PDA

Visualizza Versione Completa : Elogio di un "Fascista"



Pieffebi
29-12-02, 17:00
Sull'ultimo numero di "Nuova Storia Contemporanea" (attualmente in edicola) , la prestigiosa rivista storiografica diretta da Francesco Perfetti, tra gli altri interessantissimi articoli è pubblicato un breve saggio di Alberto Indelicato dal titolo: " Perchè fu ignorato Giorgio Perlasca, *l'impostore* che salvò gli Ebrei ", con in appendice il teso di una lettera inedita di Perlasca all'ambasciatore Paolo Vita Finzi.
Alberto Indelicato, storico, saggista e diplomatico (di cui ricordo un recente libro sulla storia della Germania Comunista), affronta la figura del "fascista" salvatore di ebrei [ungheresi] Giorgio Perlasca, recentemente ritornata dall'oblio per merito di un noto film televisivo, che segue un saggio di Enrico Deaglio e ....l'autobiografia dello stesso Perlasca.
Ricordo che Perlasca, che aveva aderito senz'altro al fascismo e aveva combattuto in Spagna "contro i rossi", essendo di fede monarchica non aderì alla Repubblica Sociale Italiana, e fu accolto a Budapest (ove si trovava al momento dell'armistizio) dall'ambasciata della Spagna di Franco. Sotto detta bandiera spagnuola, spacciandosi per un suo alto funzionario, salvò la vita a moltissimi ebrei perseguitati dai nazisti e dal regime fantoccio antisemita delle "croci frecciate".

Shalom!

Felix (POL)
30-12-02, 20:41
in effetti l'atteggiamento di Perlasca conferma lo scarso entusiasmo col quale i fascisti italiani accolsero l'antisemitismo di stampo germanico-danubiano. L'antisemitismo non era nel "DNA" del fascismo, tutt'altro. Gli episodi di antisemitismo, rispetto al fascismo, vanno senz'altro contestualizzati e circoscritti, senza per questo minimizzarli o negarli.

Pieffebi
01-01-03, 21:20
Giorgio Perlasca

http://www.giorgioperlasca.it/images/f-onoreficenze.jpg


dal sito di IDEAZIONE

" Giorgio Perlasca
di Gianni Scipione Rossi

Partigiani, soldati del Re, repubblichini. Italiani in fuga. Italiani che si uccidono "per la Patria", o forse per superare la morte della Patria. I tanti volti della guerra civile. Italiani provinciali, normali, in cerca di una nuova tranquillità. Italiani delatori, italiani, come Giorgio Perlasca, che salvano gli ebrei. Italiani che "non capiscono le leggi razziali" ma fanno finta di niente se il vicino di casa perde i diritti civili o si affrettano a prenderne il posto (pubblico) perduto. Storie minime che affiorano, oggi con meno fatica di qualche anno fa. Ne scaturirà forse, finalmente, una grande storia. Con tutti i suoi protagonisti. Giovanni Preziosi che pretende da Mussolini il rango di ambasciatore e vorrebbe portare alle conseguenze estreme il settimo dei 18 punti di Verona: "Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri".

E s'ingegna a compilar progetti per introdurre una carta d'identità genealogica alla ricerca dell'ultima goccia di sangue semita. E vorrebbe abolire le eccezioni del '38: che anche le sciarpe littorie e gli antemarcia siano, infine, giudei e basta. Mussolini, ricorda Angelo Tarchi (Teste dure, 1967), lo disprezza, il Preziosi. Ma non va oltre, mentre persino il collaborazionista francese Brasillach scrive in punto di morte: "Mi sembra inammissibile che si siano strappati via i bambini, organizzate delle deportazioni che sarebbero state ugualmente illegittime anche se non avessero avuto come fine recondito la morte pura e semplice" (Lettera a un soldato della classe 40, 1945). Ma non c'erano solo piccoli italiani nella guerra. Hannah Arendt riconosce, in margine al processo Eichmann (La banalità del male, 1964), la "generale, spontanea umanità di un popolo di antica civiltà". Gli italiani brava gente. I Palatucci, gli Zamboni, i Pietromarchi, ma anche i tanti ancora senza nome che hanno salvato una sola vita. Di questi italiani-eroi si è parlato poco. Anche perché loro stessi - i sopravvissuti - hanno preferito tacere. Figure diverse, tra le quali emerge quella di Giorgio Perlasca.

