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Visualizza Versione Completa : I Veda



Lupo Mannaro
15-01-03, 02:19
A quanto pare, a me l'onore del primo post :)


L’immenso patrimonio culturale dell’India è stato ed è tuttora veicolato dalla letteratura dei Veda e dalle opere che su di essa si fondano. L’accettazione dei Veda come Scritture rivelate è infatti uno dei criteri fondamentali per potersi dichiarare hindu.
La letteratura vedica è ritenuta fonte di tutta la conoscenza, fisica e metafisica, giunta fino a noi grazie all’opera esegetica delle varie scuole della tradizione (Sampradaya).

Cerchiamo innanzitutto di chiarire il significato del termine Veda. La radice verbale vid significa ‘conoscere’ ma anche ‘vedere’: i compilatori dei Veda infatti, gli antichi saggi-veggenti (rishi), descrivono in questi testi ciò che hanno conosciuto attraverso il sapere intuitivo, la visione interiore (darshana), e propongono la ricerca della luce, lo sfondamento della sostanza materiale per accedere allo spazio luminoso dell'interiorità.
Essi non si ritengono infatti autori delle loro opere, ma coloro che, assorti nella meditazione e quindi profondamente ispirati, sono divenuti degni ricettacoli dell’illuminazione divina .

I rishi delle Upanishad , testi tra i più importanti e conosciuti nel panorama vedico, definiscono questa illuminazione come la via per la realizzazione del sé immortale, per il ricongiungimento della coscienza individuale con la Coscienza cosmica, dell’essere individuale (atman) con l’Essere supremo (Paramatma). La metafora ricorrente nei Veda è quella di un’impresa eroica volta a liberare gli armenti o le acque, a dischiudere il cielo, a sconfiggere le tenebre; è l’operazione introspettiva intrapresa dal saggio che riconquista la visione dispensatrice di prosperità; il trionfo della luce sulle tenebre . Attraverso questa “percezione intuitiva” si conosce la Realtà superiore, non accessibile nella sua totalità attraverso l’intelletto in quanto interiorizzazione e consapevolezza trascendente.

In tal modo i Veda consentono una comprensione perfetta della realtà e della sua essenza, perché ricongiungono colui che conosce con ciò che viene conosciuto, dove ciò che viene conosciuto è, nei punti filosoficamente più alti delle Scritture, la totalità dell’Essere nelle Sue infinite manifestazioni; totalità beata e beatificante giacché esente da corruzione, invecchiamento, morte e rinascita; l’Essere al di là del tempo, Dio o una Sua espansione.

La plurimillenaria cultura dell’India ha da sempre ispirato la maggior parte dei popoli del sud-est asiatico ed ha influenzato, secondo autorevoli tesi della moderna ricerca scientifica, anche il mondo occidentale antico.

I Greci, ritenuti i progenitori del pensiero occidentale, forse non crearono dal nulla la loro filosofia, anche se le loro dottrine svolsero una preziosa funzione di ponte per un sapere ben più antico.

Tra i numerosi esempi possibili citiamo l’Orfismo, uno dei più noti movimenti religiosi dell’Ellade, diffusosi in Grecia a partire dal VI sec. a.C. Esso si fondava su riti il cui scopo era quello di purificare l’essere e di sottrarlo alla “ruota delle nascite”, ovvero alla trasmigrazione (metempsicosi) in vari corpi, anche animali e vegetali. Questa concezione ricorda con evidenza le dottrine vediche del karman, del samsara e della mukti o moksha, cui accenneremo più avanti. Eraclito, Pitagora, Socrate, Empedocle, condivisero tali dottrine e lo stesso Platone vi si rifà in maniera esplicita.

Noti pensatori europei, venuti a contatto con la realtà indiana, hanno espresso grande apprezzamento per la sua letteratura; per citare soltanto alcuni dei più vicini a noi: Schopenhauer, Nietzsche, Hegel, Thoreau, Emerson. Schopenhauer ad esempio, vide nell’India la terra della saggezza primigenia, il luogo da cui gli europei potevano tracciare la loro provenienza e la civiltà da cui erano stati influenzati in maniera decisiva.

Studiando i testi antico-indiani, gli studiosi europei si stupirono nello scoprire che essi contenevano un pensiero maturo, tutt’altro che primitivo, caratterizzato da acquisizioni avanzate nei vari campi del sapere, come in astronomia, medicina, psicologia, grammatica, logica, filosofia, musica, matematica , ecc.

La letteratura tradizionale dell’India, come vedremo nel corso dei nostri studi, fornisce una conoscenza integrata ed organica, ricca di risvolti sul piano pratico e esistenziale, finalizzata a migliorare concretamente la qualità della vita estendendosi a tutti i piani antropologici. Proponendo ricerche multidisciplinari, essa veicola valori e modelli di comportamento in grado di guidare ogni azione dell’uomo nel mondo , ispirando l’interpretazione globale dell’agire che, in questa tradizione, non può essere disgiunta dai concetti di cosmogonia e di escatologia, da quelle che sono le ragioni fondamentali del vivere e dal suo fine. Un sistema filosofico, per quanto grande e geniale possa essere, mancherebbe infatti di valore se non riuscisse ad intervenire concretamente nel quotidiano, elevando il livello di consapevolezza e migliorando l’esistenza anche sul piano pratico.

I Veda sono testi religiosi ma anche vasti insiemi di simboli, di formulazioni dottrinali, di suggestioni valoriali ed esistenziali che si inseriscono ai vertici della storia del pensiero antico e moderno, costituendo la più grande avventura dell’intelletto umano.
Il valore di queste opere, che offrono una preziosa sintesi tra teoretica e pratica, non è limitato a un determinato popolo, luogo geografico o arco temporale ma rappresenta un patrimonio eterno a disposizione dell’umanità. Esse investigano il fenomeno e il noumeno; il mondo fisico, quello psichico e la dimensione trascendente, la materia e lo Spirito, abbracciando discipline che vanno dalla psicologia alla filosofia, dal diritto alla logica e alla fisica, per giungere alla trattazione approfondita di tematiche inerenti la sfera del sacro nel senso più ampio ed alto.

Questa millenaria letteratura, fondamento del pensiero e del sentire religioso degli indiani, costituisce il sapere più antico che l’umanità conosca, un sapere che però ha mantenuto intatti nel tempo pregio e freschezza, tanto da essere ancora oggi di straordinaria attualità. Le concezioni vediche in merito alla strutturazione dell’universo sensibile, del corpo e della mente umana costituiscono un importante punto di riferimento per il mondo scientifico all’avanguardia; sempre più larghe branche dell’archeologia, della psicologia, della medicina e della fisica moderne stanno rivalutando e confermando il valore dell’antica scienza vedica.

Seppur con l’utilizzo di metodologie e percorsi diversi, lo scopo ultimo cui mirano la filosofia e la letteratura tradizionale dell’India è la realizzazione spirituale dell’essere e il raggiungimento di moksha, ovvero la liberazione dal samsara, il ciclo dell’esistenza incarnata scandito dal continuo susseguirsi di nascite e morti, in cui sono dolorosamente costretti gli esseri condizionati, privi di atma-vidya o conoscenza del sé. Moksha coincide con il superamento di avidya, la non consapevolezza spirituale, e permette l’emancipazione dalla sofferenza che da essa scaturisce, consentendo la reintegrazione dell’io storico nel sé, il passaggio dall’inconscio alla coscienza luminosa e la riscoperta del Divino, dell’Essere supremo che, pur manifestandosi in un numero infinito di forme e di nomi , rimane il Principio unico e originario da Cui tutto promana.

Ad una prima e superficiale lettura della realtà religiosa vedica sembrerebbe naturale parlare di politeismo, ma tale concetto rispecchia solo la superficie della civiltà arya o brahmanica . Essa è infatti portatrice di un pensiero religioso monoteistico di tipo polimorfo, in cui le diverse manifestazioni del Divino rappresentano i plurimi aspetti della Sua unità.

Dunque, al di là delle apparenti incongruenze ed ambiguità, le opere vediche hanno in comune una determinata visione del mondo e una particolare prospettiva di salvezza, alla cui formazione concorrono molteplici vie mistiche e metafisiche. Questa letteratura trasmette magistralmente princìpi e valori di base che, ben radicati nel vissuto collettivo degli indiani, sostanziano e accomunano le diverse componenti dell’Induismo, conferendogli un carattere organico ed unitario, seppur marcatamente differenziato.

Questo sapere ha esercitato ed esercita tuttora una funzione fondante e unificante dell’intera civiltà indiana che, pur con alcune degenerazioni, ideologiche e non, con vari adattamenti e cambiamenti formali, è riuscita a conservare pressoché intatta nel corso dei millenni la propria identità religiosa e culturale, nonostante i rivolgimenti politici, sociali ed economici di cui è stata sovente teatro .

Dobbiamo però anche evidenziare che il contenuto dei Veda, pur essendo stato perfettamente conservato, è oggi purtroppo sempre meno compreso nella sua essenza e nei suoi valori tradizionali; soprattutto in seguito alla mistificazione di questo sapere operata dagli inizi dell’Ottocento in un ambito colonialista e fortemente eurocentrico.

I primi indologi, ai quali va peraltro il merito di aver prodotto una mole enorme di preziosi strumenti didattici, quali traduzioni, dizionari sanscriti ed edizioni critiche delle massime opere vediche, si trovarono a dover confrontare una cultura più antica, più vasta nei concetti e più profonda nei valori, di tutte quelle fino allora note, in particolare di quella greco-romana che rappresentava il comune modello di riferimento e il più alto esempio di civiltà storica. Nel clima culturale, religioso e politico dell’epoca coloniale, come ormai viene ampiamente confermato da eminenti studiosi moderni, fu messa in atto da parte dell’Occidente una vera e propria campagna denigratoria, orchestrata per sminuire il pensiero indiano, per depotenziarlo, ridurlo a mito e a stravaganza e infine disperderne i significati autentici.

Inoltre, nei secoli XIX e XX, molti studiosi indiani, per reazione al colonialismo economico, politico e intellettuale dell’Occidente, hanno insistito sul loro diritto di interpretare la propria storia e la propria cultura . Qualche volta però questo processo interpretativo, influenzato da un eccesso di nazionalismo e dalla visione sentimental-romantica del passato, è stato condotto con scarso rigore scientifico e quindi con non obiettiva considerazione della tradizione e della letteratura dell’India antica.

Un approccio corretto alla conoscenza della civiltà dei Veda, la quale presenta di per sé notevole complessità, è dunque oltremodo intralciato da simili fattori fuorvianti che, nel corso dei secoli, hanno contribuito ad oscurare il significato autentico di quella cultura.

Importanti acquisizioni della ricerca scientifica occidentale, soprattutto in campo archeologico, hanno oggi demolito gran parte dei luoghi comuni che, dai primi dell’Ottocento fino a pochi anni fa, venivano correntemente accettati e insegnati come dimostrati e ovvii. Come approfondiremo nelle nostre materie di studio, sono stati sollevati ad esempio dubbi sempre crescenti sul fatto che sia effettivamente avvenuta una cosiddetta “invasione ariana” , mentre la sociologia e l’antropologia hanno rivisitato il significato di “casta”, parola tra l’altro di origine portoghese ed estranea alla concezione vedica.

