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Orazio Coclite
16-11-02, 01:22
Da: http://www.asslimes.com/terra%20di%20mezzo/nozioneimpero.htm

Robert Steuckers

La nozione di Impero da Roma ai giorni nostri
con un’appendice sulla « sussidiarietà »

Nella memoria europea, spesso confusa o inconscia, l’Impero romano ha in seno la quintessenza dell’ordine. Esso appare come una vittoria sul caos, inseparabile dalla "pax romana". Il fatto di avere mantenuto la pace all’interno del limes e di aver confinato per diversi secoli la guerra su delle province lontane (dei Parti, dei Mauri, dei Germani, dei Daci) è, per noi inconsapevoli, una prova di eccellenza. Anche se è difficile dare una definizione universale del termine di impero – non essendo l’Impero romano paragonabile a quello inca, a quello di Gengis Khan, all’Austria-Ungheria degli Asburgo - Maurice Duverger si è sforzato di sottolineare alcune caratteristiche degli Imperi che si sono succeduti sulla scena della storia (nella sua introduzione al libro del centro di analisi comparativa dei sistemi politici, Il concetto di Impero, PUF, 1980):

- in primo luogo, come aveva già sottolineato il linguista francese Gabriel Gérard nel 1718, l'Impero è uno "Stato vasto e composto da diversi popoli", in opposizione al regno, prosegue Duverger, meno esteso e che si basa sulla "unità della nazione da cui è formato". Da questa definizione, possiamo dedurre, con Duverger, tre elementi:
a) L'Impero è monarchico, il potere supremo è assunto da un solo titolare, designato per via ereditaria e che presenta un carattere sacro (funzione sacerdotale).
b) L'estensione del territorio costituisce un criterio fondamentale degli imperi, senza che vi si possa dare una misura precisa. La grandezza del territorio è qui soggettiva.
c) L'Impero è sempre composto da diversi popoli, la sua diversità territoriale implicando d’ufficio la diversità culturale. Secondo Karl Werner, "un regno è un paese, un impero è un mondo".

- L'Impero, che è dunque un sistema politico complesso che mette termine al caos e riveste una dimensione sacra, precisamente perché genera l’ordine, ha una dimensione militare, come vedremo quando andremo ad affrontare il caso del Sacro Romano Impero della Nazione tedesca, ma anche una dimensione civile costruttiva: non c’è Impero senza organizzazione pratica dello spazio, senza rete stradale (le vie romane, indice concreto dell’imperialità di Roma), essendo le strade l’armatura dell’Impero, senza un commercio fluviale coerente, senza gestione dei fiumi, senza scavo dei pozzi, senza tracciamento di canali, senza vasti sistemi di irrigazione (Egitto, Assiria, Babilonia, l'"idraulismo" di Wittfogel). Nel XIX secolo, quando si fa sentire la necessità di riorganizzare l’Europa, quando nei dibattiti sorge una domanda d’Europa, l’economista tedesco Friedrich List parla di reti ferroviarie e di canali per saldare il continente. Il grande spazio, erede laico e non sacro dell’Impero, reclama anche un’organizzazione delle vie di comunicazione.

- "In ogni insieme imperiale, l’organizzazione dei popoli è varia quanto l’organizzazione dello spazio. Essa oscilla ovunque tra due esigenze contrarie e complementari: quella della diversità, quella dell’unità" (Duverger, op. cit.). "I Persiani sottomisero diversi popoli, ma rispettarono le loro particolarità: il loro regno può dunque essere assimilato ad un impero" (Hegel). Per natura, gli Imperi sono dunque plurinazionali. Essi riuniscono diverse etnie, diverse comunità, diverse culture, altrimenti separate, sempre distinte. Il loro assemblaggio in seno alla struttura imperiale, può prendere forme diverse. Per mantenere questo insieme eterogeneo, bisogna che il potere unitario, quello del titolare unico, apporti dei vantaggi ai popoli inglobati e che ognuno conservi la propria identità. Il potere deve dunque centralizzare (per evitare la secessione dei poteri locali feudali) e tollerare l’autonomia per mantenere lingue, culture e usanze dei popoli, affinché questi non si sentano oppressi. Bisogna infine, aggiunge Duverger, che ogni comunità e ogni individuo abbiano coscienza di guadagnare nel ritrovarsi all’intero dell’insieme imperiale invece di vivere separatamente. Compito difficile che sottolinea la fragilità degli edifici imperiali: Roma seppe mantenere un tale equilibrio per secoli, da qui la nostalgia per quest’ordine fino ai giorni nostri. Le imperfezioni dell’amministrazione romana furono certo assai numerose, soprattutto nel periodo di declino, ma queste disfunzioni erano preferibili al caos. Le élite accettarono la centralizzazione e modellarono il loro comportamento su quello del centro, le masse rurali conservarono i loro costumi intatti praticamente fino alla rottura degli aggregati rurali, causata dalla rivoluzione industriale (con la parentesi nera dei processi per stregoneria).