A Budapest, l'8 settembre, si trova per caso e da privato. Non è un funzionario dello Stato. Non ha poteri. Volontario prima in Abissinia e poi in Spagna, dalla parte di Franco, naturalmente. Di quella guerra ricorda il comandante di battaglione Vita Finzi, ebreo come il barone Treves de' Bonfili, finanziatore del fascio padovano. Le leggi razziali lo indignano. Per lui gli ebrei sono solo italiani che praticano un'altra religione. Perde la fiducia in Mussolini, ma non diventa antifascista. Torna al suo lavoro, che lo porta nella capitale ungherese. Rifugiato nell'ambasciata della Spagna franchista, che in tutta Europa aiuta gli ebrei a sottrarsi alla deportazione, resta solo. Parla il castigliano. S'inventa console di Madrid e salva, a rischio della vita, oltre cinquemila ebrei, fornendo falsi lasciapassare. Falsi come il suo nome, Jorge, il titolo, la nazionalità. Lo fa, spiegherà a Enrico Deaglio nel 1989, semplicemente perché gli sembra giusto. E chiede: "Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?". Dalla banalità del male di Eichmann (che Perlasca incrocia a Budapest) alla banalità del bene.

Torna a Padova, Perlasca. Racconta a qualcuno la sua incredibile storia. Ma nel processo trasversale di rimozione che caratterizza l'immediato dopoguerra, nessuno gli dà peso. Lascia scorrere i decenni. Senza nulla pretendere. Se alcune ebree ungheresi salvate nel '44 non lo avessero rintracciato, oggi la memoria di Giorgio Perlasca apparterrebbe solo ai familiari e agli amici. E invece questo italiano, non più fascista né antifascista, nato a Como nel 1910 e morto a Padova nel 1992 dopo una vita "normale", è diventato un simbolo internazionale. Italiano, fino in fondo, ma di "proprietà" del mondo. Forse l'unico lascito "universale" di un regime che a lungo s'interrogò sulla propria esportabilità. Nel Parco dei Giusti di Gerusalemme c'è un albero con il suo nome ed ebbe la cittadinanza onoraria di Israele. La Spagna lo ha nominato commendatore di numero dell'Ordine di Isabella (per paradosso, la regina che espulse gli ebrei). L'Ungheria gli ha conferito l'Ordine della Stella d'Oro. Fu onorato dall'Holocaust memorial Council di Whashington e dal comitato Wallemberg di New York. Il titolo di Commendatore Grand'Ufficiale della Repubblica Italiana arrivò per ultimo, insieme al vitalizio della "legge Bacchelli". E' scomodo essere un "eroe italiano".
"







Shalom!




v

patatrac (POL)
03-01-03, 20:50
Deportazioni nei lager, noi, italiani, complici dei nazisti

di Angelo d'Orsi


...il libro di Giuseppe Mayda (Storia delle deportazioni dall'Italia, Bollati Boringhieri) affronta il problema dei nostri deportati in Germania, ebrei, certo, ma non soltanto, essendo numerosi i civili ("politici") e ancor più i militari che costituiscono una massa di deportati senza importanza, visto che nessuno, o quasi, dalle autorità agli studiosi, se ne è voluto occupare.
Leggendo le belle pagine di questo giornalista professionista, con un passato da partigiano e un'antica passione per la storia, anche i non addetti ai lavori storiografici possono sfatare taluni vecchi luoghi comuni, primo fra tutti, quello per cui gli italiani furono assai diversi dai tedeschi; tanto "cattivi" loro, tanto "buoni" noi; in particolare rispetto alla persecuzione antiebraica, stando a questa favoletta, gli italiani, fascisti o meno, furono tutti davvero "brava gente", e il razzismo fu "all'acqua di rose", ben diversamente da quello germanico.
In verità, la "repubblichina" di Salò, non ebbe molto da invidiare al Reich in quanto a legislazione e pratica operativa ai fini della individuazione degli "elementi ebraici", della ricerca e dell'internamento nei campi perlopiù "provvisori" siti in Italia, e infine alla spedizione verso la destinazione finale, nelle pianure polacche in mano ai nazisti.
Nella follia della persecuzione vi era un metodo che non trascurava i benefici economici; quanti italiani si sono improvvisamente arricchiti acquisendo beni mobili e immobili che la legge sottrasse ai loro concittadini che portavano cognomi come Foa, Fubini, Levi, Lattes, Momigliano, Morpurgo, Piperno, Segre...? Quanti di quei beni, aldilà della ricchezza che fruttarono, sono poi stati restituiti ai loro legittimi proprietari o eredi?
Con l'Otto Settembre, con l'esercito allo sbando, il paese rimase senza guida (ricordiamocelo, accogliendo gli augusti ex sovrani che stanno per planare tra noi, felicemente), preda della Svastica. In quella situazione si ebbe il rifiuto di abrogazione delle infami leggi del '38, dopo il 25 luglio 1943 e la defenestrazione di Mussolini; dunque la persecuzione nazifascista avviata nell'autunno '43 ebbe il terreno spianato. Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Toscana, Lazio... la "pulizia" degli ebrei procedette alacremente, un pò dappertutto, là dove sventolava la bandiera della Repubblica Sociale o nei territori non ancora liberati dalla lentissima avanzata degli alleatai. La politica razziale, gestita direttamente dal duce e dal ministro Buffarini Guidi, fu efficace, quanto nell'insieme discreta. Italiani furono di sicuro i collaboratori dei carnefici germanici: italiani civili, "borghesi", che spiavano, italiani, in divisa nera, che rastrellavano per poi consegnare alla gestapo i catturati, italiani che gestivano i numerosi "campi di transito".


