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Visualizza Versione Completa : Uno gnosticismo "pagano"?



Lupo Mannaro
04-01-03, 15:52
Salve amici,

Io ho studiato lo gnosticismo in maniera (purtroppo) non molto approfondita, all'interno di un corso di storia del cristianesimo, nel quale si è trattato sopratutto di Marcione e Valentino.

Poi, in un corso di religioni dell'Iran ho studiato manicheismo e mazdakismo. In uno dei testi del corso di religioni dell'Iran (di preciso A. Bausani, "persia religiosa") ho letto un passo interessante che vorrei proporvi:

"Recentemente, in corrispondenza, forse, di una certa situazione di disperazione pessimistica, di un accresciuto bisogno di "salvazione" sensibile nel tormentato mondo moderno, si sono venuti moltiplicando gli studi e le valutazioni del complesso fenomeno gnostico. Già nel 1934/35 il Puech, uno specialista in questo campo, in un interessante articolo faceva un inventario delle ipotesi fino allora emesse sulle origini e le caratteristiche dello gnosticismo. Da un primo periodo in cui la gnosi fu considerata un'eresia cristiana, sviluppatasi sopratutto nel II secolo, quando Basilide, Valentino, Marcione e Bardesane crearono i loro sistemi, e fu intesa come un frutto di quella acuta ellenizzazione del cristianesimo che, in forme più moderate, fu invece accettabile alla grande chiesa (Harnack), si passò, con l'ampliarsi degli studi e delle scoperte, che misero in luce una gnosi "pagana", l'ermetismo, la teosofia degli "oracoli caldei", il mandeismo, a un momento in cui qualcuno (Bousset) potè scrivere che si trattava di un fenomeno parallelo al cristianesimo, ma le cui relazioni col medesimo erano lievissime e puramente esteriori. La gnosi sarebbe un fenomeno pagano, più o meno impregnato di iranismo (piuttosto più che meno, secondo il Reitzenstein), avente per culla la bassa mesopotamia dapprima e poi l'asia minore e la siria e, secondo alcuni (Amelineau) l'egitto. A questo primo stato, pagano, dello gnosticismo, se ne sarebbe sovrapposto poi uno "ebraico", indi uno "cristiano", il quale ultimo non sarebbe che un colorito superficiale alla gnosi. La gnosi rappresenterebbe quindi un tentativo di orientalizzazione del cristianesimo, non di ellenizzazione (Lietzmann, Bousset). Un ulteriore momento nella storia delle ipotesi sullo gnosticismo è quello in cui se ne fa non il figlio o un contemporaneo, ma addirittura il padre del cristianesimo stesso. Valutando a un'epoca molto antica l'origine della singolare setta gnostica dei Mandei, qualcuno (Reitzenstein) sostenne appunto che molti concetti cristiani si spiegano molto più acconciamente (e. es. quello del "figlio dell'uomo" col mito iranico e mandeo dell'uomo primigenio), supponendo il cristianesimo nato da una certa precisazione di certe forme di gnosticismo precristianoi imbevute di idee iraniche e sincretistiche.

Una maggiore conoscenza della gnosi (in precedenza nota per lo più attraverso scritti di polemisti antignostici) è venuta da scoperte memorabili avvenute negli ultimi decenni. Intendo parlare, in primo luogo, della scoperta, nel 1931, a Medinet Madi presso al-Fayyum in Egitto, di un importante fondo di libri originali manichei tradotti in copto, che ci illuminano meglio sulle dottrine di una delle più complesse forme di gnosi, il manicheismo, in secondo luogo della scoperta, ancora in Egitto, a Nag Hammadi a una cinquantina di km a nord di Luxor, nel 1946, di 44 libri di una setta gnostica di sethiani. Una luce notevole sulla situazione dello gnosticismo e sul suo valore la spandono anche le ancor più recenti scoperte del mar morto.

Non è qui nostro compito parlare ex-professo dello gnosticismo: ci limitiamo quindi ad accennare a quelli che sembrano i risultati fondamentali di tali scoperte; intendo i risultati generali, perchè è ovvio che i testi scoperti illuminano enormemente la nostra conoscenza specifica delle dottrine singole del "sistema" gnostico. Questi risultati generici sembra si possano riassumere in tre punti:

1- E' ormai accertato che la gnosi è un fenomeno molto più ampio di quanto potesse credere un Harmack, è movimento di pensiero anteriore e indipendente dal cristianesimo, e diffuso, contrariamente a quanto un troppo ristretto biblicismo faceva pensare, anche in ambienti ebraici pre-cristiani.

2- Dottrinariamente confluiscono nella gnosi, come singoli elementi, mazdeismo, astrologia babilonese, elementi semitici, egiziani ecc in modo tale che non è possibile sostenere uno solo di tali elementi contro gli altri come "origine della gnosi".

3- Questi elementi trovano la loro unità in un funzionare integrale tipologicamente diverso da quello della filosofia ellenica e del politeismo indiano da una parte e del monoteismo ebraico-cristiano dall'altra, in una specie di tertium genius che faceva entusiasticamente esclamare al Quispel, all'inizio delle sue interessanti conferenze zurighesi raccolte in un volume nel 1951, sotto i9l titolo appunto di Gnosis als Weltreligion: "Una nuova religione universale è stata scoperta!"

Vorrei dunque sapere cosa, voi che certo avete letto più di me sullo gnosticismo, pensate delle teorie del Bausani, e quale sia secondo voi la più antica forma di gnosi "pagana".

Saluti

Fiamma Nettuno
05-01-03, 03:27
Sempre in questo contesto vorrei sapere dove acquistare il libro di Hans Jonas, Lo gnosticismo , SEI 1991, visto che nel catalogo della Società Editrice Internazionale non esiste!
Il miglior testo per studiare i Vangeli apocrifi invece quale è?
I Vangeli apocrifi e quelli gnostici sono diversi vero?
Aiutatemi per favore!

Ichthys
06-01-03, 00:42
Originally posted by Fiamma Nettuno
Sempre in questo contesto vorrei sapere dove acquistare il libro di Hans Jonas, Lo gnosticismo , SEI 1991, visto che nel catalogo della Società Editrice Internazionale non esiste!
Il miglior testo per studiare i Vangeli apocrifi invece quale è?
I Vangeli apocrifi e quelli gnostici sono diversi vero?
Aiutatemi per favore!

Il testo di Hans Jonas che hai citato è uno dei più autorevoli in questo campo e fondamentale per lo studio dello gnosticismo, scritto dopo l'importante scoperta della biblioteca gnostica di Nag Hammadi (l'antica Khenoboskion) dove furono rinvenuti i vangeli gnostici in copto tradotti da precedenti scritti in greco di cui abbiamo solo frammenti.

Per acquistare tale volume suggerisco di andarlo a trovare nel sito www.unilibro.it e di ordinarlo on line.

Altra segnalazione bibliografica.
Precedente alla scoperta della biblioteca gnostica di Nag Hammadi esiste un altro importante volume: P. M. Virio La Gnosi, ed. Symmetria.

Per lo studio dei Vangeli apocrifi (che comprendono anche quelli gnostici) personalmente suggerisco I Vangeli apocrifi a cura di Marcello Craveri edito da Einaudi ed ha un buon apparato critico; e poi c'è una pubblicazione della TEA, se non ricordo male, in due volumi.
Per lo studio dei soli vangeli gnostici che - come ho già detto son anch'essi scritture apocrife - segnalo I Vangeli gnostici a cura di Luigi Moraldi, Adelphi edizioni.

Esistono comunque altre scritture gnostiche oltre ai Vangeli, ricordo soltanto l'apocrifo di Giovanni, le varie apocalissi gnostiche e l'importantissima Pistis Sophia.

Nota bibliografica.
- La Gnosi e il mondo, raccolta di testi gnostici a cura di Luigi Moraldi, TEA.
- Pistis Sophia a cura di Luigi Moraldi, Adelphi edizioni.

Ichthys
06-01-03, 00:49
Originally posted by Lupo Mannaro
...

2- Dottrinariamente confluiscono nella gnosi, come singoli elementi, mazdeismo, astrologia babilonese, elementi semitici, egiziani ecc in modo tale che non è possibile sostenere uno solo di tali elementi contro gli altri come "origine della gnosi".
...

In particolare:

interpretazione dualistica e antonimica della realtà, divisa tra bene e male (influenza asiatica della dialettica degli opposti);
affermazione delle origini divine dell' uomo, visto come emanazione dell' Assoluto (dottrina delle "nobili origini", di influsso neoplatonico);

percezione di vivere in un mondo estraneo alla propria vera natura e dominato dal male (tema dell'esilio di origine ebraica);

centralità del concetto di salvezza come compito, nel senso che il ritorno al Bene originario è concepito come supremo obiettivo dell'esistenza (dottrina del "ritorno al Padre", di influenza cristiana);

affidamento del ruolo specifico di salvezza alla Conoscenza ("Gnosi"), o alla sapienza ("Sophia") (influsso ellenistico) attraverso un lavoro di perfezionamento interiore basato sull'eliminazione dei difetti e sulla semplificazione della propria vita (Plotino);

valorizzazione della cosmologia, del magico, del meraviglioso (influsso medio-orientale);

concezione della circolarità del tempo e dell' eterno ritorno in un mondo percepito come fallace ed illusorio (influsso indostano).


Vorrei dunque sapere cosa, voi che certo avete letto più di me sullo gnosticismo, pensate delle teorie del Bausani, e quale sia secondo voi la più antica forma di gnosi "pagana".

Al momento non ho informazioni sufficenti su questo punto; posso solo suggerirti di stamparti leggere con calme questo lungo contributo:

La tradizione mistica dualista e mono-enoteista iranica,
da Zarathustra al manicheismo, al sufismo islamico

Gravitando sempre in aree medio-orientali, l’interesse storico è polarizzato dall’al-topiano dell’Iran, che deriva il suo stesso nome dagli antichi Arii, quasi leggendari nomadi invasori di amplissime regioni euro-asiatiche, dal medio-Oriente all’India, in un "orizzonte culturale preistorico, che comprende vaste zone dell’Iran e si estende verso sud fino alle regioni costiere dell’Oceano Indiano" (F.Altheim, "L’antico Iran", in I Propilei, vol.I, tr.it. Mondadori 1967, p.157). Da tale remota matrice indo-iranica si è composto un arcinoto profilo linguistico (non etnico) indo-europeo, una supposta e discussa lingua originaria comune, da cui discenderebbe innumerevoli lingue europee e asiatiche, non esclusi con il sanscrito e l’iraniano antichi il greco, l‘etrusco e il latino, e perfino lingue americane e australiane. Anche dal punto di vista religioso, l’antica religione degli Arii aveva caratteri affini a quella arcaica indiana, di tipo naturalistico e propria di popolazioni nomadi di cultura pastorale: il culto della Vacca primordiale e del Toro, del gregge e del cane ecc., con grandi rituali di rinnovamento stagionale; di cui sembra siano rintracciabili elementi cultuali e mitici nell’Avesta, il libro sacro del mazdeismo (v. la cospicua voce-saggio "Zoroastrismo" di A.Di Nola, in Enciclopedia delle religioni, vol.VI, coll. 370-432). E già l’iranista A.Pagliaro aveva notato che "vi sono seri indizi per ritenere che le genti iraniche, prima dell’avvento di Zarathustra, continuavano ad essere in possesso di un patrimonio di credenze religiose e di miti, che risalivano alla fase indo-iranica, e che la riforma zarauthriana non riuscì a cancellare, ma anzi ne subì nei suoi sviluppi l’influenza, riuscendone profondamente trasformata". E si riferiva in particolare al culto del soma, l’inebriante bevanda sacra, che con il suo corredo di miti, "tanta parte ha nella religione vedica", e che "riaffiora assai vitale nello Zoroastrismo" ("Letteratura dell’Iran preislamico", in Le civiltà dell’Oriente cit., vol.II, p.303).



