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Visualizza Versione Completa : Intervista a Silvio Berlusconi: così ho cambiato la politica estera italiana



Studentelibero
17-11-02, 10:44
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“Così ho cambiato la politica estera”
intervista a Silvio Berlusconi di Pierluigi Mennitti

Il caso ha voluto che questa intervista con Silvio Berlusconi, realizzata per il numero speciale di Ideazione sull’Italia globale in edicola tra pochi giorni, avvenisse nel momento in cui era ormai in corso il passaggio di consegne al nuovo ministro degli Esteri. Ora che lo stesso Berlusconi ha reso noto il nome del successore, Franco Frattini, questa intervista si presenta come il primo bilancio di quasi undici mesi alla Farnesina. Un bilancio che molti giornali, in questi giorni, stanno offrendo attraverso il punto di vista dei loro commentatori. Noi offriamo ai lettori del nostro sito on line, in anteprima rispetto all’uscita della rivista cartacea, il punto di vista del protagonista. (p. men.)

L’anno che si chiude ha rappresentato per la politica estera italiana una curiosa particolarità: in seguito alle dimissioni del ministro degli Esteri Renato Ruggiero, nel gennaio 2002, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha deciso di assumere l’interim della Farnesina. Non è una novità per l’Italia repubblicana, giacché il doppio incarico (presidente del Consiglio e ministro degli Esteri) fu quasi una costante negli anni Cinquanta. Capitò ad Alcide De Gasperi nel 1953, a Giuseppe Pella tra il 1953 e il 1954, ad Amintore Fanfani tra il 1958 e il 1959. E’ invece una particolarità, perché rispetto alle esperienze di quarant’anni fa questo interim di Berlusconi sembra voler ridisegnare ruoli e competenze di chi dirige la politica estera del paese. La complessità dei tempi moderni, che in politica sembra riassumersi anche nella contaminazione tra spazio interno e spazio esterno (e dunque tra politica interna e politica estera), ha accelerato nelle democrazie avanzate d’Occidente la prevalenza del capo del governo rispetto al ministro degli Esteri nella direzione e nelle strategie da applicare agli affari esteri. Perché tali affari investono sempre di più la cifra politica complessiva di un governo: cosa è estero e cosa è interno quando si parla di guerra al terrorismo, di sicurezza nazionale, di Europa? Capita così che si percepisca come attore principale della politica estera britannica Tony Blair, e si ignori completamente il nome del suo ministro degli Esteri, Jack Straw. Lo stesso accade per la Francia, gli Stati Uniti o la Russia. Solo in Germania Joschka Fischer è oggi più famoso di Gerhard Schröder, ma quella è un’altra storia, tutta politica.

Nel ripercorrere assieme al presidente del Consiglio gli undici mesi di sdoppiamento tra Palazzo Chigi e la Farnesina, abbiamo dunque cercato di tracciare il nuovo profilo della politca estera italiana così come il governo della Casa delle Libertà ha inteso impostarlo dopo i primi mesi di rodaggio. L’intervista spazia su più questioni, dagli interessi nazionali alla guerra al terrorismo internazionale, dall’espansione economica dell’Italia nel mondo globalizzato all’Unione europea, dalla riunificazione del Vecchio Continente al ruolo italiano rispetto all’Est europeo e al Mediterraneo. Fino al passaggio di consegne al nuovo ministro che dovrà interpretare la sua funzione in maniera del tutto nuova.

Signor Presidente, lei ha assunto da quasi un anno la guida del ministero degli Esteri. Un periodo in cui la politica estera italiana è cambiata sensibilmente, nello stile e negli obiettivi. In cosa si è distinto il suo modo di intendere il ruolo del ministro degli Esteri da quello dei suoi predecessori?