- Duverger segnala anche una delle debolezze dell’Impero, soprattutto se si desidera riattualizzarne i principi di pluralismo: la nozione di chiusura, eloquentemente simboleggiata dalla Muraglia cinese o dal Vallo di Adriano. L'Impero si concepisce come un ordine, circondato da un caos minaccioso, il quale nega che gli altri possano avere un proprio ordine o un valore qualsiasi. Ogni impero si afferma più o meno come il mondo essenziale, circondato di mondi periferici ridotti a quantità trascurabili. L'egemonia universale riguarda solamente "l'universo che vale qualcosa". Rigettato nelle tenebre esteriori, il resto è una minaccia da cui bisogna proteggersi.

- Nella gran parte degli imperi non europei, l’avvento dell’impero equivale alla sostituzione degli dei locali con un dio universale. Il modello romano costituisce un’eccezione: esso non sostituisce gli dei locali, li integra nel proprio pantheon. Il culto dell’imperatore si sviluppa di colpo, come mezzo per stabilire una relativa unità di fede tra i diversi popoli i cui dei sono entrati nel Panthéon in un tollerante sincretismo. Questa repubblica di divinità locali non implica crociate esterne perché tutte le forme del sacro possono coesistere.

Quando l’Impero romano crolla, soprattutto a causa della sua decadenza, il territorio dell’Impero è frazionato, diviso in molteplici regni germanici (Franchi, Svevi, Visigoti, Burgundi, Ostrogoti, Alemanni, Bavari, etc.) che si uniscono certo contro gli Unni (nemico esterno) ma finiscono per combattersi tra di loro, prima di piombare a loro volta nella decadenza (i "re fannulloni") o di svanire sotto la dominazione islamica (Visigoti, Vandali). Dalla caduta di Roma nel V secolo all’avvento dei Maestri di Palazzo e di Carlo Magno, l’Europa, almeno la sua parte occidentale, conosce un nuovo caos, che il cristianesimo da solo si rivela incapace di controllare. Dall’Impero d’Occidente, di fronte ad un Impero d’Oriente colpito meno duramente, non rimane intatta che una Romània italiana (Col termine Romània italiana è da intendersi quelle aree d'Europa che furono soggette all'influenza politia e culturale dell'impero romano Ndt), ridotta solamente ad una parte della penisola. Questa Romània non può pretendere uno status di Impero, vista la sua esiguità territoriale e la sua estrema debolezza militare. Di fronte ad essa, troviamo l’Impero d’Oriente, ormai "bizantino", a volte denominato "greco" ed un Regnum Francorum territorialmente compatto, militarmente potente, per il quale d’altronde, la dignità imperiale non potrebbe essere che un inutile accessorio, un semplice titolo onorifico. Alla Romània, non resta più che il prestigio defunto e passato dell’Urbs, la Città iniziale della storia imperiale, la civitas dell'origine che si è estesa all’Orbis romanus. Il cittadino romano nell’Impero segna la sua appartenenza a questo Orbis, pur conservando la sua natio (natione Syrus, natione Gallus, natione Germanicus, etc.) e la sua patria, appartenenza ad una tale o talaltra città dell’insieme costituito dall’Orbis. Ma la nozione di Impero resta legata ad una città: Roma o Bisanzio, anche se i primi re germanici (Odoacre, Teodorico) dopo la caduta di Roma riconoscono come Imperatore il monarca assiso a Costantinopoli.