Nel sistema socio-religioso del varna-ashrama-dharma non compaiono infatti ceti ermeticamente chiusi ed invalicabili, ma riparti funzionali della società, detti varna, che rispondono non ad un rigido diritto di nascita (jati) bensì alle effettive qualità ed aspirazioni degli individui. I quattro varna (comparti sociali) e i quattro ashrama (stadi di vita) risultano garanti dell’armonia e della reciproca legittimazione delle diverse individualità, strumenti per lo sviluppo della personalità tali da permettere ad ognuno, secondo il proprio guna-karman (tendenze ed esperienze), di collocarsi al meglio nella società e di progredire esprimendo, sempre al meglio, le proprie potenzialità.

Nel corso degli ultimi millenni questa suddivisione sociale è stata ideologicamente adulterata, in gran parte proprio da coloro che si ritenevano i depositari della tradizione, cioè gli smarta brahmana (brahmani di casta). La loro interpretazione rigida e restrittiva del diritto di nascita, al fine di procurarsi e mantenere privilegi, tra cui quelli provenienti dal monopolio del rituale religioso, ha fatto degenerare l’intero sistema sociale indiano al punto da ridurlo ad iniquo strumento di oppressione delle classi più deboli.

Questa è la situazione che hanno trovato in India i primi studiosi europei a partire dal XV sec. Costoro, confinando il fenomeno all’interno degli ultimi millenni, e scambiandolo erroneamente con il modello originario descritto nella letteratura vedica, lo divulgarono in Occidente con il nome di “sistema delle caste”.

I nostri studi si inseriscono nel clima di rinnovamento culturale cui abbiamo appena accennato e che induce a ripensare la storia dell’umanità in una prospettiva più ampia. Oggi possiamo infatti considerare con occhi più critici quei fattori storici, esterni ed interni all’ambiente indiano, che hanno originato malintesi sulla civiltà vedica. Di essa intendiamo offrire una conoscenza il più possibile oggettiva, studiando le sue molteplici espressioni culturali secondo i parametri della tradizione cui appartengono, e impiegando contestualmente i criteri della moderna ricerca scientifica.

Mjollnir
15-01-03, 02:41
Argh, Lupo !! Che fai mi attendevi al varco ??? :D
Grazie comunque per il prezioso contributo, stiamo cominciando bene ...:)

Mjollnir
17-07-03, 22:18
di J. Evola

Dal 1914 al 1916 il periodico "Arya2, edito a Pondichery in un numero limitato di copie ed oggi impossibile a trovarsi da nessuna parte, pubblicò una serie di saggi di Sri Aurobindo sul segreto dei Veda. Questi saggi sono ora stati ripubblicati sotto forma di volume con il medesimo titolo Le secret du Veda (Cahiers du Sud, Paris, 1954). Si tratta del tentativo di far luce sul contenuto + profondo dei Veda, a partire dall'idea che essi contengano miti suscettibili di una interpretazione spirituale. É evidente che lo scopo principale di Aurobindo è di contestare l'interpretazione materialistica prevalente tra molti studiosi orientali al tempo in cui quei saggi furono scritti. Secondo una formula abusata, nei Veda si troverebbero soprattutto l'attribuzione superstiziosa di un carattere divino ai fenomeni e alle forze della natura, le preghiere adei conquistatori indiani allo scopo di assicurarsi potere, salute e propserità, così come le proiezioni in chiave mitologica delle lotte degli Arya contro le popolazioni originarie dei territori al cui interno erano penetrati.
Contro questa formula, ora non + così generalmente accettata, Aurobindo ha avuto la strada spianata. Ogni mito e, possiamo dire, ogni struttura tradizionale delle origini, ha per sua propria natura molti aspetti, tanto che ammete sempre, potenzialmente o effettivamente, anche una interpretazione spirituale. Lo scopo di Aurobindo è di contestare l'esistenza di una reale frattura tra:

1- la fase vedica naturalistica della tradizione indù

e

2- la sua successiva fase filosofica e metafisica, che ha assunto la propria forma definitiva soprattutto nelle Upanishad.

Le sue interpretazioni di certi episodi caratteristici e di alcuni inni dei Veda, acute e presentate in maniera efficace da molti punti di vista, ci mostrano come sotto un rivestimento mitico fosse già contenuta nei Veda quella dottrina segreta dell'illuminazione spirituale e della natura superiore dell'Io, che doveva costituire il centro della dottrina delle Upanishad.
Tuttavia la nostra impressione è che , in parte, Aurobindo sia passato da un eccesso all'altro. Mentre la scuola naturalistica vedeva soltanto gli aspetti esteriori e + grossolani dei Veda, Aurobindo insiste forse troppo sul loro aspetto + profondo come se il resto fosse solo una forma contingente, in tal modo rifluendo in maniera eccessivamente unilaterale su un piano spiritualistico. Secondo la nostra opinione, allorché ci accingiamo a studiare le tradizioni delle origini , fra cui sono da includersi anche i Veda, dovremmo adottare una visuale di + ampia portata; vale a dire che dovremmo considerare come il lato cosmico e quello spirituale siano intimamente connessi, in quanto che - secondo la felice formula di Mircea Eliade - "per l'umanità delle origini la natura non era mai naturale" e nelle immagini e vicende materiali reali era racchiuso un significato superiore e profondo, talora avvertito a livello istintivo come un presentimento, talaltra vissuto con maggiore consapevolezza, specialmente da parte di una elite. Ma ciò non dovrebbe spingerci ad ignorare il lato cosmico attraverso una interpretazione puramente psicologica.

Un altro punto su cui non possiamo del tutto seguire Aurobindo è quello laddove egli ha la tendenza ad attenuare le antitesi esistenti fra l'eredità spirituale degli Arya e quella delle civiltà aborigene dell'India pre-ariana. Per altro verso un capitolo molto importante è il V, perchè ci dà la chiave per un nuovo fronte di ricerca . Vi si delineano brevemente alcuni principi metodologici nel campo filologico. Anche qui c'è un problema di parecchi siginificati. Ci sono espressioni verbali delle origini , in merito soprattutto alle radici delle parole, che indicano per così dire una tendenza o una "struttura elementare" che, secondo le circostanze, è suscettibile di essere tradotta in significati appartenenti a piani assai diversi, materiali e spirituali. Ciò dà origine, per adattamento e specificazione, a espressioni che obiettivamente - a causa di queste differenze di piano - possono sembrare non avere alcuna connessione, mentre sono collegate da profonde analogie. Un esempio fornito da Aurobindo è aswa, il cui significato originario è "cavallo", ma che è anche usato come un simbolo del prana, l'energia vitale. La sua radice può suggerire allo stesso tempo, fra l'altro, le nozioni di impeto, di potenza, di possesso, di piacere, e tali differenti idee sono associate nel simbolo del destriero, allo scopo di rappresentare le caratteristiche distintive del prana.

L'importanza del riconoscimento di questo stato di cose, da un punto di vista metodologico ed epistemologico, è evidente. Aurobindo lo verifica rapportandolo all'analisi di certe espressioni vediche; ma una estensione di questo principio, se elaborato da studiosi competenti, non può mancare di schiudere orizzonti nuovi e interessanti per le scienze religiose in generale.

Tratto da: Arthos, nuova serie, n. 2 (luglio-dicembre 1997)

Vahagn
17-07-03, 23:10
Buoni contributi!
Posso chiedere:
- a L.M. di chi è l'articolo,
e
- a Mjollnir se l'articolo di Evola è stato pubblicato da Arthos come inedito o come ristampa (e in questo caso, dov'era comparso); ed eventualm. se è compreso in una delle nuove raccolte delle Ar?
Grazie.

Mjollnir
17-07-03, 23:46
Secondo le indicazioni della rivista è tratto da: "East and West", VI (1955) n. 2 - tradotto dall'inglese da Del Ponte. Rivista che non ho mai sentito, ma probabilmente ha smesso di esistere quando non ero ancora nato ( :-0000x ) !!

Se sia stato ripubblicato dalle Ar non saprei, bisognerebbe sentire Paul ...

Paul Atreides
18-07-03, 02:19
L'articolo, in realtà una recensione, è ora ripubblicato in J. Evola, ''Oriente e Occidente'', Mediterranee, 2001, pp. 169-170. Il volume comprende tutti gli scritti evoliani pubblicati originariamente in inglese su ''East and West'', la rivista dell'IsMEO e, in più, l'unico contributo evoliano alla rivista ''Asiatica''.

Vahagn
18-07-03, 20:53
Ah ecco, era una recensione in appendice senza titolo, mentre io avevo guardato nel sommario, ecco perché mi era sfuggita.

Mjollnir
06-08-03, 23:00
A proposito di Veda, qualcuno è a conoscenza di una edizione completa in italiano ?? Per ora ho trovato in commercio solo delle brevi antologie, fra l'altro commentate e selezionate con criteri un po' dubbi...

Ciao

Vahagn
07-08-03, 23:54
Ci sono i due volumi BUR, ma non credo che siano i Veda completi.
Disgraziatamente, io possiedo solo singoli libri, ma voglio anch'io rimediare quanto prima. So che esistono in traduzione inglese in diversi volumi, per una famosa casa indiana (Manoharal?).
Mi informerò meglio.
Ps. Purtroppo sia le traduzioni che i commenti risentono sempre delle convinzioni dell'autore, per quanto professionalmente obiettivo. Non di rado i traduttori presentano versioni del tutto diverse, perché magari il tal termine sanscrito possiede diverse sfumature, e il traduttore sceglie di privilegiarne una piutosto che un'altra. E se il tizio non è versato in metafisica indù, è facile che propenda per un'accezione letterale e non simbolica, p.es.
Coomaraswamy, p.es., profondo conoscitore del sanscrito (da autoctono), nonché rigoroso tradizionalista, notò diverse imperfezioni nelle traduzioni occidentali dei testi indù.

Mjollnir
14-08-03, 01:01
In Origine Postato da Vahagn
Ci sono i due volumi BUR, ma non credo che siano i Veda completi.
Disgraziatamente, io possiedo solo singoli libri, ma voglio anch'io rimediare quanto prima. So che esistono in traduzione inglese in diversi volumi, per una famosa casa indiana (Manoharal?).
Mi informerò meglio.
Ps. Purtroppo sia le traduzioni che i commenti risentono sempre delle convinzioni dell'autore, per quanto professionalmente obiettivo. Non di rado i traduttori presentano versioni del tutto diverse, perché magari il tal termine sanscrito possiede diverse sfumature, e il traduttore sceglie di privilegiarne una piutosto che un'altra. E se il tizio non è versato in metafisica indù, è facile che propenda per un'accezione letterale e non simbolica, p.es.
Coomaraswamy, p.es., profondo conoscitore del sanscrito (da autoctono), nonché rigoroso tradizionalista, notò diverse imperfezioni nelle traduzioni occidentali dei testi indù.