Ora alle origini del presunto (mono)teismo, s’impone qui una breve rievocazione del personaggio di Zarathustra o Zoroastro, e della sua originale "fondazione" religiosa, che ha diritto di priorità nella storia del vanaglorioso quanto contestabile monoteismo "occidentale". Occorre ricordare infatti che il misticismo iraniano ebbe, nella sua più antica e meno antica tradizione mazdaica, grandi e nobili profeti sacrificali come appunto Zoroastro e poi Mani, mistici visionari folgorati da "rivelazioni", avversati dai poteri associati ecclesiastico e civile, e costretti all’esilio e infine a morte violenta, più o meno "oscura". Strana e sospetta sorte in Occidente quella di un profeta antesignano come Zarathustra che, riesumato da Nietzsche per una sua personale infatuazione e infedele interpretazione, non ebbe mai e non ha – come meriterebbe – la "fortuna" divulgativa dell’alieno Buddha e del più estraneo Lao-Tze, pure essendo la sua predicazione certamente più affine alle religioni pseudo-monoteisti-che occidentali. A cominciare dai testi, l’Avesta, scoperto fra i Parsi dell’India solo nel secolo XVIII, di cui sono apparse nel secolo traduzioni italiane parziali, di F.C. Cannizzaro (Il Vendidad reso italiano, Messina 1916) e di A. Bausani (Testi religiosi zoroastriani, Milano 1957), attualmente irreperibili. Ingannevole è invece il titolo ottocentesco di G.T.Fechner, Zend-Avesta, sottointitolato "Pensieri sul cielo e sull’al di là" (1851), di un’opera che riassume la concezione filosofica, mistica e panteistica dell’autore, e di cui si è tradotta una sintesi corta (Bocca 1944).

Il credo religioso di Zarathustra contempla anzitutto la fede in un Dio unico, principalmente un supremo Dio di Giustizia, generatore dei "due spiriti", lo Spirito Santo e quello che diverrà lo Spirito Maligno, ponendosi in conflitto; un Dio con cui il profeta si pone in dialogo orante e adorante, ma personale e intimo, amichevole e quasi paritetico, pure con le sue impennate polemiche. La fede poi nell’immortalità, nel-l’imminenza del Regno di Dio, in un Giudizio universale alla fine dei tempi, nei regni oltremondani dei buoni e dei malvagi, nella resurrezione dei corpi ecc., e nella libera scelta (tra il bene e il male), nella parte attiva dell’uomo nella costruzione del proprio destino. Esaminando le varie interpretazioni testuali, mi rifaccio intanto allo studio di Zaehner, uno dei maggiori esperti in materia, che è stato intitolato in traduzione italiana Zoroastro e la fantasia religiosa (in originale ha il titolo The dawn and twilight of Zoroastrism, Alba e crepuscolo dello Zoroastrismo, tr.it. Il Saggiatore 1962), e mi sembra che colga bene l’essenza fantastica della mistica visionaria del sacerdote profeta, oppositore della tradizione religiosa politeistica persiana (pp.29-61). Ma è rilevante che la stessa redazione dei testi tramandata, frutto di copiature e ricostruzioni posteriori come la Bibbia, rende insicura la loro attendibilità e fedeltà alle origini, e probabili eventuali interazioni reciproche delle scritture (G.Schweizer, I persiani, 1983, tr.it. Garzanti 1986, pp.21ss.). Si aggiunga quanto viene osservato su inverosimili influssi dei profeti ebraici, e invece sulla possibile conoscenza che il profeta "ario" ebbe di una cultura linguistica e religiosa affine, quella degli indiani arii delle Upanishad e dei Veda, di cui avrebbe potuto rielaborare la dottrina del Brahman o anima universale, il principio superiore unitario, nell’affermazione di una divinità unica (pp.24ss.). Da cui si avrebbe conferma quanto l’evidente matrice mistica orientale abbia concorso a informare o indirizzare le fantasiose religioni (mono)teistiche e le loro scritture "rivelate". E’ un dato storico-geografico che, ancora oggi, per quel poco che sopravvive della religione di Zoroastro, 40.000 seguaci sono persiani, tre volte tanti sono indiani.

Un orientalista italiano scomparso, Alessandro Bausani, traduttore e storico – si dice, si è scritto – conoscitore di 35 lingue, fra cui un notevole numero di lingue orien-tali, è autore fra l’altro di un corposo libro sulla Persia religiosa (Milano 1959), oggi ristampato da Giordano (1999): un tentativo di storia unitaria, che va da Zarathustra e dallo zoroastrismo al manicheismo e al mazdakismo, come "eresie" di quella tradizione, all’Iran islamico, dall’ismailismo e dal sufismo alla "nuova religione" ottocentesca Babi-baha’i. E’ facile immaginare come questo sia tuttaltro che un percorso dilettoso, anche e proprio nella esposizione la più precisa che ne fa lo studioso e che, paradossalmente, per il suo elevato grado d’informazione storico-erudita e specialmente di cognizioni testuali pluri-linguistiche (spesseggiano qui le traduzioni dirette), semplifica con difficoltà una materia tanto intricata. Se noi pensiamo alla nostra privilegiata tradizione occidentale giudaico-cristiana, radicata nella immortale "testi-monianza" biblica, se pensiamo alla salda unità della storia ecclesiastica, che esalta la religione cattolica "unica e vera", dottrinalmente e dogmaticamente così monolitica uniforme iterativa, divinamente così priva di fantasia, così statica aldilà degli aspri scontri politici ricorrenti e di alcuni scismi semi-continentali, la sequenza di oscure e bizzarre fantasie religiose "gnostiche", nella Persia preislamica e islamica, sempre antica fino a oggi, genera confusione e stordimento.

E poiché il nostro interesse preminente è qui rivolto a Zarathustra, non è meno deprimente l’incertezza su tutto che ravvolge il personaggio mitico, seppure verosimilmente storico anche per Bausani, che del mazdeismo, la religione antica dell’Iràn in cui forse credette anche il riformatore mistico-profetico Zarathustra innovandola, dice essere "una delle più importanti religioni superiori", e che però presenta "un insieme di veri e propri enigmi" (p.39). Scrive inoltre che essa "ha fornito il materiale per la costruzione delle leggende escatologiche di tutte le grandi religioni del mondo civile" (s’intende, quello occidentale!), ma già enormi sono le difficoltà linguistiche dei testi, a cominciare da quella zoroastriana. "La lingua avestica più arcaica, quella in cui sono scritte le Gatha (‘Canti’), più probabilmente opera genuina di Zarathustra, presenta problemi tali che un recente studioso ha potuto francamente affermare che metà di quegli inni restano praticamente incomprensibili" (p.40). Si consideri infine che gli studi ulteriori portano a ritenere che quella iranica antica non fu una religione unica, ma una pluralità complicata di concezioni: "religioni e tipi di religiosità che vengono faticosamente ricostruite da frammenti, come iscrizioni, iconografia archeologica, testi isolati incorporati poi nel più ampio e unitario filone del mazdeismo" (ivi).

Tale quadro poco incoraggiante ma realistico è l’opposto di racconti sintetici lineari, come quello che si legge nel capitolo citato di Franz Altheim, su "L’antico Iran" (I propilei, I, pp.157-275), e che pare assumere quasi come guida la personalità e il "messaggio" di Zarathustra, la sua "fortuna", il suo "ritorno" ecc., con uno spiccato interesse linguistico. E stupisce dall’inizio perché fornisce date sicure sulla nascita e la predicazione di Zarathustra nel VI secolo a. C., che non trovo registrate in opere contemporanee di altri storici, per es. l’importante contributo alla valorizzazione della civiltà persiana La Persia preislamica di R.N. Frye (1962, tr.it. Il Saggiatore 1967), che dedica un breve sottocapitolo a Zarathustra (pp.43-50) con ritorni successivi, ispirato al solito pessimismo storico sul profeta iranico: "E’ scoraggiante che dopo tanti anni di ricerche non si sappia ancora quando e dove visse e neppure che cosa predicò esattamente" (p.43). Invece Altheim si rifà a Porfirio: "Un frammento della cronaca di Porfirio, ritrovato in traduzione araba, ci informa che il profeta morì nel 522-521, Calcolando i settantadue anni di vita a lui attribuiti in base a testimonianze sicure, si giunge al 599-590 per la nascita e al 569-568 per l’inizio della rivelazione" (p.163). Zaehner da parte sua propende con cautela per una datazione della vita fra il 628-551 a.C., in base a indicazioni tradizionali zoroastriane ("258 anni prima di Alessandro", p.29): datazione su cui con lievi varianti convengono altri studiosi, senza rifarsi ai frammenti arabi di Porfirio.

E’ solo un esempio dell’incertezza insuperabile, che concerne anche i testi, la preesistenza o meno del mazdeismo, la religione che venera Ahura Mazda, il "Signore saggio" zoroastriano. Circa la visione religiosa di Zarathustra, stando alle Gatha, i cinque "canti" o "inni" in 17 capitoli, nella più antica sezione Yasna dell’Avesta-Zend, attribuite a Zarathustra per intonazione originale e coerente ecc., Bausani la compendia così semplificando forse molto (pp.48ss.). Zarathustra, proponendosi mistico profeta, parla agli uomini per "rivelazione" del Dio, e per suo incarico esorta a seguire le prescrizioni del Saggio Signore trasmesse dal suo profeta, secondo un classico schema anche ebraico: la giusta scelta fra il bene e il male, la cura del bestiame e il lavoro dei campi, con l’astensione dia sacrifici di animali e dalla bevanda inebriante (droga) Haomi. Si opponeva quindi alla tradizione religiosa e alla gerarchia sacerdotale, a cui apparteneva, e fu oggetto perciò di persecuzioni di cui si doleva col suo Dio. Fuori delle Gatha, cioè nella tradizione ulteriore, il profeta stesso è mitizzato secondo consuetudine, come essere "trascendente", miracoloso ecc. Il cristiano Bausani esagerando, se si pensa al Gesù Cristo iscritto nella Trinità divina dei dogmi cattolici, scrive che Zarathustra nella tradizione zoroastriana "vive in un atmosfera molto più ‘trascendente’ di quella di un qualsiasi altro profeta storico ‘idealizzato’. Gesù e Maometto della leggenda sono personaggi addirittura ‘storici’ se confrontati col Zarathustra della tradizione dei libri pahlavici e di molte parti dell’A-vesta, dove egli già sembra un semidio, con solo lievissimi legami col mondo reale" (p.49). Appunto un "semidio", non un Dio consustanziale col Dio creatore, privilegio esclusivo cristiano!

Interessante è pure la comparazione, per le corrispondenze linguistiche coi più o meno coevi testi Veda, che rinviano a "un patrimonio tradizionale di dottrina e di poesia sacra comune alle due branche degli Arii d’India e d’Iran". La citazione è tratta da uno dei due recenti densi capitoli di G.Gnoli, "Le religioni dell’Iran antico e Zoroastro" e "La religione zoroastriana", nella collettanea Storia delle religioni diretta da G.Filoramo edita da Laterza (vol.I. Le religioni antiche, 1994, p.477). Arcidiscussi comunque sono sempre i problemi relativi alla concezione etica dualistica (premanichea) e al monoteismo (o piuttosto enoteismo) creazionistico di elezione, insomma alla credenza in un solo dio-padre creatore, circondato e servito da angeli e arcangeli. Ma se la "confusione" di motivi è "inestricabile", secondo quanto dice Bausani (p.53), come avventarsi a formulare ipotesi tanto sicure, così da affermare e negare a volte nello zoroastrismo l’attribuzione di concezioni come l’immortalità dell’anima e la resurrezione della carne (pp.52 e 84), in tempi spesso assai distanti? Si consideri che Bausani pone in relazione nella lunga età "ellenistica" avanzata il neoplatonismo, lo gnosticismo e il "mondo iranico", seppure con le riserve solite per l’impossibilità di datare i documenti iranici (pp.74-75): tema comunque interessante da sfruttare anche in senso inverso, per gli influssi iranici sugli gnostici, alcuni dei quali di origine medio-orientale, e ciò spiega la diffusione maggiore dello gnosticismo in Oriente.

Frye d’altra parte (e già Henning prima di lui) dà quasi esclusiva preminenza al dualismo etico, sostenendo che in esso risalta "la grande importanza dell’uomo arbitro fra i due opposti" valori del bene e del male. Raccoglie l’ipotesi, indimostrata e anzi molto sospetta, di Henning innominato che "il suo dualismo sia un atto di protesta e di ribellione al monoteismo imperante" in Iran (p.50), riconoscendo comunque che "egli fu il primo e il più eminente fra i profeti banditori di alti ideali etici fondati sulla persuasione", cioè non dogmatici né imperativi. E questo è nell’evidenza, ma con tutto il fàscino della personalità così umana di Zarathustra, nel suo stesso porsi nel confronto con la divinità, non credo autorizzi l’abuso di "rivoluzioni", come nell’enfasi apologetica di Gnoli, per il quale – voglio citare per intero – Zoroastro "è l’autore di una delle più grandi rivoluzioni religiose della storia, fondatore consapevole e appassionato di una fede dualistica basata su una elaborazione filosofica del problema del male. Il suo insegnamento, tramandato essenzialmente nelle Gatha, è un monumento alla dignità umana. L’uomo vi è posto al centro di un conflitto tra i poli contrapposti di un dualismo metafisico ed etico: egli può contribuire alla vittoria del Bene sul Male solo mediante una libera scelta, ispirata da una incrollabile adesione ai valori della verità e della giustizia. Questo insegnamento caratterizzò gran parte della storia religiosa dell’Iran antico ed esercitò, in forme più o meno dirette, una forte influenza anche fuori del mondo religioso iranico, di cui divenne, in ogni caso, il tratto specifico di gran lunga più originale" (op.cit., p.475).