dal settimanale "Avvenimenti" del 20/12/2002

patatrac (POL)
07-01-03, 01:19
GLI ORRORI DELLE FAMIGERATE SS ITALIANE

di Simonetta Fiori


E' un tema poco arato, forse perchè sgradevole, ancor più perchè rischia di incrinare la nuova vulgata che omologa vincitori e vinti della guerra civile. Si tratta dei ventimila connazionali che nel periodo di Salò giurarono fedeltà alla Germania nazista. Illusi, fanatici, profittatori, canaglie, violenti, che credevano in un disegno europeo all'ombra della svastica. Le famigerate SS italiane, pronte a scannare su ordine di Hitler.
Il catalogo degli orrori raccolto da Primo de Lazzari ("Le SS italiane", Teti Editore), uno studioso di storia che giovanissimo partecipò alla Resistenza in Veneto, scoraggia qualsiasi tentazione pacificatrice. La lista degli eccidi ad opera dei seguaci italiani di Himmler occupa un'intera pagina dell'introduzione di Arrigo Boldrini. Niente o nessuno - neppure vecchi, neonati o sacerdoti - poteva fermare il pugnale con inciso il motto "Il mio onore è la fedeltà". Di sapore medievale certe torture invalse in quei battaglioni. Grazie a un ampio materiale documentario - testimonianze, atti processuali, pubblicistica, manifesti, appelli, proclami, missive anche private - viene ricostruito un capitolo tra i più sanguinari e sconosciuti della guerra civile. Velleitarie appaiono le motivazioni di questi strani militi, contagiati da un superomismo confuso. Scrive alla madre, nell'ottobre del 1944, il legionario Umberto Scaramelli: "Sono pochi quelli che fanno la storia, i più la devono subire! Io preferisco essere dalla parte di coloro che la impongono...". Morirà quattro mesi dopo.


dal quotidiano "la Repubblica" del 6/1/2003

Felix (POL)
07-01-03, 02:57
Non che fossero dei santerellini gli SS italiani, ma mi pare ingiusto enfatizzare le loro colpe rispetto agli altrettanto efferati episodi di violenza di cui si macchiarono partigiani, titini e marocchini.
È solo e sempre il vae victis, la storia dei vincitori.

E poi La Repubblica non mi pare una fonte molto obiettiva su questi temi (la coscienza sporca dell direttore ex-saloino? mah...).

Felix (POL)
07-01-03, 03:01
Quanto alle deportazioni, ok ricordare quelle degli ebrei ma non scordiamoci le migliaia di soldati italiani internati in condizioni terribili nei campi angloamericani e russi. Campi da cui molti non sarebbero più tornati. E la sanguinosa pulizia etnica antiitaliana nella Venezia Giulia.
Ci si indigna perchè gli ebrei erano perseguitati in quanto etnia? OK ma anche gli italiani lo furono, per mano degli ultranazionalisti slavi di Tito.

patatrac (POL)
09-01-03, 21:15
Originally posted by Felix
Quanto alle deportazioni, ok ricordare quelle degli ebrei ma non scordiamoci le migliaia di soldati italiani internati in condizioni terribili nei campi angloamericani e russi. Campi da cui molti non sarebbero più tornati. E la sanguinosa pulizia etnica antiitaliana nella Venezia Giulia.
Ci si indigna perchè gli ebrei erano perseguitati in quanto etnia? OK ma anche gli italiani lo furono, per mano degli ultranazionalisti slavi di Tito.

Un colpo al cerchio e un altro alla botte, insomma... Bel modo di fare "storia"...

CESARE BECCARIA
09-01-03, 21:50
Avevo letto anch'io l'interessantissimo articolo su Perlasca.

Voglio ricordare che un altro eroismo analogo a quello di Perlasca fu opera di un altro fascista, peraltro mio conterraneo.
Parlo di Palatucci il questore di Fiume, di origini irpine, che salvo' migliaia di ebrei e mori' in un campo di concentramento nazista.

Paradossalmente l'antisemita fascista più esaltato e fanatico fu un altro irpino nato in un paesino a pochi Km di distanza da quello dove nacque Palatucci: il prete spretato Giovanni Preziosi, del quale parlai a lungo in un trhead di un po' di tempo fa.