No, i 2 volumi Rizzoli non sono completi; fra l'altro il curatore, Raimon Panikkar, presenta l'antologia sotto un'ottica esistenzialistica (ad es tipo i vari "breviari laici" che mescolano Seneca, Epicuro, Pascal, Nietzsche etc) come "possibilità per l'uomo moderno", lasciando presagire una attenzione per il lato teologico ed ontologico una scarsa attenzione...
Un punto interessante del suo commento, però, è quando precisa che i Veda includono indubbiamente anche elementi non arii; si pone quindi la necessità di prendere criticamente anche la fonte principale del sapere indoeuropeo.

Vahagn
14-08-03, 23:09
D'altronde basta vedere il "credo" di Panikkar, come risulta dai suoi libri e dalle sue predicazioni ("il disarmo delle fedi"). Delle due correnti-tendenze degli intellettuali indiani moderni, egli fa parte di quella di Tagore, della "fede nell'uomo", del parlamento delle religioni, di Gandhi, etc. Mentre l'altra corrente, quella per intenderci dei Tilak, dei Coomaraswami, dei Bharti, ..., non sembra avere avuto altrettanto successo, o perlomeno scorre più carsicamente.
Curioso notare come sia Panikkar che Coomaraswami siano due meticci europeo-indiani, ispanico-indiano il primo, anglo-tamil il secondo, ma modernista sfaldato l'uno, quanto rigoroso tradizionalista l'altro.

Sui Veda mi sono riproposto, come ho già detto, di occuparmene non appena finito con altri impegni. Per cui ci rivedremo su questi schermi, Mjollnir (ho visto che hai già iniziato a far serpeggiare qualche critica di tipo antropologico ...)

Mjollnir
19-08-03, 22:53
di Saverio Sani - dall'edizione Marsilio, Venezia, 2000

Il mito degli inizi

Prima che ci fosse il mondo, forze misteriose ed arcane dominavano l’universo. Il cielo e la terra erano confusi in un’unica massa indistinta; in mezzo a loro non vi era alcuno spazio intermedio nel quale potesse espandersi la luce. Il sole e l’aurora non erano ancora stati creati: dominavano la tenebra ed il disordine. Le acque, elemento primigenio anteriore ad ogni creazione, non scorrevano. Stavano immobili, indistinte anch’esse, prive di vita: erano prigioniere di Vrtra, l’Ostacolo, l’essere demoniaco a forma di serpente, avversario dell’ordine, nemico della creazione. Egli teneva le acque nascoste nei ventri delle montagne; e su queste se ne stava adagiato, avvolto nelle sue spire. Le montagne invece non stavano ferme, si muovevano; non stavano salde sulla terra, vagavano per il cielo. Anche Agni, il dio del fuoco e del sacrificio, se ne stava nascosto; era al servizio degli Asura, le divinità dei primordi, precedenti ad ogni distinzione, perfino a quella tra il bene e il male, tra l’essere ed il non-essere.
Vi era dunque solo il caos. Ma, agli inizi del mondo, tutto questo mutò. Ci fu un ribaltamento: un nuovo regno sorse che mise in crisi quello vecchio. Il disordine e l’assenza di sacrificio voluti dagli Asura stavano per finire. Un universo nuovo si stava ormai affermando, quello dei Deva, gli Dèi della luce e gli instauratori del sacrificio. Eroe di questo novo regno era Indra, il dio guerriero, nato da un dio del disordine per creare l’ordine. Alcune fra le divinità antiche sclesero di passare subito dalla sua parte e abbandonarono il dominio aurico. Contro Indra si levò allora, come paladino del caos e della tenebra, Vrtra, che ebbe l’ardimento di sfidare il possente eroe. Ma Indra poteva contare sull’aiuto del soma, la bevanda inebriante che gli conferiva potenza e vigore, e sugli inni del Riveda che lo allietavano e lo rendevano ancora più forte; e poi aveva il vajra, la sibilante arma di morte che Tvastr, il divino artigiano, gli aveva forgiato; ma – soprattutto – era un dio generoso e con la sua generosità avrebbe ricambiato i sacrifici che gli sarebbero stati offerti nel nuovo universo che si apprestava a instaurare.
Ci fu dunque una battaglia e fu tremenda: Vrtra tentò con ogni mezzo di ostacolare il potente dio contro il quale, invano, dispiegò tutte le sue forze: né il lampo né il tuono né la nebbia né la grandine poterono niente contro Indra. E indra calò il vajra micidiale sul mostruoso avversario, che si avventava su di lui con la bocca spalancata: Vrtra venne frantumato in 1000 pezzi che giacquero sparpagliati sul terreno, come schegge di un tronco d’albero colpito da un’ascia. Le acque vennero allora liberate e, come vacche, che escono dal recinto ove hanno passato la notte, presero a correre lungo i cammini loro propri , quelli che portano al mare. In mezzo a loro, travolto da quelle che prima erano sue prigioniere, giaceva il cadavere di Vrtra: colui che prima dominava con la forza giaceva ora a terra, sconfitto.
Con questa vittoria Indra aveva abbattuto tutte le resistenze, il Generoso non aveva + nessuno che gli si potesse opporre. Grazie alla sua opera, ogni elemento dell’universo raggiungeva la propria collocazione funzionale. La terra che vacillava l’aveva consolidata; le montagne che vagavano in cielo le aveva fermate, solide, sulla terra: a ciò che non doveva stare fermo aveva conferito il movimento. Separò inoltre il cielo dalla terra e lo puntellò perché non vi ricadesse sopra; tra i 2 mondi, finalmente distinti, creò lo spazio intermedio nel quale poté diffondersi la luce; il sole e l’aurora vennero generati e presero a percorrere il loro tragitto quotidiano. Con questa impresa Indra dette ordine al cosmo: avvenne così la creazione.

Il nucleo + antico del Riveda si raccoglie intorno a questo mito. Tuttavia in nessun luogo del Riveda la narrazione di questi eventi viene sviluppata attraverso una trama coerente che disponga le singole unità in una successione logica e cronologica. Di questo e degli altri miti a cui si fa allusione nella raccolta si percepiscono
Solo delle immagini che balenano qua e là davanti ai nostri occhi a guisa di lampi o come dei ritorni improvvisi di memoria che vanno a poco a poco a formare i tasselli di un mosaico, in molti punti incompleto, così che, nonostante i riferimenti, l’effettivo contenuto di un mito ci rimane spesso oscuro. Sotto la rappresentazione del combattimento di Indra e di Vrtra si possono, ad es, scorgere antiche metafore che alludono ad eventi atmosferici: il ritorno della primavera, il riapparire della luce dopo le tenebre della notte o dopo l’oscurità di un cielo temporalesco sono stati trasfigurati dall’immaginazione dei poeti in una narrazione dei primordi. E tuttavia, questa narrazione non appare riferita ad un avvenimento unico ed irripetibile: per gli antichi Indiani, infatti, il tempo era un processo ciclico, non lineare: ogni volta, alla fine di un ciclo, il cosmo ritornava allo stato di indifferenziato caos originale e tutto, quindi, ricominciava, così come rinasce il giorno o torna la primavera[1]. E il ciclico verificarsi dei fenomeni cosmici, l’alterno passaggio dal caos all’universo strutturato, erano riprodotti nella costante - e ciclica – esecuzione rituale che permeava e controllava tutte le attività dell’uomo in tutti i dominii della vita: solidamente radicata era la fiducia che, nei periodi critici in cui le forze dell’oscurità e quelle della luce venivano a confronto, il sacrificio, eseguito in modo da preservare l’ordine rituale, avrebbe aiutato le forze della luce a prevalere nonché ad instaurare e mantenere l’ordine cosmico.
Per accompagnare la celebrazione del perpetuarsi della creazione furono dunque composti gli inni del Riveda. E per riprodurre la vittoria dell’ordine sul caos e ricreare il cosmo organizzato, all’inizio di ogni nuovo anno, in primavera, si celebrava una festa durante la quale si tenevano gare di poesia, avevano luogo corse di carri trainate da cavalli, si celebravano cerimonie sacrificali, si effettuavano generose donazioni e si recitavano gli inni che, canonizzati e raccolti insieme con latri, sono andati a costituire il Riveda, l’opera + importante di quella letteratura che dal termine veda (= sapienza) prende il nome.
Nel periodo + antico gli inni erano liberamente composti a ogni nuovo rituale o nell’occasione di cerimonie particolarmente importanti. Più tardi, quando il rituale divenne fisso e – come tale – registrato nella letteratura esegetica successiva, diventarono fissi anche i versi che si dovevano recitare e il Riveda diventò un testo canonico non + espandibile.

Mjollnir
19-08-03, 23:21
Con la denominazione di letteratura vedica viene indicato quell’insieme di testi che costituiscono il fondamento del bramanesimo e – al tempo stesso – i documenti letterari in assoluto + antichi della civiltà indiana.
Le origini di questa letteratura risalgono ai tempi della conquista dell’India nordoccidentale da parte degli appartenenti al ramo ario della grande famiglia indoeuropea. La lingua in cui sono composti questi antichissimi monumenti è chiamata con termine generico antico indiano o antico indo-ario, ma spesso anche vedico. Essa rappresenta la fase + antica della storia dell’indoario e appare per un verso molto arcaica e conservativa, per l’altro caratterizzata da certe innovazioni lessicali e fonetiche che la distinguono dalle altre lingue indoeuropee. Si tratta di una lingua letteraria, costituita dall’apporto di vari dialetti, del tutto simili fra loro, che sono confluiti in una unica tradizione linguistica. Il vedico si differenzia dal successivo sanscrito classico per la ricchezza delle forme e per la libertà nell’ordine delle parole; ampio è anche il lessico, caratterizzato da vocaboli rari che + tardi sono caduti in disuso [2].