Credo siano espressioni inadeguate nel conto di una religione (mono)teistica, in cui l’uomo debba nongià fare assegnamento esclusivo su una propria scelta etica autonoma, fra bene e male, verità e menzogna, divino e diabolico, ma fare appello al Dio della sua o altrui fantasia religiosa, il Saggio Signore potente Dio creatore, come fa lo stesso Zarathustra, mediante la Devozione, le preghiere e i sacri rituali, sia pure limitati, per sostenere tale sua impegnativa determinazione, come tutti i mistici delle religioni monoteistiche. Nelle Gatha delresto mi pare sia più energicamente affermata la difesa del Bove (della Vacca) dagli assalti sacrificali, che quella dell’uomo nel conflitto astratto e cosmico prima che concretamente etico fra Bene e Male, intesi come "Spiriti primordiali dell’esistenza" (Gnoli, pp.481-82). E anche la potenzialità "sociale" della "rivoluzione" di Zarathustra perorata da Meillet, nel senso dell’ opposizione all’aristocrazia guerriera a favore degli allevatori del bestiame e dei coltivatori della terra, non so quanto sia realmente dimostrabile. Proprio l’incertezza estrema dei dati, delle cognizioni testuali, dovrebbe frenare le congetture più ardite.



Eliade, nel cap.XIII della sua Storia delle credenze e delle idee religiose (1975, tr.it. 1979, 1990) dedicato a "Zarathustra e la religione iranica", esprime la sua delusione per la carenza delle fonti ("tre quarti delle Avesta sono andati perduti", ma il caso non è certo raro), in relazione all’importanza del "contributo iranico alla formazione religiosa dell’Occidente". (I, p.328). Ma cristianamente non sfiora neppure la questione del monoteismo o almeno dell’enoteismo di Zarathustra, per la scelta del Dio unico Ahura Mazda come ispiratore e "rivelatore", confidente ecc.: una libera scelta appunto, che non implica la soggezione e la servitù come nell’ebraismo e nell’isla-mismo (p.336). Nega che la teologia di Zarathustra sia "dualista in senso stretto poiché Ahura Mazda non è messo a confronto con un ‘anti-dio’", e tuttavia decide seccamente che la sua "rivelazione" divina "non fonda un monoteismo" (p.340). Così Zarathustra è soltanto inchiodato al dualismo antagonistico del Bene e del Male, della luce divina attinta nell’estasi, che Eliade ricollega a quelle sciamaniche, e della aspra lotta coi demoni, cioè con le forze del male, a cui è chiamato ossessivamente ogni fedele, libero peraltro di scegliere tra il bene dello "Spirito" e il male del mondo, delle passioni ecc., secondo il noto schema ascetico.

Delresto anche Gnoli apologeta circoscrive l’innovazione religiosa del profeta iraniano all’anti-ritualismo e all’esaltante visione etico-dualistica, mentre limita il monoteismo a una generica "tendenza" o perfino a un "tono" monoteistico, che si dissolve nel radicale dualismo amplificato in tutta evidenza (pp.480ss.). Ma direi proprio che un altro indizio della contrastata fortuna possa riconoscersi pure nel raro spettacolo di studiosi, radicalmente divisi e reciprocamente avversi nel prospettare, con pari dovizia di argomenti, interpretazioni antitetiche fra loro e in opposizione alla generalità degli interpreti, come quelle di H.S.Nyberg e di E.E. Herzfeld. Il profilo dello svedese è quello assai diminuito di un medico-stregone preistorico, operante fra le tribù selvagge dell’Asia interna, le cui credenze si basavano sul "giudizio di dio" e sul Maga, luogo di riti e canti magici, con danze e degustazione di vapori e canapa (droga), trances e grida scomposte, e anime in volo sciamanico, il dono più alto e ambito di uomini eletti fra alcolismo e coma prolungato. L’altro profilo di Herzfeld, in due volumi di confutazione serrata degli scritti di Nyberg, propone invece uno Zarathustra di stirpe reale, eminentemente politico in rotta con le classi dominanti, legittimo erede al trono iniquamente esiliato e espropriato, che esercita la sua vendetta tramando nell’ombra ecc. (v. la sintesi che ne fa W.B.Henning, in Appendice alla monografia di R.C.Zaehner, pp.397-406).

Tutt’altra interpretazione quella delineata da Joseph Campbell, che pone Zoroastro nel mezzo della sua Mitologia occidentale (1964, tr.it. Mondadori 1992), dando la priorità storica alle più antiche mitologie d’Occidente, ai culti "levantini cioè mediorientali della Dea Madre", in una "Età della Dea" matriarcale (ma lasciando innominato Bachofen), e ai miti guerrieri e patriarcali della "Età degli Eroi", in pratica alla mitologia ebraica e a quella ellenica. Tuttavia cita lo storico tedesco Edward Meyer, che nella sua grande Storia dell’antichità definiva Zoroastro "la prima personalità che ha operato creativamente e formativamente sul corso della storia religiosa" (cit. p.218), giacché il monoteismo di Akhenaton ebbe breve durata. Campbell aggiunge in proprio che "i grandi temi uditi per la prima volta nei dialoghi delle Gatha fra il Dio delle Verità, Ahura Mazda, e il suo profeta Zoroastro, possono essere riascoltati in greco, in latino, in ebraico, in aramaico, in arabo e in ogni lingua occidentale" (p.219). Con didattica chiarezza semplificatoria, precisa la portata del rovesciamento attribuito a Zoroastro, dicendo che mentre le religioni orientali – che chiama "me-tafisiche" – accettavano passivamente l’ordine del mondo nell’eterno ritorno ciclico (ma predicavano e praticavano il "distacco" da quel mondo), senza proporsi minimamente di riformarlo e cambiarlo, lo straordinario Zoroastro vedeva il mondo corrotto per eventi mitici, e modificabile secondo uno schema mitico di creazione, caduta e resurrezione, quindi da riformare con elevato impegno etico-religioso da parte dell’uomo.. L’impegno cioè di combattere Angra Mainyu, il Demone del Male e della Menzogna, e di seguire la via di Ahura Mazda, "il signore della Vita, della Saggezza e della Luce, il Creatore dell’Ordine di Giustizia", il "grande Creatore, Signore vivente" ecc., che evocava la sua parola infiammata in vista di una "gloriosa Beatitudine".(pp.220-21). Da qui la forte impronta esercitata sull’ebraismo, che rifigurerà la figura antica di Jahve da divinità tribale a Dio di giustizia universale, non senza la tipica impronta diminutiva ebraica, che in realtà ne metteva in forse e comunque ne pregiudicava l’asserita "universalità", con la sua sempre forte esclusività nazionalistica e etnica. Altra fondamentale riduttività propria del carattere storico ebraico, che tanto inciderà sul cristianesimo, è la concezione della mitica "caduta" scaricata sull’uomo, sulla sua pretesa "disubbidienza" al decreto divino, ovvero alla Legge sacralizzata, che – nota molto bene Campbell – "denigra la natura umana" (p.239), e sancisce rispetto al richiamo di Zoroastro alla "divina Obbedienza", fra gli altri valori etici, una priorità dell’"obbedienza" alla legge, ereditata poi dal cristianesimo autoritario della Chiesa cattolica.

J.Duchesne-Guillemin tratteggia così il profilo dell’invasato ardente Zoroastro, nel suo capitolo "L’Iran antico e Zoroastro", nella Storia delle religioni diretta da Puech (tr.it. Laterza 1977): "La sua predizione appassionata, veemente è tutta animata dalla ‘presenza’ che egli sollecita e supplica incessantemente e che si rivela. Essa ci richiama alla mente il tono dei profeti di Israele. Zarathustra ha la consapevolezza che Dio parla attraverso la sua bocca. Egli ha riconosciuto in lui, in una serie di visioni, il Signore Santo. Dubita, talvolta, della sua missione di profeta, ma per chiedere subito al suo Dio di confermargli la certezza. Perché, in fondo, egli ha fede in Ahura Mazda: ‘Parlami – gli dice – come un amico a un amico. Accordaci il sostegno che un amico presterebbe a un amico’" (vol.2, p.141). Se i dati biografici sono sfuggenti, in compenso la leggenda è dilagata (ricostruita da M.Molé, v. la voce-saggio "Zara-thustra", sempre di Di Nola, in Enciclopedia delle religioni cit., VI, coll.318ss.). con i soliti prodigi e miracolismi, anche più fantasiosi di quelli attribuiti al Buddha e al Cristo: in compenso Zoroastro, che per i suoi eredi era "il più santo di tutti gli esseri umani" (Campbell, p.240), tuttavia – lo ripeto – non fu mai divinizzato! Ma a proposito dell’influsso sull’ebraismo (sullo stesso Dio di Giustizia Jahve) e quindi sul cristianesimo, è molto interessante quanto Zaehner, nella sua importante opera, osserva sulle notevoli affinità che si riscontrano nel Manuale di Disciplina essenico fra i rotoli del Mar Morto: "Si può difficilmente mettere in dubbio che l’Ebraismo sia stato profondamente influenzato dallo Zoroastrismo durante e dopo la cattività babilonese, e la straordinaria somiglianza che c’è fra i testi del Mar Morto e il modo in cui nelle Gatha sono concepiti la natura e l’origine del male, come noi lo intendiamo, sembra indicare una diretta ricezione giudaica delle teorie gathiche" (op.cit., p.50). E’ un quadro di fantasie escatologiche, probabilmente coeve, molto affini nella concezione generale, l’avvento del regno di dio, la fede e speranza oltremondana nel giudizio divino, la redenzione, la resurrezione corporale, la "seconda esistenza", premi e specialmente castighi molto determinati ecc., temi riassunti poi dall’e-braismo farisaico (pp.56-58). Forse queste sono le ragioni all’origine della scarsa fortuna di Zarathustra nell’Europa cristiana! Non è certo un caso, secondo quanto ha scritto uno specialista, l’inglese James Darmesteter, che "non c’è nessuna altra fede nel mondo che abbia lasciato così scarsi e miseri monumenti del suo passato splendore" (cit. Campbell, pp.230-31).

Ma la questione della origine e della primogenitura del monoteismo, come opinabile titolo di gloria delle religioni del ceppo giudaico, qui interessa poco, e solo meraviglia che Schweizer si rifaccia addirittura al patriarca Abramo (2100 a,C.!), come assertore prioritario, e poi a Mosè, senza fare debito conto della elaborazione ecclesiastica assai più tarda delle scritture, e della mitizzazione ugualmente tarda di quei profeti arcaici e leggendari. Lo dimostra pure quanto Schweizer stesso riferisce sommariamente riguardo alla radicale opposizione di Dio e Satana e alla concezione giudiziale dell’oltremondo, inesistente nelle antiche scritture bibliche (fino a Isaia e Ezechiele), dove prevale la concezione morale comune del bene e del male, e semmai la molto terrena attesa politica del riscatto di Israele. Solo tre secoli dopo la morte di Zoroastro, l’espansione e il dominio dell’impero persiano che, a cominciare dal re Dario, sembra abbia assunto il mazdeismo (il "dio signore") come sua religione, avrebbe portato fuori dell’Iran, nei paesi conquistati fra cui la Palestina, anche l’influsso religioso: non con la violenza beninteso, perché i crudeli re persiani erano politicamente tolleranti nelle scelte religiose, a differenza dei santi ("santi padri") e paterni pontefici cristiani. "L’incontro con Zarathustra portò a una svolta religiosa di grande importanza presso uno dei popoli sottomessi: gli ebrei. Gli effetti furono di importanza storica mondiale" (p.29)! Schweizer cita come prova nell’Antico Testamento il libro di Daniele, probabilmente redatto uno o più secoli dopo la morte del profeta cortigiano e consigliere del re persiano Dario, e: in cui al cap.2 si profetizza, dando voce al dio ebraico, la resurrezione e il giudizio finale: "E un gran numero di quelli che dormono nella polvere della terra, si desteranno: gli uni per la via eterna, gli altri per il ludibrio e per l’infamia perpetua" (12,2).