Di norma la politica estera di un paese è fatta di interessi nazionali di lungo e lunghissimo periodo che non cambiano quando muta il quadro politico interno. Esiste una continuità dettata dal tragitto storico compiuto da ciascun paese all’interno di un determinato contesto geopolitico, che lo vede protagonista di una rete di impegni bilaterali e multilaterali che non possono essere disattesi. Il successo della Casa delle Libertà alle ultime elezioni politiche ha conferito al governo che ho l’onore di guidare una prospettiva di lungo termine senza precedenti negli ultimi cinquant’anni. E’ ovvio che ne risulti accresciuta la credibilità, il peso, la capacità di incidere del presidente del Consiglio sulla scena internazionale. Non parlerei di un cambiamento di obiettivi ma piuttosto di maggior chiarezza nelle cose da fare e nei traguardi da raggiungere. Vi è una maggiore consapevolezza del ruolo che il nostro paese è chiamato a svolgere, degli obblighi che discendono dal fatto di essere la quinta economia mondiale, il terzo contributore netto al bilancio dell’Unione europea, il terzo paese in termini di truppe impegnate all’estero in operazioni di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite. Dobbiamo rendercene conto noi, dobbiamo farlo intendere anche ai nostri interlocutori. Lei mi parlava di un cambiamento di stile. Forse si tratta proprio di questo: di una maggiore convinzione, di un maggiore senso di responsabilità che trova espressione in un modo nuovo di condurre la politica estera. Non lo chiamerei uno stile, ma piuttosto un modo di operare frutto dell’esperienza tratta da anni di lavoro nel mondo del privato, nel quale il rapporto personale, la parola data, gli impegni assunti e rispettati sono la base della credibilità e del successo.

Dal momento in cui si è insediato alla Farnesina, lei ha insistito sul fatto che l’Italia avrebbe dovuto interpretare in maniera più dinamica il proprio ruolo all’interno del consesso internazionale. Ma quale deve essere, a suo parere, il ruolo dell’Italia nel mondo globalizzato?

In un mondo globalizzato, come lei lo definisce, ciò che conta è la capacità di affermarsi del paese nel suo complesso e ciò comporta una revisione dal profondo del modo di intendere il ruolo e i compiti della nostra diplomazia. Una visione tradizionalista, riduttiva e statica degli interessi dell’Italia ci vedrebbe progressivamente perdere posizioni rispetto alla dinamicità degli altri paesi. Mi scuso se utilizzo metafore tratte dal mondo dell’economia, ma è proprio sul piano economico che si misura la vitalità di un paese. Grandi aspirazioni non supportate da una economia di dimensioni comparabili sarebbero soltanto velleitarie e prive di credibilità. Quella che era un tempo l’espansione territoriale di una nazione è diventata ora la sua presenza economica sui mercati mondiali. Ecco perché dal mio insediamento alla Farnesina ho voluto operare un riorientamento delle priorità dei nostri diplomatici. Il loro operato verrà d’ora in poi misurato anche sulla base di criteri quantitativi, sull’incremento dell’import-export con un determinato paese, sul numero di imprese italiane che si insediano all’estero, sulla capacità di incrementare il flusso di investimenti esteri in Italia, di aumentare il numero di stranieri che ogni anno visitano il nostro paese. Non si tratta di trasformare i nostri ambasciatori in altrettanti “piazzisti”, ma di affiancare questi nuovi obiettivi ai loro compiti tradizionali. Stiamo inoltre reimpostando il lavoro degli istituti di cultura che debbono affiancare la proiezione del modello italiano all’estero, accompagnando la penetrazione economica con quella culturale, artistica e linguistica. Come presidente del Consiglio posso assicurarvi che i rappresentanti dei principali paesi nostri interlocutori non si fanno certo scrupolo di difendere con orgoglio e caparbietà i loro interessi nazionali.

Solo in tempi recenti il concetto di interesse nazionale è tornato al centro del dibattito. Ovviamente, l’interesse nazionale è un concetto dinamico. Quali sono gli interessi permanenti e quelli nuovi che sostanziano la nostra politica estera?

L’Italia punta a rafforzare la sua posizione sia in ambito atlantico che in ambito europeo e l’azione del mio governo in politica estera è volta al raggiungimento di questo obiettivo che interpretiamo con il giusto equilibrio. Le due vocazioni, quella atlantica e quella europea, si sono fuse ad esempio nell’iniziativa di Pratica di Mare: l’apertura verso la nuova Russia di Vladimir Putin è un nostro interesse nazionale, ed è anche al tempo stesso un interesse di tutta l’Europa e di tutto il mondo occidentale. Lo stesso vale per la tradizionale vocazione mediterranea dell’Italia, che per collocazione geografica, vicende storiche e, aggiungerei, per simpatia, ci colloca al centro dei rapporti che uniscono l’Africa settentrionale, il Medio Oriente ed il Nord Europa. I paesi di queste regioni guardano all’Italia con rinnovato interesse, ammirano il nostro patrimonio culturale e storico, invidiano il nostro sistema delle piccole e medie imprese, in altri termini guardano all’Italia come modello e come interlocutore privilegiato.