Secondo la tradizione i testi vedici non sono opera umana, bensì frutto di rivelazione divina. Dei mitici veggenti, detti rsi li avrebbero “visti” attraverso una sorta di percezione soprannaturale, ottenuta con severe penitenze e mortificazioni, e li avrebbero comunicati agli uomini attraverso le parole. La forma verbale in cui gli rsi trasponevano le loro visioni era condizionata dalla tradizione poetica dalla quale dipendevano e che aveva fornito loro una sorta di canone a cui rifarsi nonché un repertorio di formule precostituito a cui attingere. Una volta che l’inno era stato realizzato in forma di composizione poetica, esso saliva come offerta verso gli Dèi che avevano conferito allo rsi la capacità di “vedere” ed essi, in cambio, dovevano concedere quei favori che i poeti chiedevano per sé e per i propri patroni. Attraverso l’atto poetico si attuava dunque lo scambio di doni tra la divinità e il suo adoratore.
La parte + antica di questi testi è costituita dalle Samhita, cioè raccolte di inni di vario genere: invocazioni, benedizioni, formule sacrificale, litanie, scongiuri, maledizioni. Le Samhita, in numero di 4, si intitolano rispettivamente Riveda, Samaveda, Yajurveda e Atharvaveda e riflettono idee che risalgono indubbiamente a epoche ben + antiche della loro redazione, che non avvenne per tutte allo stesso momento. Da questo punto di vista la + antica è senz’altro il Rgveda la Sapienza delle Strofe, che raccoglie per lo + inni di lode rivolti alle divinità. Si tratta di una sorta di manuale di cui si serviva il sacerdote chiamato invocatore per invitare gli Dèi[/i] a partecipare al sacrificio. Nel Samaveda (= Sapienza dei canti) sono contenuti appunto i canti (saman), quasi interamente costituiti da strofe tratte dal Riveda, con i quali il sacerdote intonatore accompagnava la preparazione e l’offerta del sacrificio. Lo Yajurveda (=Sapienza delle formule) comprende invece le formule sacrificali (yajus) che l’operatore del sacrificio recitava durante le cerimonie. L’Atharvaveda (= Sapienza degli incantesimi) è un repertorio di formule magiche di magia bianca e nera, di inni cosmologici e filosofici; inizialmente, a causa del suo contenuto, non faceva parte del canone. Solo + tardi fu affidato al sacerdote capo, il brahman che, conoscendo a memoria le altre Samhita, aveva il compito di intervenire con scongiuri e giaculatorie per allontanare i pericoli che potevano verificarsi nel caso fosse stato commesso un errore, anche minimo, da parte degli altri 3 sacerdoti.

Attorno a queste raccolte si andarono via via formando opere di accompagnamento dal contenuto ritualistico e speculativo che servivano da spiegazione e commento ai testi delle Samhita: i Brahmana (= Libri delle scienze sacrificali), gli Aranyaka (= Libri delle foreste) e le Upanisad (= Testi filosofici o arcani). Nei primi viene illustrato il rito sacrificale in ogni particolare, si dà cioè spiegazione della sua origine e dei procedimenti rituali tramite il riferimento a leggende che ne forniscono la giustificazione sul piano mitico. Più astratti e speculativi, gli Aranyaka offrono soprattutto interpretazioni simboliche dei riti. Le Upanisad rappresentano infine la prima testimonianza della speculazione filosofica indiana: è in queste opere che cominciano infatti ad affermarsi quei principii che saranno fecondi di sviluppo fino ai giorni nostri, come l’identificazione dell’ anima universale (brahman) con l’anima individuale (atman), la legge del karman (azione) che determina le condizioni delle esistenze successive, la dottrina del samsara, cioè il ciclo delle reincarnazioni. Le Upanisad nel loro complesso costituiscono quello che è chiamato il Vedanta, cioè la fine (anta) del Veda, termine con il quale si designa anche la corrente di pensiero che ne deriva.
A questi testi, frutto di rivelazione divina, sono connessi i cosiddetti Vedanga – o membra (anga del Veda – cioè dei manuali composti da esseri umani e appartenenti alla tradizione. Vi sono contenute regole per la celebrazione dei riti, norme di carattere giuridico, indicazioni fonetiche, metriche, grammaticali, etimologiche ed astronomiche.
La composizione di questi testi, sia quelli considerati di rivelazione divina, sia quelli considerati opera umana, abbraccia un arco cronologico che va dal XV al V sec a.C., ed essi furono sistemati e codificati in un’epoca non precisabile. La loro codificazione rispondeva evidentemente all’esigenza di preservarli inalterati da progressive ed inevitabili deformazioni, che però sono avvenute ugualmente e sono riscontrabili nella forma di una vera e propria stratificazione linguistica. Essi furono conservati e trasmessi esclusivamente per tradizione orale. Gli Indiani infatti hanno per lungo tempo fatto a meno della scrittura: il compito di tramandare i testi sacri era affidato alla memoria dei sacerdoti-poeti, i quali li trasmettevano per via ereditaria all’interno delle famiglie che li avevano composti e la cui importanza nella società indo-aria andò crescendo enormemente di pari passo con l’importanza del rituale.
Non sappiamo né come né quando le raccolte degli inni e gli altri testi sacri cominciarono ad essere redatti anche per iscritto. La scrittura, che con ogni probabilità non comparve in India prima del VII sec a.C>, fu riservata per lungo tempo solo a scopi pratici, come ci è testimoniato dai testi giuridici + antichi e da alcuni accenni in testi buddisti. I primi documenti scritti databili con sicurezza risalgono alla metà del III sec e sono costituiti dagli editti su roccia e su pilastro che il re ASoka (268 – 237 a.C.) della dinastia Maurya fece incidere in tutto il territorio del suo impero.
Ad ogni modo, è certo che la redazione scritta dei testi vedici risale ad un’epoca relativamente recente. Un fatto davvero singolare è che, a aprte alcuni casi come gli incantesimi atharvanici che presentano a volte un testo corrotto, nell’insieme si ha uno stato di conservazione testuale sorprendente, soprattutto riguardo al Riveda, che ci è giunto senza alcuna variante.

Mjollnir
20-08-03, 20:50
Contrariamente a quanto avviene per la maggior parte delle grandi civiltà antiche, che conservano ricche tracce della loro cultura materiale, quella vedica è, per così dire, muta dal punto di vista archeologico. Un popolo come quello indo-ario, che ha prodotto frutti eccellenti nel campo della speculazione religiosa e della composizione poetica, sembra non aver lasciato traccia di sé sulla terra. Questo, tuttavia, non deve meravigliare: la mancanza di dati archeologici, dovuta ovviamente anche alla fragilità e alla deperibilità degli oggetti materiali, è motivata da una peculiarità culturale degli antichi Indiani, presso i quali era dominante l’idea che il monumento fatto di parole fosse + duraturo e + solido d’ogni altro monumento di pietra o di metallo [3]. Alle parole, dunque, essi affidarono in esclusiva il ricordo della loro civiltà, ed è solo attraverso le parole di cui è fatto il Riveda che noi possiamo tentare di ricostruire le fasi + antiche di questo popolo [4].
L’area geografica sulla quale gli Indiani vedici si estesero era piuttosto ampia. Entrati in India dai passi occidentali dell’Hindu Kush, procedettero verso est attraverso il Panjab e si stanziarono nella regione intorno alla Sarasvati, in un territorio montuoso parecchio distante dal fiume Gange, che è ricordato solo 1 volta e per di + in un inno tardo del X libro (75,5). Ad est non si erano infatti spinti oltre la Yamuna, che nel Riveda è menzionata solo 3 volte. Inoltre si può essere certi che conoscevano le alte montagne del nord, ma non ancora i monti Vindhya. È quindi nella parte nordoccidentale dell’India che i portatori della cultura vedica svilupparono la loro civiltà e composero la maggior parte degli inni raccolti nel Riveda. Questa regione, bagnata dall’Indo (in sanscrito Sindhu) e dai suoi affluenti, assunse + tardi il nome di Pancanada (Terra dei 5 fiumi), equivalente del termine persiano Panjab. I compositori degli inni individuavano invece la regione nella quale vivevano col nome di Sette fiumi, perché comprendevano nel computo anche altri affluenti oppure anche perché il 7 er a un numero mistico e simboleggiava una quantità indeterminata. Nelle Samhita successive, lo spostamento ad oriente appare già avvenuto: cambia il paesaggio e compare la tigre – che invece nel Rgveda non è mai menzionata. Per quanto riguarda il mare, non si sa se gli antichi Indiani lo abbiano conosciuto: il termine che normalmente si traduce con mare, oceano indica in realtà un insieme di acque, e potrebbe riferirsi anche soltanto all’ampia distesa dell’indo, gonfiato dal confluire degli altri fiumi.
Al loro arrivo nel subcontinente, gli Indiani – o meglio, gli Arii ( dal sanscrito arya, nobili, il nome che davano a sé stessi) – trovarono delle popolazioni, ricordate nel Rgveda cpme dasa o dasyu. Queste genti, spesso raffigurate nelle descrizioni dei poeti con l’aspetto di esseri demoniaci, sono state da alcuni studiosi identificate – a torto – con i rappresentanti della civiltà dell’indo: si tratta invece con maggior probabilità di quelle popolazioni di stirpe dravidica che, stanziate in India prima dell’arrivo degli Arii, furono poi costrette dai successivi invasori a migrare + a sud e a est. Contro questi nemici si procedette dapprima ad un tentativo di sottomissione a cui seguì, + tardi, un processo di amalgamazione tra invasori ed aborigeni .
Nella fase + antica della civiltà vedica (1° metà 2° millennio a.C.) gli Indo-arii erano pastori guerrieri, allevatori e contadini, organizzati in tribù rette da capi, chiamati raj (=re), il cui potere era in alcuni casi ereditario ed in altri elettivo. Il re era assistito da una assemblea formata dai capi delle famiglie + nobili. Non si era ancora sviluppata una civiltà urbana: gli Indoarii abitavano in villaggi e si rifugiavano, al caso, in recinti fortificati posti in luoghi elevati. Non usavano abitazioni destinate a durare nel tempo: la loro vita si svolgeva piuttosto sui carri con i quali si muovevano e su cui trasportavano le loro cose. I nobili erano comandanti in guerra e spettava loro di farsi promotori di costosi sacrifici agli Dèi. Nella struttura tribale indoaria era radicata una divisione in classi ereditata dall’epoca indoeuropea: c’era la nobiltà, gli uomini comuni della tribù e la classe sacerdotale: in questo periodo non si era ancora cristallizzato il sistema che portò – alla fine dell’epoca vedica – alla creazione delle 4 caste originarie dei brahmana (sacerdoti), degli ksatriya (guerrieri), dei vaisya (artigiani e commercianti) e degli sudra (servi), addetti ai lavori + umili, sancite nella loro eterna inviolabilità dall’inno cosmogonico X, 90.
L’unità base del sistema sociale era la famiglia. Un gruppo di famiglie formava un grama, termine che poi andò a significare insediamento, villaggio. I matrimoni erano di regola monogami e la posizione delle donne era meno subordinata di quella del periodo post-vedico. Il matrimonio tra bambini, tipico delle poche successive, era allora sconosciuto.