Pieffebi
09-01-03, 22:03
Ricordiamo anche il Questore "repubblichino" di Fiume....Palatucci, salvatore di ebrei, assassinato dai nazisti in campo di concentramento:

" LO SCHINDLER IRPINO



"Giovanni Palatucci nacque a Montella - in provincia di Avellino - il 31 maggio 1909 da Felice e Angelina Molinari. Importante fu nella sua formazione l’autorevolezza morale e culturale degli zii Antonio e Alfonso - che diverranno membri e docenti dell’Almo Collegio Teologico di Napoli e superiori provinciali dei Francescani conventuali in Puglia e a Napoli - e dello zio Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna. Compì gli studi ginnasiali presso il Ginnasio Pascucci di Pietradefusa ed il Liceo nella non lontana Benevento. Dopo la maturità, venne il tempo del servizio militare (1930) per il quale fu destinato, come allievo ufficiale di complemento, a Moncalieri. Nel 1932, a ventitré anni, si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Torino.

Il 16 settembre 1936 è a Genova dove formula promessa di volontario Vice Commissario di Pubblica Sicurezza. Dal 15 novembre 1937 è a Fiume presso la cui Questura - ove negli anni successivi avrà incarichi di Commissario e di Questore reggente - assumerà la responsabilità dell’ufficio stranieri, che lo porterà a contatto diretto con una realtà di rara umanità ed in particolare con la condizione degli Ebrei".

"Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare". È quanto scriveva l’8 dicembre 1941 Giovanni Palatucci in una lettera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se non fosse che quel "po’ di bene", compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempi difficili, significò la salvezza di centinaia di ebrei; oltre cinquemila, secondo quanto riferito dal delegato italiano Rafael Danton alla prima Conferenza ebraica mondiale tenutasi a Londra nel 1945.

Giovanni Palatucci era un cattolico di profonda fede; non sappiamo quali furono le sue prime reazioni alle leggi razziali, ma da parecchie testimonianze risulta chiaro come, via via che crebbe il pericolo per gli ebrei, egli rifiutasse di farsi complice delle persecuzioni. Egli non volle allontanarsi da Fiume neanche quando il Ministero dispose nell’aprile del 1939 il trasferimento a Caserta.

Rodolfo Grani, ebreo fiumano molto impegnato nella pubblicistica del settore, promotore di pubblici riconoscimenti in Italia ed in Israele alla memoria di Giovanni Palatucci - che egli conobbe personalmente e della cui benemerita quanto rischiosa opera di solidarietà in favore degli ebrei è stato diretto testimone - ricorda un primo grande salvataggio nel marzo del 1939, attuato dall’eroico funzionario, da lui definito "nobilissimo giovane cattolico".

Si trattava di 800 fuggiaschi che dovevano entro poche ore essere consegnati alla GESTAPO. Il dott. Palatucci avvisò tempestivamente Grani, il quale si mobilitò ed ottenne l’intervento del Vescovo Isidoro Sain che, a sua volta, nascose temporaneamente i profughi nella vicina località di Abbazia sotto la protezione del Vescovado.

A proposito di Grani, nel suo appello agli ex internati del campo di concentramento di Campagna, di cui si è detto, ci è dato leggere:

"Stava nella facoltà del Dott. Palatucci di concedere agli ebrei rifugiati dai paesi di Hitler a Fiume i relativi Permessi di soggiorno e non una volta, quando si trattava di qualche affare scabroso, ha dovuto combattere l’animosità dei suoi superiori: il noto antisemita ha chiesto il mio modesto aiuto pregandomi di salvare i miei disgraziati correligionari, rivolgendomi al competente Ministero a Roma.

Ciò mi è riuscito quasi sempre. Il dott. Palatucci dimostrava non solo nel suo ufficio, ma anche fuori di questo, la sua costante simpatia verso gli israeliti. Si potrebbe dire, che preferiva apertamente la compagnia degli ebrei nei luoghi pubblici e ritrovi.

Quando nel giugno del 1940 scoppiò la guerra e gli israeliti di Fiume e dintorni furono arrestati ed accompagnati maggior parte al campo di concentramento di Campagna, non una volta si affrettò il dott. Palatucci di raccomandare questi disgraziati alla benevolenza del suo zio, a S. E. Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna, il quale ci ha ricevuto con una squisita gentilezza e nobilissima generosità, dimostrandoci la sua altissima umanità e filosemitismo".

La figura di quest’ultimo si saldò inscindibilmente, a partire dal giugno del 1940, con quella del nipote Giovanni; il giovane responsabile dell’Ufficio stranieri infatti, quando la via dell’emigrazione non era possibile, inviava gli ebrei presso il campo di concentramento di Campagna affidandoli alla protezione dello zio Vescovo.

Giovanni dunque si rendeva conto che quel campo, pur con tutti i disagi dell’internamento, offriva un rifugio agli ebrei assai più sicuro delle terre jugoslave e, d’intesa con lo zio Vescovo, mise in opera ogni stratagemma per avviare là i profughi minacciati da immediati pericoli. Per non avere ostacoli dal Prefetto e dal Questore, presentava loro la soluzione dell’internamento nell’Italia meridionale come rimedio per liberarsi della presenza dei profughi che costituiva una minaccia per la sicurezza pubblica.

