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Visualizza Versione Completa : Julius Evola - articoli sul Paganesimo



Orazio Coclite
17-01-03, 00:06
Iniziamo col rispolverare qualche classico:



Julius Evola
L'equivoco del 'nuovo paganesimo'

Da "Bibliografia fascista" n.2/1936

Recentemente a Vienna, in occasione di una intervista, un giornalista, cui era noto come noi già molti anni fa in Italia avemmo a difendere un "Imperialismo Pagano", ci disse che ormai la nostra ora, in un altro paese almeno, poteva dirsi venuta. Egli alludeva naturalmente alla Germania, alle corenti più o meno affiancate al nazismo, intese a creare un nuovo spirito religioso germanico e non-cristiano. Noi rispondemmo che il tempo, piuttosto, ci sembra venuto, in cui ci troviamo quasi costretti a dichiararci, se non cristiani, almeno cattolici.
In realtà, quello del "nuovo paganesimo" d'oltralpe è un grosso equivoco, chiarire il quale non può non offrire dell'interesse, sia per la cosa in sè, che, in una certa misura, appunto per un fatto personale di chi scrive. Noi infatti avemmo ad indicare il valore che la ripresa di alcune nostre grandi tradizioni precristane potrebbe avere per una ricostruzione in senso eroico, imperiale ed integralmente "romano" della nostra civiltà occidentale: ed oggi siamo ben lungi dal pensare diversamente che nel 1928, quando fra una certa sensazione uscí un nostro libro recante appunto il titolo Imperialismo Pagano. Senonché fra le idee da noi riprese, e ciò che viene oggi affermato in Germania come "nuovo paganesimo", esiste non solo una differenza, ma anche un'antitesi. Per cui - notiamolo di passata, e non senza riferimento alle dicerie di qualche interessato - se è vero che certe nostre opere trovano ora in Germania una risonanza maggiore che in Italia, altrettanto vero è però che una tale risonanza si riferisce assenzialmente ad ambienti dell'antica Germania conservatrice e per nulla alle nuove correnti pagane, con le quali insomma non abbiamo nessun rapporto, e con lo stesso fronte semi-ufficiale di Alfred Rosenberg.
Il Rosenberg tanto interesse dimostrava per noi quando credeva, per sentito dire e per l'equivoco, appunto, del termine generico "pagano", che fossimo sulla sua stessa linea, altrettanta frigidità sembra dimostrare ora che è venuto propriamente a conoscenza dei nostri veri punti di vista. I quali, se possono avere un'azione in Germania, è quella di mostrare la deformazione che molte idee, suscettibili di un significato superiore, hanno subíto in una adattazione avente per mira scopi puramente empirici e tendenziosamente politici.
Ma vediamo ora in che consiste propriamente ed oggettivamente l'equivoco del neopaganesimo nordico e proponiamoci di esaminare la quistione nel modo più impersonale: chiediamo venia a coloro che forse perferirebbero vederci usare le parole d'ordine oggi, a tale riguardo, più d'uso fra noi, ma ormai più o meno note a tutti.
Il primo punto da fissare è che la scelta del termine "pagano" per designare in genere visioni del mondo e tradizioni estranee ai quadri del cristianesimo è tutt'altro che felice, onde noi stessi ci rammarichiamo di aver precedentemente usato questa espressione. Paganus, infatti, è un termine essenzialmente dispregiativo se non ingiurioso, adoperato ad uso polemico dalla prima apologetica cristiana. Senonché non solo come termine, cioè come parola, bensí anche come contenuto e come concetto esiste un "paganesimo", che è una escogitazione polemica e che trova ben poco riscontro nel mondo pre-cristiano e non-cristiano quale veramente fu, prescindendo da periodi di palese decadenza. Per affermare e glorificare la nuova fede, una certa apologetica cristiana procedette ad una deformazione e ad una svalutazione spesso sistematica di quasi tutte le dottrine e le tradizioni precedenti, alle quali poi si fece corrispondere la designazione complessiva e dispregiativa di "paganesimo".
Orbene, noi ci troviamo di fronte più o meno al seguente paradosso: un tale "paganesimo" mai esistito, generato polemicamente dell'apologetica cristiana militante, minaccia proprio oggi di esistere per la prima volta, appunto per opera dei neopagani e degli anticristiani della nuova Germania.
Quali sono i tratti principali della visione pagana della vita, così come detta apologetica l'ha supposta e l'ha diffusa?
Anzitutto: naturalismo. La visione pagana della vita avrebbe ignorato ogni trascendenza. Essa sarebbe rimasta in una promiscuità fra spirito e natura. Il suo limite, sarebbe stato una mistica delle forze naturali (é la vecchia storia della "Selva" opposta al "Tempio") e una divinificazione superstiziosa delle energie delle razze, allevate da altrettanti idoli. Da cui, in primo luogo, un particolarismo e un politeismo condizionato dalla terra e dal sangue. In secondo luogo, l'assenza del concetto di personalità e di libertà, uno stato di innocenza, che è semplicamente quello proprio agli esseri di natura, a coloro che ancora non si sono destati a nessuna aspirazione veramente sovranaturale. Di contro al determinismo e al naturalismo "pagano" sorge per la prima volta col cristianesimo un mondo della libertà sovramondana, cioè della grazia e della personalità; un ideale "cattolico", vale a dire, etimologicamente, universale; un sano dualismo, che permette la subordinazione della natura ad un ordine superiore, ad una legge dall'alto.