La situazione culturale che scaturisce dagli inni è delineata in modo molto parziale: essa è influenzata dall’ideologia dei gruppi che comandavano e dalla classe dei poeti che ammantavano il loro pensiero di immagini mitologiche e non avevano alcun intento di descrivere la vita religiosa, politica o sociale contemporanea o di fornire informazioni su fatti concreti. Se gli inni sono dunque pieni + che altro di allusioni ad eventi mitologici, i riferimenti alla vita religiosa e al culto sono invece, purtroppo, in numero molto minore e nulla ci dicono sulla maggior parte delle dottrine che poi verranno riconosciute come tipicamente indiane, quale la trasmigrazione delle anime.
La scarsità di notizie sulla vita quotidiana degli Indoarii e sulle circostanze culturali che stanno dietro ai testi deriva proprio dalla destinazione d’uso degli inni vedici: il Rgveda è infatti un’opera religiosa composta essenzialmente per scopi cultuali e gli inni di cui è costituito non dovevano servire a dare informazioni sul modo di vivere contemporaneo, bensì ad invocare e a lodare i vari Dèi perché partecipassero al sacrificio e proteggessero i loro adoratori.
Per quanto riguarda i desideri e le aspirazioni degli Indiani vedici, questi erano estremamente terreni, e le preghiere che rivolgevano alle divinità in riferimento a questi interessi non erano mai di ringraziamento, ma solo di richiesta. Per loro costituiva grande valore e fonte di ricchezza il bestiame, con i prodotti che se ne ricavavano, e i cavalli che tiravano gli agili carri da guerra e dalla cui velocità dipendeva la vittoria nelle battaglie o nelle gare di corsa. L’agricoltura era praticata con tecniche abbastanza evolute, dato che si conosceva l’arte di irrigare i campi attraverso canalizzazioni. Oltre a quello dell’allevatore e del contadino, praticavano il mestiere del fabbro, del conciatore di pelli, del carpentiere e del tessitore. Ed era soprattutto all’abilità di queste 2 ultime figure che i poeti paragonavano la propria tecnica compositiva. Glli svaghi erano costituiti dalla danza, dalle gare di corsa con i carri, dal gioco dei dadi. Fra le massime ispirazioni degli Indiani vedici vi era la vittoria in battaglia ed il successo nelle razzie di bestiame, la conquista della ricchezza ed una discendenza di figli maschi che fossero in grado di perpetuare la stirpe e di compiere sacrifici per il capofamiglia, una volta che questi avesse raggiunto il mondo degli antenati.
Per cercare di realizzare questi loro desideri , i nobili e le persone + ricche pagavano i sacerdoti-poeti perché celebrassero solenni cerimonie e componessero inni sempre nuovi da cantare durante i sacrifici. Dunque, coloro cheordinavano i sacrifici aspiravano a conseguire beni materiali e supremazia; i poeti-sacerdoti, dal canto loro, aspiravano alla gloria nella gara poetica e cercavano perciò di rendere i componimenti i + belli possibile, anche allo scopo di attirare l’attenzione degli Dèi sui sacrifici dei propri patroni e di distoglierla da quelli degli altri.

Mjollnir
22-08-03, 19:40
Si può dire che il rituale del sacrificio, l’istituzione tramite la quale avveniva lo scambio di doni fra Dèi ed esseri umani, appare fortemente condizionato dal tipo di vita seminomade degli antichi Indiani. Infatti, ciò che colpisce + di ogni altro aspetto nella religione vedica è, innanzitutto, la completa assenza di templi o di altre costruzioni di tipo permanente dedicate al culto. Né si hanno elementi per poter affermare che esistessero immagini che rappresentavano le divinità. Il luogo dove si celebrava il sacrificio veniva scelto, preparato e delimitato ogni volta attraverso accurate misurazioni e l’area destinata al compimento della cerimonia veniva suddivisa in varie porzioni destinate ciascuna alle diverse funzioni che vi si dovevano compiere. Per quanto riguarda gli attrezzi usati durante le cerimonie, anche se negli inni non mancano lodi ed invocazioni rivolte loro, questi non avevano, tuttavia, lo status di oggetti antichi e dotati di una sacralità resa eterna dalla tradizione. Infatti, ogni volta che doveva essere celebrato un sacrificio, gli strumenti del rituale, come casi, coppe, cucchiai, mestoli per attingere liquidi, erano presi tra gli oggetti d’uso quotidiano e consacrati al momento. Inoltre non esistevano neppure testi da venerare materialmente come sacre scritture. La liturgia era tutta nella mente di coloro che la eseguivano. Poiché, dunque, il sacrificio poteva esser compiuto dovunque si decidesse di celebrarlo, si può dire che la religione vedica era la + adatta ad un popolo originariamente nomade o seminomade, quali erano appunto gli Indoarii.
L’elemento fondamentale del rituale vedico era il fuoco e l’atto principale del sacrificio era quello di offrire sul fuoco varie sostanze da mangiare e da bere. Questo semplice atto, chiamato agnihotra o oblazione sul fuoco, costituiva il nucleo di qualunque tipo di sacrificio: tutte le cerimonie lo contenevano. Ciò che variava erano la preparazione delle offerte, il numero dei partecipanti, la quantità di preghiere che si dovevano recitare e la durata della cerimonia. Il fuoco doveva essere sempre tenuto acceso e, qualora si fosse spento, occorreva subito procedere a dei riti espiatori, se si voleva evitare che si verificassero sciagure.
Il numero dei fuochi era indicativo del tipo di cerimonia: se ne usava 1 solo per il rito domestico, 3 per le celebrazioni solenni. In mezzo ai fuochi veniva preparato uno spazio leggermente scavato nel terreno su cui veniva sparso uno strame d’erba. Su di esso venivano sistemate le offerte e venivano a sedersi gli Dèi, per godere delle libagioni e degli inni di lode. Terminato il sacrificio, l’erba veniva bruciata poiché aveva ormai assunto carattere sovrumano e poteva costituire un pericolo per chiunque l’avesse toccata.
Agli Dèi invitati a prendere parte al sacrificio si richiedevano generosità e benevolenza sotto forma di beni materiali o di protezione contro la cattiva sorte. Colui che avrebbe ricevuto i benefici del sacrificio (ma anche le sciagure che potevano derivare da una esecuzione non corretta del rituale) era chiamato yajamana. Questi era di solito una persona ricca, spesso un re od un nobile: durante la cerimonia si limitava ad assistere al sacrificio in compagnia della moglie e solo raramente svolgeva qualche compito di minore importanza.
Chi veramente agiva nelle cerimonie erano i sacerdoti, che ricevevano in cambio delle loro prestazioni una ricompensa. L’entità della paga dovuta agli officianti consisteva in origine in una vacca ed era stabilita dalle stesse regole rituali, ma negli inni si incontrano numerosi appelli alla generosità dello yajamana perché si dimostrasse più liberale nel distribuire le ricompense sotto forma di oggetti d’oro e capi di bestiame.
La maggior parte dei rituali solenni richiedeva la presenza di + di un sacerdote (soltanto il semplice agnihotra veniva celebrato da un solo officiante). I sacerdoti erano suddivisi in 4 gruppi, ciascuno dei quali era in rapporto con una delle 4 Samhita. Il sacerdote che aveva il maggior numero di incombenze era quello chiamato adhvaryu, a cui era affidato lo Yajurveda. Egli infatti doveva allestire il terreno dove celebrare il sacrificio, procurare gli utensili, preparare le oblazioni e le offerte, celebrare l’agnihotra. Gli altri 3 sacerdoti principali erano: lo hotr, responsabile del Rgveda, l’udgatr, responsabile del Samaveda, ed il brahman, responsabile dell’Atharvaveda.

Tra i rituali, il + solenne era quello del soma, a cui partecipavano tutti i gruppi di sacerdoti. Il reperimento della pianta e la preparazione dell’offerta richiedevano una procedura elaborata che durava anche diversi giorni: gli atti principali consistevano nella spremitura a mezzo di pietre con cui si battevano i filamenti per estrarne il succo, nel filtraggio attraverso una pelle di pecora, nella mescolanza con il latte e con l’acqua. Queste operazioni erano distribuite in 3 momenti della giornata. Di tutto l’elaborato sistema rituale, di cui ci danno notizia i Brahmana e i Vedanga, nel Rgveda abbiamo solo dei riflessi relativi alla terminologia (nomi di sacerdoti e di certi riti, tipi di offerte ecc…) in quanto gli inni ci forniscono solo la parte che riguarda la recitazione verbale.
Nelle successive speculazioni brahmaniche il rituale viene ad essere considerato sempre di + come il meccanismo che muove l’intero cosmo e al quale perfino gli Dèi sono soggetti. L’universo appare strutturato come una serie di analogie che legano il regno divino con quello umano e con quello del rituale. In altre parole, i partecipanti al rituale e gli oggetti in esso impiegati diventavano partecipanti ed oggetti della vita del cosmo: così, se ad es in un certo rito veniva impiegato un ornamento d’oro, esso rappresentava benessere e prosperità nella sfera umana e il sole nella sfera cosmica. Di conseguenza, il manipolare un oggetto del rituale produceva effetti paralleli sui suoi equivalenti del piano umano e cosmico. L’estrema conseguenza della visione brahmanica fu,pertanto, che il rituale divenne come una operazione di magia che esercitava il controllo sulle forze umane e cosmiche: in altre parole, il microcosmo controllava il macrocosmo. Così, grazie a questa prerogativa attribuitagli dai bramani, il rituale diventò una forza indipendente e trascendente, quasi un altro separato attore, simile agli Dèi.

Mjollnir
22-08-03, 22:29
L’insieme dei motivi mitologici ricostruibili dai testi vedici presenta un antico stadio di credenze basate inizialmente sulla personificazione e l’adorazione di fenomeni naturali. Tutt’altro che primitivo, questo tipo di religiosità permette di vedere abbastanza chiaramente il processo di personificazione mediante il quale i fenomeni naturali si sono sviluppati fino a diventare divinità. Alcuni Dèi presentano qua e là tratti che rivelano ancora il loro legame con la sfera fisica. Il grado di antropomorfismo delle divinità varia infatti considerevolmente: soprattutto quando il nome di un dio è uguale al fenomeno che questo rappresenta, la personificazione appare ancora rudimentale; quando invece il nome non si riallaccia immediatamente a un fenomeno celeste e la concezione della divinità si è sviluppata già in epoche remote, la trasformazione è completa.
I miti non sono mai narrati in forma estesa, ma solo accennati: si presupponeva, da parte di chi li ascoltava, un bagaglio di conoscenze mitologiche che a noi sfugge e che gli inni vedici lasciano solo intravedere. Gli Dèi fanno sentire la loro influenza in quegli eventi in cui sono interessati o su quelle sfere d’azione a cui presiedono. Questo è il motivo per cui negli inni la loro attività è messa in risalto + delle loro caratteristiche fisiche. Nonostante ciò, attraverso quello che viene richiesto loro nelle preghiere, si riesce ad individuarne alcuni tratti caratteristici. Gli inni sono per la maggior parte dedicati ciascuno ad un solo dio.
Il Rgveda inizia con un inno ad Agni, la personificazione del fuoco sacrificale; questo fatto, in una certa misura, individua la raccolta come un’opera di carattere sacerdotale, poiché colloca al primo posto il culto del rappresentante celeste del sacerdozio e del sacrificio. Agni è infatti chiamato con vari titoli sacerdotali, spesso con quello di sacerdote invocatore e di officiante. Il sacerdozio è per questo dio la caratteristica saliente, come per Indra lo è la condizione di guerriero. Del suo aspetto fisico sono messi in evidenza i tratti che + lo avvicinano al fuoco: i capelli fiammeggianti, la barba fulva, i denti d’oro e la bocca che divora il cibo offerto agli Dèi, i quali lo ricevono per suo tramite. È il dio che + degli altri ha relazione con la vita umana e per questo è chiamato appartenente a tutti gli uomini e padrone della casa. Protegge da ogni sorta di calamità i suoi adoratori e dona cibo e ricchezza. È invocato in oltre 200 inni.
Il dio al quale è dedicato il maggior numero di inni (circa 250) è Indra, il dio guerriero. È il simbolo dell’espansione indoaria e perciò viene celebrato come il conquistatore di fortezze nemiche. È lui che, rafforzato dalla bevanda inebriante del soma e dalle preghiere, aiuta gli Arii contro gli attacchi nemici. Proprio nella descrizione di questo dio troviamo i tratti + spiccatamente antropomorfici: di lui i poeti esaltano in continuazione la corporatura gigantesca (sarebbe uguale alla terra se solo questa fosse 10 volte + grande), l’impetuosità, la generosità, le imprese eroiche, la prontezza al combattimento, l’arma infallibile e i potenti cavalli. Originariamente legato ai fenomeni atomosferici dello scorrimento delle acque e della conquista della luce ottenuta attraverso la sconfitta dei demoni delle tenebre, è successivamente rappresentato come il dio della battaglia: ha barba e capelli fulvi e braccia possenti con le quali regge il vajra, l’affilata arma dalle molte punte che il dio Tvastr ha forgiato per lui con ferro, oro e bronzo. Il principale mito che lo riguarda si riferisce, come abbiamo visto, all’abbattimento del demone Vrtra: da qui gli deriva l’epiteto di uccisore di Vrtra che è suo precipuo. Altrettanto importante è il mito che lo vede autore della riconquista delle rosee vacche aurorali che una schiera di demoni chiamati Pani (=avari), aveva rinchiuso in una caverna. Sono inoltre opera sua alcune azioni cosmogoniche di organizzazione dell’universo, come l’aver reso ferme e stabili le montagne che prima erano mobili e il tenere separati il cielo e la terra così come le 2 ruote del carro vengono tenute separate dall’asse intorno al quale girano.