Sarebbe indizio di una diversa concezione dell’oltremondo, attinta dai persiani, a cui si aggiungerà poi la dottrina degli angeli e dei demoni, come forze antagonistiche del bene e del male, e così le conobbe Gesù Cristo e le ereditò da fonte giudaica-cristiana anche Maometto. "E’ un vero paradosso: i seguaci di Zarathustra sono oggi una minoranza in via di sparizione, ma il pensiero del padre fondatore ha collaborato a forgiare tre grandi religioni – i cui seguaci rappresentano più della metà della popolazione mondiale" (p.31). Stupisce solo che Schweizer, nel fervore della dimostrazione, metta nel mucchio a fronte di Zarathustra tutte le religioni "degli altri popoli progrediti", senza la minima discriminazione, "dagli indiani [che pure aveva indicato come fonte del profeta persiano] ai cinesi, ai babilonesi e agli egiziani, fino ai greci e ai romani", oltre agli ebrei di quel tempo, come se condividessero la stessa concezione, "immagini e concetti religiosi" analoghi! Noi invece, con più preciso e largo fondamento riteniamo sia piuttosto proponibile un’altra contrapposizione storico-religiosa, fra la prevalente e libera concezione politeistica greco-romana e queste religioni "rivelate" sedicenti e non realmente monoteistiche, concepite non da poeti ma da "profeti" e mistici visionari, appunto come "profezia" ispirata in "visio-ne" dell’avvento futuro del "regno di dio", e come sogno mistico di riscatto nazionale o di "salvezza" individuale, a opera di un dio-signore universale.



Di cui un altro esempio eclatante sarà nei primi secoli "cristiani", e sempre nell’Iran mazdeo, nella medesima tradizione di Zarathustra e oltre, l’apparizione di un nuovo "profeta", il babilonese Mani, un altro principe delirante, fondatore visionario di una nuova religione mistica. Lo specialista Puech scrive che "il manicheismo costituisce l’esempio più perfetto di religione di tipo gnostico che sia dato trovare (Il manicheismo, in Storia delle religioni da lui diretta, vol.8, 1970, tr.it. Laterza 1977, p.161). E’ un esempio in grande evidenza di una concezione gnostica molto elaborata, a sostegno di una religione poi diffusa largamente in più continenti. Sul profeta Mani, vissuto nel III secolo, nato sembra deforme (zoppo, v. Bausani, op.cit., p.121), si è costruita la solita leggenda "evangelica", in questo caso con la sua stessa cooperazione scrivente: chiamate angeliche, rivelazioni ecc., proprio a imitazione dei vangeli cristiani. Fino a 25 anni infatti Mani fece parte del "movimento battista elchasaita", di ispirazione giudeo-cristiana: a 12 anni la prima "rivelazione dell’angelo, che si pone al suo fianco come suo "compagno", poi dopo altri 12 anni d’iniziazione una seconda epifania angelica (v. M.Tardieu, Il Manicheismo, 1940, tr.it. Giordano 1988, pp. 86ss.). Mani disputa con gli elchasaiti e si distacca dalla comunità, formandone una propria con la fondazione di una nuova religione, secondo la sollecitazione dell’angelo: "Ecco giunto per te il tempo di manifestarti per annunciare il tuo potere" (cit. ivi, p.91)!

Mani, mistico esemplare, non ha freno nella sua auto-investitura "profetica" (psicotica), come "il Paraclito annunciato del Cristo" e come "il sigillo dei profeti" (p.93), secondo una linea di discendenza diretta – tracciata da lui stesso – che procede da Adamo a Seth, a Noè, a Zoroastro, a Buddha, a Gesù Cristo, fino a LUI Mani, centro di convergenza mistica conclusivo di tutte le attese profetiche (p.95). Se lo diceva lui, profeta dei profeti! Ribadisce meglio Puech: Mani si considera e si dichiara l’ul-timo di una lunga serie di Messaggeri celesti inviati l’uno dopo l’altro all’umanità :a questo titolo, egli non pretende soltanto l’incarnazione più recente del ‘Vero Profeta’, ma ‘il Sigillo dei Profeti, l’Inviato, il "Rivelatore supremo" (p.175). Si sa che i "profeti", sprovvisti totalmente di autocritica, non conoscono limiti al proprio egocentrismo, né tanto meno la modestia dei derelitti: e Mani era un principe di schiatta reale! Che in un frammento del suo fondamentale Vangelo, detto "Grande Vangelo vivente", poteva scrivere: "La verità l’ho mostrata ai miei compagni di strada, la parola l’ho annunciata ai figli della pace, la speranza l’ho proclamata alla generazione immortale, l’elezione l’ho eletta, e la via che conduce alle altezze l’ho mostrata a coloro che vanno verso l’alto, e questa rivelazione l’ho rivelata, e questo vangelo immortale l’ho messo per iscritto per deporvi questi misteri sublimi a svelare in esso grandissime opere" (cit. Tardieu, p.117). Infatuato apostolo di se stesso, Mani si prodiga girando mezzo mondo fino nel grande Oriente, in India e in Cina, convertendo specialmente sovrani, mentre la sua "Santa Chiesa" cresce a dismisura (R. Kurt, in Storia delle religioni, Laterza, 1995, vol.III, pp.59ss.) Il suo destino si conclude proprio in Babilonia, nell’Iràn di Zarathustra, dove ottiene prima i favori reali, soppiantando il mazdeismo tradizionale, ma quando il re muore e gli succedono i figli rimasti zoroastriani, a lui perciò ostili e pronti a ristabilire l’ortodossia religiosa, è la sua fine. "Caricato di mezzo quintale di catene, una al col-lo, tre ai piedi, altre tre alle mani, ha la forza di ricevere i suoi discepoli e confida lo-ro il suo messaggio. Al termine di alcuni giorni di prigionia, egli muore stremato" (Tardieu, p.109).

Questa stessa descrizione, solitamente ripetuta, con supplemento di atrocità sul cadavere – o addirittura sul corpo ancora vivo (Puech, p.173) – si direbbe costruita per la celebrazione agiografica del martirio. A differenza degli altri profeti che lo avevano preceduto, Mani ha lasciato una quantità incontrollabile di scritti e di testi attribuiti, come se il suo fosse eminentemente propagandistico, e qui tutto si complica enormemente: Tardieu parla di nove opere di Mani, Puech di sette scritti canonici, e di altri variamente attribuiti. Ma insomma – scrive Puech – "il manicheismo è una ‘gnosi’, una variante particolarmente interessante e caratteristica dello gnosticismo, una gnosi ampliata fino a raggiungere le grandiose dimensioni di una religione universale" (p.188), con dottrine simbolistiche d’incredibile elucubrazione. In linee convenzionali, rifacendosi al dualismo mazdeo, riconosce la compresenza mondana e l’opposizione dei due princìpi antitetici fondamentali, il bene e il male, come luce e tenebra, spirito e materia, e la loro lotta inarrestabile in fasi alterne fino alla liberazione dalla materia e al trionfo della luce. Su questo semplice schema di fede, Mani stesso e i suoi seguaci hanno sopraelevato le invenzioni gnostiche più fantasiose, con figurazioni simboliche come la Madre della Vita, variante della Grande Madre, della Vergine Maria ecc., il Primo uomo o Adamo celeste che, come Gesù Cristo, "scende" a liberare il mondo agitato e tenebroso, ma a sua volta è imprigionato, finché il Dio del bene gli manda lo Spirito Vivente con la Madre di Vita, che liberano e riportano il Primo uomo nel cielo della Luce. Processo salvifico di liberazione delle anime dai corpi ecc., che continuerà nel mondo con altri salvatori, sempre "discesi" dall’alto cielo, come la sequenza dei noti profeti da Adamo a Mani, fino all’apo-calisse luminifera finale.

Forse è superfluo dire che, dal punto di vista etico, s’impone all’iniziato la terribile pratica ascetica severissima, fatta di astensioni estreme, anche mortali, di lunga tradizione orientale, per la soppressione di ogni desiderio e bisogno naturale, per guadagnare la "luce" a prezzo della vita. Il manicheismo sembra abbia attratto anche perciò molti cristiani, non è chiaro per quali meccanismi irrazionali, ma è un dato di fatto che per proprio questo subì persecuzioni dalle gerarchie cattoliche, come grave "eresia", e fu combattuto dall’indomito Agostino, che pure aveva appartenuto per molti anni come uditore a quella "chiesa". Scrive Puech: " il IV secolo segna l’apo-geo della sua espansione nell’impero romano: dovunque, esso viene combattuto e incalzato il che vuol dire che è presente dovunque e fa paura. Il declino, tuttavia, si annuncia rapido. Perseguita dalla chiesa e dallo stato, oggetto di leggi repressive rin-novate incessantemente e accentuate, l’eresia manichea sembra scomparire quasi completamente dall’Europa occidentale verso la fine del V secolo" (p.179). Si distinse in particolare il papa Leone Magno, che fece "espellere da Roma e dall’Italia le sette dualiste", e poi i "tolleranti" imperatori cristiani Giustino e Giustiniano, addirittura con "la tremenda legge che dispone la pena capitale contro gli appartenenti alla setta", che viene messa "implacabilmente in esecuzione dalle autorità ecclesiastiche", cristianamente sintoniche per avere promosso quegli estremi rigori.

Non è strana allora l’interpretazione "cristiana" che Bausani prospetta del manicheismo, come "esperienza personale della mostruosità dell’esistenza. Tale esperienza personale si proietta, ed è la parte più ostica allo spirito moderno, in miti [lo è meno "allo spirito moderno" il mito cristologico?]. Miti che hanno questo di particolarmente sgradevole, di essere non naturali e dal basso, e nemmeno, come quelli dall’alto zoroastriani basati su un’ampia socialità religiosa, ma quasi sogni personali di un intellettuale esausto e maniaco" (op.cit., p.127). Ma non è una caratterizzazione psicotica applicabile a ogni esperienza mistica e profetica? Lo stesso Bausani qui dà risalto insolitamente eccessivo, con disamore che diremmo esclusivo, alla più dura ostilità che il manicheismo incontrò dalle religioni istituzionali, e perfino dalle scuole filosofiche: sarebbe questo un titolo di demerito, e al contrario sarebbe meritoria la condanna e la persecuzione dei manichei? "Non v’è praticamente nessuna religione e nessuna scuola filosofica che abbia avuto conoscenza del manicheismo e che non l’abbia fatto segno al più implacabile odio. I mazdei sembrano considerarla l’eresia per eccellenza, i cristiani ben si sa cosa abbiano pensato di questa religione attraverso gli scritti del polemista a noi più familiare, Agostino, e quando fu condannato il manicheizzante Mazdak, un vescovo cristiano fa, nel processo, causa comune con i suoi persecutori, i Magi, contro il disgraziato ‘eretico’; lo stesso fecero gli ebrei, per non parlare dei musulmani, per i quali gli zindiq furono considerati i peggiori eretici" (p.125). Spettacolo superbo di "tolleranza" offerto – Bausani si guarda bene dal rilevarlo – essenzialmente dalle istituzioni religiose (mono)teistiche!



In tema di rapporti difficili dei mistici con l’"autorità" religiosa e politica, la ricorrenza storica osservabile in tutto il corso della storia ecclesiastica del cristianesimo, è presente anche nell’ebraismo e nell’islamismo, cioè nelle altre due religioni che si pretendono (mono)teistiche esclusive. Gershom Sholem, uno studioso ebreo vissuto e morto in Israele, in uno dei suoi libri sulla mistica ebraica, La Kabbalah e il suo simbolismo (1960, tr.it. Einaudi 1980, CDE 1989), tratta dall’inizio l’aspro tema generale "Autorità religiosa e misticismo", che qui vivamente interessa. Va precisato che Sholem era uomo di fede compartecipe, e questo giova nel senso della cognizione più precisa dell’esperienza mistica, ma è impediente nel presupposto comune della "sacralità" di quell’esperienza, e dei suoi percorsi illimitati in una "interiorità infinita". Per Sholem i testi sacri sono davvero "la parola di Dio", la cui "santità" è indiscussa nel suo farsi "rivelazione", e che è e "deve essere infinita", cioè – nei tipici insensati "profondi" della mistica –, in quanto "parola assoluta in se stessa è ancora priva di significato, ma è pregna di significato" (p.17). E insomma, io direi che è "pregna" del significato arcano che si vuole attribuirle, che si ha interesse a conferirle, così che, oscuramente per il "profano" impartecipe come me, "si dispiega negli infiniti strati del senso, nei quali, dal punto di vista umano, si incarna in forme finite e significanti" (ivi), che vale per il mistico come "una chiave per la rivelazione", per una "nuova rivelazione" ecc.

