Asteroids
10-12-02, 00:28
L'opinione di uno dei più ascoltati rabbini d'Israele
Il 18 di settembre, mentre riceveva il terzo inviato diplomatico di Israele presso la Santa Sede, l'ambasciatore Neville Lamdan, papa Giovanni Paolo II dichiarò che la comprensione reciproca e il rispetto tra cristiani ed ebrei è "il modo più sicuro per superare i pregiudizi del passato e per innalzare una barriera contro le forme di antisemitismo, razzismo e xenofobia che stanno riapparendo". Inoltre mise in evidenza il fatto che "il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei è così grande e vitale per la salute religiosa e morale della famiglia umana, che ogni sforzo deve essere compiuto per far progredire ed espandere il nostro dialogo, specialmente su questioni bibliche, teologiche ed etiche". In questi commenti il Pontefice mise in rilievo tre motivi primari per le relazioni interreligiose in generale; e per il dialogo cristiano-ebraico in particolare. Per cominciare, c'è il bisogno di superare il pregiudizio e il fanatismo. Questo traguardo è desiderabile per tutti, sebbene spesso non sia percepito come tale da una potente maggioranza. Una delle intuizioni fornite dalla società occidentale, pluralista e prevalentemente secolare, è l'esperienza "minoritaria" di tutte le comunità religiose, il che facilita una maggiore comprensione dell'immoralità e dei pericoli del razzismo e del fanatismo in tutte le loro forme. La tragica esperienza storica delle comunità ebraiche vulnerabili di fronte allo schiacciante potere della cristianità nel corso della maggior parte degli ultimi due millenni, ha reso l'apprezzamento di questo bisogno sempre più grande, anche se una "patologia da vittime" spesso impedisce agli ebrei anche oggi di correre il "rischio" del coinvolgimento in incontri interreligiosi.
Per la Chiesa l'importanza di combattere il fanatismo è stata accresciuta non solo dalla sua crescente vulnerabilità nel mondo moderno, ma anche da un moderno spirito di autocritica, che ha facilitato un bilancio più onesto degli abusi della Cristianità nel passato - in particolare nel rapporto con gli ebrei. Infatti, papa Giovanni Paolo II ha chiarito implicitamente che la Chiesa per potere rappresentare una credibile forza morale nel mondo, deve affrontare la cattiva condotta del passato con la quale è stata associata. Perciò le relazioni ebraico-cristiane sono state dominate negli ultimi trentasei anni, dalla promulgazione di Nostra Aetate, da un processo e da iniziative per superare i pregiudizi e le false rappresentazioni del passato, per il vantaggio reciproco, fisico e spirituale. A questo proposito, la trasformazione nelle relazioni cristiano-ebraiche risalta come un paradigma straordinario per la riconciliazione religiosa in senso ampio, perché, come ha affermato il Papa: "Dove una volta c'era sfiducia e incomprensione, ora c'è cooperazione e dialogo". Il secondo motivo per le relazioni interreligiose implicito nelle osservazioni rivolte da Giovanni Paolo II all'ambasciatore Lamdan è stato articolato esplicitamente dal Papa in molte occasioni. Si tratta dell'obbligo a un'azione comune, che nasce da un ordine del giorno religioso ed etico condiviso. Se davvero abbiamo a cuore valori sociali quali l'aiuto per il vulnerabile, la giustizia per l'afflitto, l'integrità negli affari della società e la pace fra la gente e le nazioni, ecc.; allora ci sentiremo costretti a lavorare insieme con tutti quelli che condividono quei valori. In particolare, quando anche gli altri vedono questi valori come un'emanazione dalla "Personalità" e dalla "Volontà" del Creatore, il bisogno di lavorare insieme per essere più grandi della somma delle diverse parti dovrebbe essere un imperativo religioso schiacciante. Questa idea venne espressa dal Papa nel suo discorso alla comunità ebraica di Mainz nel 1980 quando mise in luce che i "figli di Abramo sono chiamati a essere una benedizione per il mondo (Genesi 12 v.2) impegnandosi a lavorare insieme per la pace e la giustizia fra tutti i popoli".