Nelle sue imprese Indra è spesso accompagnato dai Marut, una schiera di divinità che rappresentano i venti di tempesta: essi cantano inni di lode e spremono il soma per il dio quando riporta le sue vittorie. In coppia vengono sempre celebrati gli Asvin divinità gemelle intimamente associate con la luce, invocate spesso per aiuto data la loro natura di soccorritori. Essi presiedono ai matrimoni e accompagnano sul loro carro Usas, la dea dell’aurora, nel suo viaggio attraverso il cielo. Quest’ultima è rappresentata come una bella fanciulla, eterna e sempre giovane, poiché rinasce ogni volta. Per questo è spesso invocata al plurale, come l’insieme di tutte le aurore che si sono succedute e che si succederanno. Usas risveglia tutti gli esseri e li avvia alle loro attività quotidiane. Viaggia su un carro splendente tirato da rossi cavalli. È spesso associata ad Agni che qualche volta è chiamato suo amante. A lei sono dedicati gli inni + belli dal punto di vista poetico.
Savitr è il sole visto nella funzione di colui che dà la vita a tutti gli esseri (il nome deriva da una radice che significa appunto “stimolare, vivificare”); nella sua connessione con la luce è invece chiamato Surya. In qualità di Savitr è celebrato in 11 inni. È rappresentato con mani, braccia e capelli d’oro ed è chiamato in aiuto dai fedeli prima di iniziare ogni attività.

Idee etiche sono espresse solo raramente. Sono soprattutto Mitra e Veruna – i protettori del rito, della verità, dell’ordine cosmico – a presentare un carattere etico molto marcato: invcati spesso in coppia, sono i garanti del rispetto dei giuramenti e dei contratti. Varuna è, dopo Indra, il + grande degli Dèi del Rgeda, anche se celebrato soltanto in poco + di una dozzina di inni. È autore di imprese cosmiche, quali il sollevamento della volta celeste e la collocazione del sole nel cielo o lo spianamento della terra. È spesso chiamato re e gli è attribuito il possesso della maya, un occulto potere sovrannaturale, proprio anche di entità demoniache. È rappresentato con 1000 occhi e provvisto di vista acutissima con la quale osserva il comportamento degli uomini: come detentore dell’ordine fisico e morale, egli lega i peccatori con i suoi lacci, ma è anche benevolo e misericordioso verso chi lo invoca e lo supplica.
Altri Dèi del pantheon vedico sono ancora: Rudra, dio delle tempeste, che + tardi sarà identificato con la figura di Shiva; Visnu, che nel Rgveda ha ancora scarso rilievo, ma che assumerà grande importanza nella successiva evoluzione del pensiero religioso; Parjanya, dio della pioggia ristoratrice; Aryaman, il protettore dei matrimoni; Pusan, il dio solare e pastorale, che accompagnava i morti nell’aldilà. Vi sono poi divinità che sono personificazioni di concetti teologici o che devono la loro origine alla speculazione sacerdotale, come Soma, che impersona la bevanda sacrificale e a cui è appunto dedicato l’intero libro IX; Brhaspati, il signore della preghiera, raffigurato come il sacerdote domestico di Indra; e infine Yama, che è diventato il dio dei morti perché fu il primo uomo a morire.

Oltre alle divinità + importanti, vi sono altre figure divine o semidivine e personificazioni di concetti astratti, come le Apsaras, ninfe delle acque, i loro corrispettivi maschili, i Gandharva, geni delle nubi e pure essi delle acque, la Notte e, ancora, la Parola, la Generosità, la Concordia.

Mjollnir
24-08-03, 23:21
La destinazione fondamentalmente ritualistica del Riveda è messa in risalto soprattutto negli inni di lode, dove gli Dèi sono invitati a prendere parte al sacrificio e a concedere ricompense in cambio dell’inno recitato. Questa particolarità è evidente soprattutto negli inni che hanno carattere di litania e che servivano a pacificare certe entità o in quelli a carattere + specificamente magico che venivano utilizzati per rendere propizi certi atti sacrificali o certe cerimonie, comei matrimoni o le celebrazioni funerarie.
Non tutti gli inni, tuttavia, erano destinati a pratiche rituali: ve ne sono infatti alcuni che descrivono sentimenti umani di carattere universale, come il IX, 122 dove si enumerano i vari desideri degli uomini, tra cui quello del guadagno è prevalente. Altri sono dedicati a considerazioni morali, come il X, 117, una lode della generosità; altri ancora alludono ad avvenimenti storici, come il VII, 18, dove si parla di una battaglia chiamata dei 10 re. Alcuni inni presentano una sottile vena comica, come quello dove è narrato il litigio tra Indra e la moglie a proposito dello scimmione Vrsakapi (X, 86). Non mancano neppure inni a contenuto del tutto profano, come il X, 34, dove è riportato il lamento di uno sfortunato giocatore di dadi che ha perso i suoi averi e distrutto la sua famiglia.
Altri inni pongono problemi speculativi, come quelli dove si cerca di arrivare all’affermazione di un principio unico: la molteplicità degli Dèi sarebbe solo apparente e causata dalle diverse raffigurazioni con cui i poeti rappresentano quella che invece è una divinità unica. Così in X, 121 si attribuiscono ad un’unica divinità, regolatrice di tutte le creature, le forze ed i fenomeni naturali, come la luce, il cielo e la terra: A quale dio dobbiamo rendere omaggio con il sacrificio si chiede il poeta ad ogni strofa dell’inno.
I poeti cercano anche in tutti i modi di chiarire l’origine dell’universo. Se nella fase + antica la creazione era concepita come un riordino, un’organizzazione di elementi preesistenti, negli inni + tardi – come il X, 129 – troviamo l’espressione + alta dei dubbi angosciosi che affliggevano l’uomo verso la fine del periodo vedico: che cosa c’era all’origine prima della distinzione tra l’essere ed il non-essere, tra la morte e l’immortalità ? Solo colui che guarda giù nel mondo dall’alto del cielo può saperlo ma forse - aggiunge pessimisticamente il poeta – neppure lui. Una risposta all’interrogativo sembra offerta dall’inno X, 90, uno dei + recenti, che menziona come già acquisita la suddivisione in caste: secondo quest’inno il mondo fu originato dal sacrificio di un essere umano primordiale, dall’immolazione del quale nacquero i Veda, gli animali, le caste, gli elementi naturali, il cielo e la terra. L’onnipotenza magica del sacrificio e l’affermazione della preminenza assoluta della classe sacerdotale ricevono qui, nella sacralità del testo vedico, la loro sanzione primitiva, definitva ed inviolabile.
Una categoria particolare di inni è costituita da quelli dialogati che narrano un mito sotto la forma di un piccolo dramma. Tra i + famosi vi è quello che ha come interlocutori il saggio Agastya e la moglie Lopamudra (I, 179) la quale non tollera + di essere trascurata dal marito a causa della durissima ascesi alla quale questi si sottopone ormai da troppo tempo; quello tra il vate Visvamitra e i 2 fiumi ai quali egli chiede di frenare le acque perché l’esercito dei Barata possa guadarli (III, 33); quello tra Urvasi e Pururavas (X, 95) dove si trova accennata per la prima volta la storia dell’amore tra una ninfa e un mortale, ripresa ed ampliata nella letteratura esegetica [5] e più tardi dal poeta Kalidasa; il X, 10 dove Yami, la sorella gemella di Yama, prega quest’ultimo di giacere con lei come moglie e marito, col pretesto di perpetuare la razza umana, mna ne riceve netto rifiuto motivato dalle eterne leggi degli Dèi che vietano l’incesto.
L’interpretazione di questi inni è per noi abbastanza difficile perché in essi c’è solo il dialogo e manca ogni indicazione sullo svolgimento dell’azione. Tale difficoltà non era invece probabilmente avvertita dai contemporanei, che avevano ben presente la storia a cui i dialoghi si riferivano. Lo Oldenberg credette di rintracciare in essi la + antica forma di poesia epica indiana che era – secondo lui – costituita da una mistura di prosa narrativa e versi dialogati. Gli inni sarebbero appunto ciò che ci resta di questa sorta di ballate miste. La teoria dello studioso tedesco trovò però ben presto delle forti opposizioni da parte di altri studiosi, secondo i quali gli inni dialogati facevano parte di rappresentazioni drammatiche connesse con il culto [6].