Se la Romània italiana conserva simbolicamente la Città, Roma, simbolo più tangibile dell’Impero, legittimità concreta, essa manca singolarmente di basi territoriali. Davanti a Bisanzio, davanti al tentativo di riconquista di Giustiniano, la Romània e Roma, per restaurare il loro splendore, per essere di nuovo le prime al centro dell’Orbis, devono rivolgere molto naturalmente il loro sguardo verso il re dei Franchi (e dei Longobardi che egli ha appena sconfitto), Carlo. Ma i Franchi, fieri, non hanno affatto il desiderio di divenire delle semplici appendici di una minuscola Romània priva di gloria militare. Frattanto il Papa rompe con l’Imperatore d’Oriente.

Le Santa Sede, scrive Pirenne, fino ad allora orientata verso Constantinopoli, si volge risolutamente verso occidente e, al fine di riconquistare alla cristianità le sue posizioni perdute, comincia ad organizzare l’evangelizzazione dei popoli « barbari » del continente. L'obiettivo è chiaro: dotarsi ad ovest delle basi di una potenza per non cadere più alle dipendenze dell’Imperatore d’Oriente. In seguito la Chiesa non vorrà più trovarsi alla mercè di un Imperatore d'Occidente.

Il Regnum Francorum potrebbe benissimo diventare un impero da solo, senza Roma, ma Roma non può più ridiventare un centro credibile senza la massa territoriale franca. Da questo, la necessità di diffondere una propaganda adulatrice, descrivente in latino, la sola lingua amministrativa del Regnum Francorum (compresi i notai e i refendarii civili e laici), i Franchi come il nuovo "popolo eletto da Dio", Carlo Magno come il "Nuovo Costantino" anche prima di essere ufficialmente incoronato Imperatore (dal 778 da Adriano I), come un "Nuovo David" (cosa che lascia pensare che allora esistesse un’opposizione tra i sostenitore della "ideologia davidica" e quelli della "ideologia constantiniana", più romana che "nazionale"). Prima di diventare Imperatore a Roma e per grazia del Papa, Carlo Magno può dunque considerarsi come un "nuovo David", eguale all’Imperatore d'Oriente. Cosa che sembra porre qualche problema ai nobili franchi o germanici.

Divenire Imperatore della Romània pone problemi a Carlo Magno prima dell’800, anno della sua incoronazione. Certo, divenire Imperatore romano-cristiano è interessante e glorioso, ma come pervenirvi quando la base effettiva del potere è franca e germanica? Le fonti ci informano sull’evoluzione: Carlo Magno non è Imperator Romanorum ma "Romanum imperium gubernans qui est per misericordiam Dei rex Francorum et Langobardorum". La sua nuova dignità non deve assolutamente intaccare o limitare il prestigio del regno dei Franchi, il suo titolo di Rex Francorum rappresenta l’essenziale. Aix-la-Chapelle, ad imitazione di Bisanzio ma percepita come "Anti-Constantinopoli", resta la capitale reale dell’Impero. Ma la Chiesa pensa che l’Imperatore sia come la luna: egli non riceve la sua luce che dal « vero » imperatore, il Papa. Dopo Carlo Magno si crea un partito dell’unità che vuole superare l’ostacolo della dualità franco-romana. Ludovico il Pio, successore di suo padre, sarà soprannominato Hludowicus imperator augustus, senza che si parli più di Franchi o di Romani. L'Impero è uno e comprende la Germania, l’Austria, la Svizzera, la Francia e gli Stati dell’attuale Benelux. Ma, il diritto franco non conosceva il diritto di primogenitura: alla morte di Ludovico il Pio, l'Impero viene diviso tra i suoi discendenti nonostante il titolo imperiale portato dal solo Lotario I. Seguono diversi decenni di declino, al termine dei quali si affermano due regni, quello occidentale che diventerà la Francia, e quello orientale che diventerà il Sacro Impero o, più tardi, la sfera d’influenza tedesca in Europa.