Nondimeno c'è un'ulteriore dimensione nell'appello al dialogo con cui Giovanni Paolo II si rivolge nelle sue parole all'inviato diplomatico di Israele, come ha fatto molte volte prima. È la necessità di far progredire "il nostro dialogo sulle questioni bibliche, teologiche ed etiche" che nasce da un "patrimonio spirituale" condiviso, per "la salute religiosa e morale della famiglia umana". Oltre all'obbligo di lavorare insieme per la salvezza dei valori sociali condivisi, c'è la necessità di incontrare e studiare la religiosità profonda dell'altro. Perciò possiamo acquisire una consapevolezza e una comprensione più profonde non solo di noi stessi e gli uni degli altri, ma anche del modo in cui possiamo procedere come persone di fede, per il miglioramento della società in genere. In effetti, questa raccomandazione allude ai valori religiosi fondamentali del dialogo. Il filosofo ebraico medievale Maimonide spiega che al fine di adempiere il comandamento fondamentale "Ama il Signore tuo Dio" (Deuteronomio 6 v.5), dobbiamo meditare e approfondire la nostra conoscenza della Creazione di Dio. Eppure da nessuna parte si può trovare Dio nella Creazione più che nell'individuo umano creato a sua immagine. Come insegnano i nostri saggi ebraici, quanto più è profondo l'incontro con l'altro, tanto più è profondo l'incontro con Dio stesso. Inoltre, è teologicamente ridicolo predicare una fede in un Dio universale onnipresente e reclamare che tutta la conoscenza umana su di lui è incapsulata esclusivamente in una tradizione. Perciò è attraverso il profitto di un incontro con la percezione di un altro dell'Onnipresente, che siamo in grado di espandere più lontano, alla massima estensione il nostro incontro personale con il Divino. In verità sulla base di Malachia 3v.16, possiamo affermare che è tale dialogo che, come fu, provoca l'approvazione divina e fa sì che Dio "ci ascolti, e ci iscriva nel libro di quelli che veramente venerano Dio e rispettano il Suo nome". Nondimeno, l'incontro tra ebrei e cristiani è unico a questo proposito, precisamente perché le nostre radici sono comuni. Eppure allo stesso tempo siamo di carattere fondamentalmente diverso nella nostra comprensione e espressione del Divino, nella nostra vita religiosa. Perciò, il nostro incontro ci offre l'opportunità di prospettive e riflessioni che approfondiscono la nostra comprensione delle nostre fedi diverse, sia della loro comunanza che della loro separazione. Questo riconoscimento dell'unicità della nostra relazione è il riconoscimento di una chiamata divina a un'associazione speciale - collegata eppure indipendente, separata eppure unita, nella speranza e con il compito di portare il Regno del Cielo sulla terra. Perciò il dialogo religioso tra di noi dev'essere la nostra esplorazione comune per scoprire il significato, le implicazioni di questa associazione.
Naturalmente c'è sempre un "rischio" nel dialogo: che uno possa diventare così innamorato dell'"altro" da abbandonare la propria posizione originale e il proprio impegno. Indubbiamente tale "rischio" deve essere preso in considerazione, perché altrimenti restiamo di mentalità ristretta, insulari e deplorevolmente limitati, nel nostro incontro con il Divino. Comunque, a mio modo di vedere, se un individuo che è stato profondamente radicato nella sua o di lei precedente comunità di fede perde quell'impegno, è improbabile che sia dovuto al dialogo in sé, ma ad altri fattori. Quelli il cui particolare impegno di fede si indebolisce attraverso il dialogo sono quelli per i quali era debole fin dall'inizio. Per quelli profondamente immersi nel loro specifico patrimonio religioso, il dialogo solamente rafforza e nutre la loro identità, approfondendo la loro capacità di essere radicati nel particolare mentre abbracciano l'universale. Come indicato, il dialogo interreligioso è essenziale per prevenire il pregiudizio e il fanatismo e anche per facilitare la promozione di ideali etico-religiosi che aiutino a conseguire il Regno dei Cieli sulla terra. Pure io credo anche profondamente che per l'individuo che veramente cerca di "conoscerLo in tutti i tuoi modi" (Proverbi 3 v.6), il dialogo tra le fedi sia un imperativo religioso, che oggi è più possibile e più irresistibile che mai.
