenti prevalentemente giudiziari e, conseguentemente, hanno esasperato il ruolo dei giudici e la rilevanza di Tangentopoli.
In realtà, dietro la lunga transizione italiana vi è stata una lunga crisi politico-istuzionale, esplosa dopo il 1989 quando il sistema ha perduto anche i suoi ultimi alibi. Sono passati, dunque, oltre dieci anni dalla crisi che ha travolto i partiti protagonisti della prima fase della Repubblica. Sono nate nuove formazioni e nuove coalizioni.
Si sono alternate maggioranze di centro-destra e di centro-sinistra.
Sono cambiati i volti e i nomi dei presidenti del Consiglio. Le istituzioni, però, sono sostanzialmente rimaste quelle di un tempo, ancora più barocche e inattuali.
Oggi, dopo che una consistente parte del Paese ha sperato fosse possibile cambiare, nell'opinione pubblica produce effetti ancora più devastanti scorgere i banchi di Montecitorio o di Palazzo Madama vuoti allorquando è in discussione un'emergenza nazionale come, solo per trarre un esempio dall'attualità, il terremoto che ha sconvolto il Molise e commosso il Paese. L'indignazione, in questi casi, è sintomo d'umanità persistente. E che vi sia chi su questi fenomeni intende speculare giocando allo sfascio, può considerarsi indegno ma non aggiunge nulla. Costui fa il suo lavoro: gli "anti-parlamentaristi" sono una razza in servizio permanente e attivo. Quel che è più difficile da comprendere, invece, è perché i più responsabili protagonisti della vita politica si ostinino a cercare soluzioni innanzi tutto per linee interne, guardando ai partiti e alle coalizioni piuttosto che alla necessaria riforma del sistema: un evidente residuo di ancien régime. Forse, non hanno ancora compreso che nella politica di oggi vincere un congresso di partito conta meno di una mobilitazione di piazza. E che la potenza dei mass media ha annullato lo spazio per quelle arti tutte interne alla classe politica, così caratteristiche della vita pubblica italiana.
A destra, così come a sinistra, l'unica cosa che oggi sembra contare è vincere.
Per questo, non si può fare a meno di demonizzare l'avversario. Solo la raffigurazione dell'altro come nemico è infatti in grado di evitare l'implosione delle coalizioni, scaricando i conflitti interni sulle istituzioni che, in tal modo, vengono ulteriormente delegittimate. L'esposizione di cappi, stendardi e quant'altro in Parlamento, purtroppo, non è restata l'icona di una difficile ma limitata fase di transizione. E' divenuta la norma e, insieme, l'immagine più eloquente dell'attuale crisi delle istituzioni.
Regole precise che chiariscano i ruoli rispettivi di maggioranza e opposizione; che conferiscano al Premier gli strumenti effettivi per governare evitando ricatti di forze marginali, che diano all'opposizione strumenti di controllo e modi efficaci per far conoscere al Paese le sue proposte alternative, attendono da più di dieci anni. Nessun sistema politico moderno, ormai, può fare a meno dell'ortopedia istituzionale per ridimensionare i conflitti e facilitare le alleanze. Il passaggio è stretto, perché vi è bisogno di qualcuno che, da entrambe le sponde, riprenda i fili di un discorso interrotto sfidando i clamori delle piazze, gli ardori degli ultras, le accuse "d'inciucio" sempre in agguato. Chi sarà in grado di provarci, potrà però contare sul fatto che il Paese è ancora in grado di apprezzare un'opera di riforma necessaria: anzi la richiede a gran voce. Il rischio di rinunziare è, in ogni caso, maggiore: è quello di vincere, forse, ma di restare con un pugno di mosche, perché la sfiducia avrà nel frattempo avuto la meglio di istituzioni obsolete.

nuvolarossa
03-01-03, 19:32
Riforme istituzionali e regolamentazione dei partiti

L'iniziativa dei senatori Antonio Del Pennino (Pri) e Luigi Compagna (Udc) tende opportunamente ad inserire, nel dibattito sulle riforme, il tema della regolamentazione dei partiti politici: che è un tema vitale per una moderna democrazia liberale.
L'attuale sistema elettorale, sganciando la designazione dei candidati dalle primarie, ha di fatto rafforzato le oligarchie dei partiti piuttosto che i cittadini, come si riteneva invece che l'introduzione dell'uninominale maggioritario avrebbe dovuto fare. Una regolamentazione complessiva dei partiti _ concetto ben più ampio della pura e semplice disciplina delle fonti di finanziamento _ è dunque questione imprescindibile per affrontare correttamente il tema delle riforme.
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Lettera dei senatori Antonio Del Pennino (Pri) e Luigi Compagna (Udc) al Corriere della Sera venerdì 3 gennaio 2003

Partiti/Natura giuridica

Caro Mieli, rispondendo a un lettore che affrontava il problema delle primarie ipotizzate per scegliere il leader dell'Ulivo, lei ha sottolineato che quando si discute di primarie deve trattarsi di vere elezioni, in cui i cittadini "decidono con modalità trasparenti le candidature nazionali e periferiche del loro schieramento.