Questi sono i tratti principali, schematici, della concezione più corrente del paganesimo. Tutto quel che essa presenta di inesatto e di unilaterale, vi è appena bisogno di farlo rilevare a chiunque abbia, in fatto di storia delle civiltà e delle religioni, una conoscenza diretta anche soltanto elementare: e del resto già nei quadri della prima patristica - in un Origene, in un Clemente Alessandrino, in un Giustino, ecc. - assai spesso si dette prova di una comprensione assai maggiore dei princ“pi e dei simboli della precendente civiltà. Qui non possiamo mettere in risalto che qualche punto.
Anzitutto, ciò che caratterizzò il mondo non-cristiano in tutte le sue forme superiori, non fu una divinificazione superstiziosa della natura, bensì una comprensione simbolica di essa, per via della quale ogni fenomeno ed ogni azione apparì come la manifestazione sensibile di un mondo sovrasensible: la concezione "pagana" dell'uomo e del mondo abbe essenzialmente carattere simbolico-sacrale. In secondo luogo, il modo "pagano" di vita non fu per nulla una naturalistica licenza: nelle forme originarie e di alta tensione dell'antica Roma, dell'antica Ellade, delle antiche civiltà indogermaniche d'Oriente, ecc., non vi fu aspetto della vita, sia individuale che collettiva, che non fosse accompagnata, sorretta e animata da un rito corrispondente, cioè da una azione e da una intenzione spirituale concepite come oggettivamente efficaci. In terzo luogo, il mondo "pagano" conobbe già un sano dualismo: esso si ritrova non solo in grandi concezioni speculative - limitiamoci a nominare un Platone e un Çankara - ma altresì in visioni religiose generali, come quella antigonistica a tutti nota degli Indoeuropei dell'antico Iran, come l'opposizione ellenica fra le "due nature", come quella fra mondo degli Asen e mondo elementare degli antichi Nordici, o quella fra "via solare" e "degli Dei" e "via della terra", fra "vita" e "liberazione della vita" degli antichi indú, e via dicendo, in connessione a ciò, l'aspirazione ad una libertà sovrannaturale, cioè ad un compimento metafisico della personalità, fu comune a tutte le grandi civiltà precristiane, le quali conobbero tutte una "iniziazione" e celebrarono i loro "misteri".
L'innocenza naturalistica pagana è una tale favola, che essa non si ritrova nemmeno fra i selvaggi: quella forma che, per alcuni, sarebbe il suo limite, cioè l'ideale classico, non sta al di qua, ma al di là del dualismo fra spirito e corpo essendo l'ideale di uno spirito resosi così dominante, da plasmare interamente il corpo e l'anima a sua imagine, in perfetta corrispondenza di contenente e contenuto.
In quarto luogo, un'aspirazione universalistica è da constatarsi dovunque, nel mondo "pagano", nel ciclo ascendente di una razza superiore, si manifestò una vocazione all'impero: e una tale vocazione spesso fu anche metafisicamente potenziata e apparve come una naturale conseguenza dell'estensione dell'antica concezione sacrale dello Stato e come la forma propria in cui tende a manifestarsi una presenza vittoriosa del sovra-mondo nel mondo. A tale riguardo potremmo ricordare l'antica concezione iranica dell'impero quale "corpo" del "Dio di Luce", la tradizione indo-aria del "Signore Universale" o "çakravatri", e così via, fino a giungere alla teoria "solare" del tardo impero romano, il quale ebbe un contenuto rituale e sacrale nel culto imperiale, che si pose non come la negazione, bensí come la culminazione gerarchia unificatrice di un pantheon, cioè di una serie di culti condizionati della terra e dal sangue. E per moltiplicare rettificazioni del genere, senza un'ombra di tendenziosità vi sarebbe solo l'imbarazzo della scelta.
Colui che si rendesse ben conto di tutto ciò, e riconoscesse che è una pessima tattica difendere la propria tradizione discreditando quella degli altri, avrebbe facile modo di vedere la via per superare ogni unilateralezza dettata da spirito di parte, per dare ad ognuno il suo, per separare il positivo dal negativo, e dal contingente nelle varie forme storiche, ma soprattutto per venire ad una visione più completa, ad un punto di vista veramente universale, tale che ad esso possa davvero applicarsi l'assioma "cattolico" quod ubique, quod ab omnibus et quod semper. Si potrebbe cioè enucleare un corpo di principi, da dirsi "tradizionali" in senso eminente, perché essi apparirebbero, in fondo, anteriori e superiori - metafisicamente - a qualsiasi particolare di queste tradizioni o religioni. È su questo piano, e senza la minima animosità, con la fermezza, invece, che proviene dalla giusta visione, che si potrebbe poi anche procedere ad una revisione dei valori, sia nel senso di limitare o gerarchicamente subordinare la validità di alcune concezioni particolari, specificatamente ebraiche, del cristianesimo, sia nel senso di riportare alla loro giusta luce molti aspetti dimenticati di grandi tradizioni di un passato più remoto, anteriore al cristianesimo, per saggiare quali fra di essi, senza anacronismi, potrebbero eventualmente ancora oggi venir chiamati a vita e agire in modo creativo, non contro la Chiesa e il Cristianesimo, ma, se mai, di là dall'una e dall'altro, in una determinata èlite.