Pressata dai popoli esterni, dall’avanzata degli Slavi non convertiti in direzione dell’Elba (dopo l’eliminazione dei Sassoni da parte di Carlo Magno nel 782 e la dispersione nell’Impero dei sopravvissuti, come attestato dalle Sasseville, Sassenagues, Sachsenhausen, etc.), dai raids saraceni e scandinavi, dagli assalti degli Ungari, l'Europa ripiomba nel caos. Ci vuole il pugno di un Arnolfo di Carinzia per ristabilire una parvenza di ordine. Egli è nominato Imperatore. Ma bisognerà attendere la vittoria nel 995 del re sassone Ottone I contro gli Ungari, per ritrovare una maestà imperiale ed una relativa pace. Il 2 febbraio 962, nella Basilica di S. Pietro a Roma, il sovrano germanico, più precisamente sassone (e non più franco), Ottone I è incoronato Imperatore dal Papa. L'Impero non è più pipinide-carolingio-franco, ma tedesco e sassone. Esso diviene il “Sacro Impero”. Nel 911 in effetti, la corona imperiale è sfuggita alla discendenza di Carlo Magno per passare al Sassone (una vendetta per Werden?), Enrico I l’Uccellatore (919-936), poi a Ottone (936-973). Come Carlo Magno, Ottone è un capo di guerra vittorioso, eletto e incoronato per difendere l'oekumène con la spada. L'Imperatore, in questo senso, è il procuratore della cristianità, il suo protettore. Più di Carlo Magno, Ottone incarna il carattere militare della dignità imperiale. Egli dominerà il papato e subordinerà interamente l’elezione papale all’avallo dell’Imperatore. Certe fonti menzionano d’altronde che il Papa non conferma che un fatto compiuto: i soldati vittoriosi a Lechfeld contro gli Ungari hanno proclamato Imperatore il loro capo, secondo il diritto delle tradizioni dell’antica Germania, in riferimento al « carisma vittorioso » (lo Heil) che fonda e santifica il potere supremo.

Elevando questo capo sassone alla dignità imperiale, il Papa opera la famosa translatio Imperii ad Germanos (e non più ad Francos). L'Imperatore dovrà essere di razza germanica e non più solamente di etnia franca. Un "popolo imperiale" si prende da allora carico della politica, lasciando intatte le identità degli altri: il regno ottoniano allargherà l'oekumene franco/europeo alla Polonia e all’Ungheria (Bacino danubiano – Regno degli Avari). Gli ottoniani dominano realmente il Papato, nominano i vescovi come semplici amministratori delle province dell’Impero. Ma il potere di questi « re tedeschi », teoricamente titolari della dignità imperiale, si offuscherà assai presto: Ottone II e Ottone III salgono al trono troppo giovani, senza essere stati veramente formati né dalla scuola né dalla vita o dalla guerra; Ottone II, manipolato dal Papa, si impegna nella lotta contro i Saraceni in Italia meridionale e subisce una cocente disfatta a Crotone nel 982. Suo figlio Ottone III inizia male: anch’egli vuole realizzare un potere militare nel Mediterraneo, che è incapace di mantenere, mancando di una flotta. Ma egli nomina un Papa tedesco, Gregorio V, che morirà avvelenato dai Romani che vogliono solo un Papa italiano; Ottone III non si lascia intimidire; il Papa successivo è nuovamente tedesco: Gerbert d'Aurillac (tedesco d'Alsazia) che indossa la tiara con il nome di Silvestro II. I baroni e i vescovi tedeschi finiscono per rifiutargli truppe e crediti e il cronachista Thietmar de Merseburg stende questo severo giudizio sul giovane imperatore idealista: "Per gioco infantile, egli tenta di restaurare Roma nella gloria della sua dignità di un tempo". Ottone III vuole stabilire la sua residenza a Roma e assume il titolo di Servus Apostolorum (Servo degli Apostoli).