Il giorno successivo sul Corriere è apparso un articolo dei due vicepresidenti italiani del Parlamento europeo, Imbeni e Podestà, appartenenti agli opposti schieramenti politici nazionali, che insieme propongono una riforma delle legge per il rinnovo del Parlamento europeo basata sull'abolizione delle preferenze e sul ricorso al sistema delle liste bloccate, prescindendo da qualsivoglia primaria.

Una siffatta riforma, su cui sembrano concordare le due maggiori forze politiche del Paese, si tradurrebbe in un rafforzamento del potere oligarchico dei vertici dei partiti, escludendo ogni possibilità dei cittadini elettori di incidere sulla scelta qualitativa dei loro rappresentanti. Proposte di questo tipo rafforzano in noi la convinzione che, se non si vuole aggravare il distacco degli italiani dalla politica, occorre riprendere il tema, caro a Giovanni Spadolini, del ruolo dei partiti e del loro riconoscimento giuridico e, contestualmente, quello della regolamentazione delle primarie per la designazione dei candidati. In proposito, sin da luglio, abbiamo presentato un organico disegno di legge al Senato e abbiamo chiesto negli scorsi giorni al presidente Pera di inserire il tema della definizione della natura giuridica dei partiti nell'agenda di Palazzo Madama.

nuvolarossa
03-01-03, 19:34
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Lettera a Pera/"Il Senato affronti il nodo del finanziamento ai partiti"

Inserire nell'agenda del Senato, alla ripresa dei lavori parlamentari, la riforma del finanziamento dei partiti. Con questo intento i due senatori Antonio Del Pennino (Pri) e Luigi Compagna (Udc), firmatari di un apposito disegno di legge che regola la materia, hanno scritto al presidente di Palazzo Madama, Marcello Pera.

Il disegno di legge Del Pennino-Compagna fu presentato quest'estate in occasione della tanto contestata leggina di rifinanziamento pubblico dei partiti. Il provvedimento vorrebbe dotare le formazioni politiche di personalità giuridica e affidare il loro finanziamento in prevalenza a libere elargizioni detassabili. "Non può bastare _ sostengono i due parlamentari nella lettera a Pera _ assicurare ai partiti per legge un certo finanziamento, per regolarli e per impedire le degenerazioni che inevitabilmente si accompagnano ad ogni cosa umana". Per questo, il Ddl depositato in Senato sottopone le spese elettorali a limiti ben definiti e prevede un euro di rimborso per ogni voto ricevuto nella quota proporzionale e di 0,25 euro nei collegi uninominali. "L'ispirazione è spadoliniana _ viene puntualizzato nella missiva _ ma non senza rispetto per la logica dell'attuale bipolarismo". Un esempio? "Si prevedono elezioni primarie per le designazioni sia dei candidati di partito, sia dei candidati di coalizione". Non si tratta, tuttavia, della mera richiesta di mettere all'ordine del giorno il singolo Ddl. Del Pennino e Compagna chiedono a Pera di non lasciar passare sotto silenzio l'intera questione.

nuvolarossa
29-01-03, 21:58
Partiti politici: come recuperare credibilità e rappresentanza

di Liliana Speranza

I partiti creano l'opinione pubblica nello stesso modo che la esprimono: la plasmano più che deformarla. Non c'è eco, ma dialogo. Senza partiti vi sarebbero soltanto tendenze vaghe, istintive, mutevoli, dipendenti dal temperamento, dall'educazione dei costumi, dalla situazione sociale. I partiti precisano le opinioni individuali, le arricchiscono, le sviluppano e anche le rafforzano. Le opinioni assunte da un'organizzazione acquistano autorità e certezza. L'opinione pubblica senza partiti è mutevole, variabile, versatile. I partiti hanno tendenza a cristallizzare l'opinione, a dare ossatura a questo ammasso, informe e gelatinoso, piallano le originalità personali per fonderle in qualche grande famiglia. Il partitismo ha per effetto di sopprimere le suddivisioni secondarie dell'opinione e di coagularla attorno a due grandi correnti rivali all'interno delle quali si ritrovano molteplici sfumature, ma i cui limiti esterni sono molto netti. Il sistema dualista tende a cancellare le divergenze secondarie esistenti all'interno di ogni famiglia spirituale, ma ha il merito di tradurre correttamente il loro generale antagonismo (il bipartitismo se compiuto sarebbe così). Invece in Italia conserva il difetto del pluripartitismo che fa sparire la frattura fondamentale dell'opinione e accentua esageratamente le opposizioni particolari. Il bipartitismo giunge al sistema dei due blocchi, cioè ad un contrasto massimo, il che significa confondere le differenze numeriche delle rappresentanze in seno al parlamento con la profondità delle divergenze politiche. Dovunque essi esistano adempiono a certe comuni funzioni in un'ampia varietà di sistemi a differenti stadi di sviluppo sociale, politico ed economico e cioè: organizzare l'opinione pubblica, comunicare le sue istanze politiche al fine di incidere sulle decisioni del potere centrale di governo. Negli ultimi dieci anni i fenomeni di dispersione di potere, l'incapacità di fare riforme e di portare avanti programmi generali, la diffusione e l'aumento del sottogoverno, il proliferare delle correnti sono stati originati dalla "perdita" della capacità dei partiti di procurare vantaggi e benefici ai rappresentanti in quanto rappresentati dal partito nel suo complesso. Pur tuttavia c'è da dire che chi cerca di porre rimedio a tali mali togliendo di mezzo o imbrigliando i partiti conduce un discorso obiettivamente anti democratico. Non crediamo che la democrazia sia possibile senza partiti politici. Sarebbe opportuno seguire la strada della democrazia interna ai partiti che passa attraverso la maggiore partecipazione degli iscritti, il loro minore conformismo, la formulazione di statuti più precisi e più aperti la vigilanza circa il rispetto dei medesimi, la ricerca di veicoli di circolazione delle informazioni sul partito, sia in senso orizzontale che verticale. I partiti sono ultimamente destinati ad una crisi di profonda mutazione in quanto soggetti collettivi. Ultimamente abbiamo avuto la sensazione che i partiti siano diventati più che soggetti collettivi, delle macchine di potere, non essendo più in grado di rappresentare interessi, di creare identità, di attestare a diversi livelli meriti e bisogni sociali. Vi sono contrapposizioni di ideologie anziché creazione d'identità, c'è un interclassismo corporativo, anziché una rappresentanza di interessi, il clientelismo si è spesso sostituito alla certificazione di bisogni e meriti. Per far nascere un movimento di rinnovamento in una società in cui è diffusa la sensazione della "vittoria del segmento" e della frammentazione, occorrono alcuni elementi di stimolo quali il disagio, il bisogno condiviso, l'emozione, il messaggio e la leadership che formino un tutto intrecciato ad una forte sinergia.