Orbene, assolutamenta nulla di simile è da ritrovarsi nel neo-paganesimo germanico. Anzitutto, come dicevamo, e quasi cadendo in una trappola appositamente preparata, i neopagani finiscono col professare e difendre dottrine riducentesi più o meno al paganesimo fittizio, naturalistico, privo di luce, privo di trascendenza, vincolato dal sangue, pervaso da un misticismo sospetto, creato polemicamente proprio dalla dialettica dei loro avversari. Ma, come se ciò non bastasse, si ripete quell'opera partigiana di tacitamento degli aspetti superiori, di risalto degli aspetti contingenti o deteriori del cristianesimo e del cattolicesimo, che già era stata esercitata sul "paganesimo" vero, e, infine, si mette mano a sinistre concezioni di tipo prettamente moderno, illuministico e razionalistico, che già erano scese in campo contro la Chiesa e il cristanesimo sotto il segno - miracolo dei miracoli - del liberalismo, della socialdemocrazia e della massoneria.
Infatti, null'altro che questo può ravvisarsi, quando il nuovo paganesimo si dà all'esaltazione dell'immanenza, della "vita" e della "natura" creando una nuova superstiziosa religione che è nel più stridente contrasto con ogni superiore ideale "olimpico" delle antiche civiltà d'Oriente e d'Occidente e andando ad accusare in ogni dualismo ascetico un prodotto di degenerescenza antiariana inoculalto dalla razza levantina; quando nega ogni verità superiore alla razza e alla mistica della razza e non esita a mettere ogni concezione sovrannaturale del conoscere e dell'agire, e così anche il "sovrannaturalismo" cristiano e l'intera dottrina cattolica dei sacramenti e del miracolo, a carico delle superstizioni dell'"oscuro Medioevo" e della tattica di dominio dei preti per esaltare invece le "conquiste" proprie al cosiddetto libero esame e alle scienze profane moderne; quando riesuma le vecchie storielle anticattoliche circa l'inquisizione e la donazione costantiniana e si scandalizza di fronte a quella pretesa di infallibilità, che, in civiltà normali, sempre veniva tranquillamente riconosciuta a tutti coloro che fossero veramente pervenuti alla conoscenza metafisica; quando, verosimilmente sotto l'inconscia angoscia per orizzonti troppo vasti, nell'universalismo non sa vedere che una creatura del despotismo ebraico-romano letale per le nazionalità o un prodotto del caos etnico di un clima di decadenza, invece che una superiore unità gerarchia e una esigenza spirituale; quando, associando un fanatismo per la nazione di sapore alquanto giacobino col sospetto romanticismo dell'"eroismo tragico" e dell'"amore per il destino" esso da un lato ridesta a vita la mistica dell'orda primordiale, dall'altro fomenta una rivolta del potere temporale contro ogni autorità spirituale, fino al tentativo di ridurre la seconda ad una mera promanazione del primo.
Tutto ciò è sul serio "paganesimo" nel senso negativo desiderato dall'antica apologetica militante, ma, in più, è confusione, regressione, perdita di ogni vero orientamento, soggiacenza a suggestioni irrazionali e, infine, dilettantismo, fanatismo e incultura. Qualcuno, in Italia, ha trovato una espressione assai felice nel dire che, mentre il nazismo accusa il cattolicesimo di far della politica, la verità vera è che esso spesso fa della religione. Ciò è, in larga misura, vero. Il nuovo paganesimo è il prodotto di una trasposizione della politica nella religione, per cui perfino la religione si fa politica, laddove, nei tempi antichi si faceva religione. Esso, lungi dal rappresentare, come pretenderebbe, un ritorno alle origini, ci si presenta essenzialmente come una deformazione delle origini e come la risultante di elementi derivati esclusivamente della disgregazione anti-tradizionalistica moderne e, più propriamente, da questi tre elementi: dal pathos della "nazione" divinificata più o meno giacobinamente, dell'immanentismo naturistico moderno e infine di una attrezzatura di tipo razionalistico e scientista, la quale si ritrova, poi, nello stesso paradossale connubio con il misticismo, in ciò che è propriamente tecnica "razzista".