Lo scenario entro il quale ci si muove, dopo l’11 settembre 2001, è quello della lotta al terrorismo internazionale. La lunga guerra, come è stata definita dal presidente George W. Bush, è condotta su più tavoli: militare, economico-finanziario, diplomatico. Può definire il ruolo e i compiti dell’Italia nella guerra al terrorismo?

L’11 settembre ha segnato la storia di tutti noi. Ricordo ancora come, al G8 di Genova, osservando i leaders dei principali paesi mondiali scherzare fraternamente tra loro, pensavo che avremmo consegnato alle nuove generazioni un futuro ben diverso dagli orrori che avevamo conosciuto nel Novecento. L’attacco alle Torri Gemelle è stato invece un tragico monito del fatto che la libertà non è un bene acquisito per sempre, ma un bene che dobbiamo difendere continuamente. Sul piano diplomatico abbiamo espresso ammirazione per l’equilibrio con il quale il presidente Bush ha evitato una reazione eccessiva sulla scia dell’emozione che avrebbe potuto provocare un vero e proprio scontro tra civiltà, con conseguenze che nessuno sarebbe in grado di arginare, e ci siamo uniti alla grande coalizione che si è schierata dalla parte degli Stati Uniti nel combattere il terrorismo. I nostri servizi hanno svolto un eccellente lavoro in collaborazione con quelli alleati consentendo di individuare e di neutralizzare le reti operanti nel nostro e in altri paesi. Così come i nostri ragazzi in divisa hanno dato il contributo che ci è stato richiesto nelle operazioni militari in Afghanistan, e adesso i nostri alpini si accingono a dare il cambio alle truppe del contingente internazionale nella zona nord del paese.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali di buona volontà, l’Unione europea non sembra svolgere un ruolo decisivo nel Grande Gioco delle potenze mondiali. Ritiene che l’Unione possa davvero sostituire gli Stati nazionali con una politica estera comune? E se sì, attraverso quali passaggi?

Siamo tutti consapevoli della difficoltà dell’Europa a far valere il proprio peso nella gestione delle recenti crisi internazionali. Ma è una difficoltà che ci accomuna ad altre grandi organizzazioni internazionali. Il problema dell’Europa è quello di diventare sempre più realtà politica dotata di meccanismi decisionali efficaci e di uomini in grado di rappresentare gli interessi comunitari. Dopo aver costruito l’Europa economica e della moneta unica si sta passando alla costruzione dell’Europa politica. Io sono convinto che un’Europa forte politicamente e capace di parlare con una voce sola sia essenziale per gli equilibri del globo. Non è conveniente per nessuno che esista una sola superpotenza, l’Europa deve arrivare ad essere in grado di condividere con gli Stati Uniti le responsabilità della pace e della sicurezza nel mondo.

L’allargamento a venticinque Stati, poi a ventisette forse già nel 2007, può dare più peso all’Unione europea?

Sicuramente. Anche se non è solo un problema di quantità, ma di efficacia. Dobbiamo da un lato snellire i meccanismi di decisione, dall’altro trovare il modo di avvicinare ancora di più le istituzioni ai cittadini europei. Il problema del deficit democratico nell’Unione è assai avvertito a livello di pubblica opinione ed anche a livello politico. La Convenzione sta lavorando su una proposta di Costituzione per un’Europa più forte, che speriamo possa essere firmata a Roma durante il semestre di presidenza italiano.

E l’allargamento?

Io ho sempre, intenzionalmente, usato il termine “riunificazione”.

Qui si sfonda una porta aperta. L’editoriale dello scorso numero di Ideazione parlava di riunificazione, infatti.