Mjollnir
25-08-03, 00:21
Il Rgveda è essenzialmente un’opera che solleva degli interrogativi, che suscita delle curiosità, che sembra portare problemi senza risolverli. La sua lettura spinge a chiedersi: che cosa c’è dietro?. A primo impatto con questo testo si riceve un’impressione simile a quella che proverebbe un bambino capitato improvvisamente in mezzo ad una conversazione fra adulti, che parlano di argomenti non adatti a lui e che si servono perciò di tutta una serie di allusioni, metafore e riferimenti indiretti che inevitabilmente sfuggono a chi non ne conosce il codice. Così è per il Rgveda: per interpretarlo bisogna conoscerne il codice che, per quanto oltremodo complesso e articolato, tuttavia esiste; ma non sarà possibile neppure cominciare a penetrarvi se non si tiene presente l’insieme di corrispondenze che lega tra di loro l’ambito divino con quello umano e con quello del sacrificio. Questi 3 piani, infatti, che non restano mai distinti, si intersecano continuamente, rendendo l’interpretazione del dettato non immediatamente afferrabile. Si consideri ad es il sostantivo agni: esso significa fuoco ma anche, al tempo stesso, il dio che lo personifica; il fuoco però, oltre che quello terrestre del focolare domestico o delle cerimonie sacrificali, può essere anche il fuoco celeste, cioè il lampo che esce dalle nubi (si parla allora del fuoco che sta nelle acque) o il sole. Ma il fuoco del sacrificio ha la funzione di presentare agli Dèi l’oblazione e quindi il dio Agni ( e il fuoco che Agni personifica) è anche un sacerdote officiante, così che spesso si fa riferimento a lui con una terminologia di tipo sacerdotale. Ora tutte le caratteristiche che si riferiscono ad un dato elemento non gli vengono attribuite di volta in volta, a seconda dell’aspetto sotto il quale si presenta, ma sono immaginate sempre presenti, in una sorta di sincronia funzionale, per cui sono possibili gli accostamenti più sorprendenti e le metafore più ardite.
Un altro esempio: la messa in opera delle pietre usate per schiacciare i filamenti del soma e ricavarne il succo inebriante da offrire agli Dèi, è paragonata alla bardatura di un cavallo quando viene attaccato al carro e il nesso logico della similitudine consiste nel fatto che anche il soma trasporta, poiché invita gli Dèi a partecipare al sacrificio celebrato per loro: si dice allora che le pietre vengono aggiogate. Durante l’operazione della spremitura queste pietre emettono un rumore: tale rumore è definito un canto. Ma nel sacrificio il compito di cantare le melodie è affidato all’ udgatr: ecco che allora in certi passi le pietre per spremere sono identificate con i cantori. Ancora: l’aurora, per via del colore rossastro di cui tinge il cielo al mattino, è vista nell’immaginario vedico come una rosea vacca: l’aurora porta la luce, la vacca il latte; ma il poeta vedico, attraverso una metafora di densissimo significato, parla normalmente del latte dell’aurora o della luce delle vacche o del latte delle vacche, intendendo sempre la luce crepuscolare che invade il cielo sul far del giorno.
Quando si legge un inno vedico, ogni chiave intepretativa porta dunque improvvisamente da un mito all’altro o da una rappresentazione rituale a un’altra, che scioglie inaspettatamente l’interrogativo che prima ci si parava davanti. Così, attraverso il confronto tra differenti episodi rituali e l’identificazione di ruoli che si dimostrano essere analoghi, seguendo la traccia delle parole chiave e degli elementi mitologici comuni, si scoprono legami nascosti e segreti paralleli, grazie al principio, che fu di un grande indologo come Renou, che il Rgveda si spiega con il Rgveda.

Mjollnir
27-08-03, 17:17
Il compito di recitare e studiare i Veda e di tramandarli di generazione in generazione era un diritto dei bramani [7]; la scelta di affidare la parola sacra ad una trasmissione esclusivamente orale corrispondeva, quindi, a una precisa esigenza di difenderla dalla profanazione e dalla divulgazione tra le persone non iniziate. Lo studio e la recitazione degli inni era tuttavia, per gli appartenenti alla classe sacerdotale, anche un preciso dovere, l’assolvimento del quale permetteva loro di acquistare meriti e perfezione e di contribuire alla conservazione dell’ordine cosmico nel momento stesso in cui preservano l’ordine rituale. Fin da piccoli e per molti anni, i fanciulli di casta brahmanica erano pertanti educati nella scienza sacra. Del loro apprendistato si hanno minuziose descrizioni nei Vedanga.
Il Veda, e il Rgveda in particolare, durante tutta la sua tradizione è stato – e continua ad essere tuttora – oggetto di enorme venerazione; ben presto gli si venne infatti a creare intorno una sorta di aureola di perfezione e di totalità. Eppure, nonostante ciò, il testo della raccolta cominciò fin dagli inizi a essere conosciuto e compreso solo in maniera imperfetta. Le cause di questo fatto, apparentemente paradossale, sono molteplici. La pratica dell’insegnamento e dell’esegesi, che avvenivano allo stesso modo della tradizione dei testi, fece subire a questi ultimi oscuramenti del significato originale che risultò talora travisato o frainteso nelle intepretazioni che via via si susseguirono nelle varie epoche. Inoltre diveniva impossibile, in questo modo, discernere se una certa dottrina o una certa interpretazione risaliva ad una fase originaria o era invece motivata da situazioni storico-culturali successive.
C’e’ poi da aggiungere che, siccome gli inni erano concepiti come offerta destinata agli Dèi, coloro che adoperavano i testi sacri con sole finalità rituali non avevano interesse a fornire intepretazioni in favore degli uomini. Notava Colebrooke [8] che allo studente dei Veda era richiesto di conoscere l’autore di un inno, l’argomento, il metro, la divinità a cui era dedicato, mentre si attribuiva scarsa importanza al suo significato letterale. E questa considerazione, portata alle estreme conseguenze, ha fatto sì che da parte di alcuni moderni brahamani si sia arrivati a ritenere che il significato del corpus dei testi sacri non possa essere conosciuto. D’altra parte, la conoscenza dei Veda non raggiunse mai larghi strati della popolazione, dato che questi testi circolavano solo in ambienti ristretti ed elitari, tra le classi intellettuali brahmaniche che ne mostravano un aspetto sempre + stereotipato. Così, a poco a poco, il Rgveda sfuggì all’interpretazione letterale e l’interesse filologico verso questo testo andè esaurendosi nel corso del tempo; i commenti indiani forniscono ampi esempi di ignoranza e di false nozioni. Il più famoso tra essi, quello di Sayana (morto nel 1387), pur fornendo talora spiegazioni accettabili anche per la critica moderna, propone spesso interpretazioni sbagliate sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista filologico o mostra, altre volte, indecisioni di fronte a + possibilità interpretative, oppure ancora riporta per lo stesso termine 2 spiegazioni diverse a distanza di poche strofe.
Già sul finire dell’epoca vedica, del testo delle Samhita si cominciava ad avere una visione parziale e si privilegiavano certi aspetti piuttosto che altri. Così, le Upanishad più antiche enfatizzano il valore filosofico e spirituale dei Veda e ne considerano lo studio come un antidoto contro la miserevole condizione dell’anima individuale e come l’ultimo rifugio dell’uomo. Citazioni di versi vedici si continuano a trovare nei Purana, come pure nelle opere sul dharma, che sono concordi nel riconoscere nel Veda la fonte prima del dharma stesso e nel ritenere che qualunque regola il legislatore Manu ha stabilito, questa è già stata esposta nel Veda [9].
Gli autori di opere ritualistiche e religiose pretendevano dunque di costruire le loro dottrine fondandole sulla tradizione vedica. La scuola dei Mimamsaka, che si dedicavano alla sistematica interpretazione del rituale, ritenevano che il Veda non avesse altro scopo che quello della celebrazione dei sacrifici e proprio in questi e nello studio dei testi vedici riponevano l’unica possibilità di salvezza. Secondo la corrente monastica del pensiero vedanta, tutta la letteratura vedica - e quindi anche il Rgveda – esprimeva la dottrina dell’unicità dell’anima individuale e aveva il compito di iniziare ai segreti + eccelsi coloro che la studiavano e di aiutarli a conoscere la realtà trascendente. Gli aderenti di questa dottrina ponevano il Rgveda in una posizione di preminenza rispetto alle altre Samhita e affermavano di scorgere in esso il principio per cui i nomi individuali dei vari Dèi non si riferivano in realtà che al principio unico del brahman. Da questa idea deriva la predilezione per l’interpretazione metafisica di passi rgvedici.
In quelle cerchie, come quelle upanisadiche, in cui il sacrificio vedico non era riconosciuto come unico mezzo di salvezza, l’attitudine nei confronti del Veda era duplice. Infatti, alla massima venerazione verso questi testi in quanto espressione dell’eterna verità, si affiancava l’idea che, per avere una conoscenza completa, non bastava il solo Veda, ma si dovevano conoscere anche altre opere (ad es i Purana), spesso dichiarate di pari dignità, o persino superiori.

Nell’induismo, poi, particolari versi furono messi in relazione non solo con l’adorazione di Shiva, Visnu e altre divinità, ma anche con varie cerimonie rituali con le quali avevano tuttavia un legame del tutto esteriore e forzato. Gli autori di trattati ritualistici raccomandavano l’uso dei testi vedici con un’enfasi proporzionale al grado di applicabilità nelle cerimonie da loro descritte e ne estendevano l’impiego nel rituale a un numero sempre maggiore di occasioni. Nei riti domestici ed in alcune cerimonie di purificazione, inni vedici continuarono ad essere recitati insieme alle formule tipiche della religione induista che cominciavano gradualmente a venire in uso dopo l’inizio dell’era cristiana. Anche nell’epica la conoscenza dei Veda continua ad essere presentata come dote importante degli rsi e dei nobili: tra i pregi dei personaggi + illustri si enumerava spesso quello di essere un conoscitore dei Veda.
Nel periodo successivo alla composizione e alla diffusione dei grandi poemi epici, i sacrifici solenni, nei quali la recitazione dei versi del Rgveda rappresentava, appunto, una parte preponderante, diventano meno frequenti. Contemporaneamente, però, acquistano un valore ed un significato speciale certi inni rgvedici, la cui recitazione era considerata capace di guadagnare meriti religiosi particolari.
Per quanto riguarda l’influenza del Rgveda sulla letteratura indiana successiva, si può dire che, nel periodo classico, a causa della difficoltà dello stile e della lingua, essa è rintracciabile solo in testi eulogistici e nell’imitazione di certi elementi di stile; per il resto, quanto + i testi trattano di argomenti profani, tanto meno è avvertibile l’allusione al Veda. Così ad es se Bhavabuti (VIII sec) ha una certa familiarità con la fraseologia del sacrificio brhamanico e Magha (aneteriore al X sec) presenta una qualche predilezione per la mitologia vedica, nei poemi e nei drammi di Kalidasa (V sec) non vi sono, invece, elementi che meritino di essere rammentati in questa prospettiva [10].
Al contrario, poeti lirici + tardi, come Rajasekhara, e gli autori tamil + antichi sembrano + inclini a far mostra delle loro conoscenze della poesia e della religione vedica [11]. Infine, nella rinascitadell’induismo del XIX sec, grazie ad una nuova intepretazione spiritualista, il Veda diviene fonte di viva fede tra i seguaci di Rammohan Roy, di Tagore e di Radhakrishnan. E aurobindo, uno dei + importanti esponenti in questo secolo dell’interpretazione esoterica, mistica e simbolica del Veda, vede nel Rgveda la suprema infallibile autorità per la conoscenza spirituale, rivelata solo agli iniziati.

Mjollnir
17-05-04, 03:38
In Origine Postato da Mjollnir
A proposito di Veda, qualcuno è a conoscenza di una edizione completa in italiano ?? Per ora ho trovato in commercio solo delle brevi antologie, fra l'altro commentate e selezionate con criteri un po' dubbi...