Analizziamo tali promesse:

1) Il disagio è appena sentito, ma forse è più individuato come "desiderio del segmento", cioè ad un diritto di cui godere (ai consumi per esempio).
2) C'è un vago bisogno di ricomposizione almeno parziale della frammentazione, ma tale esigenza viene poi annullata da una sorta di paura del molteplice che fa richiudere in se stessi gli individui.
3) L'emozione non ha pulsioni tali da esprimere nuovi significativi messaggi e leadership valide per ricompattare il tutto.
4) Nel partito il singolo esercita i suoi interessi personali e soggettivi, mantenendo la sua appartenenza al collettivo, il quale resta un soggetto forte nella facciata, ma indebolito da una continua ricerca della legittimità per gestire i comportamenti individuali.
E' indispensabile, per recuperare la credibilità perduta che i partiti effettuino un raccordo con la realtà locale, con le culture e le dimensioni delle realtà locali, in sostanza con il costume consolidato della società in cui devono operare. L'identità, pertanto, dei partiti quali "soggetti collettivi" dipende dal recupero della loro capacità culturale di interpretare l'evoluzione in atto e le istanze di aggregazione e mobilitazione collettiva. Tutto ciò deve avvenire non definendo dall'esterno identità e importanza dei partiti attraverso "concertazione di vertice", ma instaurando una vitalità interna in un costante rapporto con la base e con la sua crescita dal basso, in una nuova cultura che attraversa orizzontalmente tutti i soggetti collettivi, sindacato e associazionismo imprenditoriale e movimenti di partecipazione vecchi e nuovi. Quando la realtà, infatti, sembra sfrangiarsi e frantumarsi, la prima reazione, il riflesso condizionato è quello di riportare tutto sotto controllo con poche grandi decisioni politiche di vertice, ma questa è una inutile propensione volontaristica che non permette certo la ricompattazione dell'attuale "società del frammento" la quale porta con sé tensioni che esprimono bisogno di diversificazione e di flessibilià, di orientamento e di leadership. E' ancora nelle mani dei partiti la possibilità di dare un "senso" – come ben ha osservato Ardigò – alle tensioni vitali. Su tale tema si è discusso anche al Consiglio Nazionale delle Ricerche in un Convegno organizzato dall'Unione Femminile Internazionale di Studi e Azione Sociale.
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tratto dal sito
http://www.pri.it/immagini/da%20inserire%20pri/logosinistra.jpg (http://www.pri.it)