David Rosen
David Rosen è rabbino di Gerusalemme,membro della Commissione interreligiosa per i rapporti tra cattolicesimo e giudaismo e della Commissione per i rapporti tra Santa Sede e Stato d'Israele
link (http://www.liberalfondazione.it/archivio/Fl/numero7/ebreicristiani.htm)
Il 18 di settembre, mentre riceveva il terzo inviato diplomatico di Israele presso la Santa Sede, l'ambasciatore Neville Lamdan, papa Giovanni Paolo II dichiarò che la comprensione reciproca e il rispetto tra cristiani ed ebrei è "il modo più sicuro per superare i pregiudizi del passato e per innalzare una barriera contro le forme di antisemitismo, razzismo e xenofobia che stanno riapparendo". Inoltre mise in evidenza il fatto che "il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei è così grande e vitale per la salute religiosa e morale della famiglia umana, che ogni sforzo deve essere compiuto per far progredire ed espandere il nostro dialogo, specialmente su questioni bibliche, teologiche ed etiche". In questi commenti il Pontefice mise in rilievo tre motivi primari per le relazioni interreligiose in generale; e per il dialogo cristiano-ebraico in particolare. Per cominciare, c'è il bisogno di superare il pregiudizio e il fanatismo. Questo traguardo è desiderabile per tutti, sebbene spesso non sia percepito come tale da una potente maggioranza. Una delle intuizioni fornite dalla società occidentale, pluralista e prevalentemente secolare, è l'esperienza "minoritaria" di tutte le comunità religiose, il che facilita una maggiore comprensione dell'immoralità e dei pericoli del razzismo e del fanatismo in tutte le loro forme. La tragica esperienza storica delle comunità ebraiche vulnerabili di fronte allo schiacciante potere della cristianità nel corso della maggior parte degli ultimi due millenni, ha reso l'apprezzamento di questo bisogno sempre più grande, anche se una "patologia da vittime" spesso impedisce agli ebrei anche oggi di correre il "rischio" del coinvolgimento in incontri interreligiosi.
Per la Chiesa l'importanza di combattere il fanatismo è stata accresciuta non solo dalla sua crescente vulnerabilità nel mondo moderno, ma anche da un moderno spirito di autocritica, che ha facilitato un bilancio più onesto degli abusi della Cristianità nel passato - in particolare nel rapporto con gli ebrei. Infatti, papa Giovanni Paolo II ha chiarito implicitamente che la Chiesa per potere rappresentare una credibile forza morale nel mondo, deve affrontare la cattiva condotta del passato con la quale è stata associata. Perciò le relazioni ebraico-cristiane sono state dominate negli ultimi trentasei anni, dalla promulgazione di Nostra Aetate, da un processo e da iniziative per superare i pregiudizi e le false rappresentazioni del passato, per il vantaggio reciproco, fisico e spirituale. A questo proposito, la trasformazione nelle relazioni cristiano-ebraiche risalta come un paradigma straordinario per la riconciliazione religiosa in senso ampio, perché, come ha affermato il Papa: "Dove una volta c'era sfiducia e incomprensione, ora c'è cooperazione e dialogo". Il secondo motivo per le relazioni interreligiose implicito nelle osservazioni rivolte da Giovanni Paolo II all'ambasciatore Lamdan è stato articolato esplicitamente dal Papa in molte occasioni. Si tratta dell'obbligo a un'azione comune, che nasce da un ordine del giorno religioso ed etico condiviso. Se davvero abbiamo a cuore valori sociali quali l'aiuto per il vulnerabile, la giustizia per l'afflitto, l'integrità negli affari della società e la pace fra la gente e le nazioni, ecc.; allora ci sentiremo costretti a lavorare insieme con tutti quelli che condividono quei valori. In particolare, quando anche gli altri vedono questi valori come un'emanazione dalla "Personalità" e dalla "Volontà" del Creatore, il bisogno di lavorare insieme per essere più grandi della somma delle diverse parti dovrebbe essere un imperativo religioso schiacciante. Questa idea venne espressa dal Papa nel suo discorso alla comunità ebraica di Mainz nel 1980 quando mise in luce che i "figli di Abramo sono chiamati a essere una benedizione per il mondo (Genesi 12 v.2) impegnandosi a lavorare insieme per la pace e la giustizia fra tutti i popoli".