Certo, noi non vogliamo contestare che presso a tali elementi si agitino, nel fermento dell'ultima cultura tedesca, anche esigenze di diverso valore e per questo ci siamo astenuti dal riferimento a particolari autori: ma si deve in ogni modo constatare che il tono generale è dato dal "paganesimo" ora accennato e che è soprattutto in funzione di esso che si stanno formando, in Germania, nuovi miti, e che si esasperano gravi conflitti spirituali. Ma se cosi stanno le cose, dovendo uscire dalla neutralità di fronte ad un conflitto fra un nuovo paganesimo ed il cristianesimo, è evidente che ad onta di ogni buona volontà sarebbe impossibile schierarsi dalla parte del primo, specie poi se, più che non di cristianesimo in genere, si tratti di Cattolicesimo e di Chiesa cattolica. Se non altro, il Cattolicesimo può assolvere ad una funzione di sbarramento portatore di una dottrina della trascendenza, finché esso sussisterà, impedirà che la mistica dell'immanenza e le invasioni prevaricatrici dal basso si portino oltre un certo segno. Inoltre, si può essere simpatizzanti finché si vuole con una teoria del superuomo, negli aspetti in cui essa può riflettere i valori più virili dei periodi di alta tensione delle nostre più antiche civiltà; purtuttavia la stessa etica cristiana della rinuncia, del sacrificio e dell'umiltà viene ad avere una funzione ben precisa - la funzione di un necessario contrappeso - quando ogni dottrina dell'eroismo, dell'affermazione, della potenza e della virilità resti su di un piano affatto secolare, umanistico e materialistico come oggi quasi senza eccezione si vede accadere.
Questa rivista non è precisamente dedicata a menti non adulte, da non disturbare con punti di vista diversi da quelli della mentalità corrente e conformista. Perciò si può dire che secondo la prospettive di chi scrive il Cattolicesimo non si presenta come l'unico ed esclusivo portatore dei valori sopra accennati, e nemmeno come la dottrina nella quale un punto di vista integralmente "tradizionalista" può trovare una espressione completa ed inattenuata di tipo schiettamente metafisico.
Ma è evidente che di fronte a tendenze, per le quali, alle fine, il Cattolicesimo rappresenta già un "troppo" e per questo esse cercano di "superarlo", per fare, col ritmo di avanzata del gambero, in confusioni, deviazioni e soggiacenza alla forze meno intellettuali e meno controllabili del mondo attuale, è evidente che di fronte a tali tendenze è inutile riferirsi a tali più vasti orizzonti e far sì che, per un capovolgimento distruttivo, un punto di vista che potrebbe esser di "supertradizione" vada comunque a confortare e fomentare punti di vista, che sono semplicemente di antitradizione.

Orazio Coclite
17-01-03, 00:10
Julius Evola
Roma e il Natale “Solare” della Tradizione nordico-aria


Fra gli altri, a due risaltati di non poco momento dovrebbe condurre la dottrina della razza sul piano spirituale: in primo luogo, con un ritorno alle origini, essa dovrebbe riportare alla luce i significati più profondi di tradizioni e di simboli, che si sono oscurati nei corsi dei millenni, sì da non sopravviverne che frammenti sparsi, decaduti in consuetudini e in feste convenzionali. In secondo luogo — e non senza relazione a ciò — la dottrina della razza dovrebbe ridestare la sensibilità per una concezione vivente del mondo e della natura, a limitare il potere di quella razionalistica, profana, scientista e fenomenicista, da cui l’uomo occidentale è stato sedotto ormai da secoli. E, in ordine a questo senso vivente e spirituale delle cose e dei fenomeni, i migliori punti di riferimento possono essere dati soprattutto dalle concezioni « solari » ed eroiche, che le più antiche tradizioni arie ebbero in proprio. Ben pochi sospettano che le feste di questi giorni, che ancor oggi, nel secolo dei grattacieli, della radio, dei grandi movimenti di folle, si celebrano e nelle cosmopoli così come fra trincee, macchine di guerra e masse combattenti, continuano una tradizione remota, riportandoci ai tempi ove, quasi all’aurora dell’umanità, s’iniziò il moto ascendente della prima civiltà aria; una tradizione, in cui peraltro si espresse meno una particolare credenza degli uomini, che la gran voce delle stesse cose. Volendo qui dir qualcosa in proposito, va anzitutto ricordato un fatto da molti ignorato, vale a dire, che in origine la data del Natale e quella dell’inizio del nuovo anno coincidevano, non essendo questa data arbitraria, ma connessa ad un preciso avvenimento cosmico, al solstizio d’inverno. Il solstizio d’inverno cade, infatti, nel 25 dicembre, che è la data del Natale successivamente conosciuto, ma che nelle origini ha avuto un significato essenzialmente « solare ». Ciò appare ancora in Roma antica: la data natalizia in Roma antica era quella del risorgere del Sole, dio invitto — Natalis solis invicti —. Con essa, come giorno del sole nuovo — dies solis novi — nell’epoca imperiale prendeva inizio l’anno nuovo, il nuovo ciclo. Ma questo « natale solare » di Roma del periodo imperiale, a sua volta, rimanda ad una tradizione assai più remota d’origine nordico-aria. Del resto, Sol, la divinità solare appare già fra i dii indigetes, cioè fra le divinità delle origini romane, ricevute da ancor più lontani cicli di civiltà. In realtà, come diremo, la religione solare del periodo imperiale, in larga misura ebbe il significato di una ripresa e quasi di una rinascenza, purtroppo alterata da vari fattori di decomposizione, di un antichissimo retaggio ano.