Ritornando a Rodolfo Grani, anche nel suo servizio "L’opera di salvataggio del Vaticano per gli Ebrei", pubblicato su Haboker, 10 agosto 1952, si sofferma sul suo personale istradamento, avvenuto per interessamento del dott. Palatucci, a Campagna "dove eravamo internati in gran massa noi fiumani". Il Vescovo Palatucci "si è reso indimenticabile fra migliaia e migliaia di nostra gente, aiutandoci, consolandoci con la massima generosità, facendosi fotografare con noi, disgraziati espulsi dalla vita sociale".

Anche l’avv. Barone Niel Sachs di Gric, che conobbe il Commissario Palatucci nell’espletare funzioni di legale di fiducia presso la Curia Vescovile di Fiume, in una sua lettera del 25-09-1952 indirizzata al Vescovo Palatucci, sottolineava quanto il giovane amico sfidasse "l’ira dei suoi diretti superiori, il Prefetto ed il Questore di quel tempo".

Nel contempo il legale annotava la "riconoscenza imperitura dei beneficati dell’ottimo mio caro amico, suo esemplare nipote, mai abbastanza rimpianto", e che egli aveva avuto "la fortuna" di conoscere. Parlando, un giorno, con il suo "indimenticabile" amico, il quale avrebbe "a guerra finita dovuto entrare a far parte" del suo "studio di avvocato a Fiume", ricorda che egli gli disse pieno di amarezza: "ci vogliono dare a intendere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano.

Queste nobili parole del nostro indimenticabile martire risuonano dopo tanti anni ancora nelle mie orecchie e L’assicuro, Eccellenza Reverendissima, che nella lunga mia carriera non ho mai incontrato un più grande gentiluomo e galantuomo di Suo nipote".

Giovanni Palatucci, responsabile dell’ufficio stranieri in una delle più calde zone di confine, era probabilmente un ingranaggio della burocrazia che, ogni qual volta doveva funzionare a danno dei profughi ebrei, si inceppava.

Un’altra testimonianza del suo modo di agire, delle sue scelte e della sua sensibilità, è senza dubbio il racconto dell’ebrea austriaca Rozsi Neumann, pubblicato nella rivista "Israel" (n. 39 18 giugno 1953), salvata con suo marito. Essi - il marito era già scampato a Dachau - erano di provenienza austriaca e avevano tentato di entrare clandestinamente in Jugoslavia; qui furono però catturati dalla gendarmeria e consegnati alla Questura di Fiume, che li rinchiuse nel carcere di via Roma.

I coniugi temettero per un loro "rimpatrio in Austria da parte della Questura, il che avrebbe voluto dire andare a morte sicura". Avevano prima sentito molto parlare del dott. Palatucci e della sua opera di soccorso. Un giorno ebbero la sorpresa di vederlo arrivare nella loro cella, in visita. "Egli era di natura gaia". Un altro giorno, quello di Natale, ebbero una sorpresa ancor più forte: furono portati in Questura, dove il dott. Palatucci offrì loro un pranzo.

Il funzionario aveva appreso, attraverso la censura della corrispondenza, che la signora Neumann aveva espresso ad alcuni conoscenti il desiderio di mangiare qualcosa di diverso in occasione del Natale. "L’emozione fu tale che io riuscivo con difficoltà ad inghiottire", ricorda la signora, aggiungendo che "con il suo aiuto fummo poi liberati e potemmo salvarci la vita".

Un pensiero di gratitudine fu poi espresso, dalla signora Neumann, allo zio, Mons. G. M. Palatucci, con lettera del 26 giugno 1953, nella quale si parla dei riconoscimenti che venivano tributati alla memoria del dott. Palatucci, "nobilissimo uomo", da tutti gli ebrei da lui "tanto aiutati"; annunziando che la sua testimonianza sarebbe stata inviata anche ad un giornale di New York, ricordava infine che "Vostro nipote (il quale mi parlava spesso di voi) credeva che sarò internata in Campagna e mi voleva dare per Voi una lettera di raccomandazione. Fui però mandata a Montefiascone e così purtroppo non ho avuto l’onore di fare la Vostra conoscenza".

"Credo che questa mia breve narrazione" - scriveva la signora Neumann nell’articolo pubblicato su "Israel" - "possa far conoscere la tempra di quest’uomo, che, in tempi tanto difficili... è andato oltre il comandamento Ama il prossimo tuo come te stesso. Il suo nome dovrà essere ripetuto con rispetto e venerazione dalle future generazioni di Israele".

Anche l’ebreo Carl Selan, da New York, in un articolo del 1991, ha voluto ricordare la figura di Giovanni Palatucci: "Tutta la mia famiglia e ognuno che è sfuggito a Hitler e agli Ustascia, ha trovato un porto di serenità in Fiume solamente per la gentilezza e l’ammirabile personalità di Giovanni. Se non fosse stato per lui, ben pochi avrebbero potuto rimanere vivi oggi".