nuvolarossa
28-12-03, 13:45
Le nuove frontiere della politica

Quando la partecipazione viene confinata nelle ville private

È ancora possibile l’educazione politica?
Per rispondere a questa domanda dovremmo prima chiederci se sia tutt’ora possibile la politica tout court. Lo spazio aperto alla libera discussione, alla libera circolazione delle idee, che da sempre ha connotato la res publica, oggi è infatti confinato su un piano di rissoso caos mediatico, lontano anni luce da ogni ipotesi partecipativa. L’unico effetto visibile di questa situazione sembra proprio la soppressione dell’attività politica.
Concorre indubbiamente a questo disegno l’uso eclatante della storia, fatalmente improprio allorquando, al momento dell’uscita dalla fase specialistica della ricerca, anziché confluire nella corretta divulgazione, si sfocia nelle estrapolazioni arbitrarie e metodologicamente sconcertanti (come è avvenuto con l’ultimo libro di Giampaolo Pansa, solo per citare l’ennesimo “caso di una lunga serie), nelle banalizzazioni e negli slogan di parte ad uso e consumo di un’informazione basata sullo spot di tipo pubblicitario. Qualche esempio: la fortuna, tutta italiana, del motto legato alla “morte della patria”, avvenuta in una data precisa, l’8 settembre del 1943; l’idea di una “fine della storia”, a partire dal 1989, anno della caduta del muro di Berlino; l’impatto mediatico, quindi fatalmente semplificato, manicheo e definitivo dell’11 settembre e del fenomeno terroristico in generale. Come se dopo questi momenti, la storia non avesse, inaugurato nuovi capitoli, conosciuto nuove complessità, seguito un proprio corso, anche tragico, anche sanguinoso. Come se l’idea di patria, in Italia, non si fosse ricongiunta, attraverso la Resistenza, al suo significato risorgimentale, sicuramente più profondo, variegato e democratico rispetto al concetto in voga nel ventennio fascista che si limitava a sovrapporre le nozioni di patria e di nazione, confondendo inevitabilmente il patriottismo col nazionalismo. Certo, possiamo argomentare che quella patria fascista, tronfia e lontana dal sentire comune, morì effettivamente l’8 settembre. Ma, in compenso, rinacque la patria che richiamava tutti “al senso della realtà”, come ebbe a dire Marino Pascoli, un giovane partigiano repubblicano ucciso negli anni difficili e oscuri del secondo dopoguerra. Una patria fondata sulla cittadinanza, sulla pluralità delle idee, sul confronto. La patria della Costituzione che si riallaccia, per l’appunto, all’intera storia unitaria del nostro paese, a partire dal Risorgimento e dalla volontà di convivere pacificamente e armoniosamente con tutti i cittadini d’Europa.
La discussione su questi aspetti ha già coinvolto migliaia di intellettuali e impegnato milioni di pagine. In questa sede ci preme annotare che simili tipologie di dibattito riguardano le impostazioni, il metodo storiografico. Non ci interessa, per ora, avventurarci in approfondimenti, muniti di un bilancino che penderebbe comunque sempre da qualche parte, trascinandoci nell’eterno dilemma se vada enfatizzato maggiormente il totalitarismo nazi-fascista o quello staliniano, la violenza dei fascisti e dei franchisti o quella dei comunisti. Non si tratterebbe, intendiamoci, di discussioni oziose, ma in questa sede ci sembra più urgente segnalare che il vero attacco al concetto di patria (quello che scaturisce direttamente dalle esperienze del primo e del secondo Risorgimento) è l’attacco diretto alla politica, intesa nel senso etimologico del termine. Viene prima dalla demonizzazione e poi dalla banalizzazione di questo concetto. È un attacco che non ha bisogno dei mezzi classici della coercizione tipica delle vecchie dittature, dei golpe, dei carri armati, della repressione poliziesca. Per la prima volta nella storia i poteri di tutto il mondo stanno scoprendo che le notizie possono essere costruite e date in pasto all’opinione pubblica che costituisce il corpo elettorale sotto forma di quotidiane pillole televisive. La storia può essere scritta e riscritta, orwellianamente, senza tema di smentite (che al massimo durerebbero lo spazio di una giornata) e senza alcun timore di cadere nel grottesco o nel ridicolo. Si è giunti a negare l’olocausto e i gulag e a sostenere col sorriso a fior di labbra che Mussolini era uno statista che inviava gli oppositori in vacanza nelle isole esotiche.
Si tratta di un’arma nuova, affilata e pericolosa quanto quella utilizzata a suo tempo dai fascismi e dai totalitarismi di tutto il mondo, che demonizzavano la partecipazione, educando i cittadini all’insegna del falsamente neutro “me ne frego”, della censura diffusa, della minaccia e delle violenze. Oggi, inoltre, non ci si accontenta più di confinare (e di controllare) la politica nelle scatole televisive, ma i nuovi potenti lanciano un messaggio chiarissimo, inequivocabile e sfrontato assumendo le decisioni “che contano” dall’interno delle loro ville private. È qui che ricevono capi di stato, ministri, membri del governo. Izbe, ranch, casali sontuosi: non fa differenza. A parte il problema (vasto) di rappresentatività democratica che implicitamente si presenta in tutta la sua gravità e complessità, l’indicazione rivolta alle masse dei teleutenti-consumatori è evidente a tutti: sono questi i nuovi castelli, le vere regge del potere. I palazzi dello stato, i parlamenti eletti con criteri democratici evidentemente obsoleti non servono più.