Già la preistoria italica preromana è ricca di tracce del detto culto solare: carri solari, dischi radiati, stelle radiate, croci d’ogni tipo, non escluse le croci uncinate incise p. es. in ascie arcaiche rinvenute in Piemonte e nella Liguria. Per tal via può constatarsi il passaggio, nell’Italia antichissima, della stessa tradizione, che lasciò fin dall’età della pietra tracce consimili lungo tutti gli itinerari delle grandi migrazioni ano-occidentali e nordico-arie. Simboli, segni, jerogrammi, notazioni calendariche o astrali rudimentali, figurazioni su vasi, armi od ornamenti, enigmatiche disposizioni di pietre rituali o di caverne, poi, più tardi, riti e miti sopravvissuti in civiltà più tarde, se studiati secondo i nuovi punti di vista propri all’indagine spirituale e razziale del mondo delle origini, forniscono peraltro testimonianze concordanti e univoche non solo circa la presenza di un culto solare unitario come centro della civiltà delle genti arie primordiali, ma altresì circa la speciale importanza che in esse aveva la data « natalizia », vale a dire quella del solstizio d’inverno, il 25 dicembre.
Ad evitare degli equivoci, sarà però bene ricordare ad una certa classe dei lettori quel che in questa sede abbiamo già avuto occasione di rilevare, vale a dire, che parlando di un culto solare preistorico non si deve per nulla pensare a forme inferiori di una religione « naturalistica »e idolatrica. E’ una fola, che l’antica umanità, e soprattutto quella della grande razza aria, divinificasse superstiziosamente i fenomeni naturali — vero è invece, che l’antichità concepì i fenomeni naturali essenzialmente come simboli sensibili di significati superiori, spirituali — quindi, più o meno come sostegni spontaneamente offerti ai sensi dalla natura per poter presentire questi significati trascendenti. Che le cose fra la parte meno qualificata di un dato popolo antico talvolta possano anche esser andate altrimenti, ciò può esser concesso, ma evidentemente prova così poco quanto il fatto non raro del passare in forma di superstizioni bigotte perfino in alcuni culti cristiani, in certe popolazioni incolte e fanatiche del Sud. Prevenuto così un noto malinteso, il significato simbolico d’espressioni arcaiche arie, come « luce degli uomini », o «luce dei campi » — landa ljòme — date al sole, deve risultare chiaro ,e si può anche comprendere, che lo stesso intero corso del sole nell’anno, con le sue fasi ascendenti e discendenti, si presentasse parimenti nei termini di un grandioso simbolo cosmico. In questa vicenda solare il solstizio d’inverno costituì una specie di punto critico, vissuto secondo una particolare drammaticità nel periodo in cui le stirpi arie originarie ancora non avevano lasciate regioni, nelle quali era sopravvenuto il clima artico e l’incubo di una lunga notte. In tali condizioni, il punto del solstizio d’inverno — il più basso dell’eclittica
— apparve come quello in cui la « luce della vita » sembrava estinguersi, tramontare, sprofondarsi nella terra desolata e gelata o nelle acque o fra le cupe selve, da cui però ecco che subito di nuovo si rialza a risplendere di nuovo chiarore. Qui sorge una vita nuova, si pone un nuovo inizio, si apre un nuovo ciclo. La « luce della vita », si riaccende. Sorge o nasce dalle acque l’~ eroe solare ». Di là dall’oscurità e dal gelo mortale vieti vissuta una rinascita, una liberazione. Il simbolico albero del mondo e della vita si anima di nuova forza. E’ in relazione a tutti questi significati che già in tempi preistorici anteriori di millenni all’èra volgare una quantità di riti e di feste sacre andarono a celebrate la data del 25 dicembre, come data di nascita o rinascita, nel mondo così come nell’uomo, della forza « solare ». Poco si sa che lo stesso tradizionale albero natalizio, ancora in uso in molti paesi e in parte anche in Italia, ma nella forma di una faccenda da bambini o, al massimo, da buone famiglie borghesi, è un’eco residuale proprio di quell’antichissima, severa tradizione aria e nordico-aria. Un tale albero, ricavato da un « sempre verde », semper virens, cioè da pianta che non muore nell’inverno, pino od abete, riproduce l’arcaico albero della vita o del mondo, che al solstizio d’inverno s’illumina di nuova luce, cosa espressa appunto dalle candelette che lo adornano e che vengono accese in quella data. E i « doni », di cui quell’albero è carico -.— oggi, semplici regali per bambini —raffiguravano effettivamente il simbolico « dono di vita »proprio alla forza solare che nasce o rinasce. Ma il momento in cui il sernper virens, la pianta che non muore, si rinnova e si illumina è, nel simbolismo primordiale, anche quello in cui, come si è detto, l’ “eroe solare” sorge dalle acque allo stesso modo che, secondo un rito continuatosi fino al Medioevo ghibellino dopo aver avuto una parte importante nelle leggende relative ad Alessandro Magno, l’albero cosmico è anche un albero « solare » avente un’intima relazione col cosiddetto « albero dell’impero — arbor solis, arbor imperii.