Senza sfiorare tali abissi tenebrosi, per cui anche il narrato parabolico ossessivo di Kafka assumerebbe sovrasensi mistico-ebraici (pp.17-18), noi restiamo ancorati alla positività del tema autorità-misticismo, sospettosi a distanza da ogni "infinità" retorizzata, per dare rilievo alla "infrazione" oppositiva, voluta o no comunque necessitata, delle esperienze mistiche comunicate e partecipate agli altri. Qui si dice che il mistico parte "dai simboli dell’autorità religiosa" ereditati, che lo condizionano, ma al tempo stesso – elaborandola nell’esperienza mistica personale – "trasforma e cambia il senso di quella tradizione", "la sviluppa e la fa progredire", se addirittura non "la contesta per insoddisfazione" e comunque tenta di superarla e riformarla deliberatamente, contrapponendosi alle gerarchie. Scholem cita in particolare come esempio radicale di rivoluzione nella storia ebraica la mistica di Paolo apostolo, che stravolse il senso delle "sacre scritture" – in senso cristo-centrico – ne travolse quindi l’autorità per fondarvi una nuova autorità sacra (p.20), quella costituita dalle sue stesse parole. Ma questo è un caso deltutto eccezionale nella stessa storia mistico-religiosa ebraica, in cui la "conservazione" con variazioni prevale largamente – Scholem lo dimostra anche in Le grandi correnti della mistica ebraica (1982, tr.it. Einaudi 1993) – come e più che nella augusta tradizione cattolica. Per quanto riguarda il condizionamento della tradizione religiosa, in cui il mistico è stato educato e "guidato" è ovvio l’interrogativo: "Perché un mistico cristiano vede continuamente visioni cristiane, e non quelle di un buddhista?" (p.21), e viceversa. Ma Scholem sembra adottare qui un senso riduttivo della "autorità" della tradizione, limitata ai testi, alla autorità della parola, escludendo quella benpiù pesantemente concreta delle gerarchie disciplinari e dei loro strumenti normativi di coazione, supremamente autoritari, in una struttura totalitaria come il governo della chiesa cattolica.

Un’estensione del senso è poi obbligata a valutarla in un’esemplificazione anche cristiana, che però fa riferimento a veri e propri "movimenti" o sètte cristiane, come gli anabattisti per le chiese protestanti, i quaccheri o il metodismo in seno alla chiesa anglicana, con rapida allusione all’antico gnosticismo di Valentino. Scholem sembra invece che abbia forti remore a coinvolgere la chiesa cattolica, con un solo esempio, praticamente dissolto dalla tesi che questi contrasti non voluti furono imposti dal- l’esterno. Una tesi irreale che qui viene generalizzata, estesa cioè a tutti i misticismi teistici, i cui conflitti con l’autorità sarebbero in genere "involontari", da entrambe le parti, e che solo "la situazione storica" – espressione indeterminata a cui ricorrono anche i teologi cattolici – li imponga alla fine "dall’esterno". Tesi sostenibile solo nel senso della intenzionalità conflittuale, che all’origine poteva spesso mancare, perché i promotori ritenevano di pronunciarsi e operare all’interno delle istituzioni ecclesiastiche, ma non certo riferibile alla predisposizione dell’"autorità" vigilante e reprimente. E’ evidente che la "situazione storica" era determinata anzitutto – quasi sempre univocamente – dalla presenza stessa di un’auctoritas istituzionale, più o meno forte e imperativa, che non consta solo di parole, di "sacri testi" perlopiù stru-mentali, ma essenzialmente di "poteri" organizzati e di interessi economico-politici, travestiti di superiori istanze etiche e di princìpi supremi. L’intera storia del cristianesimo e dell’islamismo ne danno amplissima dimostrazione, fornendo una casistica inesauribile di aspri conflitti e scismi interni, deliberati da necessità e interessi e urgenze a confronto e scontro, anche se e quando "indesiderati".



Nell’ambito islamico, del "sufismo" (dal saio di lana suf) di cui Bausani dice che "forse tutti i più grandi poeti persiani sono sufi" (op.cit., p.261), l’orrendo e non certo unico caso del mistico alHallaj (secc.IX-X), "martire del Sufismo" e "uno dei più grandi Maestri e poeti esoterici di tutti i tempi" (G.Mandel, Storia del sufismo, tr.it. Rusconi 1995, pp.65ss.), non fu il prodotto di azioni e reazioni involontarie. Le sue "predicazioni esaltate e misteriche, indiamantate da miracoli e prodigi" – nell’enfasi di Mandel –, proprio perché entusiasmavano le folle, preoccupavano e quindi attivavano l’"autorità" politico-religiosa islamica, dei tradizionali sunniti. Fra l’altro con il suo ardito urlo "blasfemo": "Io sono la verità, io sono dio!", che evocava pretese analoghe attribuite nei vangeli canonici a Gesù Cristo! Incriminato e condannato, sembra che con ebbrezza mistica abbia invocato la voluttà del martirio, prodigalmente soddisfatto dalle sollecite "autorità", da "poteri" precisamente individuati, nella persona del visir Ibn alFuràt, con ministri giudici ecc. Cedo la parola allo storico Mandel: frustato per un’ora, gli sono tagliate le mani e i piedi, e viene "esposto alla folla, è poi inchiodato su una croce, e lasciato così per tutta la notte. Il giorno seguente è ancora vivo, parla ancora alla folla, esortandola al bene, e perdona i suoi carnefici. Allora, per ordine del ministro Hamid, è decapitato. La testa viene esposta su una picca all’inizio del ponte sul Tigri, mentre il corpo, avvolto in una stuoia, è cosparso di petrolio e bruciato". (p.67). Altre decapitazioni fra i seguaci, contornarono l’esito di questo sanguinoso conflitto "involontario", fra i tanti e tanti che hanno insanguinato anche la storia politico-religiosa islamica dalle origini al secolo XX, come la più lunga storia delle chiese cristiane.

Sembra poi che i mistici seguaci di Hallaj, appartenenti alla sètta esoterica (leggi "clandestina") dei malamatiyya, si rendessero di proposito ingrati rinunciando "alla buona fama, animati dallo slancio mistico e dall’amore di Dio". Ne dà un esempio Il poema celeste (tr.it. M.T.Granata, Rizzoli 1990) del poeta persiano Farid al-Din Attar (sec.XII-XIII), "in cui ben ventitré racconti sono dedicati a una folla di esaltati, di rapiti, di pazzi, di ‘saggi’ folli, di disperati e di confusi" (p.15). Insensati apparenti – si dice – e in realtà uomini dotti, rappresentanti di "un mondo in cui vera vita è la morte, ragione è la follia e l’unica regola consiste nell’apparire liberi da regole" (ivi). Io direi semplicemente che erano fra i tanti "folli di dio" del grande Oriente, asceti santoni paragnosti alienati dalla ragione, dal mondo e dalla vita stessa, per una "liberazione" deltutto soggettiva, che coincide con un’agonia, con un percorso mortale all’oltre sognato, fra luci e suoni di perduto "amore divino", precipitanti nel buio nulla. Patrick Ravignant in esergo a un suo libello su I folli di Dio (tr.it. Sugarco 1985), che riguarda la mistica indiana, iscrive un classico paradosso indiano, per cui "ciò che è follia agli occhi di Dio è saggezza agli occhi degli uomini. Ciò che è saggezza agli occhi di Dio è follia agli occhi degli uomini". Noi siamo fra questi, siamo per l’ardua "saggezza" della ragione umana, e consentiamo all’irrazionalità solo dell’eros, delle passioni e immaginazioni umane, rigettando come psicosi deliranti ogni pretesa "follia del divino".

Ma avendo davanti questo vasto poema narrativo, così saltuario, fabuloso e aneddotico, è difficile sottrarsi almeno al richiamo seduttivo e stridente dell'ottica mistica musulmana, nel lungo Prologo "In nome di Dio clemente misericordioso" – il versetto preposto a tutte le "sûre" del Corano –, e specialmente "In lode del Profeta". Il panegirico spropositato di Maometto, colui che anche per i fedeli musulmani è "il Profeta", tuttavia è una prosopopea irta di maiuscole, che ha un’enfasi direi sacro-titanica: "Muhammad è il grande esempio ai due mondi. Muhammad è guida alla stirpe di Adamo. Muhammad è il Sole della Creazione, la Luna del Firmamento, è l’Occhio Perspicace, Muhammad. E’ Torcia della conoscenza, Candela a Missione Profetica, Lampada della Nazione e Guida del Popolo. E’ il Comandante Supremo sul campo di battaglia della Legge, il Generale delle Forze del Mistero e della Buona Condotta. E’ Imperatore del Mondo e Gloria del ‘Non altri che Te’": Dominatore della sfera celeste e di quella terrestre. E’ il più fedele dei profeti ed è prova alla Via, è il Re senza sigillo e il Sultano senza corona…" (pp.43-44). Così il Profeta e capo storico dell’islamismo, per amplificazioni smisurate concorrenti con quelle coraniche, assurge a luce del mondo, a "Corona di tutti i prìncipi, a "unico profeta di Verità", a "depositario assoluto del Vero", perfino a "motivo della creazione dei sette cieli e degli otto giardini del paradiso" (ivi), musulmano s’intende. Siamo cioè sempre nell’ambito dell’amplificazione retorica classica, riservata ai potenti mondani, principi re e imperatori, e chi ha frequentazioni letterarie potrebbe evocare il titanismo cosmico barocco. Ma anche quando qui si dice nel séguito fluviale di metafore inarrestabili, che stravolgono pure le leggende bibliche, che "la terra e il cielo sono sotto il Suo dominio, i due mondi sono misura al Suo regno", Maometto resta un uomo glorificato. Dinanzi al quale assurdamente dovrebbero inchinarsi tutti, o esserne subordinati, da Adamo a Abramo a Mosé a Gesù Cristo ("La sua religione illuminò il mondo e tutte le altre diventarono un nulla", p.46), con chiaro ossequio agli antichi profeti, di cui però è lui Muhammad a coronare la serie predestinata, come "Messaggero di Dio e Suggello dei Profeti" (Corano, XXXIII, 40), con la solita sequenza leggendaria di prodigi e miracoli ecc.

Il "fascinoso" relativo, da un punto di vista islamico, è in tale ricomprensione della "storia sacra" del mondo mediterraneo, che nulla esclude nel suo radicarsi nella tradizione monoteistica giudaica-cristiana, ma tutto reinterpreta e centrifuga nella nuova polarità del fondatore islamico. "Muhammad era il sole perpetuo e Gesù il mattino che lo annunciava. Questi portava la novella del ‘prescelto’ da Dio e apparve in un attimo, non nato da padre. Anzi, poiché era latore di buona novella per il popolo, era Evangelista, e venne in gran fretta. Egli fu il primo ad annunciare notizia di Verità, per questo sarà presente anche alla fine dei tempi. Non avrà scopo, questo ritorno, se non l’annuncio di Muhammad. O felice ritorno di Muhammad!" (p.49). Uno stridente scorcio "storico"-ermeneutico da proporre alle mistiche e ai mistici cristo-maniaci: il Cristo-Dio consustanziale al Padre eterno, rimisurato a misura d’uomo, come strumento transitorio di puro preannuncio del maggiore profeta venturo, da cui "il puro Gesù traeva nuova vita nel cielo" (p.55), con Salomone Mosè Abramo Noè nei dintorni! Nel Dicannovesimo Discorso, Gesù – non senza "eresia" islamica – è chiamato "lo Spirito di Dio, Luce dei Cuori" e Messia, oltre al reiterato "puro Gesù" che, se non è un protettore di musulmani, può almeno pregare per loro (pp.352-53)! Lui però è un Maometto cosmico che rischia il grottesco, nella prolungata litania fanta-retorica, benpiù che mistica, fino alla contraddizione se – come anche qui appare – di Muhammad non si vuole mai celebrare la "divinità", che sarebbe diminutiva e quindi blasfema nei confronti del grande Allah universale ("Dio"), ma per es. ancora con gigantismo iperbolico se ne fa sfolgorare la "bellezza" per "tutto l’universo della Luce": e "vedendo la Sua Maestà, l’empireo si fermò e rimase al suo posto come il Trono" (p.58). Se è vero che "il mondo dell’amore non ha inizio né fine" (p.39), una effusione figurale così incontinente ne estende illimitatamente i poteri o almeno le qualità e virtù sovrumane tanto da sconfinare nel divino, contraddicendo il citato versetto del Corano (XXXIII, 40), che fa di Maometto il "Messag-gero di Dio".