Ciao

Sempre a proposito di Veda, stamattina mi ha folgorato un pensiero: visto che ancora una edizione integrale non esiste, perchè un editore con le carte in regola non provvede a colmare il vuoto :confused:
Che so, un editore tipo... le Ar :confused: :D :cool:


Paaauuul !!! :D :D :D

Otto Rahn
17-05-04, 23:12
Originally posted by Mjollnir
Sempre a proposito di Veda, stamattina mi ha folgorato un pensiero: visto che ancora una edizione integrale non esiste, perchè un editore con le carte in regola non provvede a colmare il vuoto :confused:


Paaauuul !!! :D :D :D

Forse perché a nessuno regge il mastodontico progetto di una edizione completa e accurata dei Veda? ;)

Io la vedo difficile comunque; come al solito nonostante singoli studiosi di eccelsa competenza in Italia siamo indietro anni luce
Poi non per togliere nulla alle mitiche edizioni di AR ma i Veda non li vedo molto adatti al loro tipo di pubblicazioni
Dovrebbe occuparsene una casa stile Bompiani; Utet o Adelphi secondo me
per i tipi della Utet in effetti é recentemente uscito l? Avesta in edizione integrale

Vedremo :)

Mjollnir
17-05-04, 23:37
In Origine Postato da Otto Rahn
Forse perché a nessuno regge il mastodontico progetto di una edizione completa e accurata dei Veda? ;)

Io la vedo difficile comunque; come al solito nonostante singoli studiosi di eccelsa competenza in Italia siamo indietro anni luce
Poi non per togliere nulla alle mitiche edizioni di AR ma i Veda non li vedo molto adatti al loro tipo di pubblicazioni
Dovrebbe occuparsene una casa stile Bompiani; Utet o Adelphi secondo me
per i tipi della Utet in effetti é recentemente uscito l? Avesta in edizione integrale

Vedremo :)

Certo Otto, sarebbe un progetto oneroso... forse troppo per le Ar. Del resto pubblicarli prima di altri avrebbe anche un certo ritorno. Cmq non ci resta che pazientare... :(

Paul Atreides
18-05-04, 13:43
Penso proprio di poter escludere, per adesso, ogni interessamento delle Ar riguardo ai Veda. Troppo complessa l'opera, troppo voluminosa, e troppo onerosa la pubblicazione.

Attualmente, poi, i nostri sforzi in questo settore si vanno concentrando in due direzioni: la collana 'Paganitas' e studi di indoeuropeistica [a tal proposito segnalo che tra un mesetto massimo dovrebbe uscire la nuova edizione di A. Romualdi, ''Gli Indoeuropei: origini e migrazioni", a cura di F. Sandrelli, collana ''Gli inattuali''].

Saluti

Mjollnir
26-02-05, 05:54
Razze e caste in India

di Alfonso De Filippi

Pochi si sono rallegrati quanto chi scrive per l’ascesa al potere in India di forze nazionaliste che si propongono, fra l’altro, di difendere quanto resta di una gloriosa civiltà che affonda le sue radici nel lontano passato, retaggi sempre più minacciati oltre che dall’implacabile avanzare dell’occidentalizzazione, anche da fattori quali l’impetuosa crescita demografica della (per ora) minoranza islamica e dalla subdola attività dei missionari delle varie confessioni cristiane. [1]

Il clima di difesa della propria cultura che si sarebbe affermato in India (e di cui non possiamo non rallegrarci) spiega forse l’affermarsi e il diffondersi anche fuori dal subcontinente di alcune tesi che mirano a rivoluzionare la versione solitamente accreditata della storia dell’India antica : in parole povere si nega che vi sia mai stata una invasione ariana [2] e conseguentemente che il sistema delle caste, usualmente ritenuto creato dagli invasori per preservare la loro stirpe dalla mescolanza con i vinti soggiogati, rifletta delle originarie differenze razziali.
Queste tesi sono difese dalle formazioni della destra nazionale più o meno legata all’induismo e le possiamo trovare nell’interessante opera di un europeo che se ne è fatto portatore. Si tratta di Koenrad Elst, autore di una poderosa opera in 2 volumi The saffron swastika.The notion of hindu fascism. Voice of India, New Delhi, 2001 intesa a confutare ogni accusa di fascismo rivolta alla destra induista, cosa che, dobbiamo dire, gli riesce molto bene. [3]
Costui sostiene che la teoria dell’invasione ariana non riposerebbe su alcuna prova archeologica (anzi si accumulerebbero quelle che la smentiscono) e che fu usata dai Britannici per giustificare il loro dominio coloniale. Inoltre le innegabili differenze che si notano, sul piano fisico, tra gli appartenenti alle diverse caste sarebbero dovute alle differenze ambientali, ad un gusto, sviluppato tardivamente, per le donne dalla carnagione chiara ed all’endogamia.
Dato che gli appartenenti alle caste più basse sono quelli che cadono con maggiore facilità vittime della propaganda di quelli che, anche in India, vengono definiti monoteismi semitici, è chiaro come i difensori dell’induismo facciano di tutto per cancellare alcuni aspetto sfavorevoli a costoro di ciò che rimane del sistema delle caste (se non il sistema stesso, iniziando dall’abolizione dell’intoccabilità), negando in primis che esso si basi su una differenziazione razziale fra dominatori discendenti dagli invasori e la progenie delle popolazioni conquistate. [4]
Riteniamo che prima o poi bisognerà discuterne anche in Italia e, a questo proposito, segnaliamo un articolo apparso il 21 Maggio 2001 nell’edizione online del Times of India a firma di Chidanad Rajghatta, dal titolo Indian male caste in european mould ?, che potremmo tradurre: I maschi delle caste indiane sono di stampo europeo ?.
Vale la pena di segnalarne i contenuti; vi leggiamo infatti :

la componente maschile delle caste superiori indiane è geneticamente più simile agli Europei di quella delle caste inferiori, che sarebbe maggiormente asiatica.

Tali idee erano sostenute in un saggio destinato ad essere pubblicato sulla rivista Human Menome. Gli autori di tale studio sostenevano, sulla base dei dati tratti dalle conclusioni delle loro ricerche , che gli eurasiatici occidentali immigrati in India durante gli ultimi 10.000 anni erano per lo + maschi e e il materiale genetico mostrava come gli antenati degli uomini e delle donne indiani provenissero da diverse zone del mondo. Inoltre tali studi rilevavano che le differenzeriscontrate offrivano una chiave per la comprensione dell’origine del sistema delle caste; risulterebbe infatti che gli invasori e/o immigrati maschi abbiano lasciato + discendenti nelle caste alte che in quelle basse.
Infatti il DNA mitocondriale (trasmissibile solo in linea materna) degli appartenenti alle varie caste è più simile a quello di altri popoli asiatici che a quello europeo, e tale somiglianza sarebbe maggiore nelle caste basse che in quelle alte. Al contrario, il cromosoma Y, che viene trasmesso solo in linea paterna, mostra in ogni casta una certa somiglianza con quello degli Europei, somiglianza che si accentua nelle caste superiori. Il che indicherebbe appunto che ad entrare nel subcontinente siano stati più uomini che donne.
Michael Barmshad dell’Università dello Utah, capo di questo gruppo di studiosi, sostiene che, avendo ampliato lo studio ad altri 40 geni addizionali, ereditari sia in linea maschile che femminile, ulteriori risultati hanno confermato che gli appartenenti alle caste + alte sono maggiormente simili agli Europei di quelli delle caste inferiori, il che rivela come nell’antica India vi fosse una certa mobilità sociale per le donne dal basso verso l’alto. [5]
Tali ricercatori sarebbero giunti a stabilire una gerarchia delle caste in base alla loro somiglianza genetica con gli Europei, e questa classifica vede al primo posto i Bramini, al secondo gli Kshatriyas, al terzo i Vaishyas. Nei mesi seguenti non abbiamo più avuto notizie di questi studi e dei loro risultati, le cui implicazioni antiegualitaristiche li avrebbero resi politicamente scorretti. [6]
I nostri lettori potrebbero affermare che si è scoperta l’acqua calda, ma non ci è parso inutile citare questi studi in relazione al dibattito in cui viene messa in dubbio la stessa realtà storica dell’invasione ariana dell’India.



NOTE

1 Anni di letture, viaggi e riflessioni hanno mutato su questo argomento le opinioni di chi scrive, così che non scriverebbe più come un tempo : noi ci siamo sempre rifiutati di fare dell’anticristianesimo puro e semplice l’unico criterio di giudizio o di schierarci con qualsivoglia “pagano” quando le sue concezioni siano inferiori a quelle di un modesto curato di campagna (cfr. Arthos n. 16) Per riflettere sull’argomento si veda, con qualche cautela, il saggio di Silvano Lorenzoni [i]Origine del monoteismo, sua diffusione e conseguenze in Europa.

2 La tesi che nega l’invasione dell’India da parte degli Indoeuropei è stata fatta propria anche dal discusso e troppo spesso discutibile autore inglese Graham Hancock in Civiltà sommerse Corbaccio, Milano, 2002, tuttavia consigliato ai lettori che – come il sottoscritto – continuano ad interessarsi al problema di Atlantide.

3 Per un punto di vista un poco diverso cfr. Cristophe Jaffrelot, Les nationalistes hindou (Presses de la Fondation Nazionale des Sciences Politiques, Paris, 1993).

4 Che la difesa delle tradizioni indù comportasse anche il curarsi delle caste più basse era già una preoccupazione del famoso esponente nazionalista indù G.D. Savarkar, il cui libro sull’argomento A warning to the hindus, pubblicato nel 1939 con prefazione di Savitri Devi, è stato ristampato nel 1993 a cura della Promilla Paperbacks di New Delhi. Sul personaggio di Savitri Devi (Maximiani Portas) si legga l’ottimo libro di N. Goodrich Clarke, Hitler Priestess (New York University Press 1998). Il libro in questione è avversato da Elst perché finirebbe per avvalorare l’accusa di fascismo rivolta a certi ambienti nazionalreligiosi induisti (con i tempi che corrono consiglieremmo ai lettori di soffermarsi sul capitolo dedicato all’ecologismo radicale).

5 D’altra parte, come scriveva H. Schreiber in Sulle orme dei primi uomini Sugarco, Milano, 1988 pg. 118, “… non è ancora nata una organizzazione capace di impedire matrimoni misti fra vincitori e vinti e contatti sessuali tra dominatori e assoggettati:. In Sintesi di dottrina della razza, Julius Evola faceva considerazioni molto interessanti sul ruolo della donna e dell’uomo sul meticciato. (cfr. pg. 100 e seguenti dell’ediz. Hoepli, Milano, 1941).

6 Scriveva in R. Battaglia, in Razze e popoli della Terra curato da R. Biasutti UTET, Torino, 1967, vol 1 pg. 333) “… l’elemento razziale costituisce un fattore di primo piano nell’evoluzione dei popoli e delle nazioni, come in particolare nelle formazione delle classi dominanti e delle aristocrazie”.