Ciò ci induce a considerare un altro aspetto assai interessante delle tradizioni in parola, per il quale vogliamo particolarmente riferirci all’antica romanità.
Il mithracismo. o culto di Mithra, come è noto, è la tarda forma assunta dall ‘antica religione ario-iranica (ma-dzea), in una formulazione particolarmente adatta per una mentalità guerriera. Diffusosi questo culto nella Romanità, sotto Aureliano la data del « natale solare o solstizio d’inverno », il 25 dicembre, si identificò a quella della celebrazione del Natalis Invicti, cioè della nascita di Mithra considerato come un eroe « solare ».
Circa il mithracismo a Roma, come si è accennato, sarebbe assai superficiale, se non addirittura grossolano, parlato sic et sirnpliciter di « importazioni » o « influenze orientali »: l’Oriente di quel tempo fu una cosa assai complessa, nella quale figuravano elementi molto eterogenei— ma fra di essi, indubbiamente, anche parti importanti e incorrotte del più antico retaggio spirituale delle genti arte e indoeuropee. Nei riguardi della relazione che fu stabilita fra Mithra e il « natale solare » romano, un noto studioso ebbe dunque a rilevare assai giustamente, che con questo non si venne ad un’alterazione, ma piuttosto ad un rinnovamento del calendario romano secondo quel suo antico aspetto astronomico e cosmico, che esso aveva avuto ai tempi primi di Romolo e di Numa e che conferiva
alle feste il significato di grandi simboli nella coincidenza delle date di esse con grandi epoche della vita del mondo.
Dopo di che, è importante esaminare l’attributo di invictus-aniketos — dato a Mithra — all’eroe solare — e alla stessa forza solare nella nuova concezione romana. E’ un attributo « trionfale ». Nelle originarie tradizioni ario-iraniche e affini esso è l’attributo di ogni natura celeste e, eminentemente, del sole, in quanto luce che vince le tenebre, forza luminosa urànica su cui mai quelle della notte e della buia terra prevarranno. Ma, a Roma, noi vediamo che lo stesso epiteto invictus diviene titolo imperiale, cesareo, e noi sappiamo che mithracismo, più che esser culto di una divinità astratta, voleva «indurre » per così dire — la stessa qualità di Mithra negli iniziati, per mezzo di una certa trasformazione della loro natura. E’ in ciò evidente la tendenza a comprendere anche in modo simbolico e analogico l’attributo « solare », sì da poter farlo valere per l’uomo e, propriamente, a controsegnare il tipo e l’ideale di una superiore umanità —per non dire addirittura di una « superumanità ». Come il sole risorge, perennemente vittorioso sulle tenebre, così pure, in una perenne vittoria interiore sulla natura mortale e istintiva si compie un essere, che una mistica virtù rende, in via normale, eminentemente atto alla funzione di re, di capo, di duce. E’ così che in Mithra, l’“eroe solare “, fu venerato a Roma un fautor imperii; è così che si stabilisce un’intima relazione del simbolismo solare con le idee di regalità e di impero, nella loro più alta forma.
Siffatta relazione ebbe particolare risalto nelle tradizioni eroiche delle antiche genti arie, e noi, in questa stessa sede, ne abbiamo già parlato trattando della dottrina mistica della « gloria ». Non volendo ripeter, dunque, cose già dette, ci limiteremo a ricordare la presenza degli stessi significati nell’antica Roma. La victoria Caesaris, cioè la mistica forza trionfale che, nel simbolo di una statuetta, dall’un Cesare veniva trasmessa all’altro, riflette esattamente le più antiche tradizioni ario-iraniche circa la regalità e il cosiddetto hvarenò: poiché, come già dicemmo nell’articolo ora ricordato, l’hvarenò valse come una misteriosa forza « solare » di invincibilità, e di « gloria », che investe i duci, fa di essi qualcosa di più che semplici uomini e li testimonia appunto con la loro vittoria.