Si potrebbe dire che Il poema celeste offre in atto, come raccolti in sontuosa mostra, i procedimenti retorici insistiti per enfasi amplificativa crescente, con cui si compon- gono le mitologie "religiose", costruzioni verbali poi sacralizzate dogmaticamente. La prosopopea di Muhammad resta ambigua, e mentre così fanta-miticamente si vorrebbe esprimere la solita assunzione in cielo del Profeta, sembra limitarsene la portata a un mistico assorbimento totale in Dio, nel senso però del raggiungimento dell’unità mistica col Dio-Uno (p.60). Allora Maometto si sarebbe "reso incorporeo" e "analfabeta" ossia "illetterato", secondo il detto del Corano, nel senso relativo che ignora ogni altra scrittura "rivelata" che non sia il Corano (XXIX, 47 e LII, 52-53). In altre parole, tutto questo profuso scenario verbale dovrebbe essere una evocazione mistico-sufistica, come in "visione" lirico-estatica di alta poesia religiosa, un equivalente poetico delle scritture mistiche largamente citate prima. E si ricordi che Maometto stesso era nei suoi ritiri un mistico ultra-devoto, che cadeva – o ascendeva – in visioni estatiche, dopo di che guidava il suo popolo alle "sante battaglie", cioè alle giuste rapine per approvvigionarsi e alle tutte legittime conquiste militari. Si dirà che l’esito è il medesimo, l’identificazione che privilegia col Dio sommo più o meno tutti i fondatori antichi di religioni, il Buddha che tuttavia muore come un santuomo mortale, o Zarathustra che sfuma nel magico-mitico. Ma ciò che differenzia non poco le "divinizzazioni" non cristiane a me pare sia proprio che queste erano il prodotto della venerazione dei fedeli, spinta all’assurdo di una mistica con-fusione immaginaria del profeta indiato col Dio stesso, della sua parola con la "parola di Dio". Così da poterlo nominare ancora nel Poema celeste con le solite iperboli "il Sultano del Cielo e della Terra", "il lume di questo mondo e dell’altro" (p.63), e una sequela di altre variazioni stucchevoli, per la "Maestà" di colui che però resta sempre "il Profeta di Dio" (p.64), e nella "Invocazione allo Spirito" è "l’amico eterno dell’On-nipotente" (p.75).

Altra costruzione non mistica ma teologica, non "visionaria" ma aridamente dottrinale, lungamente contrastata e imposta per ipotesi teoriche e gelidi calcoli politici, l’identificazione cristologica del profeta-vittima col suo Diosommo creatore onnipotente, la sua affiliazione gratuita e in definitiva blasfema al Padre divino, e perfino l’indiamento della madre terrena, che di colpo – fecondata dallo "Spirito" infecondo – scala i cieli fino alla cima, Madre non del Figlio ma di Dio tout court, il Dio unico e vero, in un agglomerato politeistico tragicamente insensato. Le dogmatiche conciliari ovviamente sono in antitesi con la mistica "spontaneità" della fede, del- l’"amo-re" che inonda l’animo nell’ascesa auto-suggestiva all’unione col Dio-luce, nella medesima tradizione sacra, ma vivificata – se così può dirsi – nella riduzione esaltante a "visione" estatica, che comunque è esperienza soggettiva, espressione personale del "divino", fuori dei canoni e spesso insofferente di "autorità" legali o anche solo testuali, con cui il contrasto latente senon il conflitto aperto è inevitabile, nella misura della intolleranza ecclesiastica. Quanto Scholem scrive del mistico ebreo "che vive e agisce in rivolta contro un mondo, che pure apparentemente sembra che egli accetti" (Le grandi correnti della mistica ebraica cit., p.43), credo possa estendersi in condizioni e con modalità diverse non solo a tutta la storia della mistica ebraica (da cui trovo sia assurdo escludere i profeti-mistici biblici, come pretende anche Scholem, "per l’immediatezza della loro esperienza religiosa", op.cit., p.20), ma anche alla storia del sufismo islamico.

Per fare un altro esempio, il maggiore poeta mistico musulmano, il sufi persiano Rûmî (sec.XIII), che per Nicholson fu "il più grande mistico di tutti i tempi", e nella cui trattazione Bausani riassume le dottrine del sufismo (pp.276ss.), componeva immaginosi versi d’amore per descrivere momenti e slanci della propria esperienza mistica. Per lui "Amore è tutto quello che esiste, / senza la veste d’Amore non si va alla corte dell’Amato", "L’Amore e l’Amante vivono davvero in eterno", e allora "Inèbriati dunque d’Amore" (Poesie mistiche, tr.it. A.Bausani, Rizzoli 1980, 1994, pp.86-87). Al Tu-Dio sono rivolte, senza imbarazzo almeno di ambiguità, perfino frasi come: "Ho udito che vuoi partire lontano: non farlo! / che ami un altro amante, un altro amico: non farlo!"; "Dov’è il patto, dove il contratto che tu stringesti con me? / Vorresti violare la tua promessa e il tuo patto? Non farlo! / Perché far promesse, perché giuramenti e scongiuri? / Perché ti difendi con promesse e scongiuri? Non farlo", "L’anima mia è una fornace piena di fuoco, ma pur non ti basta. / Fai pallido come oro il volto mio pel distacco: non farlo"; "L’occhio mio avido e ladro ruba la tua bellezza; e tu scomparendo, amore, punisci la mia vista ladra: non farlo! / Ritirati dunque, compagno, ché non è più necessario parlare. / Perché t’intrometti nella follia d’amore? Non farlo!" (pp.125-26). Certo, motivi poetici consueti, movenze volutamente ambigue, di lirica realistica, naturalistica, cosmica e mistica, con passaggi ritmici spontanei, come nella sequenza: "Vieni!", che muovendo dall’appello all’a-mico lontano s’indirizza sempre al divino amante. Uno specialista compartecipe, R.A. Nicholson, parlando di Sufismo e mistica islamica (1914, tr.it. in rist. an. Melita 1988) credeva di chiarire che "il Sufismo si basa sulla credenza che quando il sé individuale è perduto, si ritrova il Sé universale, cioè in linguaggio religioso che l’estasi offre il solo mezzo per il quale l’anima può comunicare direttamente e divenire una con Dio. Ascetismo, purificazione, amore, gnosi, santità – tutte le idee fondamentali del Sufismo – si sviluppano da questo principio cardine" (p.57), che origina con evidenza dall’Induismo.

I rapimenti estatici, in tutte le religioni dall’Induismo all’Islamismo, sono fasi culminanti dell’esperienza mistica, in soggetti psico-paticamente predisposti, fino a un preteso e pretenzioso "indiamento", a una illusoria e illusionistica "unione" o "fusio-ne" col dio ineffabile. Che nel misticismo orientale – come nel sufismo – è in genere un indefinito oggetto di lode e d’amore, luce intellettuale e fuoco di passione disincarnata. Così per un ultimo esempio, nel misticismo di Ibn ‘Ata’ Allah (Sentenze e colloquio mistico, tr.it. Adelphi 1981,1989), la sentenza n.14: "Tutto il mondo è tenebra: lo illumina soltanto la manifestazione in esso del Verace. Colui che vede il mondo e in esso o vicino ad esso o prima o dopo di esso non vede Lui, non è in lui la luce e i soli della conoscenza sono in lui velati dalle nuvole delle creature" (p.41). E la litania di lodi impersonali al divino nel n.15: "Questo è prova della potenza di Lui, lodato Egli sia: che Egli si nasconde a te per mezzo di ciò che non esiste con Lui. / Come pensare che qualcosa Lo veli, Lui che svela tutte le cose? / Come pensare che qualcosa Lo vela, Lui che si rivela mediante tutte le cose e in tutte le cose", in una sorta di variata iterazione letteraria. E’ una mistica intellettuale, che però corriponde a un intenso fervore di abbandono, come nel n.154. "Chi conosce il Verace Lo vede in ogni cosa; chi si annienta in Lui, allontana ogni cosa; chi Lo ama, nulla preferisce a Lui" (p.64). E’ anche perché Allah è un grande unico Dio, che nella sua unità raccoglie 99 attributi, e Maometto è solo "il suo profeta", anzi l’ultimo e conclusivo dopo Abramo e Mosé e Cristo, anche per tutti i suoi fedeli che prendono nome dal suo, ma nessuno ha preteso di identificarlo col Dio supremo.



Henry Corbin, eminente islamista francese, definisce il Sufismo "una clamorosa protesta, un’irriducibile testimonianza dell’Islam spirituale contro chiunque tenda a ridurre l’Islam alla religione legalitaria e letteralista" (Storia della filosofia islamica, tr.it. Adelphi 1973, 1989, p.197); e questo spiega, fra l’altro, "le difficoltà che, nei secoli, il sufismo dovette affrontare nei suoi rapporti con l’Islam ufficiale (p.198). Ma qui in tema di "universalità" mistica viene posto un problema più specifico, che concerne il carattere psico-mentale di tali esperienze "anomale" fino a livelli "straordinari", che anch’io per cultura para-scientifica tendo a ridurre a fenomeni allucinatori, psico-patologici, paranormali ecc., per quanto "nobilmente" o "altamente" sollecitati e motivati da una contestuale "civiltà religiosa", mancante agli psicopatici comuni (v. Sabbatucci, art. cit., pp.112-13). E’ Corbin in un altro suo spesso libro, sempre devotamente tradotto e pubblicato da Adelphi, e sempre nell’aurea collana "Il ramo d’oro" (Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, 1979, tr.it 1986), a porre il problema in termini che qui non si esita a definire "rivoluzionari", e che interessano molto per il nostro approccio teorico e fenomenologico alla genesi mistica delle religioni. In realtà l’opera consta di una più larga parte (due terzi) antologica, preceduta da due saggi storico-testuali di grande finezza su materia pressoché inedita, che qui interessano – senza soddisfare – per la prospettiva teorica che propone l’autore scomparso, riassunta chiaramente in un "Preludio" alla 2^ edizione, intitolato "Per una carta dell’Imma-ginale" (pp.13ss.).

L’Immaginale è una sciocchezza, un termine poco audace di Corbin, da un presunto imaginalis latino, quanto meno inusuale nel latino classico, e non so se ricavato da testi medioevali nella formula mundus imaginalis, di cui non dà la fonte ma se ne serve come tale per avallo autorevole, volendo denotare una facoltà umana incognita, da non confondere con l’immaginazione comune, con la facoltà immaginativa, con l’immaginario ecc. La "rivoluzione" semantica consisterebbe nel dare nome a una terza "fonte del Conoscere", oltre la percezione sensibile e la ragione concettuale, e nongià l’assai nota "immaginazione" produttiva d’immagini, la straordinaria facoltà creativa – o "funzione" intellettiva – che genera la poesia e le arti: no, questa è svilita a facoltà inferiore, alla produzione "dell’irreale, del mitico, del meraviglioso, della finzione ecc.", esautorata al punto di emarginarla. Al suo posto Corbin, che è stato anche "giovane filosofo" – dice – mette questo "Immaginale" che non vale come aggettivo ma come sostantivo, denotando una terza "funzione noetica o cognitiva", la facoltà più altamente ascendente "di accedere a una regione e realtà dell’Essere" altrimenti preclusa, perché inaccessibile a "una filosofia scientifica, razionale e ragionevole".