A proposito dell’intesa creatasi fra Giovanni e lo zio Mons. G. M. Palatucci in favore degli ebrei, quest’ultimo, in un’intervista fattagli in occasione della intitolazione della strada a Ramat Gan - di cui si dirà in seguito - si sofferma su questo aspetto che lo legava affettivamente ed operativamente a suo nipote Giovanni: "Egli evitò la cattura di molti israeliti o facendo in modo che l’ordine non arrivasse, o personalmente estradando gli israeliti verso l’Italia, tanto è vero che molti da Fiume passarono a Campagna, dove io ero Vescovo, sicché dalle mani sue venivano poi alle mani mie; li aiutò in tanti modi, da poter riuscire a salvare la vita di numerosissimi israeliti".

Nell’intervista Mons. Palatucci ricorda anche - presenti tanti ebrei da lui accolti - le occasioni in cui nel campo di Concentramento di Campagna, alla presenza di autorità di Polizia parlò contro la legge razziale, e su questo punto precisava: "Anzi, contro la legge razziale ho parlato sempre, durante quegli anni della persecuzione degli ebrei e li ho aiutati in tanti modi, poi col dare ad essi aiuti materiali senza limiti".

Palatucci e lo zio Vescovo dunque si fecero in quattro per risolvere positivamente i problemi degli ebrei; e se la via ufficiale incontrava grossi intoppi, Giovanni trovava sempre un modo per far imbarcare clandestinamente i profughi su qualche nave e farli arrivare sotto la protezione dello zio. Fino all’8 settembre 1943 il ponte sul fiume Eneo, che divideva il territorio fiumano dalle terre Jugoslave controllate dall’esercito italiano, divenne il canale di salvezza per migliaia di ebrei dell’Europa orientale e di tutte le regioni della Jugoslavia sottoposte agli ustascia ed ai nazisti.

Un ispettore catapultato nell’ufficio di Palatucci il 23 luglio 1943, trovò solo elenchi di stranieri non residenti più in Italia da moltissimo tempo e ne trasse la convinzione che il giovane funzionario non si fosse mai curato di seguire gli stranieri con la dovuta vigilanza. A Palatucci giunse il biasimo per aver reso praticamente inefficiente il servizio stranieri. L’ispezione, probabilmente, fu la conseguenza dei rapporti non felici con i superiori.

"Gli ebrei presenti a Fiume l’8 settembre 1943 erano 3500, in gran parte profughi della Croazia e della Galizia. Con la creazione della Repubblica Sociale ed il disfacimento dell’esercito italiano, Palatucci rimane solo in quella città a rappresentare la faccia di un’altra Italia che non voleva essere complice dell’olocausto.

Nel novembre del 1943 il territorio di Fiume fu incorporato nella Adriatisches Kustenland, che si estendeva dalla provincia di Udine a quella di Lubiana. Era una vera e propria regione militare comandata dal gauliter Friedrich Rainer che disponeva di poteri assoluti. Lo Stato italiano di fatto in quel vasto territorio non esisteva più. A Fiume l’ufficiale tedesco, che poteva decidere vita e morte di chiunque, era il Capitano delle SS Hoepener".

"In una situazione disperata, Giovanni Palatucci decide di rimanere a Fiume e diventa capo di una Questura fantasma, si rifiuta di consegnare ai nazisti anche un solo ebreo, anzi continua a salvarne molti rischiando la vita.

Il Console svizzero a Trieste, che è un grande amico di Palatucci, lo mette sull’avviso che anche lui è in pericolo e lo invita a trasferirsi in Svizzera. Palatucci aiuta ad espatriare in svizzera la donna ebrea di cui era innamorato, ma rimane ancora a Fiume: dice all’amico svizzero che non se la sente di "abbandonare nelle mani dei nazisti gli italiani e gli ebrei di Fiume".

Prende contatto con i partigiani italiani e, sotto il nome di Danieli, concorda con loro un progetto, da far giungere agli alleati, per la creazione, a guerra finita, di uno Stato libero di Fiume. Nel febbraio Palatucci viene nominato, da uno Stato che non esiste più, Questore reggente di Fiume. In questo modo però poteva aiutare gli ebrei solo clandestinamente: fa sparire allora gli schedari, dà soldi a quelli che hanno bisogno di nascondersi, riesce a procurare a qualcuno il passaggio per Bari su navi di paesi neutrali. I nazisti, messi sull’avviso da spie, non fidandosi più di lui gli perquisirono la casa.

Palatucci ingiunge allora all’ufficio anagrafico del Comune di non rilasciare più certificati ai nazisti, se non dietro sua autorizzazione, allo scopo di conoscere in anticipo le razzie organizzate dalle SS. Il Capitano Hoepener infatti organizza una grande retata di ebrei: Palatucci però riesce a preavvertire gli interessati e li aiuta a nascondersi. A questo punto il Capitano delle SS capisce di essere stato beffato e anche i partigiani consigliano a Palatucci di lasciare Fiume; ma egli resta ancora".