Il brutale assassinio della ministra degli esteri svedese Anna Lindh, convinta europeista, tenace e coerente sostenitrice dei diritti umani, è un segno dei tempi e si innesta purtroppo, tragicamente in questa spirale antidemocratica perché incrementa la distanza, già siderale, tra eletti ed elettori.
Anna Lindh, come il premier svedese Olof Palme, anch’egli a suo tempo barbaramente ucciso all’uscita da una sala cinematografica, apparteneva alla ormai rara categoria di personalità pubbliche che continuavano a mescolarsi tra la gente, a vivere fianco a fianco con i propri elettori. Faceva la spesa al supermercato, sola, senza scorta, in un momento in cui i suoi pari grado di tutto il mondo non osano nemmeno affacciarsi a una finestra. Era un bersaglio facile, ed anche un nemico vero per i cultori delle “democrazia” praticata dalle torri fortificate dei nuovi castelli kafkiani, attraverso collaudati metodi da “grande fratello”. Certo, per un cittadino che ogni giorno viene educato davanti ai telegiornali globalizzanti, il nuovo messaggio pedagogico suona come un imperioso invito a disertare la partecipazione: fastidiosa, inutile, dannosa, pericolosa.
È terribilmente difficile organizzare una difesa efficace contro simili modelli. La tradizione a cui appartiene questa rivista suggerisce inequivocabilmente la via di una resistenza a oltranza.

Sauro Mattarelli
(http://utenti.lycos.it/nuvolarossa44/modules/news/)
tratto dal sito web del
PENSIERO MAZZINIANO (http://www.domusmazziniana.it/ami/)

nuvolarossa
03-03-04, 20:30
Violenze e attentati contro i sindaci tra cui il presidente dell'Anci/Ucciso il padre del primo cittadino di Burgos in Sardegna e attentato incendiario a Massafra

Dal potenziamento dei consigli risposte preventive

Nei giorni scorsi tre episodi di violenza hanno colpito alcuni sindaci: nel primo è rimasto ucciso il padre del sindaco di Burgos in Sardegna, nel secondo un pacco bomba è stato recapitato, a Palazzo Vecchio, al sindaco Domenici, nel terzo è stato dato fuoco al portone d'ingresso dello studio del primo cittadino di Massafra in provincia di Taranto.

L'episodio più rilevante, anche per l'esito letale, è quello della Sardegna, dove il padre del sindaco è stato dilaniato da un ordigno collocato davanti alla sua abitazione e chiaramente destinato al figlio sindaco, in precedenza già bersaglio di numerosi attentati. Per questi motivi, e per la denuncia dello stesso sindaco, il piccolo comune del sassarese era stato inserito nei progetti pilota , assieme a Lula, Orgosolo e la Barbagia, del Programma operativo nazionale "Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno" del Ministero dell'Interno.

Il pacco destinato al sindaco di Firenze non ha avuto fortunatamente conseguenze, anche se ha prodotto maggiore eco sulla stampa per la notorietà di Domenici che è anche presidente dell'Anci, l'associazione nazionale dei Comuni italiani, e quindi l'episodio potrebbe inserirsi nella sequenza degli altri pacchi esplosivi recapitati negli ultimi tempi, a personalità della politica. L'intimidazione al sindaco di Massafra, che svolge la professione di architetto, è un classico che richiama la lunga sequenza di violenze e intimidazioni indirizzati contro gli amministratori locali in tutto il Paese, con modalità e caratteristiche simili.

Un filo conduttore collega, comunque, questi tre episodi , in sé diversi per modalità, esiti e geografia dei luoghi dove sono avvenuti, e ne fa uno spaccato rappresentativo dei pericoli del mondo delle autonomie locali. Superato, pertanto, il primo momento della solidarietà e dello sdegno è necessario compiere una riflessione approfondita e dare una risposta adeguata.

La prima domanda che dobbiamo porci riguarda il motivo per cui tali episodi siano indirizzati, quasi esclusivamente, contro gli amministratori locali e non invece i verso i rappresentanti elettivi degli altri livelli istituzionali.

La risposta non può che evidenziare il rapporto diretto che lega, in misura maggiore di altre, l'attività degli amministratori ai cittadini. La conseguenza di tale vicinanza porta gli amministratori ad essere maggiormente esposti a possibili reazioni da parte di chi si sente, più o meno giustamente, danneggiato da una decisione del comune. Anche se gli amministratori si trovano a dover applicare scelte legislative prese in sedi diverse e da altri soggetti (parlamentari, consiglieri regionali) ad essere chiamati in causa sono sempre coloro che si trovano in prima linea.

Ma c'è qualcosa che ha reso in questi ultimi tempi più "esposti" gli amministratori a possibili atti di violenza ed è la natura dell'ente locale che, ha subito sul piano legislativo e delle funzioni modificazioni profonde che lo hanno trasformato in un vero e proprio "ente economico", in grado di produrre effetti diretti e indiretti sulle attività finanziarie dei cittadini.

L'elezione diretta del sindaco, le cosiddette leggi Bassanini sulle responsabilità dei funzionari, hanno aumentato la capacità operativa della macchina comunale ma hanno anche, di fatto, svuotato il consiglio comunale da quella funzione politica di indirizzo e controllo e di alta mediazione che sottraeva la soluzione dei problemi sul tappeto ai pericoli, in ogni senso, di logiche personalistiche. In questo vuoto, che espone gli amministratori alla solitudine e ad ogni possibile reazione, si inseriscono quelle forze che credono di poter ottenere qualsiasi cosa, anche la meno lecita, piegando con la violenza e l'intimidazione la forza delle norme e l'autorità delle leggi.