I “re tedeschi” non hanno più un grande peso di fronte alla Chiesa dopo l’anno 1002, sull’onda delle crociate, a causa della controffensiva teocratica, in cui i Papi si imbaldanziscono e contestano agli Imperatori il diritto di nominare i vescovi, dunque di governare le proprie terre con uomini di propria scelta. Gregorio VII impone il Dictatus Papae, per il quale, tra l’altro, il re non è più sentito come Vicarius Dei, compreso il "Rex Teutonicorum" al quale va prioritariamente il titolo di Imperatore. La lotta per le Investiture inizia per sfortuna dell’Europa, con la minaccia di scomunica rivolta a Enrico IV (consumatasi nel 1076). I vassalli dell’Imperatore sono incoraggiati alla disobbedienza, come le città borghesi (le « leghe lombarde »), cosa che svuota di sostanza politica tutto il centro dell’Europa, da Brema a Marsiglia, da Amburgo a Roma e da Danzica a Venezia. D’altro canto, le crociate inviano lontano gli elementi più dinamici della cavalleria, l'inquisizione va a caccia di ogni devianza intellettuale e le sette iniziano a prosperare, promuovendo un dualismo radicale (Concilio degli eretici di St. Félix de Caraman, 1167) e un ideale di povertà messo alla pari con una “compiutezza dell’anima” (Vaudois). Accettando l’umiliazione di Canossa (1077), l'Imperatore Enrico IV salva certo il suo Impero, ma provvisoriamente: egli pone un termine alla furia vendicatrice del Papa romano che ha assoldato i principi ribelli. Morto scomunicato, gli si rifiuta la sepoltura, ma il popolo lo riconosce come suo capo, lo sotterra e sparge sulla sua povera tomba dei grani di frumento, simbolo di resurrezione nella tradizione agricolo/pagana dei Germani: la causa dell’Imperatore appare dunque più giusta agli umili che ai potenti.

Federico I Barbarossa tenta di riprendere il timone, dapprima aiutando il Papa contro il popolo di Roma ribellatosi e contro i Normanni del Sud. L'Imperatore non doma che i Romani. Seguiranno sei campagne in Italia ed il grande scisma, senza che venga apportata alcuna soluzione. Suo nipote Federico II Hohenstaufen, enormemente dotato, troppo presto orfano di padre e di madre, virtuoso nelle tecniche di combattimento, intellettuale formato a tutte le discipline, portato per le lingue vive e morte, si vedrà dapprima rifiutare la dignità imperiale dall’autocrate Innocenzo III: "E’ ai Guelfi che tocca la Corona, perché nessun Papa può amare uno Staufen!". Il Papa teme più di tutto l’unione delle Due Sicilie (Italia meridionale) con l'Impero germano-italiano, unione che rinchiuderebbe gli Stati pontifici tra due entità geopolitiche dominate da una sola autorità. Federico II ha altri piani prima di divenire Imperatore: a partire dalla Sicilia, ricostituire, con l’appoggio di una cavalleria tedesca, spagnola e normanna, l'oekumène romano-mediterraneo.

Il suo progetto è di liberare il Mediterraneo dalla tutela musulmana, di aprire il commercio e l’industria abbinandole al soggetto renano-germanico. È il motivo delle sue crociate, le quali sono puramente geopolitiche e non religiose: la cristianità deve vivere, lo stesso vale per l'islam come per le altre religioni, in quanto esse apportano nuovi chiarimenti alla conoscenza; in questo senso, Federico II ridiventa "romano", per una tolleranza obiettiva, la quale non ricerca altro che il risultato pragmatico, che non esclude il pio rispetto dei valori religiosi: questo Imperatore che non cessa di ossessionare i grandi spiriti (Brion, Benoist-Méchin, Kantorowicz, de Stefano, Horst, etc.) è proteiforme, uno spirito libero e difensore del dogma cristiano, un sovrano feudale in Germania e un principe dispotico in Sicilia; egli accoglie tutto nella sua persona, lo sintetizza e lo mette al servizio del suo progetto politico. Nella concezione gerarchica degli esseri e dei fini terreni che si crea Federico II, l'Impero costituisce il vertice, l'esempio insuperabile per tutti gli altri ordini inferiori della natura. E anche l’Imperatore, alla sommità di questa gerarchia in virtù del suo titolo, deve essere un esempio per tutti i principi del mondo, non in virtù della sua eredità, ma della sua superiorità intellettuale, della sua conoscenza o delle sue conoscenze.