Attenzione, non l’Essere parmenideo, non l’Essere dell’ontologia e della metafisica classiche e neoclassiche, le quali implicano sempre ardue astrazioni razionali nel vuoto di senso: qui siamo proprio nelle più elevate e arcane sfere della mistica, di cui Corbin è intenditore immedesimato, come si affretta a chiarire lui stesso. Quello che aveva cercato a lungo da jeune philosophe – lo dice lui – era la chiave delle angelofanie bibliche e della angelologia zoroastriana, viste come "mondo reale", e proprio in Iran doveva trovarla. Qui, nella "geografia visionaria" e geosofia mazdea, e nella "terra mistica di Hurqalya", "Terra celeste", "Terra delle visioni", "Terra di resurrezione": tale mirifico mundus imaginalis, o mondo delle "Forme immaginali e della percezione immaginativa", sarebbe insomma il "mondo soprasensibile, che non è né il mondo empirico dei sensi né il mondo astratto dell’intel-letto" (p.14). E si rifà espressamente perciò ai "Platonici di Persia" (sec.XII), ai "teosofi mistici" evocatori di tale "immaginazione attiva" che, essendo nella illusione gnostica e teosofica condivisa dall’autore una "facoltà cognitiva" di "real-tà", pare non abbia nulla in comune con l’immaginazione mitica o artistica, riguardante appunto quel sovramondo esoterico che si assume come "reale", e di cui l’immaginoso "immaginale" sarebbe una copertura legittimante. Chiama poi a sostegno l’autorità mitica contrastata del medico e occultista Parcacelso e del mistico e teosofo Boehme con la sua "scuola", quasi eredi diretti di cabbalisti ebraici e esoterici sciiti e ismailiti, quindi si rifà ai "plato-nici" di Cambridge, al "Newton boehmiano", ai cabalisti cristiani. Questi gnostici evocatori di Teofanie e di mondi "immaginali", di "corporeità spirituali", mediatrici fra il "Dio nascosto" e il mondo dell’uomo – Sophia, "Anima mundi" ecc. – sarebbero naturalmente in antitesi e in lotta titanica coi moderni filosofi occidentali, fra cui Corbin mette in sequenza un po’ casuale Descartes e padre Mersenne, Malebranche e Bayle, Leibniz e Wolf, "e la lista si allunga fino ai nostri giorni" (p.20).

L’autore pone sotto forma interrogativa la constatazione che "si tratta di un combattimento definitivamente perduto, avendo il mondo perso la sua Anima, di una disfatta le cui conseguenze pesano, senza compensazione, sulle nostre visioni moderne del mondo", con la conclusione banalmente consolatoria che, "se disfatta c’è stata, una disfatta non è una confutazione" (p.20). Evidentemente, una "confutazione" dialettica varrebbe assai più di una disfatta storica, per chi come Corbin antistoricista se ne appaga, essendo stato uno dei "giovani filosofi d’oggigiorno ansiosi di dare un esito diverso a tale combattimento" (ivi), e essendo ancora giovane o meno. La singolarità di questi jeunes philosophes neognostici è quella di essere tanto calati nell’attualità da rifarsi serenamente, quasi con orgoglio, ai tempi più remoti, a concezioni e testi quali "gli antichi testi mazdei", come a vantare illustri natali, avendo dell’antica "sapienza" una venerazione mistica, come per tutta la Tradizione arcaistica. E Corbin ne dà pure una sua motivazione, giacché – dice – "la successione del-le epoche di un mondo spirituale non è una storia che si possa percepire e si possa dimostrare nel modo in cui i documenti ci permettono di parlare delle campagne di Giulio Cesare o di Napoleone. Le epoche del mondo spirituale si differenziano nettamente dalle epoche del mondo esterno, quello della storia socio-politica o della geologia" (pp.21-22). Ma perché godrebbero di tale privilegio? Il perché è evidente, essendo lo spirito eterno, senza luogo e senza tempo, perdipiù "immaginale" cioè immaginato come "vero" nel senso di una "realtà" esoterica, quindi "profonda". Lo stesso argomentare dell’orientalista francese direi che è di tipo "orientale", nel senso che afferma negando e nega affermando, con flessibilità apparente, che dà per reali "di realtà loro propria", non mistici né storici ma veri, gli accadimenti imponderabili del "mondo immaginale", paragonabili alle "nume-rose testimonianze" della "vita dopo la morte", a cui con evidenza presta fede.

Per farsi un’idea dell’irrealtà in cui anche un intellettuale misticizzante come Corbin operava scrivendo, basti pensare che Corbin è perfino preoccupato degli imitatori del termine "immaginale", delle contraffazioni del suo marchio originale (p.23)! A valutare poi le conseguenze che si traggono da questa "facoltà cognitiva" detta immaginale, che infine non è che un aggiornamento terminologico della eterna gnosi, soccorre il "Prologo" dove esso riesce per es. a giustificare finanche la real-tà dei "miracoli", come "rottura delle leggi naturali", deltutto plausibile e "vera", se rivisti nella luce "esoterica" della gnosi immaginale. "Fede e miscredenza si rinchiudevano nel dilemma: storia oppure mito. Sarebbe stato necessario rendersi conto che il primo e supremo miracolo è l’irruzione di un altro mondo nella nostra conoscenza, irruzione che squarcia la trama delle nostre categorie e delle nostre necessità, delle nostre evidenze e delle loro norme" (p.29). Un orizzonte "spirituale reale", in cui vale solo la "dimensione soprasensibile", e che "è inaccessibile alle astrazioni razionali come alle materializzazioni empiriche". In questa orbita immaginaria tutto si legittima, pure la certezza che vi siano luoghi "dove lo spirito e il corpo sono una cosa sola", dove "lo spirito prende corpo come caro spiritualis, ‘corporeità spirituale’, nel senso tutto "orientale" che essa "non è percepibile con gli occhi di carne del corpo perituro, ma con i sensi del corpo spirituale o corpo sottile, quelli che i nostri autori chiamano i ‘sensi d’oltremondo’" (p.30). Certo, un terzo occhio davvero "dell’altro mondo", quale è quello proprio delle "grandi religioni", tutte animate dallo Spirito, specialmente quelle dedite al divino e ai culti "oltremondani", suttutte la sacro-divina chiesa pontificia.

Così che l’operazione corbiniana alla fine si rivela "funzionale" a questo scopo confirmatorio, con la fertile teoria-prassi della "immaginazione attiva", come funzione e facoltà produttiva – di cui già prima non dubitavamo – all’origine delle fantasie mito-simboliche religiose. Il tentativo consiste nel promuoverne la portata "conoscitiva" di verità mistica, illusionistica, allucinatoria, psico-patologica, parapsicihica ecc., una terza e quarta dimensione come "immaginazione del reale" (immaginale), sia pure di una nebulosa "realtà propria", soprasensibile e psico-corporea, di una oscura "corporeità spirituale", esoterica intermediale ecc., di luoghi favolosi, che conferirebbero verità alle "visioni" e alle "resurrezioni". Quale verità senon quella della "fantasia" pura, della stessa fantasia estetica, spesso – e non a caso – della autentica "poesia", fino alla più alta in molte tradizioni mistico-letterarie e fanta-sapienziali sacralizzate? L’esemplificazione testuale che se ne dà qui, nella cospicua parte antologica ("nemmeno una goccia nel mare", spaventoso pensare all’esistenza di simili oceani testuali!) lo conferma ampiamente. Anzitutto si osserva come anche sul piano teorico la concezione di Corbin deriva letteralmente da quelle fonti iraniane, e potrebbe essere alpiù una presa d’atto storica, non un’assurda rivendicazione "attuale". Riferisco abbreviati i lunghi nomi di difficile trascrizione, della decina di maestri teosofi iraniani (shaykh), fra il XII e il XX secolo, limitandomi a estrarre qualche pseudo-concetto e alcune "visioni" più o meno razionalizzate, confessioni estatiche ecc., confermando appieno trattarsi di pura esperienza mistica. Sohravadi nel Libro dei Colloqui rinvia agli "antichi Saggi", attestanti l’esistenza di "un mondo fornito di dimensioni e di estensione, diverso dal pleroma delle Intelligenze, e diverso dal mondo governato dalle Anime delle Sfere (cioè diverso dal mondo sensibile)"; e lo dice molto bene che "tale mondo accade ai pellegrini dello spirito di contemplare, ed essi vi trovano tutto ciò che è oggetto del loro desiderio" (p.131).

Nel Libro delle Delucidazioni, quasi a dimostrazione, racconta di essere stato colto da "un’estasi simile a un sogno", in cui avvolto da "grande dolcezza", in una "folgorazione abbagliante", appare "una luce tutta diafana, che aveva l’aspetto di una persona umana": "era il Soccorso delle anime, l’Imam della sapienza, Primus Magister, sotto una forma che mi empì di meraviglia, e d’una bellezza il cui splendore mi stupefece" (ivi). Di tale natura estatica, psico-allucinatoria è la "realtà" di questo "altromondo" vantato come inedito "immaginale", prodotto cioè di "immaginazione attiva", preceduto – come lo shaykh dice – da "una intensa ossessione", in cui "senza requie" lui stesso si dedicava "alla meditazione e agli esercizi spirituali". E’ pure insistentemente chiarito come il suo assillo sul "problema della conoscenza", per cui trova "difficoltà insolubili", si risolva sempre – come in tutti i mistici – nella autocoscienza, nella "conoscenza di se stesso", consistente in una "percezione diretta" di sé per mezzo di se stesso, "per sollevarsi quindi alla conoscenza di ciò che è al di sopra di lui" (p.132). E’ il carattere eminente, introspettivo e introiettivo e quindi ossessivo, della psicosi mistica, che scopre o "rivela" in sé come fuori di sé, in "visione" lucifera abbagliata, universi immaginari, animati da incontri immaginari "come reali": tutto ciò e non altro evoca e giustifica lo studioso consensuale, che dovrebbe farne invece studio oggettivo, storico e fenomenologico, altrimenti questa non può essere valutata che come apologetica militante.

Corbin spiega in nota che la conoscenza di sé, per la "illuminazione aurorante", per cognitio matutina ("chi conosce se stesso, conosce il suo Signore"); e ripete perspicuamente che "questo vuol dire che tale conoscenza segua l’ingresso in quella Terra celeste che è la Terra delle visioni e Terra di resurrezione, la Terra di cui è fatto il corpo di resurrezione, come fruizione di tutto ciò che è stato acquisito durante la vita terrestre attraverso la conoscenza e il modo di essere" (p.297 n.3). Si riferisce sempre a Hurqalya: vero "Mundus imaginalis, o mondo dalle Forme im-maginali o della percezione immaginativa", ma che altro sono queste senon evocazioni anche suggestive di sogno, trance, delirio estetico-mistico, e perciò stesso di assai dubbia e assai spericolata "sapienza" irrazionale antica, che concresce su se stessa come la "conoscenza" introspettiva del sé? Anche costoro, come tanti poeti e artisti di ogni tempo, sono coinventori d’irrealtà che nel delirio onirico del sé inconscio sono "reali", e che nelle figure e nelle scritture si ri-evocano con "univer-sale" diletto, ma senza pretendere di costruirvi teosofie orientali o teologie occidentali, tanto meno religioni e chiese, né di proporre le proprie "visioni" come realtà autentiche, come verità eterne, altro che nel senso traslato della "realtà" e della "verità" estetiche.

Lo stesso Sohravardi descrive le modalità visionarie dell’"incontro con la realtà soprasensibile", con notazioni che mi piacerebbe fossero analizzate sotto il profilo psichiatrico, dicendo che "può avvenire attraverso una certa lettura di un testo scritto; può avvenire attraverso l’ascolto di una voce, senza che colui che parla sia visibile. A volte la voce è dolce, a volte fa tremare, a volte è simile a un mormorio sommesso. Può avvenire che l’interlocutore si renda visibile sotto una certa forma, come una configurazione siderale, oppure come figura di un principe celeste tra i principi supremi" (p.135). Parla di fatto di "rapimenti autentici" (raptus) nel "mondo di Hurqalya", che è governato dal fantastico "magnifico principe Hurakhsh, il più sublime tra quelli che hanno preso un corpo…", da cui tutto dipende. Cioè la lettura di questi testi presuppone la fede religiosa di origine, la credenza nel Dio provvidente, nelle visitazioni e comunicazioni "di altri principi celesti", nella possibile "chiamata interiore" delle "anime dei tempi passati" ecc. Ecco una descrizione sintetica di "visioni" possibili: "A volte l’apparizione assume forma umana, a volte quella di una costellazione, a volte quella di un’opera d’arte, una statua che emette parole, oppure una figura simile alle icone che si vedono nelle chiese, figura che pronuncia anch’essa un discorso. Talvolta la Manifestazione avviene sotto una certa forma subito dopo la scossa della luce che estasia, e talvolta avviene soltanto dopo la forma di luce. Quando la luce folgorante si prolunga, essa abolisce la forma, le figure scompaiono, la visitazione particolare svanisce. Allora si comprende che ciò che svanisce cede davanti a un rango superiore…" (pp.135-36).