In occasione di episodi di violenza contro amministratori vengono, come momento di reazione e di solidarietà, convocati consigli comunali "aperti" alla partecipazione dei cittadini e delle forze politiche e sociali, ma occorre dire che la loro incidenza reale non va oltre la celebrazione di un rito. Il rafforzamento delle barriere contro il possibile ricorso alla violenza deve essere preliminare e deve passare dal potenziamento dell'azione collegiale degli organi degli enti locali, dall'utilizzazione delle commissioni consiliari d'indagine che gli Statuti volevano presiedute, addirittura, dalla minoranza e che invece non sono state nemmeno costituite, dalla convocazione con maggiore frequenza dei consigli comunali, chiamando alla discussione le associazioni dei cittadini e le organizzazioni di categoria. Nel dopoguerra, nel momento in cui si dava inizio al superamento del modello autarchico di comune ereditato dal fascismo, e si cominciava a costruire concretamente lo Stato delle autonomie, il Consiglio comunale rappresentava il momento centrale di tale progetto. Oggi, purtroppo, i consigli servono soltanto a ratificare scelte e decisioni prese altrove. Ma se non si riprende a costruire, pur nella diversità delle posizioni politiche, un momento unitario, con il quale superare le tensioni derivanti dalle diverse valutazioni dei problemi, gli amministratori saranno sempre più soli con le loro scelte ed esposti ad ogni possibile reazione. Convocare, dopo episodi di violenza, i consigli non serve a molto.

Pino Vita

nuvolarossa
23-07-04, 19:15
Sartori ricorda Galli

Il bipolarismo esisteva già dal 1948 ed era anche imperfetto

Ci ha fatto piacere leggere l'editoriale di Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera", in cui si ricorda il libro di Giorgio Galli sul "bipartitismo imperfetto". Con questo si rende giustizia del fatto che il bipolarismo non è un'invenzione della Seconda Repubblica, ma in Italia è sempre esistito, fondato com'era su un blocco occidentale ed atlantico - che la Dc bene o male assicurava - e uno avverso, capeggiato dal Partito comunista. Era il 1948. L'imperfezione a cui si richiamava Galli era data per l'appunto dal fatto che tale sistema non consentiva l'alternanza, almeno fino a quando il Partito comunista non avesse rotto i ponti con l'Unione Sovietica. Il Pds dell'onorevole Occhetto nel ‘94, anche con un sistema proporzionale, avrebbe potuto mirare, attraverso adeguate alleanze politiche, alla guida del Paese. La legge elettorale maggioritaria creò l'illusione che solo il Pds avrebbe potuto prendere le redini del governo, essendo i partiti della Prima Repubblica caduti sotto la mannaia giustizialista. Così non fu, perché Berlusconi raccolse molti cocci in Forza Italia e soprattutto seppe costruire una atipica alleanza elettorale fra An e la Lega, che gli assicurò la guida dell'esecutivo per una breve stagione. Va dato atto a Berlusconi di essere poi riuscito a costituzionalizzare il suo movimento nel Partito popolare europeo, a condizionare la destra italiana, tanto da farla rompere con la desinenza postfascista e portare la Lega sulla strada del federalismo, facendola rinunziare alla deriva secessionista. Berlusconi ha poi aperto a tradizioni democratiche e di sinistra come il Pri ed il Nuovo Psi, ampliando la sua alleanza, mentre l'Ulivo la restringeva. Questa operazione politica gli ha assicurato un altro successo elettorale nel 2001. Ora abbiamo il bipolarismo perfetto, se non fosse che l'amalgama che tiene i due blocchi contrapposti è ancora molto mal assortito. Sono i poli, infatti, che Sartori giudica imperfetti. Anche su questo il professore ha ragione. La difficoltà che l'Italia ha incontrato fino a questo momento con il nuovo sistema elettorale è dunque di natura politica. Se i due poli riusciranno a costruire autentiche condizioni e convinzioni di mutua assistenza, si potrà andare avanti sulla strada imboccata. Altrimenti non ci sarà magari un ritorno al passato, ma certo molte cose andranno necessariamente riviste, cominciando dalla legge elettorale.

Roma, 23 luglio 2004

nuvolarossa
09-02-05, 21:15
Bipolarismo e alleanze

La corsa alla vittoria elettorale e i problemi della governabilità

L’affermazione del segretario dei Ds, onorevole Fassino, nel dibattito televisivo con Giulio Tremonti, secondo la quale il centrosinistra, nel caso vincesse le elezioni, potrebbe non essere "autosufficiente", come già accade al tempo del governo D’Alema nella guerra in Kossovo, ed avere dunque bisogno dei voti dell’opposizione, è la maggiore dimostrazione della tesi elaborata dal nostro congresso di Fiuggi sulla necessità di dare al Paese una maggioranza omogenea.