Un’antica effige romana di Sol raffigura questo dio simbolico con la destra levata nel gesto « pontificale » di protezione e con la sinistra che regge una sfera, simbolo del dominio universale. In un’altra immagine si ravvisa però lo stesso dio che trasmette il globo all’imperatore, presso ad iscrizioni, le quali riferiscono appunto alla « solarità » la stabilità e l’imperium di Roma: Sol conservator orbis, Sol dominus romani imperii. Un altro medaglione particolarmente interessante reca nel retto l’imagine laureata dell’imperatore — con la testa, cioè, cinta del semper virens, della fronda imperitura: a tergo si ha il dio solare con la sfera, ma in più, vicino, una croce unci nata (che noi vediamo dunque presente anche in Roma antica) e la scritta: soli invicto comiti cioè: al dio solare, compagno invincibile. Ancora un’imagine conservata nel Museo Capitolino — ci mostra l’associazione del simbolo di Sol sanctissimus con l’Aquila, con l’animale fatidico di Roma, che si pensava fosse anche quello, da cui lo spirito trasumanato degli imperatori morti veniva simbolicamente tratto dal rogo funerario in cielo. Testimonianze analoghe potrebbero esser facilmente moltiplicate. Non è azzardato dire, che esse ci parlano di un vero e proprio « mandato divino solare » quale anima viva di quella funzione imperiale cesarea, che, per noi, nel mondo antico, fu una specie di ultimo guizzo di significati arcaici a poco a poco perduti.
Nella antica settimana romana il « giorno del sole »era il « giorno del signore » — e questo significato è sopravvissuto nei tempi successivi col termine di domenica, da dominus, signore, così come nella designazione germanica sontag o inglese sunday per lo stesso giorno di « festa » si e conservato letteralmente il significato di « giorno del sole » e, con esso, il riflesso dell’antica concezione solare ariana. Qualcosa della sapienza dei primordi sembra dunque essersi conservato, in un qualche modo, nella stessa festa attuale del Natale, per quanto la celebrazione dell’anno nuovo si sia da essa dissociata. Il simbolismo della luce vi si mantiene — si ricordino p. es. le parole del prologo del Vangelo di Giovanni : erat lux vera, quae ìlluminat omnem homnem venientem in bunc mùndum -così come l’attributo di « gloria », che appare poco più sotto. In tracce monumentali del primo periodo romanica lo stesso simbolo della croce si unisce a quello solare.
Nella tradizione aria e nordico-aria e nella stessa Roma io stesso tema ebbe una portata non soltanto religiosa e mistica, ma sacra, eroica e cosmica ad un tempo. Fu la tradizione di una gente, alla quale la stessa natura, la stessa gran voce delle cose, parlò in quella data di un mistero di resurrezione, della nascita o rinascita di un principio non solo di « luce » e di nuova vita, ma anche di imperiurn, nel senso più alto e augusto del termine.

Orazio Coclite
17-01-03, 00:13
Julius Evola
Deus Sol Invictus


Franz Altheim è uno dei più insigni studiosi viventi del mondo antico e specialmente della romanità. Le sue ricerche hanno un’impronta caratteristica perché, pur utilizzando il più rigoroso apparato scientifico, egli non si perde nello specialismo, interpreta il particolare in funzione di nessi generali, la storia in funzione di ciò che è anche superiore alla storia. In più, nei riguardi di miti, culti e simboli antichi non ha quell’occhio « neutro » che in tutto ciò vede quasi degli oggetti di curiosità da museo spirituale, ma cerca sempre di metterne in risalto il contenuto vivo.
Recentissimamente è uscita, come uno dei manualetti della Enciclopedia Rohwolt, una nuova opera dell’Altheim, Il Dio invitto (Der unbesiegte Gott, Amburgo, 1957). E’ uno studio sui mondo politico-religioso del Basso Impero. Questo periodo della storia romana attende ancora di essere adeguatamente approfondito. Di solito liquidato con l’epiteto di « decadenza romana », esso è in realtà una delle epoche più suggestive per il suo dinamismo sconvolto, per la crudezza delle sue figure, delle sue luci e delle sue ombre, per una specie di demonismo in cui passioni e azioni sembrano avere dimensioni non-umane, e bagliori e radianze si sprigionano anche presso le situazioni più torbide e i rivolgimenti più problematici.
Nella sua opera l’Altheim esplora questo mondo seguendo il filo conduttore costituito dal culto del dio Sole e dai destini di esso. Di nuovo, una delle abusate formule della storiografia della tarda romanità è che in essa Roma si asiatizzò, venne meno alle sue più schiette tradizioni per accogliere e adottare culti, costumi e dèi stranieri. L’irruzione di un elemento straniero a Roma non può essere di certo contestata; essa anzi prese già inizio partendo dalla fine del III secolo a. C. Ma una delle tesi fondamentali dell’Altheim è questa: ciò che è veramente romano non lo si deve cercare tanto in tradizioni particolari e limitate autoctone dei primi tempi, quanto in una forma specifica, originale, che Roma seppe imporre a tutto ciò che via via accolse e accettò, elevandolo per tal via ad un significato superiore.