Le virtù imperiali sono la giustizia, la verità, la misericordia e la costanza:
- La giustizia, fondamento stesso dello Stato, costituisce la virtù essenziale del sovrano. Essa è il riflesso della fedeltà del sovrano verso Dio, al quale egli deve rendere conto dei talenti ricevuti. Questa giustizia non è puramente ideale, immobile e disincarnata (metafisica nel senso negativo del termine): per Federico II, essa deve essere a immagine del Dio incarnato (dunque cristiano) vale a dire operante. Dio permette alla spada dell’Imperatore, del capo di guerra, di vincere perché vuole dargli l’occasione di far discendere la giustizia ideale nel mondo. La collera dell’Imperatore, in quest’ottica, è nobile e feconda, come quella del leone, terribile per i nemici della giustizia, clemente per i poveri e per i vinti. La costanza, altra virtù cardinale dell’Imperatore, riflette la fedeltà all’ordine naturale di Dio, alle leggi dell’universo che sono eterne.
- La fedeltà è la virtù dei sottoposti come la giustizia è la virtù principale dell’Imperatore. L’Imperatore obbedisce a Dio incarnandone la giustizia, i soggetti obbediscono all’Imperatore per permettergli di realizzare questa giustizia. Ogni ribellione verso l’Imperatore è assimilata alla “superstizione”, perché non è solamente una rivolta contro Dio e contro l’Imperatore, ma anche contro la natura stessa del mondo, contro l’essenza della natura, contro le leggi della coscienza.
- La nozione di misericordia ci rinvia all’amicizia che unisce Federico II a San Francesco d'Assisi. Federico non si oppone alla cristianità e al Papato in quanto istituzioni. Esse devono sussistere. Ma i Papi hanno rifiutato di dare all’Imperatore ciò che gli spetta. Essi hanno abbandonato il loro magistero spirituale che consiste nel dispensare misericordia. Francesco d’Assisi e i frati minori, facendo voto di povertà contrariamente ai Papi simoniaci, ristabiliscono la verità cristiana e la misericordia accettando umilmente l’ordine del mondo. Al momento del loro incontro in Puglia, Federico dirà al 'Poverello': "Francesco, con te si trova il vero Dio e il suo Verbo nella tua bocca è autentico, in te Egli ha svelato la Sua grandezza e la Sua potenza". La Chiesa possiede in questo senso un ruolo sociale, caritatevole, non politico, che contribuisce a preservare, nel suo 'seno', l'ordine del mondo, l’armonia, la stabilità.
Il 'peccato originale' nell’ottica non conformista di Federico II è l’assenza di leggi, l’arbitrarietà, l’incapacità di « eticizzare » la vita pubblica per sete irragionevole di potere, di possesso.
- L'Imperatore, dunque la politica, è anche responsabile del sapere, della diffusione della « verità »: con la creazione dell’università di Napoli, con la fondazione della facoltà di medicina di Salerno, Federico II afferma l’indipendenza dell’Impero in materia di educazione e di conoscenza. Questo non gli viene perdonato (destino dei suoi figli).

La sconfitta del raddrizzamento di Federico II sanziona di nuovo la vittoria del caos in Europa centrale. L'Impero, che è potenzialmente fattore di ordine, non può più esserlo pienamente. Ciò conduce alla catastrofe del 1648, in cui il frazionamento e la divisione vengono sapientemente mantenuti dalle potenze vicine, in primo luogo dalla Francia di Luigi XIV. Le autonomie, appannaggio della concezione imperiale, almeno in teoria, scompaiono completamente sotto le bordate del centralismo reale francese o spagnolo. Il "diritto di resistenza", eredità germanica e fondamento reale dei diritti dell’uomo, viene progressivamente estirpato dalle coscienze per essere sostituito da una teoria giusnaturalista e astratta dei diritti dell’uomo, sempre in vigore ancora oggi.

Ogni nozione d’Impero deve oggi basarsi sulle quattro virtù di Federico II Hohenstaufen: giustizia, verità, misericordia e costanza.

L'idea di giustizia deve oggi concretizzarsi con la nozione di sussidiarietà, dando a ciascuna categoria di cittadini, ad ogni comunità religiosa o culturale, professionale o altro, il diritto all’autonomia al fine di non mutilare una parte del reale.

La nozione di verità passa attraverso una rivalutazione della « conoscenza », della « sapienza » e un rispetto delle leggi naturali.

La misericordia passa per una carta sociale esemplare per il resto del pianeta.

La nozione di costanza ci deve condurre verso una fusione del sapere scientifico e della visione politica, della conoscenza e della pratica politica quotidiana.