L’onorevole Fassino ha anche detto, sconsolatamente, che la legge elettorale impone alleanze così larghe e dunque una articolazione delle stesse, tale da lasciare sopravvivere le differenze. Ma è ovvio che un contenzioso sulla collocazione internazionale dell’Italia, gli adempimenti di politica estera, all’interno di una coalizione non sono distinguo naturali fra soggetti diversi. Piuttosto appaiono come il freno a qualsiasi politica di governo coesa ed efficace, una mina tale da poter esplodere con effetti deflagranti. Senza contare che, se si deve vivere come un obbligo l’attuale legge elettorale, nulla impedisce di cambiarla, e comunque se, dopo il voto del 2006, Fassino e Tremonti maturassero la convinzione di dare vita ad un governo comune per affrontare la questione del declino economico del Paese, non vediamo la ragione per la quale il Capo dello Stato dovrebbe opporvisi. Qualcuno potrà dire di tutta questa elaborazione: fantascienza.

In effetti oggi le coalizioni sono definite, hanno appuntamenti elettorali decisivi alle porte e quindi scarsa disponibilità ad affrontare i problemi che loro si presentano.

Conta vincere. E’ vero, ma domani conterà governare: e qui aveva ragione l’onorevole Tremonti nel dire che il centrosinistra può vincere le elezioni, non il governo. Ma il problema del governo si pone anche domani per il centrodestra. Ad esempio, lo stesso Tremonti non ritiene particolarmente grave il dissenso della Lega sull’ingresso della Turchia in Europa, una questione che non è ancora all’ordine del giorno. Ma quando poi si tratterà di accettare la Turchia o di respingerla, allora i conti si dovranno pur fare anche per l’attuale maggioranza. E vedremo se il legittimo confronto dialettico fra le parti della stessa coalizione riuscirà ad ottenere quella sufficiente coesione per realizzare una politica credibile o meno.

Roma, 9 febbraio 2005
http://utenti.lycos.it/NUVOLA_ROSSA/PULPFICTION.mid

nuvolarossa
08-03-05, 13:09
Opposizione, primarie e democrazia

di Ferruccio Formentini

Uno dei furti più riusciti alla sinistra era stato nei decenni scorsi quello della parola “democratico”. Gli operai erano “democratici”, i genitori, i netturbini, gli studenti, i poliziotti,i giornalisti, i magistrati. Quando si vedeva comparire il suffisso “democratico” si poteva star certi che erano loro, i comunisti. Tutti gli altri democratici non erano. Fascisti o giù di lì. Ora c’è questa stranissima pantomima delle “primarie”, dove il bluff andato oltre le aspettative di Vendola in Puglia, ha buttato al mare in pochi giorni tanti anni di “tradizione democratica”. Adesso tutti dicono che le primarie si devono fare con un solo candidato. Bel modo “democratico” di fare elezioni. Più o meno le faceva così anche Saddam.

nuvolarossa
31-01-07, 22:35
Calma ragazzi !
Veltroni e Fini meglio farebbero a frequentarsi il meno possibile

L'identità di vedute sulla legge elettorale fra l'onorevole Fini ed il sindaco di Roma Veltroni suscita più di una perplessità. Noi, ad esempio, condividiamo pienamente quelle stesse manifestate da un ministro del precedente governo, Pisanu, che ritiene "ripugnante" modificare la legge elettorale con l'accetta della minaccia referendaria. In particolare, Fini e Veltroni hanno allestito un singolare minuetto di dichiarazioni, fra le quali abbiamo letto che essi non considerano "virtuoso un Paese in cui partiti del 2% siano arbitri della legislatura". Oppure che i rischi "non vengono da un eccesso di potere, ma da un eccesso di frammentazione", ed infine che "voler rafforzare i poteri del premier non è un tentativo autoritario". Non sono, queste, idee innovatrici. I grandi partiti possono provare anche insofferenza verso le forze minori, ma la democrazia prevede che esse abbiano una rappresentanza.

http://www.lastampa.it/redazione/cmssezioni/politica/200701images/fini_veltroni01g.jpg

E se Veltroni intendeva polemizzare con l'Udeur di Mastella - che sui Pacs potrebbe mettere a rischio il governo - deve pure tenere conto che il 2% di Mastella è stato indispensabile per formare questo governo. E' troppo comodo prendersi i voti di Mastella e poi dirgli: fai quello che vogliamo noi, che abbiamo il 30 per cento dei voti. La legge elettorale che vuole Veltroni è quella che elimina Mastella e gli sottrae i voti. Ci permettiamo di osservare che non è propriamente democratica e nemmeno molto politica. I rischi vengono dalla frammentazione, certo, ma in questo caso, se si sopprimono delle voci indipendenti, possono derivare anche dall'eccesso di potere: ci pare grave sottovalutare questi ultimi, per chi ha cuore, come Veltroni, il destino del nostro Paese.