Non è una definizione ideologica. E’ proprio di una riunificazione che si tratta e l’idea che entro quindici anni dalla caduta del Muro di Berlino l’Europa sarà in grado di riaccogliere i paesi dell’Europa centro-orientale tagliati fuori da mezzo secolo di dittature comuniste è una cosa che deve riempire di orgoglio tutti noi europei. Ovvio che un’Europa riunificata con venticinque e poi ventisette Stati potrà contare di più sul piano internazionale. Io vado più in là: l’Unione potrà diventare un soggetto di politica estera ancora più forte completando il proprio disegno storico di riunificazione, allargando i propri confini anche alla Russia. Non oggi, forse neppure domani. Ma la strada deve essere quella.

Le opinioni su questo punto sono molto divergenti a livello europeo.

Certo, non tutti la pensano in questo modo. Ma avremo occasione di discuterne insieme e di valutare a fondo lo svolgersi degli eventi.

Restiamo ad Est. E’ evidente un rinnovato interesse dell’Italia per l’Europa centro-orientale, danubiana e balcanica, fino alla Russia. Quale ruolo politico e quali interessi economici l’Italia intende perseguire nell’area ex-comunista?

Il bilanciamento geopolitico ad Est, come dicevo, ci restituisce un ruolo centrale nello scacchiere europeo. In più con i paesi dell’area danubiana – Ungheria, Slovenia, Romania – ci sono legami economici importanti. La stabilità politica di quest’area è altresì decisiva per la stabilità nei Balcani. Per Romania e Bulgaria, che non entreranno nella Ue con il primo blocco, si è definito come obiettivo temporale il 2007: è nel nostro interesse aiutarli a centrare questo obiettivo. Così come è nel nostro interesse promuovere una seconda apertura ai paesi dei Balcani. Siamo i più interessati alla stabilità politica e sociale di quell’area, al suo benessere economico, al suo reintegro a pieno titolo nel consesso europeo, alle reti e ai corridoi di trasporto indispensabili per sviluppare la cooperazione economica. Se la Germania è stato il motore della prima unificazione, l’Italia deve essere il motore della ulteriore riunificazione che ci restituisca i nostri vicini di sempre, quei popoli che abitano l’altra sponda dell’Adriatico. Sarà un processo più lungo e più complesso perché sono paesi che escono da anni di guerra o da feroci dittature: ma è proprio la prospettiva di entrare nell’Unione europea lo stimolo più efficace per comportamenti virtuosi negli Stati che ambiscono a farne parte.

E’ opinione diffusa che, nelle democrazie avanzate, delineare la politica estera sia compito del capo del governo. Al ministro degli Esteri, invece, resterebbe un ruolo puramente operativo, quasi tecnico. L’Italia si sta allineando a questa tendenza?

E’ così, senza ombra di dubbio. L’Italia ha vissuto negli anni della Prima Repubblica una sorta di diarchia tra politica interna e politica estera. La prima restava sotto l’egida del capo del governo, la seconda veniva appaltata al partito alleato, o alla corrente interna più forte. Negli anni del Pentapartito questa diarchia era addirittura istituzionalizzata, con l’alternanza di democristiani o socialisti. Oggi le esigenze sono diverse anche perché sono cambiate le competenze e molte questioni che prima erano considerate di politica estera investono direttamente la linea e la responsabilità del governo. Tante materie sono state delegate all’Europa, ma la gobalizzazione stessa ha spinto temi di politica estera nell’agenda di politica interna, tanto che questa distinzione ha ormai perso di senso. Quella che molti commentatori hanno chiamato il ritorno della politica estera necessita dunque una guida forte e riconosciuta sul piano internazionale: il primo ministro ne diventa inevitabilmente l’interprete principale, anche se non si deve ridurre il ruolo del titolare della Farnesina a quello di un mero esecutore tecnico.

Dunque il prossimo ministro degli Esteri...

Sarà un ministro in grado di presiedere con intelligenza, rapidità di giudizio e autorevolezza il Consiglio Europeo dei ministri degli Esteri durante il semestre di Presidenza italiana dell’Unione e consapevole di dover lavorare in stretto e continuativo contatto con Palazzo Chigi.

14 novembre 2002

(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)