Il 13 settembre 1944 però, Palatucci venne arrestato dalla GESTAPO e tradotto nel carcere di Trieste; il 22 ottobre poi fu trasferito nel campo di sterminio di Dachau dove trovò la morte "a pochi giorni dalla Liberazione e a soli 36 anni, ucciso dalle sevizie e dalle privazioni o - come anche fu detto - a raffiche di mitra".

Di Giovanni Palatucci vogliamo ricordare ancora una parola detta nelle ore buie; sapendo che una donna ebrea era minacciata di imminente arresto, la affidò ad uno dei suoi colleghi dicendogli: "Questa è la signora Scwartz. Trattala, ti prego, come se fosse mia sorella. Anzi, no: trattala come se fosse tua sorella, perché in Cristo è tua sorella". Tanti anni dopo, quella signora è partita da Israele ed è andata sino a Fiume, per mettere un fiore davanti alla Questura in memoria di Giovanni Palatucci.



I RICONOSCIMENTI A GIOVANNI PALATUCCI



Gli ebrei di Fiume sopravvissuti all’immane tragedia della guerra, delle persecuzioni e dei campi di sterminio, collegandosi anche alle altre comunità superstiti, decisero, a conclusione della guerra, di tributare alla memoria di Giovanni Palatucci una degna commemorazione.

Un gruppo di oltre 400 residenti in Israele - persone che erano state salvate dal giovane funzionario - impegnarono in proposito l’ebreo fiumano Rodolfo Grani. Si stabilì di dedicare al nome dell’eroico e fraterno amico una strada ed un parco in Israele, nella città di Ramat Gan, presso Tel Aviv. Mons. Palatucci apprese con gioia tale notizia e assicurò che "con immenso piacere andrà in Israele , dove potrà rivedere gli amici conosciuti a Campagna in quegli anni tristi: in Israele, sotto il suo magnifico cielo azzurro, nel ricordo di un’anima eletta che per i figli di Israele si sacrificò".

Anche il sindaco di Ramat Gan, Abraham Krinizi, in data 9 aprile 1953 invitò ufficialmente a nome del Comitato commemorativo il Vescovo Palatucci e suo fratello padre Alfonso, alle celebrazioni fissate in quella città per il 23 aprile.

La stampa, e non solo quella israeliana, ne parlò diffusamente. Tra le note di fonte ebraica quella di un settimanale stampato a Roma, "Israel", con un resoconto del 23-4-53, nel quale è tra l’altro detto che "Gli ebrei fiumani in gran parte allo scoppio della guerra furono internati a Campagna, dove hanno trovato salvezza e potente appoggio nella valorosa persona di S. E. Mons. G. M. Palatucci, Vescovo, zio di Giovanni. Si può dire brevemente che tutta la famiglia Palatucci faceva la gara di salvataggio dei perseguitati ebrei".

La cerimonia del 23, aperta dall’inno nazionale italiano e dall’inno israeliano, la "Hatikva", si chiuse con la collocazione di 36 alberi lungo la stessa strada dedicata a Giovanni Palatucci: uno per ogni anno della sua giovane vita terrena stroncata a Dachau; toccò agli zii collocare i primi due alberi.

La strada dedicata a Giovanni Palatucci è oggi una delle più belle vie di Ramat Gan (Città dei giardini), sulla strada principale Caifa - Tel Aviv (alle porte di questa).

Per iniziativa del Keren Kayemeth Leisrael, Fondo nazionale Ebraico, il direttore del suo Comitato Centrale per l’Italia, Naftali, diede notizia a Felice Palatucci, padre dell’eroe, di una nuova iniziativa commemorativa, che avrà poi concreta realizzazione: la creazione sulla collina della Giudea, nei pressi di Gerusalemme, di una foresta, che porterà il nome di Giovanni Palatucci. La piantagione avrebbe avuto inizio nel decimo anniversario della sua morte, il 10 febbraio 1955.

La zona scelta per la foresta è contigua a quella dove già sorge la "Foresta dei martiri", in ricordo di tutti coloro che furono sterminati dalla furia nazista.

Il nome di Giovanni Palatucci, è posto anche ai piedi di un esile alberello sul "Viale dei Giusti"; "sulla breve salita che porta al Yod Vashem, al disadorno quadrato di cemento su cui una grande distesa di lastre di pietre nere copre le ceneri commiste delle vittime dei campi di annientamento".

Il 17 aprile 1955, sempre in occasione della ricorrenza della sua morte a Dachau, ed in coincidenza con il X anniversario della Liberazione, una Medaglia d’Oro venne concessa alla memoria di Giovanni Palatucci, dall’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia con la motivazione seguente: "Commissario all’Ufficio stranieri della Questura di Fiume, tanto operò in favore degli ebrei e di altri perseguitati, che venne arrestato dai nazisti nel settembre 1944 e deportato in Germania. Le sevizie e le privazioni del campo di sterminio, a Dachau, ne troncarono, alla vigilia della liberazione, la mirabili esistenza. Se al suo nome nello Stato

d’Israele sono state dedicate una via ed una foresta, gli ebrei d’Italia vogliono anch’essi onorarne il ricordo".