E' di Fini invece la frase per la quale il rafforzamento dei poteri del premier non è un tentativo autoritario. Gli diamo volentieri ragione se a questo rafforzamento dei poteri del premier si accompagna un rafforzamento dei contropoteri. Se non si chiarisce questo, l'ombra dell'autoritarismo c'è, eccome, e da parte nostra la denunceremo con forza. Fini e Veltroni sono personalità politiche di grande rilievo, che meritano tutto il nostro rispetto, ma la loro formazione politica passata ha una radice estranea alla democrazia italiana, in quanto affondava nel totalitarismo. La strada percorsa da allora è molta, e quanto mai apprezzabile. Ogni tanto ci pare di rivedere affiorare questa vecchia radice, soprattutto nell'occasione del loro incontro. Meglio che si tengano lontani l'uno dall'altro.

Roma, 31 gennaio 2007

tratto da http://www.nuvolarossa.org/modules/news/article.php?storyid=3335

nuvolarossa
26-04-07, 18:08
Referendum e democrazia
Chissà se con due soli partiti si risolveranno i problemi del Paese

Abbiamo visto che il ministro Parisi è arrivato a ricordare il referendum popolare da cui nacque la Repubblica 61 anni fa, per sostenere la raccolta di firme per il referendum attuale.

Mario Segni, a sua volta, ritiene che chi critica l'impianto referendario attenti alla Costituzione. Eppure nessuno sostiene che il referendum sia antidemocratico - e come mai potrebbe essere? - ma c'è piuttosto chi si dice convinto che tale referendum non faccia un buon servizio alla democrazia italiana.

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La ragione di questo argomento deriva dal fatto che i partiti sono il principale strumento di partecipazione democratica e, quando si vuole inibire e colpire i partiti, si rischia di mettere in crisi il sistema democratico, non di perfezionarlo. I referendari, che pure sono tutti professori, mostrano a volte poca dimestichezza con la lingua italiana e poca tolleranza nei confronti di chi esprime un'idea diversa dalla loro. Per la verità noi abbiamo l'impressione che con il referendum contro il sistema proporzionale del ‘94, non si comprendesse come una riforma elettorale in senso maggioritario comportasse un vulnus allo stesso assetto costituzionale, tant'è che un equilibrio vero e proprio dal ‘94 in avanti non lo abbiamo più trovato e ad ogni legislatura abbiamo un problema di riscrittura della legge elettorale; ed uno ancora più grave di riforma costituzionale.

Ciò non significa ovviamente che il referendum fosse antidemocratico, che il problema evidenziato dal referendum non esistesse, allora come oggi, ma che il referendum non era il grado di risolverlo: e ci pare che questo sia dimostrato.

Con la deriva referendaria, infatti, si scardina un sistema, ma non lo si costruisce: di questo non sembrano apparire affatto consapevoli i componenti del comitato promotore per il referendum che nemmeno hanno tratto esperienza dal primo referendum sulla legge elettorale e dal caos politico che pure ha creato, e a cui ancora bisogna porre rimedio. Tanto che a noi fa un certo effetto, lo diciamo garbatamente al ministro Parisi, vedere paragonato il referendum del 1946 con questi ultimi che non concernono la forma di governo, ma al più una modalità della stessa. Forse sulla modalità delle forme di governo sarebbe opportuno che fosse il Parlamento a decidere attraverso i suoi rappresentanti, perché la maggior parte dei cittadini non ha la sufficiente competenza, visto che è ormai evidente che la competenza in materia non ce l'hanno nemmeno alcuni ministri della Repubblica.

Nel merito il referendum sarebbe un colpo di pistola, il secondo sul sistema politico del paese, per obbligare a fare una cosa che le forze politiche non vogliono fare. E se la maggioranza dei cittadini ha diritto di ritenere che servano due soli partiti al paese, una minoranza cospicua ha diritto di essere contraria a tale imposizione e, nonostante il referendum, questa minoranza continuerà a restare contraria: per cui resta il problema se la si vuole escludere o se la si vuole in qualche modo ricomprendere.

Se la si vuole escludere, non ha torto chi ritiene che ci sia un servizio cattivo alla democrazia; se la si vuole ricomprendere, ha ragione Amato che evoca delle camicie di forza in cui ingessare tutti i partiti costretti ad unificarsi in un solo listone.

La nostra idea è che la politica detta le leggi elettorali, e non le leggi elettorali la politica. Sulla base di questi ultimi 13 anni, questo si sarebbe dovuto vedere con chiarezza. Il referendum contro il proporzionale doveva ridurre i partiti, che sono invece passati da 7 a 22, ed ora si pensa di poter tornare da 22 a 2. E' più facile che all'indomani del referendum ne nascano 44, e che l'unica maniera per impedire la moltiplicazione incessante degli stessi sia il sistema proporzionale, al quale si pensava di accompagnare la nostra vecchia Costituzione e al quale si possono mettere dei correttivi per renderlo più funzionale in termini di stabilità ed efficacia. Ma l'idea che con due soli grandi partiti si risolvano i problemi del paese, sarebbe come credere che se fossero esistiti solo il Pci e la Dc nel secondo dopoguerra, l'Italia sarebbe stata governata meglio.

Dal nostro punto di vista, semmai, pensando al frontismo degli anni ‘50, senza forze intermedie capaci di porsi fra due grandi partiti avversari ed ostili l'un l'altro, era più facile scivolare nella guerra civile.

Roma, 26 aprile 2007

tratto da http://www.pri.it