Niente ci indica meglio quali tracce seguire di Sigrid Hunke, nella sua prospettiva « unitaria » ed eurocentrica:
- Affermare l’identità europea, è sviluppare una religiosità unitaria nel suo fondo, polimorfa nelle sue manifestazioni; contro la fissazione nei nostri spiriti del mito biblico del peccato originale, essa ci chiede di ristudiare la teologia di Pélagius, il nemico irlandese di Agostino. L'Europa, è una percezione della natura come una epifania del divino: da Scoto Eriugena a Giordano Bruno e a Goethe. L'Europa, è anche una mistica del divenire e dell’azione: da Eraclito a Meister Eckhart e a Fichte. L'Europa, è una visione del cosmo dove si constata l’ineguaglianza di fatto di ciò che è eguale in dignità come una infinità pluralità di centri, secondo l’insegnamento di Nicolò da Cusa.

Su queste basi filosofiche si svilupperà una nuova antropologia, una nuova visione dell’uomo, implicante la responsabilità (il principio di « responsabilità ») per l’altro, per l’ecosistema, perché l’uomo non è più un peccatore, ma un collaboratore di Dio e un miles imperii, un soldato dell’Impero. Il lavoro non è più maledizione o alienazione, ma benedizione e concede un surplus di senso al mondo. La tecnica è servizio all’uomo, agli altri.

D’altronde, il principio di "sussidiarietà", tanto evocato nell’attuale Europa ma così poco messo in pratica, si riallaccia ad un rispetto imperiale delle entità locali, delle specificità multiple racchiuse dal mondo vasto e diversificato. Il Prof. Chantal Millon-Delsol constata che il ritorno di questa idea è dovuto a tre fattori:
- La costruzione dell'Europa, spazio vasto e multiculturale che deve necessariamente trovare un modo di gestione che tenga conto di questa diversità permettendo di articolare armoniosamente l’insieme. Le ricette monarchico-centraliste e giacobine si rivelano obsolete.
- La caduta del totalitarismo comunista ha dimostrato l’inanità dei « sistemi » monolitici.
- La disoccupazione rimette in causa il previdenzialismo di Stato in Occidente, a causa dell’impoverimento del settore pubblico e del deficit di senso civico. "Soccorso troppo, il bambino rimane immaturo; privo d’aiuto diventerà un bruto o un idiota".

La costruzione dell'Europa e il riflusso o il crollo dei modelli convenzionali del nostro dopoguerra, impone di rivitalizzare un « senso civico attivo », in cui si ritrovi la nozione dell’uomo coautore della creazione divina e l’idea di responsabilità. Tale è il fondamento antropologico della sussidiarietà, che ha per corollari:
- la fiducia nella capacità degli attori sociali e nella loro preoccupazione per l’interesse generale;
- l'intuizione secondo la quale l’autorità non è per natura detentrice della competenza assoluta quanto a qualificazione e a realizzazione dell’interesse generale.

Ma, aggiunge Chantal Millon-Delsol, l'avvento di un’Europa sussidiaria passa per una condizione sociologica primaria:
- la volontà di autonomia e di iniziativa degli attori sociali, il che presuppone che essi non siano stati preventivamente stroncati dal totalitarismo o resi infantili da uno Stato paternalistico. (solidarietà solo per sfuggire al fisco; ridefinire la divisione dei compiti).

Il nostro impegno in questa sfida storica, dare armonia ad un grande spazio pluriculturale, passa per una ripresa dei valori che abbiamo qui evocato alla buona, in seno alle strutture associative, preparando un senso civico nuovo ed attivo, una milizia sapienziale.


Conferenza pronunciata alla Tribuna del "Cercle Hélios", Ile-de-France, 1995
SYNERGIES EUROPÉENNES - BRUXELLES/PARIS – 15 febbraio 2002



Tratto dal sito EUROCOMBATE
http://es.geocities.com/eurocombate/
Traduzione dal francese a cura di "Belgicus"

agaragar
17-11-02, 19:11
Originally posted by Orazio Coclite
una vittoria sul caos, inseparabile dalla "pax romana". Il fatto di avere mantenuto la pace all’interno del limes e di aver confinato per diversi secoli la guerra su delle province lontane


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