Ciò viene dall’Altheim constatato negli stessi riguardi del culto solare. Forse non v’è bisogno di ricordare al lettore che culti « pagani » di questo genere non ebbero un mero carattere naturalistico e superstizioso, come S’insegna nelle scuole. Aristotile aveva già notato che quando l’uomo antico adorò gli astri, tali astri non erano quelli che « un bestiame bovino può vedere sopra di sè », cioè i semplici corpi fisici, ma erano simboli di forze sacre, spirituali. In tali termini, il dio Sole ebbe un culto già molto diffuso fra i popoli del Mediterraneo orientale, in ispecie in Siria. Ebbene, si assiste alla graduale penetrazione di tale culto nell’area della civiltà romana. Settimio Severo aveva già cominciato ad innalzare alla dignità di dèi romani figure come Serapis, Eracle e Dioniso. Dopo di lui, Caracalla fu il primo a riferirsi al dio Sole, dandogli l’attributo di « invitto ». Dieci anni dopo un tale dio si accinse a costituirsi come il dio precipuo dell’impero.
Il primo episodio di questo sviluppo ebbe caratteri violenti e torbidi. Si riferisce all’imperatore Eliogabalo, che ti-asse il suo stesso nome da quello del dio e cercò di introdurne il culto nelle forme asiatiche più spurie e aberranti, facendosene addirittura il sacerdote. Ciò non poté non provocare una decisa reazione degli ambienti tradizionali romani. Ma nella romanità del tempo doveva farsi anche viva l’esigenza di una consolidazione e di una difesa spirituale in base ai classici, quasi parallela alla difesa e alla riaffermazione che si attuavano sul piano politico e militare. E’ per tal via che, dopo le prime reazioni, il dio solare doveva riemergere e farsi il centro di una specie di teologia dell’Impero. In effetti, sempre pii frequenti simboli solari appaiono sulle monete e nelle insegne della romanità. Deus Sol Invictus è una dicitura ricorrente. Infine con Aureliano quello del dio Sole diviene un culto romano di Stato, la divinità perde i tratti equivoci asiatici, si purifica, assume forma romana, olimpica, si confonde col dio più caratteristico della pura tradizione romana, Giove capitolino. Non ha più delle dee vicino a sé non è, come immagine del sole fisico, un ente che nasce e tramonta, ma è il simbolo spirituale luminoso astratto del sacro potere che sta al centro dell’Impero universale di Roma e che ne adombra i capi. La sua nascita simbolica al solstizio di inverno diviene festa ufficiale romana — il 25 dicembre: è il natalis Solis invicti, l’antecedente romano di ciò che sarà il natale cristiano.
Solo che l’Altheim non ha forse dato adeguato risalto ad un fatto importante, alla relazione che tutto quest’ordine di idee ebbe anche coi Misteri di Mithra. Infatti, la designazione di invictus si applicò egualmente alla figura simbolica di Mithra, il cui culto era diffusissimo soprattutto fra le legioni romane. Ed è in questo contesto che ci si rivela il significato più profondo, interiore, dell’attributo: « invitto » è il sole, come la luce che, rinascendo, ogni mattina sempre di nuovo trionfa sulle tenebre. In questi termini deve parlare allo spirito il simbolo del « dio invitto ». Lo aveva già distintamente indicato un Giuliano Imperatore.
Da qui si potrebbe passare ad una considerazione assai importante. In altre sue opere l’Altheim ha messo in luce l’equivoco di chi parla semplicemente dell’« ellenizzarsi » della religione romana, dopo le sue origini italiche. Egli ha mostrato che l’ellenizzazione ebbe piuttosto il significato di una rivivificazione, del risveglio di un comune, antichissimo retaggio che nelle genti italiche si era oscurato, per cui vi fu quasi un ritorno alle origini attraverso l’elemento greco. Ora, si potrebbe riconoscere cosa analoga negli stessi riguardi del culto solare della tarda antichità romana. In parte, lo ha già presentito l’Altheim, quando ha notato come Aureliano scegliesse simboli solari già propri alla preistoria dei popoli nordici e ai progenitori indoeuropei dei Latini, e come il solstizio d’inverno venisse celebrato come festa sacra solare già da tutto un gruppo di popoli orientali, in realtà in relazione ai resti di un comune, primordiale retaggio. Di questo retaggio, allora, il Dio solare di Roma imperiale sarebbe stato quasi come una grandiosa riemergenza.
A nessuno sfuggirà l’importanza di simili visuali per l’interpretazione in profondità di Roma antica. Ancor un punto trattato dall’Altheim non è privo di interesse. Costantino il Grande in buona parte riprese e conservò i simboli di quel culto. Così, ad esempio, Sol Invictus (il dio invitto) e Victoria si trovano raffigurati sui labari dello stesso Arco di Costantino. E’ quasi come se l’ultima delle grandi idee del paganesimo si continuasse nel cristianesimo. In effetti, esistono perfino immagini del periodo romanico dove il crocifisso è sormontato da un simbolo solare. Ma, naturalmente, più che una continuità, doveva seguire il contrasto fra due mondi, fra due visioni della vita e del sacro.
Come ultima manifestazione di quel potere di imprimere all’estraneo una forza propria, di cui parla l’Altheim, si ebbe solo la romanizzazione del cristianesimo in alcuni aspetti del successivo cattolicesimo: sì che Dante, non senza relazione all’idea imperiale, poté parlare di quella Roma, per via della quale « Cristo è romano ».