A Giovanni Palatucci sono state inoltre dedicate altre strade e piazze nelle città di Torino, Avellino, Genova e Montella, paese natio dell’eroe martire.

Ma mentre il popolo ebraico non ha dimenticato, ed anzi ha ampiamente onorato questo eroico personaggio che aveva scelto la sua via pericolosa in nome della sua fede in Dio, lo Stato italiano lo ha ignorato per mezzo secolo.

Un documento del Ministero dell’Interno, datato 30 luglio 1952, in risposta ad una proposta ufficiale di riconoscimento, testimonia infatti che nel fascicolo personale di Giovanni Palatucci "non si sono trovati elementi che comprovino la attività dal medesimo svolta in favore degli ebrei". Le congetture dei periti ministeriali sono alquanto ridicole: come se l’attività svolta clandestinamente, e in quelle condizioni, da Palatucci potesse figurare in un documento ufficiale, in un fascicolo personale... a gloria futura.

Tuttavia, in ottemperanza al proverbio "meglio tardi che mai", su proposta del Capo della Polizia dott. Ferdinando Masone, dell’Associazione nazionale "Miriam Novitch" - Comunità ebraiche italiane, e del comune di Montella, il giorno 19 maggio 1995, in occasione della festa della Polizia, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha conferito la Medaglia d’Oro al merito civile alla memoria di Giovanni Palatucci.

Al momento del conferimento - in cui la figura dell’eroe martire era rappresentata da una giovane Vice Commissaria dell’Istituto superiore della Polizia di Stato - il Presidente Scalfaro ha desiderato che la medaglia dalle sue mani passasse, per la consegna, a quelle di Tullia Zevi, presidente delle Comunità ebraiche italiane. Presenti erano le massime autorità dello Stato italiano.

La Medaglia è ancora oggi custodita presso il Museo storico della Polizia di Stato.

Nel gennaio precedente, sempre in occasione del cinquantenario della morte di Palatucci, c’è stato un altro riconoscimento, sempre però da parte ebraica, alla sua memoria; la cerimonia ha avuto luogo nella Questura di Avellino, alla quale è stata consegnato un dipinto raffigurante l’eroe martire. Il dipinto è stato donato da Georges de Canino, massimo pittore ebreo, il quale, con questa sua opera ha inteso tributare alla sua memoria un atto di "amore e gratitudine" del popolo ebraico nella sua terra natale, e propriamente nella sede della Questura.

La totale disponibilità dell’eroico giovane funzionario si ispirò senza dubbio ad uno spiccato senso civile del dovere e dello Stato e ad un elevato spirito di religiosa fratellanza. Questa specifica valenza religiosa ed ecumenica della sua azione e del suo olocausto, è stata attentamente osservata dalla Chiesa cattolica che oggi ha avviato, infatti, l’istruttoria per la beatificazione dell’indimenticabile "Questore di Fiume" che salvò la vita ad oltre 5000 ebrei. "

Shalom!

patatrac (POL)
10-01-03, 22:30
Originally posted by Felix
Non che fossero dei santerellini gli SS italiani, ma mi pare ingiusto enfatizzare le loro colpe rispetto agli altrettanto efferati episodi di violenza di cui si macchiarono partigiani, titini e marocchini.
È solo e sempre il vae victis, la storia dei vincitori.

E poi La Repubblica non mi pare una fonte molto obiettiva su questi temi (la coscienza sporca dell direttore ex-saloino? mah...).


E che ci azzecca "Repubblica"? Il quotidiano ha solo pubblicato una recensione sul libro di Primo de Lazzari, edito da Teti, nel quale è contenuto il resoconto storico sulle SS italiane. La tua è solo una pregiudiziale sul giornale "la Repubblica", in base alla quale trascuri tutto il resto.

Felix (POL)
10-01-03, 23:53
Originally posted by patatrac



E che ci azzecca "Repubblica"? Il quotidiano ha solo pubblicato una recensione sul libro di Primo de Lazzari, edito da Teti, nel quale è contenuto il resoconto storico sulle SS italiane. La tua è solo una pregiudiziale sul giornale "la Repubblica", in base alla quale trascuri tutto il resto.

ho detto solo che "repubblica" è un giornale dichiaratmente di sx, di parte quindi. Non dico che sia "inattendibile" (ho parlato di "obiettività"), ma che da esso c'è da attendersi un'interpretazione parziale, soggettiva, specie su certe tematiche.
Non trascuro affatto "tutto il resto".
Anche i crimini delle SS e delle milizie repubblicane vanno condanntati, ci mancherebbe altro. Il problema è che per certuni le SS e le milizie repubblicane erano gli unici che commettevano crimini durante la guerra. E questo non è accettabile.