Che tutte queste pretese "forme immaginali", davvero immaginarie seppure "reali" in visione, siano privilegio esclusivo (iniziatico) di "contemplativi visionari", qui è detto esplicitamente con l’orgoglio dell’iniziato. Anche la descrizione dell’espe-rienza mistica è tutta "interna" all’esclusività del privilegio, e per la sua chiarezza merita qualche riporto esplicativo, che è difficile isolare dal contesto, trattandosi in prevalenza di evocare una "realtà soprasensibile" che è denominata Xvarnah ossia "Luce di Gloria", con fenomeni paranormali come "camminare sulle acque, librarsi nell’aria, raggiungere il Cielo, vedere la Terra arrotolarsi come un tappet" (p.137). Ecco i fotismi rivelatori dello "spirito": "Tutte queste sono illuminazioni che si levano sull’anima umana che governa il proprio corpo. Esse si riflettono allora sull’abitacolo (il‘tempio’) corporeo. Per coloro che sono mediocremente progrediti, questi fotismi segnano i limiti a cui si fermano. Può avvenire che queste Luci li sorreggano, così che essi camminano sulle acque e si librano nell’aria. Può avvenire che essi salgano al Cielo, ma con un corpo che è il loro corpo sottile; allora si congiungono a certuni tra i principi celesti…" (pp.137-38). Secondo queste indicazioni, "gli impostori seducono con le loro ciarlatanerie, ma l’illuminato, il perfetto, l’innamorato dell’armonia, immunizzato contro il male, questi agisce attraverso l’energia e l’assistenza della Luce, perché è egli stesso il figlio del mondo della Luce" (p.136). "Luce aurorale", "Luce di Gloria", che illumina tutti questi "figli del mondo della Luce", è sempre la "realtà immaginale" della mistica, quella tutta "orientale" (anche indiana) di un preassunto corpo incorporeo, in quanto trasceso per "distacco" ascetico, che si può dismettere e rimettere come un vestito; di una "realtà" dissimile da ogni esperienza vitale e mondana. Una monocromia di luce dorata, simile a quella osservata nelle moschee e nelle chiese bizantine: un mondo celeste favoloso oramai scaduto in convenzione, un immaginario paradisiaco d’in-fanzia religiosa, in cui impazza l’angelismo ma pure una sorta di astro-mistica "spirituale" che modella le "anime", quella appunto della "Luce aurorale", che "ha la sua sorgente negli astri spirituali, pure entità spirituali di luce".

In altri termini, la "realtà soprasensibile" che, per essere tale, dovrebbe essere dav-vero "fuori dei sensi", è invece cromaticamente, percettivamente concepita dal-l’antico come emanazione luminifera, come splendore originato "nelle incandescenze astrali", come "sublime luminare" e sublime luminaria, esemplificata nel Paradiso dantesco. Misteriosa Energia sacra operante dalle origini del mondo (Cor-bin, p.43), che investirebbe gli uomini facendone degli eroi, dei vincitori, dei trionfatori che, quando raggiungono il livello del "Sublime luminare", "portico di tutte le estasi superiori", diventerebbero dei re magnifici. Siamo davvero in piena fantasia "orientale", nel mezzo di una antica gnosi o "sapienza teosofale", che è letteralmente concepita come "scienza delle pure Luci" (sante), una quasi vera scienza che studia non i fotoni o quanti di luce della fisica moderna, ma i "fotismi" dei mistici, "illuminazioni che secondo la didascalia "si differenziano sperimentalmente in una quindicina di categorie". Questa didattica descrittiva non è di fantasia, riflette presumibili fatti reali, le "forme immaginali" appunto, produzioni di pura immaginazione in quanto fatti "interiori", fenomeni di attività psichica semiconscia e inconscia, che dovrebbero essere liberi e variabili da uno all’altro soggetto, anzi da uno stato o situazione o moto d’animo, da un momento all’altro nel medesimo soggetto. Non dovrebbe essere possibile normalizzarli quasi canonicamente, come qui appare, tanto da individuare luoghi sia pure metaforici, denominati come "città" di comune frequentazione. Sohravadi poi precisa – sempre nella traduzione attualizzante di Corbin, sospetta di sue addizioni "immaginali" – che le "immagini" prodotte o "apparse" in questi trasporti estatici non sono "impresse materialmente nell’occhio", né "in qualche parte del cervello", e crede di cavarsela con un’altra immagine analogica, dicendo che sarebbero come riflesse nello specchio, sarebbero cioè come "corpi sospesi", che appaiono ma non ci sono materialmente.

Intende dunque negare che si tratti di mere fantasie allucinatorie, attribuendo "so-stanza" (aristotelica) alle apparizioni estatiche aldilà delle "immagini" di luce transitorie che assumono, essendo suo presupposto di fede che tutto ciò "appare", non per stati soggettivi di sovreccitazione auto-suggestiva, ma per oggettiva e oggettivamente "reale" irradiazione (epifania) divina. Il semplicismo teosofico di tale concezione è confermato dalla opposizione duale che il mistico ripete dalla sua tradizione religiosa mazdaica, secondo cui tra le "Forme immaginali" autonome, "ce ne sono di tenebrose, quelle che tormentano i reprobi, forme orribili, ripugnanti, la cui visione impone una sofferenza all’anima; mentre altre sono luminose, e sono quelle di cui i beati gustano la dolcezza, e sono forme belle e splendide" (p.140). Luce e tenebra, i princìpi del bene e del male in radicale opposizione, secondo la millenaria tradizione manichea, una concezione gnostica nata appunto in Persia, ma preceduta di molti secoli dal mazdeismo, e che si riverserebbe pure nel cosiddetto "immaginale sacro", con la solita equità divina immaginata da bambini: ai presunti cattivi (secondo il codice morale vigente) il buio, con visioni di mostri e orrori, ai bòni ("i beati") un universo di luce e fulgori. Gli inferni e i paradisi di tutte le religioni sono proprio le immagini figurali ("immaginali") straordinariamente ingenue di questi due "mondi", che la teosofia mistica – o mistica teosofica – e la pratica mistica ripropongono candidamente, e a cui non sfuggirono grandi poeti come lo stesso vate italiano.

Al peccatore reprobo (a giudizio clericale), quasi che il male comporti o esiga la sua mistica negativa (demonica), sono destinate le "visioni" tenebrose della ripugnanza, al mistico della "unione con dio" la luminaria della beatitudine. Bene, è questo "immaginale" dualistico e gnostico di eterna infanzia, ereditato dall’antico mazdeismo, a improntare l’ammirevole misticismo d’Oriente qui celebrato come "conoscenza" profonda di verità prime e ultime, addensate nelle figurazioni immaginarie del "corpo spirituale" e della "Terra celeste". E come può vedersi, la sua originaria struttura visiva, essenzialmente luministica e propriamente visionaria, pure con variazioni figurali legate ai contenuti delle diverse credenze religiose, si ripete in perpetuo in tutta la storia della mistica anche occidentale, anche cristiana. Leggiamo ancora il testo prezioso di Sohravardi, mentre distribuisce universi di luce: "Ho compiuto nella mia anima un certo numero di esperienze autentiche e incontestabili, che dimostrano che gli universi sono in numero di quattro: vi è il mondo delle Luci dominatrici o arcangeliche (Luces victoriales, il Jabarut); vi è il mondo delle Luci che governano i corpi (vale a dire le Anime, il Malakut); vi è un doppio barzakh, e vi è il mondo delle Forme immaginali autonome, alcune tenebrose, altre luminose: le prime costituiscono il tormento immaginale dei reprobi, le seconde le dolcezze immaginali di cui godono i beati…" (p.141). Di tali " verità" solari si "sostanzia" l’incantevole philosophia perennis, contesta di "immagini" di sogno sollecitato, di "visioni" auto-suggestive ossessivamente coltivate, frutto e compenso culminante di lunghe astinenze "naturali", di rinunce ascetiche fino alla "morte" per il mondo, di autentiche violenze auto-repressive, di sovreccitazioni psicògene drogate.

E’ lo stesso mistico iranico a evocare insistentemente le analogie delle "realtà soprasensibili" col sogno, significative "righe di scrittura", voci soavi o terrificanti, "forme umane di un’estrema bellezza", che dicono "le parole più belle", a volte simili alle figure dell’arte pittorica, "forme e figure sospese". Lui sostiene che, come "tutto ciò che si percepisce in sogno, montagne, oceani, e continenti, voci straordinarie, persone umane, tutto questo sono altrettante forme e figure che sussistono di per se stesse, senza aver bisogno di un sostrato [reale]. Lo stesso per i profumi, i colori, i sapori…" (p.143). E insomma, appaiono irrealmente nel sogno cioè nella testa del sognatore, non ci sono realmente, come tutte le visioni "rivelate" del mistico. Ma questo vale per tutte le "immagini" di realtà irreale, le "percezioni" o "invenzioni", pensieri e fantasie evocati dalle nostre funzioni cerebrali, nelle molteplici attività pratiche e teoretiche o estetiche dell’uomo. Nella veglia e nel sonno si agitano e sono elaborate nella mente umana "immagini" imponderabili di "realtà" anche le più irreali, non cose materialmente allogate nel cervello; e proprio per ciò l’uomo immaginativo o contemplativo, come l’uomo dormiente e sognante, fanno ingresso nel mondo delle "forme immaginali", o ne escono fuori senza muoversi fisicamente, perché quelle immagini sono esclusivamente un loro prodotto mentale. Non è dunque un privilegio esclusivo – "miracolato" – del mistico che muore al mondo, di farsi incontro alla "visione del mondo della Luce senza dover compiere un movimento, perché è lui stesso nel mondo della Luce…" (ivi). Siamo tutti nel mondo della luce minuscolata, normale e quotidiana, commista alle ombre nel chiaroscuro variegato della realtà comune. L’irrealtà visionaria è la profusa luminaria beatifica che inonda questi teosofici testi, e prima infiammano le menti drogate dei mistici estatici: "Ah! Salve alla schiera di tutti coloro che sono divenuti folli ed ebbri nel loro desiderio del mondo della Luce, nel loro appassionato amore per la maestà della Luce delle Luci…" (p.145).

E’ esattamente senza scampo così: illusi di "conoscere" per visione fantastici mondi "reali" di fotismi e suoni astrali, paradisi popolati di angeli e di principi e re favolosi – o di Cristi e Madonne celestiali – di averne immenso dono dai loro dèi prodighi per le loro virtù ascetiche, realmente non escono mai dal loro corto perimetro mentale, precostituito dalla loro natura corporea e dai contenuti religiosi ereditati, sublimanti e pateticamente snaturanti. Al giovane Sohravardi, contemporaneo di Averroè, condannato dai "dottori della Legge (coranica) e assassinato a 36 anni, Corbin dedica pure un intero capitolo (il VII) della sua Storia della filosofia islamica, legando al suo nome "la filosofia della luce", in cui non penso di perdermi, avendone già dato un qualche saggio, e solo mi limito a ricordare che per "filoso-fia" deve intendersi "teosofia". Secondo il compendio della Introduzione ai testi di Corbin, nell’antologia da cui ho citato, l’opera del giovane teosofo "congiunge i nomi di Platone e di Zarathustra, in una metafisica della Luce dove le Idee platoniche sono interpretate in termini di angelologia zoroastriana" (p.124). Quanto c’è di gratuito in simili operazioni di ordinaria "restaurazione" della sapienza antica, e di reale contaminazione la più arbitraria fra universi remoti, lo dice l’enunciazione stessa, nella scia dell’intera storia del "platonismo" universale, così pregiudicato dall’Oriente gnostico e mistico, un Oriente che "in senso spirituale" sarebbe proprio quel "mondo degli esseri di luce, da dove al pellegrino dello spirito si leva l’aurora delle conoscenze e delle estasi. Non vi è filosofia vera che non culmini in metafisica d’estasi, né esperienza mistica che non postuli una severa preparazione filosofica" (ivi). E’ l’essenza dottrinale filosofico-mistica della "teosofia orientale", non solo di Sohravadi ma dell’Iran "fino ai nostri giorni", come qui si documenta, dicendo che "ha dato l’impronta a tutta la vita spirituale iranica": con l’apprezza-bile efficacia che si dispiega nella storica "attualità" odierna, religiosa civile e politica, di questo paese. Torno a porre la domanda martellante: questi furono e dovrebbero essere ancora oggi i nostri "umani" maestri e modelli di vita?

Ichthys
07-09-03, 00:18
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