Nondimeno c'è un'ulteriore dimensione nell'appello al dialogo con cui Giovanni Paolo II si rivolge nelle sue parole all'inviato diplomatico di Israele, come ha fatto molte volte prima. È la necessità di far progredire "il nostro dialogo sulle questioni bibliche, teologiche ed etiche" che nasce da un "patrimonio spirituale" condiviso, per "la salute religiosa e morale della famiglia umana". Oltre all'obbligo di lavorare insieme per la salvezza dei valori sociali condivisi, c'è la necessità di incontrare e studiare la religiosità profonda dell'altro. Perciò possiamo acquisire una consapevolezza e una comprensione più profonde non solo di noi stessi e gli uni degli altri, ma anche del modo in cui possiamo procedere come persone di fede, per il miglioramento della società in genere. In effetti, questa raccomandazione allude ai valori religiosi fondamentali del dialogo. Il filosofo ebraico medievale Maimonide spiega che al fine di adempiere il comandamento fondamentale "Ama il Signore tuo Dio" (Deuteronomio 6 v.5), dobbiamo meditare e approfondire la nostra conoscenza della Creazione di Dio. Eppure da nessuna parte si può trovare Dio nella Creazione più che nell'individuo umano creato a sua immagine. Come insegnano i nostri saggi ebraici, quanto più è profondo l'incontro con l'altro, tanto più è profondo l'incontro con Dio stesso. Inoltre, è teologicamente ridicolo predicare una fede in un Dio universale onnipresente e reclamare che tutta la conoscenza umana su di lui è incapsulata esclusivamente in una tradizione. Perciò è attraverso il profitto di un incontro con la percezione di un altro dell'Onnipresente, che siamo in grado di espandere più lontano, alla massima estensione il nostro incontro personale con il Divino. In verità sulla base di Malachia 3v.16, possiamo affermare che è tale dialogo che, come fu, provoca l'approvazione divina e fa sì che Dio "ci ascolti, e ci iscriva nel libro di quelli che veramente venerano Dio e rispettano il Suo nome". Nondimeno, l'incontro tra ebrei e cristiani è unico a questo proposito, precisamente perché le nostre radici sono comuni. Eppure allo stesso tempo siamo di carattere fondamentalmente diverso nella nostra comprensione e espressione del Divino, nella nostra vita religiosa. Perciò, il nostro incontro ci offre l'opportunità di prospettive e riflessioni che approfondiscono la nostra comprensione delle nostre fedi diverse, sia della loro comunanza che della loro separazione. Questo riconoscimento dell'unicità della nostra relazione è il riconoscimento di una chiamata divina a un'associazione speciale - collegata eppure indipendente, separata eppure unita, nella speranza e con il compito di portare il Regno del Cielo sulla terra. Perciò il dialogo religioso tra di noi dev'essere la nostra esplorazione comune per scoprire il significato, le implicazioni di questa associazione.
Naturalmente c'è sempre un "rischio" nel dialogo: che uno possa diventare così innamorato dell'"altro" da abbandonare la propria posizione originale e il proprio impegno. Indubbiamente tale "rischio" deve essere preso in considerazione, perché altrimenti restiamo di mentalità ristretta, insulari e deplorevolmente limitati, nel nostro incontro con il Divino. Comunque, a mio modo di vedere, se un individuo che è stato profondamente radicato nella sua o di lei precedente comunità di fede perde quell'impegno, è improbabile che sia dovuto al dialogo in sé, ma ad altri fattori. Quelli il cui particolare impegno di fede si indebolisce attraverso il dialogo sono quelli per i quali era debole fin dall'inizio. Per quelli profondamente immersi nel loro specifico patrimonio religioso, il dialogo solamente rafforza e nutre la loro identità, approfondendo la loro capacità di essere radicati nel particolare mentre abbracciano l'universale. Come indicato, il dialogo interreligioso è essenziale per prevenire il pregiudizio e il fanatismo e anche per facilitare la promozione di ideali etico-religiosi che aiutino a conseguire il Regno dei Cieli sulla terra. Pure io credo anche profondamente che per l'individuo che veramente cerca di "conoscerLo in tutti i tuoi modi" (Proverbi 3 v.6), il dialogo tra le fedi sia un imperativo religioso, che oggi è più possibile e più irresistibile che mai.
David Rosen
David Rosen è rabbino di Gerusalemme,membro della Commissione interreligiosa per i rapporti tra cattolicesimo e giudaismo e della Commissione per i rapporti tra Santa Sede e Stato d'Israele
link (http://www.liberalfondazione.it/archivio/Fl/numero7/ebreicristiani.htm)